Offe, Claus

O. (Berlino1940) si laurea in Sociologia alla Libera Università di Berlino nel 1965, dal 1965 al 1969 è assistente presso l’Istituto di ricerca sociale dell’Università di Francoforte, sotto la guida di Jürgen Habermas. Consegue il dottorato all’Università di Francoforte nel 1968 in Scienze politiche con una tesi sul principio di rendimento e il lavoro industriale. Dopo varie borse di studio e incarichi presso università americane – l’Università di California di Berkeley e la Harvard University – O. insegna Scienze politiche e Sociologia all’Università di Bielefeld (1975-89), di Brema (1989-1995), dove è anche direttore del settore Teoria e costituzione dello Stato sociale al Zentrum für Sozialpolitik (ZeS) e di Berlino (presso l’Università Humboldt dal 1995). In questa università svolge ancora oggi la sua attività di professore di sociologia e scienze politiche. Visiting professor presso istituzioni accademiche in America, Canada, Paesi Bassi, Austria, Svezia, Italia e Australia, dal 1995 membro dell’Accademia europea, O. è uno dei sociologi e politologi più influenti del panorama intellettuale attuale. I suoi interessi variano dalla sociologia politica, alle politiche sociali, alla teoria democratica e agli studi sulla transizione. Tra le sue pubblicazioni recenti sono da citare Varieties of transitions (MIT Press, Cambridge, Mass. 1996), Modernity and the State. East and West (MIT Press, Cambridge, Mass. 1996) e Constitutional Design in Post-Communist Societies. Rebuilding the Ship at Sea (con J. Elster e U.K. Press, Cambridge UP, Cambridge 1998).

Interessante e complessa è la concezione di O. dell’Unione europea (UE) e del suo futuro. La sua posizione, benché non definibile come propriamente euroscettica (v. Euroscetticismo), è comunque in forte contrapposizione con quella “ottimista” di altri autori tedeschi (per esempio Jürgen Habermas) e coglie gli aspetti più inquietanti e oscuri del processo di integrazione europea (v. Integrazione, metodo della; Integrazione, teorie della). In particolare O. si contrappone a Habermas, di cui in gioventù è stato allievo, per via del suo scetticismo sul “valore aggiunto” che conferirebbe una più consolidata UE ai cittadini europei: perché converrebbe ad un cittadino di una nazione sentirsi e definirsi europeo? Questa è la questione che O. pone in alcuni suoi saggi, fra cui ricordiamo The democratic welfare state (Working Paper in: “Political Sciences Series of the Institute for advanced studies”, Paper 68, 2002).

Un’altra questione che divide O. da Habermas è la necessità di una Costituzione europea: secondo il primo, una costituzione presupporrebbe una comunità politica – un popolo – e un comune sentire – una sfera pubblica condivisa, che non esiste ancora in Europa (v. Offe, 2001, pp. 423-435). Non si può parlare di una società politica europea, ma solo di un tipo di società europea, che però è costituita da Stati nazionali fortemente differenziati e coesi al loro interno. In sintesi, l’Europa non può darsi un’identità politica unica, poiché i cittadini europei sono prima di tutto cittadini di nazioni diverse, createsi nel tempo grazie a processi più o meno traumatici di unificazione e di liberazione. Tali processi mancano per la formazione di un’identità europea e, inoltre, una costituzione europea non potrebbe “creare” l’identità che non esiste, poiché manca una “spinta alla liberazione” che è stata alla base dell’iter di consolidamento della comunità nazionale.

Una delle maggiori difficoltà per la cementazione di un’identità europea è la diversità di idee dei diversi paesi membri dell’UE sul futuro economico che li attende. In particolare sono, a tal riguardo, sei i temi controversi: la disparità di vedute sul tema dell’immigrazione e sull’effetto di questa sui salari e sui conflitti etnici; gli investimenti verso i paesi dell’UE con più basso reddito e costo del lavoro; la redistribuzione fiscale nell’UE; la competizione nei mercati di beni e servizi; gli svantaggi derivanti dal dover acquisire l’intero Acquis comunitario; la riduzione dell’efficacia politica dell’azione del governo nazionale, in particolare nel settore della protezione sociale.

Malgrado questi problemi che O. pone in evidenza, non si può trovare nel sociologo tedesco nessun atteggiamento di rifiuto dell’UE. Questa viene considerata come «uno stato di natura pacifico» (ivi, p. 431), a cui l’Europa è arrivata dopo la Guerra fredda: il patrimonio più importante dell’Europa è proprio il bando alla violenza e la presenza di strutture sovranazionali di sicurezza, che vengono garantite anche dall’UE.

Tra i due approcci fondamentali verso l’UE individuati da O., quello funzionalista (v. Funzionalismo), il quale appoggia una politica intergovernamentale e un’integrazione negativa (per la regolamentazione e lo scambio dei mercati) e una intenzionale, in cui il progetto federativo o sovrastatale viene favorito e l’integrazione è positiva (mira alla costituzione di una società politica), O. propende per quest’ultimo atteggiamento (v. Federalismo). Secondo l’autore tedesco solo una forza di integrazione positiva può equilibrare gli scompensi del mercato e fondare un sistema di benessere sociale (v. Offe, 2002).

Il nodo da risolvere per l’UE è però quello di acquistare legittimità ed efficacia, le due principali caratteristiche degli Stati nazionali. Per tale ragione l’Europa non potrà essere guidata da un’avanguardia di Stati – in questo O. si oppone a Joschka Fischer – poiché la legittimazione deve partire dal basso, dal popolo europeo, e non da delle élites, siano esse Stati o classi politiche. Inoltre, per ottenere l’effettività, il governo europeo dovrà ridurre «la profondità e la larghezza della valle di transizione» (v. Offe, 2001, p. 435) e cioè i cittadini dovranno credere che gli svantaggi che a loro derivano dal mercato comune saranno brevi e distribuiti equamente. L’Europa deve diventare pertanto «la fonte e il centro di attuazione della sicurezza sociale ed economica dei suoi cittadini».

Al contrario, se non avviene uno sforzo di convinzione e di partecipazione dei cittadini per costruire e consolidare l’Europa comune, l’unificazione europea non sarà mai un’idea egemonica, in grado di integrare positivamente la comunità politica europea. Anzi, se i confini degli Stati nazionali diventano porosi, subentra il rischio del familismo amorale, e cioè il declino degli orizzonti di fiducia e di obbligazioni causato dall’apertura delle frontiere. Lo Stato nazionale, all’interno del quale nascono le relazioni reciproche di fiducia e solidarietà, si sgretolerebbe lasciando luogo ai particolarismi, a meno che il consolidamento dell’UE non dia luogo a un processo di integrazione e a un rafforzamento delle politiche di sicurezza sociale e di protezione dei lavoratori dalla mancanza di regole dell’economia selvaggia. Questa realizzazione presupporrebbe la coesistenza di un’Europa forte e di governi nazionali, consolidati in grado di controllare il mercato e di istituire un welfare state democratico.

Patricia Stutte Chiantera (2012)