Ortega Y Gasset, José

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Filosofo e sociologo, O. y G. (Madrid 1883-ivi 1955) non è solo il più noto fra gli intellettuali spagnoli della prima metà del XX secolo, ma anche quello che più frequentemente viene fatto rientrare nella ristretta cerchia dei precursori dell’europeismo. Proveniente da famiglia altolocata di orientamento liberale – il padre José Ortega Munilla era il direttore di “Los Lunes del Imparcial”, una pubblicazione letteraria di grande prestigio negli anni della Restaurazione borbonica – aveva compiuto i primi studi nel collegio gesuitico di Miraflores del Palo, presso Malaga, prima di laurearsi in filosofia a Madrid nel 1904 con una tesi sulle paure dell’anno Mille e di approfondire negli anni successivi gli studi in questa disciplina nelle migliori università tedesche. Quest’ultima esperienza culturale, congiunta all’influenza esercitata da alcuni suoi professori, quali il krausista Nicolás Salmerón e il neokantiano Hermann Cohen, oltre all’amico Miguel de Unamuno, la figura più autorevole e rappresentativa della cosiddetta “generazione del ’98”, ampliarono notevolmente gli orizzonti intellettuali di O. y G. e lo indussero a intraprendere sin da ragazzo una battaglia in favore di una europeizzazione della cultura spagnola, intesa come primo passo nella prospettiva di un necessario processo di modernizzazione dell’intera società. Il presupposto teorico di questa azione andava ricercato nella constatazione dell’arretratezza del paese, che si manifestava attraverso il suo provincialismo culturale e un approccio alla realtà inadeguato ai tempi per l’assoluta mancanza di razionalismo e di sapere scientifico.

Nominato nel 1908 professore di psicologia, logica ed etica alla Scuola superiore di Magistero di Madrid, l’anno successivo, per nulla intimorito dalla giovane età, O. y G. ingaggiò un’aspra polemica con Unamuno e Marcelino Menéndez y Pelayo, che sulle pagine di “El Imparcial” avevano definito Ortega e i suoi amici dei «sempliciotti europeizzanti». Anzi, le sue convinzioni europeiste sarebbero uscite addirittura rafforzate da questa diatriba, tanto che sempre nel 1909 egli compariva tra i fondatori della rivista “Europa”.

In quegli anni il suo “europeismo” non andava però oltre la consapevolezza della necessità di un’europeizzazione culturale della Spagna in risposta a quel declino del paese che le umiliazioni internazionali del 1898 avevano drammaticamente palesato. Si trattava cioè di recuperare quel legame con i paesi più avanzati del continente che si era affievolito da molto tempo, forse addirittura a partire dalla guerra dei Trent’anni, introducendo anche in questo lembo occidentale dell’Europa massicce dosi di razionalismo e di sapere scientifico. Per uno strano paradosso, in quella fase del pensiero di O. y G., l’europeismo non rappresentava tanto una risposta a un problema internazionale, quanto soprattutto una possibile via di salvezza per la Spagna, un’occasione da non perdere per rinnovare intellettualmente e moralmente il paese e porre così le basi per una sua complessiva modernizzazione.

Tutta l’azione politica di O. y G. nel primo decennio del Novecento aveva principalmente questo obiettivo, e intorno ad esso egli cercò di coinvolgere i giovani intellettuali attraverso l’esperienza della “Liga de educación política española”. Europeizzare la Spagna significava infatti rinnovare il paese dalle sue fondamenta, a partire cioè dalla costruzione di una nuova forma di convivenza nazionale. Di conseguenza la modernizzazione finiva così per intrecciarsi alla nazionalizzazione, per la necessità di superare quei particolarismi sociali e regionali che rappresentavano una delle manifestazioni più evidenti del declino del paese.

Questo punto veniva in particolare approfondito da O. y G. nel noto saggio del 1922 España invertebrada, che indicava nello sviluppo di quei particolarismi che avevano trasformato via via la nazione in una serie di “scompartimenti stagni” e, soprattutto, nel venire meno della tradizionale dialettica tra massa e aristocrazia – quest’ultima intesa non come classe privilegiata bensì come “minoranza egregia” destinata a farsi carico della guida del paese – le principali cause del suo declino. Un declino che peraltro aveva radici storiche profonde, che andavano ricercate in un processo disgregativo iniziato sin dalla fine del XVI secolo e forse addirittura nella assenza, o meglio nella scarsa incidenza, del fenomeno feudale nel Medioevo iberico.

Ma all’indomani della Prima guerra mondiale la crisi della società spagnola aveva perso almeno in parte la sua specificità, dato che come insegnava Oswald Spengler era ormai l’intero Occidente a essere entrato in una grave fase di decadenza. Di conseguenza l’Europa in quanto tale non poteva più rappresentare una possibile soluzione al problema spagnolo. In altre parole non bastava più mettere la Spagna al passo con gli Stati più avanzati dell’Europa, perché anch’essi stavano attraversando un grave momento di crisi, essendo interessati da difficoltà economiche, tensioni sociali e instabilità politica.

Era il momento di pensare a soluzioni radicalmente nuove. E così nel suo più celebre scritto, La rebeliόn de las masas (1930), che costituisce una delle prime e più acute riflessioni sui caratteri della società di massa, O. y G. tornava a riflettere sull’Europa, anche se in un modo completamente diverso. Partendo da una disincantata analisi dei pericoli derivanti dall’emergere di una nuova tipologia di uomo – i cui tratta peculiari consistevano, da un lato nella volgarità e nella mancanza di cultura, dall’altro nel suo animo tendenzialmente intollerante e violento – nonché dal conseguente imbarbarimento della civiltà occidentale, che si manifestava tra l’altro nel venir meno dei principi liberali che l’avevano ispirata, egli individuava negli Stati uniti d’Europa una delle possibili ancore di salvezza di fronte al precipitare degli eventi.

Tale proposta poggiava su considerazioni di carattere economico e politico che rinviavano a quel declino dei vecchi Stati nazionali che era emerso drammaticamente nel corso della Prima guerra mondiale e nella crisi postbellica. Nonostante i milioni di morti sui campi di battaglia, continuava però a operare in Europa un processo di omogeneizzazione del “contenuto mentale” dei popoli che lasciava intravedere la possibilità di costruire una grande nazione europea e ne prefigurava gli eventuali sviluppi statuali. A O. y G. non sfuggiva tuttavia il fatto che tale strada sarebbe stata irta di ostacoli, perché all’unificazione europea si opponevano tutte le classi conservatrici, come del resto era storicamente sempre avvenuto durante ogni processo di nazionalizzazione.

Come per altri pensatori coevi, anche l’europeismo di O. y G. era in fondo frutto di quella stagione di ottimismo e speranze contrassegnata a livello internazionale dallo spirito di Locarno, dalla politica di distensione di Stresemann e dal patto Briand-Kellogg. La crisi del 1929 e le sue drammatiche conseguenze politiche, culminate nell’avvento al potere di Hitler nel gennaio 1933, decretarono la precoce fine di tutti i progetti finalizzati all’unità del continente. Nel caso di O. y G. giocarono poi un ruolo non secondario le stesse vicende interne spagnole, dato che i problemi della Seconda repubblica e lo scoppio della guerra civile non solo lo allontanarono dalla politica attiva, ma lo spinsero, anche sul piano teorico, a concentrarsi principalmente sugli studi di carattere filosofico.

Nel 1936 egli lasciò la Spagna e si rifugiò a Parigi con Azorín e altri esuli. Dopo vari pellegrinaggi in Europa e in America Latina, nel 1946 si ristabilì in patria, avendo accettato un invito del governo franchista. Questa decisione, destinata a suscitare aspre polemiche nell’opposizione, non aveva in realtà alcun carattere politico, non significava alcuna apertura di credito nei confronti del dittatore spagnolo, ma nasceva solo dalle esigenze personali di un uomo stanco e malato, desideroso di passare nella sua Madrid gli ultimi anni di vita.

Alcuni anni dopo O. y G. tornò a riflettere sui destini del vecchio continente. L’occasione gli fu offerta da una conferenza, significativamente intitolata De Europa meditatio quedam, che egli tenne a Berlino nel settembre del 1949. Nel suo discorso, che sarebbe stato pubblicato postumo, egli riprendeva alcune precedenti considerazioni in merito all’esistenza di una plurisecolare società europea, che si era storicamente manifestata con la formazione di abitudini, usi, costumi, idee e valori comuni. Aggiungeva però alcune originali osservazioni circa lo sviluppo di un potere pubblico europeo che si era manifestato principalmente nella presenza di un equilibrio, e quindi di un ordine, continentale.

Da questo punto di vista tutta la storia del vecchio continente veniva letta come frutto di una dialettica tra i particolarismi nazionali e l’universalismo europeo, e le vicende delle singole realtà statali venivano inquadrate all’interno di quel contesto europeo entro cui necessariamente si svolgevano. Ma negli ultimi decenni si era verificato un processo contrario di “desocializzazione” dell’Europa, che aveva fatto precipitare in guerre sanguinose i popoli del vecchio continente e vanificato i progetti d’integrazione. Con cupo pessimismo O. y G. constatava che nel secondo dopoguerra l’unità era definitivamente tramontata, dato che «una parte dell’Europa si sforzava di far trionfare alcuni principi che considerava “nuovi”, mentre l’altra si sforzava di difendere quelli tradizionali». Si doveva inoltre prendere atto del fatto che le nazioni, con buona pace di pacifisti e internazionalisti, continuavano non solo a esistere, ma costituivano ancora «una formidabile realtà».

Con queste amare parole si concludeva la sua meditazione sull’Europa, che da un lato sembrava essere contraddetta dal contemporaneo avvio del processo d’integrazione europeo (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) con la nascita dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) e del Consiglio d’Europa, ma che dall’altro invece rivelava una certa lungimiranza nel lungo periodo, proprio in riferimento a tutte le difficoltà che ne avrebbero caratterizzato i successivi sviluppi.

Guido Levi (2010)