Politica comune della pesca

La pesca, insieme all’agricoltura, è uno dei settori più tradizionali di attività dell’uomo e per la sua importanza sin dagli inizi oggetto di regolamentazione da parte della Comunità economica europea. Del resto, ciò non sorprende se si considera che la Comunità europea è il più grande mercato internazionale dei prodotti ittici e la terza potenza mondiale nel settore della pesca marittima, dopo il Giappone e la Cina.

Peraltro, in ambito comunitario la necessità di adottare una Politica comune della pesca (PCP) non è stata avvertita immediatamente per motivi diversi, non ultimo dei quali il forte spirito di indipendenza che caratterizza i pescatori, abituati da tempi remoti a pescare dovunque fosse maggiore la concentrazione di pesci e a inseguire i banchi di pesci senza tener conto di confini, di aree di competenza o altro. A questa difficoltà se ne sono aggiunte altre dovute alla diversità delle zone marine sottoposte alla competenza comunitaria. Infatti, le acque marine europee si dividono oggi in tre macroregioni: l’Atlantico nordoccidentale e il Mediterraneo, cui più di recente si è aggiunto il Mar Baltico.

Per una molteplicità di motivi la Politica comune della pesca si è andata sviluppando lentamente sulla base dell’art. 32 del Trattato istitutivo della Comunità europea (CE) (v. Trattati di Roma) e dei primi regolamenti emanati in materia. Un’accelerazione si è avuta solo dopo gli anni Settanta, in conseguenza dell’estensione della competenza esclusiva degli Stati costieri in spazi di mare sempre più ampi (Zone economiche esclusive) e della connessa riduzione delle possibilità di pesca in alto mare per la flotta comunitaria.

In effetti, la PCP prende concretamente l’avvio nel 1983, allorché per la prima volta venne introdotto un sistema comunitario di conservazione e gestione delle risorse alieutiche presenti nelle acque degli Stati membri. Vennero altresì previste misure volte a proteggere le specie ittiche da uno sfruttamento eccessivo dovuto all’applicazione delle moderne tecnologie all’attività della pesca, furono garantiti strumenti di sostentamento ai pescatori e fu assicurato all’industria della trasformazione e ai consumatori un approvvigionamento di prodotti a prezzi ragionevoli.

Il sistema messo in atto nel 1983 venne modificato nel 1992, poiché nel corso degli anni era emersa una situazione di sovraccapacità della flotta comunitaria, che aveva prodotto un eccessivo sfruttamento degli stock di pesce e un accaparramento talvolta indiscriminato delle risorse disponibili da parte dei pescatori dei diversi Stati membri. Con la riforma del 1992 si tentò di porre i principi da seguire nel decennio successivo per l’attuazione di una PCP volta ad uno sfruttamento razionale e sostenibile dei vari stock, un equilibrio tra lo sforzo di pesca e le risorse disponibili, l’introduzione di controlli più rigorosi e una ripartizione delle responsabilità nella gestione della PCP tra tutte le parti interessate.

La disciplina comunitaria della pesca è stata poi oggetto di riforma il 20 dicembre 2002 con il regolamento CE n. 2371/2002 del Consiglio (in “Gazzetta ufficiale delle Comunità europee” L 358 del 31/12/2002, pp. 59-80), con il quale si è inteso garantire la sostenibilità a lungo termine del settore della pesca attraverso un articolato sistema di cooperazione. Si è pertanto organizzata una attenta pianificazione pluriennale attraverso piani di ricostituzione degli stock di pesce più minacciati (art. 5) o piani di gestione per gli stock che siano entro i limiti biologici di sicurezza (art. 6). In entrambi i casi per il raggiungimento degli obiettivi prefissati sono state introdotte misure volte a garantire l’esercizio sostenibile delle attività di pesca, quali i limiti massimi dei quantitativi di pesce che possono essere catturati ogni anno, la fissazione del numero di pescherecci autorizzati alla pesca, la definizione di zone e periodi temporali di attività, insieme ad altre misure che permettano di controllare lo sforzo di pesca, inteso come la capacità di un’imbarcazione calcolata per stazza e potenza motrice moltiplicata per l’attività espressa in tempo di permanenza in mare.

Sempre allo scopo di evitare nelle acque comunitarie il sovrasfruttamento delle risorse alieutiche si è tentato di adeguare la capacità di pesca, imponendo agli Stati membri di mantenere la propria flotta peschereccia entro livelli di riferimento di tonnellaggio e di potenza motrice fissati dalla Commissione europea, in modo da permettere un equilibrio stabile e duraturo fra capacità di pesca e risorse disponibili (art. 11). In considerazione della situazione di sovrasfruttamento constatato delle risorse ittiche europee, la capacità totale della flotta comunitaria è stata “bloccata” al 31 dicembre 2002 e l’iscrizione nei registri comunitari di un nuovo peschereccio può avvenire soltanto se un’altra nave della medesima stazza e potenza viene cancellata.

Inoltre, in caso di minaccia grave per l’ecosistema marino o per la conservazione delle risorse la Commissione europea e gli Stati membri possono adottare misure di emergenza, che per gli Stati riguarderanno unicamente le acque sulle quali essi esercitano la propria competenza. In proposito occorre mettere in luce una particolarità che contraddistingue la PCP da altre politiche comunitarie, ad esempio dalla Politica agricola comune (PAC). Infatti, gli Stati membri inizialmente hanno riconosciuto alla Comunità una competenza esclusiva in materia di pesca e, agli inizi, come era avvenuto in altri settori di attività originariamente appartenenti agli Stati membri, anche tale regime era stato impostato sul Principio di non discriminazione e quindi sull’uguaglianza delle condizioni di accesso e di sfruttamento delle acque sottoposte alla sovranità degli Stati membri per tutti le navi battenti bandiera di uno Stato comunitario, secondo quanto disposto in generale dall’art. 12 del Trattato CE.

Il regime comunitario avrebbe dunque dovuto pienamente sostituirsi a quello nazionale nelle acque sottoposte alla sovranità degli Stati. Tuttavia, a causa del rifiuto manifestato in modi più o meno netto dalle comunità locali a condividere gli spazi di mare territoriale con altri pescatori comunitari, l’applicazione del principio di non discriminazione divenne oggetto di numerose deroghe, tanto che si giunse da parte della Comunità con il regolamento 3760/92 del 20/12/1992 (GUCE L 389 del 31/12/1992) ad accettare la situazione di fatto. Si autorizzarono quindi gli Stati membri a mantenere la propria competenza nelle rispettive zone di mare territoriale, limitando in esse l’accesso alle navi da pesca degli altri Stati comunitari. Tale disciplina è stata ulteriormente riconfermata nel regolamento n. 2371/2002 del 20/12/2002, che, abrogando il precedente, mantiene fino al 31/12/2012 il limite all’accesso alle risorse biologiche esistenti nella zona di 12 miglia nautiche degli Stati membri, riservando il loro sfruttamento alle imbarcazioni che pescano tradizionalmente in tali acque e provengono da porti situati sulla costa adiacente.

L’intera PCP si regge altresì su un sistema di sorveglianza e di controllo, che rimane in linea di massima di competenza degli Stati membri. Essi infatti hanno la facoltà di controllare i propri pescherecci, oltre che nelle acque nazionali, anche in tutti gli spazi marini comunitari, salvo entro le dodici miglia di un altro Stato membro. Possono anche, a determinate condizioni, controllare i pescherecci di altri Stati comunitari presenti in acque comunitarie. Ciascuno Stato membro è inoltre autorizzato a ispezionare in alto mare navi da pesca appartenenti ad un altro Stato membro.

Allo scopo di coordinare le attività di controllo e di ispezione degli Stati membri, nonché di coordinare le operazioni di lotta contro la pesca illegale, il Consiglio dei ministri con il regolamento n. 768/2005 del 26/4/2005 (GUCE L 128 del 21/5/2005) ha di recente istituito l’Agenzia comunitaria di controllo della pesca, organo dotato di personalità giuridica, con sede a Vigo.

Angela Del Vecchio (2007)