Politica sociale

Introduzione

Pur avviate soprattutto per motivi di carattere contingente, le politiche sociali si sono progressivamente mostrate come un elemento necessario della creazione del Mercato unico europeo, e hanno finito per caratterizzare l’intero processo d’integrazione (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

Non a caso l’importanza di tali aspetti appariva chiara, agli occhi di chi studiava le possibilità di integrazione dei mercati europei, già nel periodo fra le due guerre. Il direttore dell’Ufficio internazionale del lavoro ad esempio, il sindacalista francese Albert Thomas, individuava una serie di questioni sulle quali l’eventuale creazione di un’Unione doganale avrebbe imposto di intervenire: non solo l’abbattimento delle barriere per le merci e i fattori produttivi avrebbe richiesto anche la libertà di circolazione della manodopera, aspetto la cui rilevanza sociale era indubbia, ma, ad esempio, una politica di Armonizzazione degli orari e delle condizioni di lavoro si sarebbe resa necessaria per combattere eventuali pratiche di “dumping sociale”, che avrebbero finito per vanificare i vantaggi del mercato integrato. Inoltre, poiché la fine delle protezioni statali e la situazione di concorrenza diretta fra le industrie dei paesi europei (v. anche Politica europea di concorrenza) avrebbe determinato prevedibilmente chiusure o riduzioni di personale in alcune imprese, Thomas riteneva necessario istituire, su scala europea, misure di protezione che permettessero alla manodopera in questione di reinserirsi sul mercato del lavoro.

Tali aspetti tornarono di attualità quando, nel giugno 1950, si aprì a Parigi il negoziato per la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), nel cui Trattato istitutivo (v. Trattato di Parigi) le tematiche di natura sociale confluivano attraverso due canali: le istanze avanzate da alcune delegazioni nazionali, connesse con importanti interessi economici e sociali dei rispettivi paesi, e quelle presentate dalle forze sindacali, i rappresentanti delle quali furono accolti alla conferenza negoziale.

Innanzitutto, i governi dell’Italia e del Belgio, temendo che le condizioni di concorrenza generate dall’abbattimento delle barriere doganali fossero insostenibili per le industrie nazionali, ottennero l’inserimento nel Trattato di meccanismi per il ricollocamento della manodopera licenziata a causa dall’apertura del mercato comune (v. Comunità economica europea) (cosiddetto “fondo di rèadaptation”); in secondo luogo il Belgio e il Lussemburgo, i paesi a più alto reddito, riuscirono a far passare una norma che impediva livelli salariali “anormalmente” bassi, nell’evidente scopo di evitare il “dumping sociale”; infine l’Italia riusciva a far approvare il principio della libertà di circolazione dei lavoratori su tutto il territorio comunitario (istanza all’epoca presentata in tutte le sedi internazionali nel tentativo di trovare una valvola di sfogo per l’elevato tasso di disoccupazione del Mezzogiorno), che in realtà in ambito CECA avrebbe avuto un’attuazione estremamente limitata, ma che avrebbe rappresentato comunque un importante precedente.

Quanto alle forze sindacali, che ottennero di nominare un membro dell’Alta autorità e di esser rappresentate nel Comitato consultivo assieme alle altre forze sociali, riuscirono anche a far inserire fra gli obiettivi dell’organizzazione il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, da realizzarsi innanzitutto, secondo il Trattato, attraverso il finanziamento della ricerca in materia di sicurezza e salute negli ambienti lavorativi e la diffusione dei risultati nei paesi membri.

Gli aspetti fin qui citati, con l’eccezione della libertà di circolazione dei lavoratori, avranno una notevole applicazione nel corso degli anni. In modo particolare i meccanismi per il ricollocamento, attraverso i quali la Comunità finanziava la riqualificazione professionale della manodopera e la mobilità interna, vennero applicati a un gran numero di lavoratori e contribuirono sensibilmente ad alleviare la grave situazione sociale prodotta dalla crisi del carbone degli anni Sessanta e dalla crisi siderurgica degli anni Settanta-Ottanta. Inoltre, l’Alta autorità, grazie a un’interpretazione estensiva di alcuni articoli, avviava fin dall’inizio anche un tipo di interventi non previsto dal Trattato: il finanziamento alla costruzione di alloggi popolari destinati ai lavoratori carbosiderurgici e alle loro famiglie. Fra il 1954, anno del varo del primo programma di finanziamenti, e il 2002, data di scadenza del Trattato, i fondi della CECA permisero la costruzione di oltre 200.000 abitazioni nelle varie aree minerarie e industriali della comunità.

Al momento del rilancio europeo e del negoziato sui Trattati di Roma, pur in un clima politico profondamente diverso, il già collaudato schema della CECA rappresentava il riferimento naturale.

Così nel Trattato istitutivo della Comunità economica europea (CEE) venne inserito il Fondo sociale europeo, con compiti analoghi a quelli del fondo di réadaptation, anche se il governo italiano, principale sostenitore della sua istituzione, non perse occasione per indicarlo come un possibile strumento per una generale lotta alla disoccupazione nelle aree povere della Comunità (la principale delle quali era il Mezzogiorno). Nonostante la stessa Commissione europea condividesse sostanzialmente la posizione italiana, nel primo decennio di attività il Fondo deluse gran parte delle aspettative, dimostrandosi totalmente inefficiente come strumento redistributivo, e limitandosi essenzialmente a rimborsare le spese già effettuate dai singoli Stati membri per la riqualificazione professionale della manodopera licenziata.

In secondo luogo, anche il trattato CEE prevedeva la libertà di circolazione dei lavoratori, alla quale un regolamento dava attuazione nel 1968, sancendo la “precedenza” dei cittadini degli Stati membri nel rispondere alle offerte di lavoro sul territorio comunitario. Al di là di alcuni limiti vistosi, come il fatto di lasciare l’applicazione concreta ai servizi nazionali di collocamento (e quindi, in sostanza, nelle mani degli Stati membri), anch’esso fu di stimolo all’adozione, di poco successiva, di una normativa sulla sicurezza sociale dei migranti, che rese possibile il cumulo dei diritti previdenziali maturati in paesi diversi della Comunità.

Quanto alle misure, contenute nell’articolo 119, sull’eguaglianza di condizioni lavorative fra uomini e donne, fortemente volute dai francesi al negoziato per impedire un dumping sociale basato sulla discriminazione di genere, nel corso degli anni Sessanta furono completamente ignorate. E un destino simile, anche se formalmente diverso, ebbe la norma dell’articolo 128, che prevedeva l’attivazione di una Politica della formazione professionale e attribuiva alla Comunità e agli Stati membri il compito di fissarne i principi guida. Questi, su proposta della Commissione, vennero approvati dal Consiglio dei ministri nel 1963 col voto contrario di Francia e Germania, paesi che in seguito ne avrebbero boicottato con ogni mezzo l’applicazione concreta, determinando il sostanziale fallimento della politica comune in questione.

Insomma, non solo l’impostazione “minimalista” del trattato CEE di per sé assegnava alla politica sociale una semplice funzione di “correttivo” degli effetti negativi del mercato comune, ma nel corso del primo decennio di vita della Comunità neanche tale compito venne pienamente assolto nell’applicazione concreta.

Le evoluzioni della Politica sociale negli anni Sessanta e Settanta

Sul finire degli anni Sessanta la situazione cominciò però a cambiare. Il sostanziale livello di piena occupazione, creatosi nella lunga fase di crescita economica, determinò una crescente carenza di manodopera specializzata mentre, contemporaneamente, alcune regioni della Comunità subirono un progressivo declino a causa della decadenza dei settori produttivi “tradizionali”. Le stesse trasformazioni economiche e istituzionali della Comunità seguite al Vertice dell’Aia del dicembre 1969, come l’istituzione del meccanismo di Risorse proprie della Comunità o il progetto di Unione economica e monetaria, sembravano richiedere nuove politiche mirate a smorzarne gli effetti sociali meno desiderabili. Infine, una spinta altrettanto forte al cambiamento originò direttamente dalle società dei paesi membri, nelle quali gli avvenimenti del 1968 stimolarono la nascita di una nuova domanda sociale, legata a tematiche non più esclusivamente riconducibili agli aspetti economici o alle relazioni di lavoro.

Il primo risultato di tale nuovo clima, che coinvolgeva direttamente anche le forze sindacali, fu la convocazione della prima Conferenza tripartita europea che, nel 1970, vide riuniti a Lussemburgo membri della Commissione con i ministri delle Finanze e del Lavoro e con rappresentanti delle forze sociali organizzate a livello europeo. Da tale conferenza nascerà il Comitato per l’occupazione permanente.

Il secondo risultato fu la riforma del Fondo sociale europeo, che dal 1972 venne trasformato in uno strumento più attivo e “aggiornato” alle nuove esigenze, sintetizzate nel doppio compito di “ammortizzatore” di eventuali effetti negativi delle politiche comunitarie e di supporto degli interventi attivati dagli Stati per sanare gli squilibri del mercato del lavoro.

Fu comunque al Vertice di Parigi dell’ottobre 1972, nell’ambito delle discussioni sui nuovi settori di competenza della Comunità, che, su spinta soprattutto del cancelliere tedesco Willy Brandt, agli obiettivi sociali venne ufficialmente attribuita pari importanza rispetto a quelli economici, e la politica sociale fu quindi consacrata come elemento fondamentale della costruzione europea.

Su tale base venne elaborato il primo Programma d’azione sociale della Comunità che, operativo dal gennaio 1974, ruotava attorno a tre aspetti principali: l’occupazione, tema prioritario soprattutto dopo i segnali di crisi dei primi anni Settanta (e ancor più lo sarebbe stata una volta che la crisi petrolifera avrebbe dispiegato completamente i suoi effetti), il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro e, diretta conseguenza della “ufficializzazione” della politica sociale fra le competenze CEE, la partecipazione delle forze sociali al Processo decisionale sulla politica economica comunitaria.

Su tale base negli anni successivi furono emanate numerose direttive (v. Direttiva) e decisioni (v. Decisione), soprattutto in materia di occupazione femminile (e di parità di condizioni di lavoro fra i due sessi) e di sicurezza negli ambienti di lavoro, mentre si inseriva nel quadro del programma anche l’istituzione, pur in discussione da tempo, delle prime due agenzie specializzate della comunità: il Centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale e la Fondazione per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro.

Quanto alla partecipazione delle forze sociali, le conferenze tripartite che ebbero luogo annualmente a partire dal 1975 non ottennero risultati di rilievo. La situazione si sbloccava soltanto a metà del gennaio 1985, quando Jacques Delors, appena insediatosi come Presidente della Commissione europea, riunì i più alti rappresentanti delle forze sociali organizzate a livello europeo, la Confederazione europea dei sindacati (CES), l’Unione delle industrie della Comunità europea (UNICE) e il Centro europeo delle imprese pubbliche (CEEP), nello Château de Val Duchesse a Bruxelles. Da qui ebbe inizio il Dialogo sociale europeo, vale a dire un sistema strutturato di discussioni fra la Commissione e le organizzazioni europee delle parti sociali sulla politica economica e sociale comunitaria, che di lì a qualche anno avrebbe cominciato a dare i primi frutti. La sua consacrazione si ebbe già con l’Atto unico europeo, che affidava alla Commissione il compito di promuoverlo, e che prefigurava anche la possibilità della nascita di Convenzioni collettive su scala europea in materia di relazioni industriali.

I sindacati avevano sempre richiesto l’attivazione di un canale ufficiale che permettesse loro di far sentire la propria voce a livello comunitario, ma il dialogo sociale fu anche la formula che permise a Delors di associare le parti sociali alla realizzazione del grande obiettivo posto dall’Atto unico: il completamento del mercato interno. Nell’ottica della completa «abolizione delle frontiere geografiche, tecniche e fiscali» (v. Olivi, p. 265), un elemento chiave era infatti l’armonizzazione di alcuni aspetti delle legislazioni interne, e fra di essi le norme di politica sociale, sulle cui differenze avrebbero potuto essere attivate pratiche di “dumping sociale”. Non a caso l’Atto unico, che inseriva nel Trattato la politica sociale come politica ufficiale della Comunità, parlava di Ravvicinamento delle legislazioni in materia di salute e sicurezza sul lavoro, di protezione dell’ambiente e dei consumatori (tutti settori per i quali stabiliva il voto a Maggioranza qualificata in Consiglio) imponendo però l’adozione di «un livello di protezione elevato» (v. Kowalsky, p. 22).

Nella sua applicazione pratica il processo di completamento del mercato interno appariva però eccessivamente sbilanciato sugli aspetti economici, e per questo fu causa di forti critiche alla Commissione Delors da parte delle forze sindacali (in particolare le Trade unions britanniche ne trassero motivo per rinvigorire le tradizionali posizioni “euroscettiche”). L’esecutivo europeo rispose con l’elaborazione di una Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, volta a fissare livelli minimi di protezione della manodopera per tutta la Comunità in 12 settori, fra i quali la sicurezza e l’igiene sul lavoro, la protezione sociale e la libertà di associazione. Adottata nel 1989 dopo consultazioni con le parti sociali, la Carta fu firmata solo da 11 Stati membri; l’autoesclusione del governo di Londra impedì di inserirla nel sistema dei Trattati, e di conseguenza di attribuirle una reale forza giuridica. La Carta rimase quindi un documento di natura puramente orientativa, nonostante l’obiettivo iniziale di farne quasi una sorta di base “costituzionale” per la politica sociale comunitaria, contraltare delle norme sul completamento del mercato interno. In realtà negli anni successivi un nuovo programma d’azione sociale della Commissione, basato proprio sulla Carta, permetterà l’adozione di diverse decine di atti comunitari, a dimostrazione del fatto che la firma aveva rappresentato un importante impegno politico da parte degli 11 governi; fra le principali realizzazioni si possono ricordare numerose direttive per il miglioramento dell’ambiente di lavoro, contro lo sfruttamento dei minori e per la parità fra lavoratori dei due sessi, l’istituzione dei Comitati d’impresa europei e, nel 1997, la creazione dell’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, stabilita a Bilbao.

Dal Protocollo sociale all’“Agenda 2000” di Lisbona

Un sostanziale passo in avanti si ebbe col Protocollo sulla politica sociale e l’Accordo “a Undici” sulla politica sociale del Trattato sull’Unione europea (v. Trattato di Maastricht). Pur ponendo il veto, durante i negoziati di Maastricht, a un accordo in materia sociale, il governo britannico accettò di firmare, assieme agli undici partner, un protocollo che autorizzava questi ultimi a utilizzare i meccanismi e le istituzioni del Trattato per stabilire e attuare un accordo sulla politica sociale. Le novità dell’Accordo a Undici consistevano innanzitutto nel passaggio al criterio della maggioranza qualificata nel voto in materia di sicurezza e igiene sul lavoro e di pari opportunità per i due generi; in secondo luogo nell’ampliamento delle competenze comunitarie a materie come la sicurezza sociale, la difesa collettiva degli interessi delle parti sociali o le condizioni d’impiego dei cittadini di paesi terzi; infine nella possibilità che accordi negoziati fra le parti sociali diventino oggetto di direttive comunitarie, aspetto che negli anni successivi troverà più di un momento di attuazione.

Il Trattato di Amsterdam, firmato nell’ottobre 1997, portava una serie di sostanziali novità. Innanzitutto il cambiamento della posizione britannica, seguito alla vittoria elettorale dei laburisti, permetteva di inserire nel Trattato le norme dell’Accordo a Undici (divenuto a Quattordici dopo l’adesione di Svezia, Finlandia e Austria). In secondo luogo, grazie soprattutto alle pressioni del governo socialista francese, un titolo del Trattato era consacrato alle politiche per l’occupazione, ponendo l’obiettivo di sviluppare una strategia comunitaria in materia e attribuendo al Consiglio il potere di fissare le linee generali da seguire. Un comitato ad hoc, composto di alti funzionari nazionali e della Commissione, venne costituito per seguire costantemente l’evoluzione delle politiche per l’impiego, in stretta consultazione con le forze sociali.

Ulteriori sviluppi si ebbero al summit straordinario di Lussemburgo sull’occupazione, tenuto un mese dopo la firma del Trattato di Amsterdam.

Infine, il Consiglio europeo di Lisbona del 2000 (v. Strategia di Lisbona), dopo una lunga fase di consultazione con le parti sociali e altre organizzazioni non governative interessate, fissava l’obiettivo di trasformare l’Europa, entro il 2010, «nell’economia della conoscenza più competitiva e più dinamica del mondo, capace di una crescita economica durevole accompagnata da un miglioramento quantitativo e qualitativo dell’impiego e da una maggior coesione sociale». È in tale ottica che la Commissione varava la sua “agenda sociale”, che individuava le linee guida per il quinquennio 2000-2005 in una vasta serie di azioni volte ad aumentare le opportunità di impiego, a favorire l’adattamento dei lavoratori attraverso un potenziamento della formazione, a migliorare la protezione sociale, lottare contro l’esclusione sociale e contro ogni discriminazione, il tutto con uno stretto coinvolgimento delle parti sociali e, naturalmente, con un’attenzione particolare ai problemi posti dall’imminente Allargamento a Est.

Lorenzo Mechi (2002)