Accademia del Cinema Europeo

Fondata in Germania nel 1989, la European film academy (EFA), che inizialmente era denominata European cinema society, ha come principale obiettivo quello di promuovere la cultura cinematografica europea. A tal fine organizza ogni anno una pluralità di iniziative – che spaziano dai seminari alle conferenze, dai laboratori alle rassegne – tese soprattutto a coniugare creatività e industria, arte e mercato. La più importante di queste iniziative è senz’altro rappresentata dagli European film awards, cioè dai riconoscimenti attribuiti ai migliori film europei dell’anno da parte dei membri dell’Accademia, che costituiscono una sorta di premio Oscar per le pellicole del vecchio continente.

Tra le altre attività dell’EFA, una particolare attenzione merita senz’altro il Prix UIP, organizzato in collaborazione con la United international pictures (UIP) e finalizzato al sostegno dei cortometraggi, intesi sia come palestra per formare i cineasti del futuro, sia come espressione del pluralismo esistente all’interno della cultura cinematografica europea. Dal 1995 è stata inoltre attivata una specifica iniziativa dedicata a giovani registi, sceneggiatori e produttori, denominata “A sunday in the country”, tesa a favorire scambi di idee tra registi appartenenti a paesi e generazioni differenti: gli incontri si svolgono nell’arco di un intero fine settimana e nel corso di essi, con la massima calma e serenità, il gruppo formato da 10 giovani e da un accreditato membro dell’Accademia visiona film, discute sceneggiature, affronta questioni tecniche e problemi produttivi. È infine organizzato un master altamente qualificato per giovani talenti, selezionati da un’apposita commissione dell’EFA sulla base di esperienze pregresse, che, avvalendosi degli insegnamenti di note personalità del cinema europeo, vogliano migliorare le proprie conoscenze teoriche e approfondire adeguatamente le tecniche e le metodologie pratiche.

L’EFA annovera oggi oltre 1600 membri tra registi, attori, sceneggiatori e altre professionalità del mondo del cinema. Il suo primo presidente è stato il regista svedese Ingmar Bergman, che ne è stato anche uno dei promotori insieme ad altri 40 autori animati da spirito europeistico, al quale è poi succeduto, nel 1996, il cineasta tedesco Wim Wenders. Non a caso, si tratta di due autori che hanno rivendicato con forza l’autonomia del cinema europeo rispetto a quello americano e contribuito alla elaborazione di un suo specifico linguaggio.

Dal punto di vista giuridico, l’EFA si configura come un’associazione no profit e ha sempre avuto sede a Berlino. Le sue attività, che per statuto non possono avere carattere di lucro, sono in gran parte finanziate dalla Germania, sia attraverso finanziamenti federali, sia con risorse messe a disposizione dal Land di Berlino-Brandeburgo, sia con i proventi della lotteria nazionale tedesca. Il resto del bilancio è coperto grazie all’intervento dell’Unione europea, e più precisamente in virtù del Media plus programme, nonché attraverso finanziamenti erogati da partner e sponsor dell’EFA.

Nonostante l’impegno costante da parte dell’EFA, cui va aggiunto il sostegno della Unione europea al cinema europeo attraverso il fondo EUROIMAGES del Consiglio d’Europa e, a partire dal 1990, il programma Mesures pour encourager le développement de l’industrie audiovisuelle (MEDIA), i film del vecchio continente continuano a incontrare difficoltà in un mercato saturato dalla concorrenza statunitense. Il prezioso lavoro di informazione e formazione promosso dell’EFA si scontra pertanto inevitabilmente con una situazione generale difficile, contro la quale è oltremodo complesso intervenire. Non mancano comunque responsabilità interne all’EFA stessa, specie nel campo della comunicazione e della promozione, se i premi che essa annualmente assegna non godono della popolarità e dell’importanza degli Oscar americani: basti pensare che a partire dal 1997, quando venne cambiata la forma della statuetta, i premi, che sino a quel momento erano denominati “Felix”, vennero privati perfino di un nome.

Sotto altri aspetti, nel corso di questi diciotto anni di attività gli European film awards hanno tuttavia funzionato bene, poiché sono stati assegnati i massimi riconoscimenti a opere meritevoli e di indubbio valore artistico, ed è stata così dimostrata la loro autonomia dai condizionamenti delle case produttrici e distributrici. Basti scorrere le opere premiate come miglior film, alle quali viene affiancato anche il nome del regista e l’anno di assegnazione del titolo: A short film about killing di Krzysztof Kieślowski (1988), Topio stin omichli (Paesaggio nella nebbia) di Theōdoros Angelopoulos (1989), Porte aperte di Gianni Amelio (1990), Riff-Raff di Ken Loach (1991), Il ladro di bambini di Gianni Amelio (1992), Urga di Nikita Michalkov (1993), Lamerica di Gianni Amelio (1994), Land and freedom (Terra e libertà) di Ken Loach (1995), Breaking the waves (Le onde del destino) di Lars von Trier (1996), The full monty di Peter Cattaneo (1997), La vita è bella di Roberto Benigni (1998), Todo sobra mi madre (Tutto su mia madre) di Pedro Almodóvar (1999), Dancer in the dark di Lars von Trier (2000), Le fabuleux destin d’Amélie Poulain (Il favoloso mondo di Amélie) di Jean-Pierre Jeunet (2001), Hable con ella (Parla con lei) di Pedro Almodóvar (2002), Good Bye, Lenin! Di Wolfgang Becker (2003), Gegen die Wand (La sposa turca) di Fatih Akin (2004), Caché (Niente da nascondere) di Michael Haneke (2005).

Un discorso analogo vale infine per i riconoscimenti alla carriera, che nell’arco di questi anni sono stati assegnati a Ingmar Bergman, Robert Bresson, Marcel Carné, Claude Chabrol, Sean Connery, Federico Fellini, Tonino Guerra, Alec Guinness, Richard Harris, Jeremy Irons, Jeanne Moreau, Ennio Morricone, Monty Python, Carlos Saura, Alexandre Trauner, Andrzej Wajda e Billy Wilder: si tratta infatti di artisti straordinari che rimarranno non solo nella storia del cinema, ma che saranno ricordati anche per il contribuito offerto alla formazione e allo sviluppo dell’identità europea.

Guido Levi (2005) 




Accordi Berlin Plus

Gli Accordi Berlin plus, conclusi nel 2003, regolano le relazioni operative tra l’Unione europea (UE) e l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), permettendo alla prima di avvalersi delle capacità di pianificazione e di comando della seconda e di utilizzarne i mezzi per realizzare missioni di gestione delle crisi.

Gli antecedenti degli Accordi Berlin Plus: i primi tentativi di cooperazione tra UE e NATO nel post Guerra fredda

La necessità di accordi che formalizzassero la cooperazione operativa tra UE e NATO emerse solo dopo la fine della Guerra fredda, dato che nell’epoca del bipolarismo la difesa europea era stata affidata agli Stati Uniti, la NATO era stata eletta quale unica organizzazione responsabile della sicurezza dell’Europa occidentale e alla Comunità economica europea (CEE) non erano state affidate competenze in materia di sicurezza e di difesa. Inoltre l’Unione dell’Europa occidentale (UEO), istituita il 23 ottobre 1954 quale “gamba” europea della NATO, vi era di fatto subordinata, mancando di strutture militari integrate, budget comune, ministro della Difesa o degli Esteri.

Con la fine del bipolarismo invece l’UE poté beneficiare di nuovi spazi di azione e fu chiamata ad assumersi inedite responsabilità, che portarono all’introduzione nel Trattato di Maastricht della Politica estera e di sicurezza comune (PESC), che «comprende tutte le questioni relative alla sicurezza dell’Unione europea, ivi compresa la definizione a termine di una politica di difesa comune, che potrebbe successivamente condurre a una difesa comune»; fu inoltre introdotta la possibilità per il Consiglio UE di chiedere all’UEO di elaborare e porre in essere le decisioni e le azioni dell’Unione aventi implicazioni nel settore della difesa. In questo modo, l’UEO sarebbe servita sia come braccio armato dell’UE che come braccio europeo della NATO, fungendo da ponte tra le due organizzazioni. La stessa NATO, nel contempo, attraversava una fase di ristrutturazione della propria legittimità, dei propri obiettivi e dei propri strumenti. Dopo il 1989, infatti, non era affatto chiaro se essa potesse sopravvivere alla scomparsa dell’URSS, che ne costituiva la giustificazione e il collante.

Nella nuova epoca post Guerra fredda, UE e NATO sembravano convergere su un approccio comprensivo e rinnovato alla sicurezza, nonché sulla centralità del concetto di “conflict management”, conseguente alla relativa perdita di rilevanza della difesa territoriale in un contesto di declino delle guerre interstatali tradizionali in favore delle c.d. “nuove guerre”, civili ma con marcati tratti di transnazionalità. Questo concetto venne menzionato per la prima volta proprio dal NATO Strategic concept del 1991, e venne poi ripreso dall’UEO nella sua Petersberg Task Declaration del 1992, la quale venne successivamente assorbita dall’UE  grazie al Trattato di Amsterdam del 1997. Vennero poste così le basi per una cooperazione e per un rafforzamento reciproco tra le due organizzazioni, ma allo stesso tempo si apriva un terreno di competizione e di scontro, tenuto conto delle crescenti esigenze europee di autonomia necessitate da una nuova responsabilità dell’UE sulla scena internazionale, riconosciuta dal Trattato di Maastricht. Contestualmente, secondo la logica del “go global, or go out of business”, la NATO ampliava i propri compiti militari con la previsione delle operazioni “out of area”, cioè operazioni che prevedono l’impiego diretto delle sue risorse militari al di fuori dei confini dei suoi membri.

La crisi in Bosnia-Erzegovina (1992-1995) e quella in Kosovo (marzo-giugno 1999) esercitarono una pressione fondamentale verso la ricerca di una cooperazione operativa tra UE e NATO. Nel primo caso, infatti, la totale impreparazione degli europei frustrò ben presto le loro velleità di autonomia e responsabilità circa la sicurezza europea e costrinse gli USA, guidati da Bill Clinton, a intervenire con la NATO e le sue capacità militari. Ciò agevolò una convergenza di interessi tra USA e UE sulla costruzione di una specifica European security and defence identity (ESDI) all’interno della NATO che permettesse all’UE, attraverso l’UEO, di agire indipendentemente ma avvalendosi degli assetti e delle capacità della NATO per missioni dove la NATO nel suo complesso non fosse coinvolta, e che rientrassero nelle c.d. Missioni di tipo “Petersberg”, cioè missioni umanitarie e di soccorso, di mantenimento della pace, di gestione di crisi e di ripristino della pace.

Il sistema, istituito dal Meeting ministeriale NATO di Berlino del giugno 1996, avrebbe permesso all’UE di prendere a prestito dagli Stati Uniti gli assetti necessari e di costituire unità europee all’interno della NATO, le c.d. European combined joint task forces (CJTFs), da essa “separabili ma non separate”. Esse sarebbero state comandate tramite la soluzione del “doppio cappello”: normalmente sottoposte a un comando multinazionale alleato, quando rese disponibili all’UEO esse sarebbero passate sotto il controllo politico e il comando strategico di quest’ultima, tramite l’istituzione in seno alla NATO della figura del Deputy supreme allied commander Europe (DSACEUR), posizione da attribuire sempre a un generale europeo.

Questo primo strumento di cooperazione con la NATO assecondava le esigenze avvertite dagli USA di un maggiore burden-sharing con gli alleati e assicurava la primazia e il rafforzamento della NATO, ma nonostante le promesse concedeva agli europei una libertà piuttosto limitata. La decisione di concedere le strutture alleate caso per caso implicava di sottoporre ogni politica di sicurezza europea al vaglio del North Atlantic council (NAC, il principale organo decisionale NATO), e dunque nella sostanza consegnare a potenze non europee il potere di decidere quali missioni gli europei avrebbero dovuto svolgere da soli. Inoltre, data la centralità degli assetti statunitensi nell’operatività della NATO, la soluzione delle strutture “separabili ma non separate” avrebbe permesso a Washington di mantenere il controllo operativo sullo svolgimento delle missioni militari, e in definitiva di esercitare un diritto di richiamo verso le risorse messe a disposizione dell’UEO. L’ESDI si rivelò inoltre incapace di funzionare, data l’inadeguatezza dell’UEO ad assumere il controllo politico delle missioni militari UE.

Dopo la guerra in Kosovo: verso gli accordi Berlin plus

La guerra in Kosovo dimostrò ancora una volta l’impotenza dell’UE di fronte a una crisi europea, da un lato costringendo gli europei a delegare alla NATO l’intervento militare per porre fine al genocidio perpetrato da Slobodan Milošević, ma dall’altro incoraggiandoli a lanciare la Politica europea di sicurezza e di difesa (PESD) al Consiglio europeo di Colonia del giugno 1999, e un programma di costruzione di capacità militari e civili al suo servizio per la gestione delle crisi. Ciò permise di impostare le relazioni tra NATO e UE su nuove basi. La guerra in Kosovo aveva inoltre svuotato la NATO di gran parte del suo valore aggiunto agli occhi di Washington, che proprio in seno alla NATO si era trovata a intraprendere una “guerra per procura” e nel contempo a subire critiche sistematiche da parte degli alleati circa gli obiettivi dei bombardamenti e le modalità di intervento. L’Organizzazione maturò dunque tutto l’interesse a sviluppare un rapporto strutturato con un’UE in rafforzamento sul piano della difesa, e forti pressioni in questo senso giunsero dagli USA. L’UE, d’altronde, non poteva che condividere tale interesse fino a che fosse rimasta in qualche misura dipendente dalla NATO. I contatti tra le due organizzazioni, che avevano preso avvio in via informale già nel 1997, divennero regolari e furono istituzionalizzati da un accordo assunto il 24 gennaio 2001 con uno scambio di lettere tra il Segretario generale NATO George Robertson e Anna Lindh, ministro degli Esteri svedese e presidente di turno del Consiglio dell’UE. L’accordo prevedeva che NATO e UE si dovessero incontrare almeno tre volte all’anno a livello di ambasciatori, e almeno una volta all’anno a livello ministeriale.

Tali dinamiche si rivelarono funzionali alla rivisitazione degli Accordi di Berlino, ormai superati dall’avvento della PESD. Il processo durò ben quattro anni (1999-2003), fitti di dibattiti e polemiche.

Il primo tema a infiammare il dibattito fu il cosiddetto “right of first refusal”, ovvero il diritto della NATO (e dunque degli USA) di decidere quando e se l’UE potesse intervenire militarmente, avvalendosi o meno degli assetti dell’Alleanza. Dopo molteplici pressioni e resistenze statunitensi, il Consiglio europeo di Helsinki del dicembre 1999 affermò la determinazione dell’UE a sviluppare la capacità di prendere decisioni autonome e, laddove la NATO nel suo complesso non fosse impegnata, lanciare missioni militari UE in risposta a crisi internazionali, senza che ciò implicasse la costituzione di un esercito europeo.

Il secondo tema fu quello della non discriminazione, cioè dell’esigenza, molto avvertita dagli USA, di assicurare il coinvolgimento dei membri della NATO non membri UE (Norvegia, Turchia, Islanda, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca) nei processi decisionali PESD. La soluzione di compromesso tra europeisti e atlantisti in seno all’UE fu adottata al Consiglio europeo di Santa Maria de Feira del giugno 2000, e prevedeva da un lato l’istituzionalizzazione della cooperazione in seno al Comitato politico e di sicurezza dell’UE (CPS) tra i 15 paesi UE e i 13 paesi candidati all’adesione insieme a Islanda e Norvegia (formula 15+15), dall’altro meeting speciali dei 15 UE con i 6 membri non UE della NATO, ma solo sul funzionamento delle operazioni guidate dall’UE con il ricorso ai mezzi e alle capacità della NATO. Il contestuale rifiuto UE di ammettere la Turchia direttamente alle riunioni del CPS provocò il veto turco alla conclusione del processo. Ankara riuscì così a ottenere una serie di concessioni, tra cui il coinvolgimento più pieno possibile nel decision-making process dell’UE in materia di sicurezza e difesa, l’esclusione di Cipro (insieme a Malta) da qualsiasi operazione PESD e l’esclusione di qualsiasi missione PESD nel mar Egeo.

Il compromesso portò alla Dichiarazione congiunta UE-NATO sulla PESD del 16 dicembre 2002, che annunciò l’istituzione di una “partnership strategica” nel campo della gestione dei conflitti basata sui principi di «reciproca ed efficace consultazione, dialogo, cooperazione e trasparenza», nonché di «uguaglianza e adeguato riconoscimento dell’autonomia decisionale e degli interessi dell’UE e della NATO», e aprì la strada alla conclusione, il 17 marzo 2003, di una serie di documenti non giuridici, quasi tutti classificati e dunque non pubblici, che regolano ancora oggi l’accesso dell’UE (e non più UEO) agli assetti della NATO. Tali accordi furono chiamati Accordi Berlin plus, a indicare una revisione dell’Accordo di Berlino UEO-NATO del 1996.

Gli Accordi Berlin plus in azione e gli ostacoli al loro utilizzo

Grazie agli Accordi Berlin plus, l’UE intraprese subito la sua prima operazione militare, nella Repubblica di Macedonia (31 marzo-10 dicembre 2003). L’operazione Concordia subentrò con 350 uomini alla NATO, in loco dal 2001, per assicurare un ambiente sicuro e stabile in cui dare attuazione alle riforme politiche previste dagli Accordi di Ohrid del 2001, che avevano sancito la riappacificazione tra slavi e albanesi. In coerenza con lo schema Berlin plus, il DSACEUR venne nominato Comandante delle operazioni, assistito da un Direttore UE delle operazioni. La NATO supportò l’UE con una pianificazione tattica, operativa e strategica, e un quartiere generale UE dell’operazione venne istituito presso il Supreme headquarters allied powers Europe della NATO (SHAPE) a Mons (Belgio), per assistere il Comandante delle operazioni. Inoltre, un Elemento di comando UE fu creato presso il Comando regionale NATO di Napoli (Allied forces South Europe, AFSouth), e il Capo di Stato maggiore di AFSouth divenne Capo di Stato maggiore dell’Elemento di comando UE. Queste doppie posizioni UE-NATO garantirono il legame tra le due organizzazioni a tutti i livelli della catena di comando durante l’operazione. L’intervento ebbe successo, ma la cooperazione con la NATO evidenziò qualche problema nella condivisione di informazioni, nella catena di comando e nella divisione del lavoro. Dopo il subentro dell’UE, la NATO aveva mantenuto una presenza sul campo per aiutare le autorità macedoni nella Riforma del settore della Sicurezza, nell’adattamento agli standard NATO in vista dell’ingresso del paese nell’organizzazione e nella protezione dei confini, il che creò difficoltà all’UE nell’essere riconosciuta dalle autorità macedoni come il primo security provider nel paese. Inoltre, mentre l’UE condivideva le informazioni di intelligence e i rapporti dell’operazione con la NATO, questa non faceva altrettanto con i rapporti dell’operazione della NATO in Kosovo, con conseguenze potenzialmente rilevanti in termini di sicurezza, dato che l’instabilità in Kosovo si riverberava anche in Macedonia.

Dopo che nel giugno 2003 fu deciso il dispiegamento nella Repubblica Democratica del Congo della prima missione UE di peacekeeping in piena autonomia e senza avvalersi degli assetti della NATO (operazione Artemis), una seconda (e a oggi, ultima) missione PESD in regime Berlin plus fu dispiegata in Bosnia-Erzegovina (EUFOR Althea) nel dicembre 2004 per subentrare alla NATO, sul posto dal 1995 per assicurare la sicurezza nel paese e garantire il rispetto degli accordi di Dayton. Il passaggio NATO-UE in Bosnia fu molto più complesso e delicato rispetto alla Macedonia, perché la presenza NATO era stata di successo e nelle élites e nella popolazione bosniaca era diffuso lo scetticismo nei confronti dell’UE causato dal ricordo del fallimento europeo nella guerra del 1992-1995. Fu dunque necessaria un’attenta preparazione della transizione, che al contempo delineò chiaramente i confini dei rispettivi compiti, evitando tensioni. Il Deputy SACEUR elaborò l’Operation plan (OPLAN) di Althea, mentre a livello politico il NAC e il CPS avviarono serrate consultazioni per il subentro dell’UE. La preparazione dell’operazione si concluse con la visita congiunta in Bosnia del Segretario generale della NATO e dell’Alto rappresentante PESC per illustrare alle autorità locali le modalità e i tempi del passaggio di consegne.

L’operazione Althea, non ancora conclusa, è stata in grado di differenziarsi dall’operazione NATO pur giovandosi della continuità con essa. Gran parte delle truppe alleate in Bosnia erano infatti europee e, cambiati insegne ed elmetto, rimasero sul campo quali contingenti UE. Tale continuità conferì credibilità ad Althea mentre la relativa pacificazione tra i gruppi etnici permise all’UE di focalizzarsi maggiormente sulla lotta al crimine organizzato, ritenuto minaccia fondamentale alla stabilità e alla pace. La NATO era rimasta in Bosnia con un piccolo contingente e un proprio quartier generale per aiutare le autorità locali a sviluppare le proprie capacità di difesa, ma NATO e UE impararono la lezione macedone e seppero cooperare evitando la competizione. In particolare, esse collaborarono nella ricerca e cattura di criminali di guerra, mentre fu stabilito un regolare scambio di informazioni tra il quartier generale UE e quello NATO sul campo.

Il secondo test per gli Accordi Berlin plus permise all’UE di dispiegare la sua operazione militare più imponente di sempre (7000 uomini) e si risolse in un successo, ma sia Concordia che Althea avevano dimostrato i limiti pratici del sistema Berlin plus. La complessità e i tempi necessari per la sua attuazione pratica ne restringevano l’applicabilità alle missioni di sostituzione di operazioni NATO preesistenti. Esso aveva permesso la socializzazione tra le due organizzazioni e l’instaurarsi di un’abitudine alla consultazione sul campo, ma la cooperazione aveva dimostrato di funzionare meglio laddove vi era tempo sufficiente per concordare i dettagli. Laddove tali tempi non c’erano, la cooperazione si rivelò difficoltosa se non inesistente. Ad esempio, alla richiesta da parte dell’Unione africana (UA) di un supporto logistico alla propria missione in Darfur (AMIS II), NATO e UE risposero nel giugno 2005 con due missioni di assistenza parallele e autonome che furono solo in parte coordinate sul campo dal personale delle due organizzazioni presso il quartier generale UA, ad Addis Abeba.

Gli stessi Accordi Berlin plus, d’altro canto, avevano funzionato perché di natura tecnica e non politica, e proprio sul fronte politico lasciavano aperti diversi problemi derivanti per molti versi dalle dinamiche interne alle due organizzazioni e che hanno finito per bloccare l’impiego dei Accordi Berlin plus per nuove missioni. La NATO si era allargata molto (dai 19 membri del 1989 ai 29 del 2004) e seguendo l’evoluzione delle priorità statunitensi si era trasformata nel tempo, ma non era ancora stato chiarito che tipo di organizzazione essa fosse. Non era più l’organizzazione di difesa collettiva della Guerra fredda, aveva retoricamente scoperto il comprehensive approach alla sicurezza o almeno l’esigenza di operazioni civil-militari, e aveva intrapreso proprie operazioni civili come quelle a sostegno delle vittime del terremoto in Pakistan dell’8 ottobre 2005 e dell’uragano Katrina negli Stati Uniti dell’agosto 2005. Tuttavia, essa rimaneva un’alleanza militare per nulla adeguata a dispiegare capacità civili in ambiti quali polizia, stato di diritto e diritti umani. Non a caso, l’UE diventò oggetto di pressioni affinché si accordasse con la NATO per una sorta di “Berlin plus in reverse”, in base al quale l’UE avrebbe messo a disposizione della NATO i suoi assetti civili e capacità dispiegabili. Sul fronte UE, l’ingresso di Cipro e Malta nel 2004 aveva complicato le relazioni con la NATO. Ankara cominciò a bloccare ogni scambio ufficiale UE-NATO in cui fosse presente anche Cipro mentre l’Unione non riteneva di poter discutere questioni relative alla sicurezza europea e internazionale senza la partecipazione di tutti i suoi membri. La conseguenza fu il sostanziale blocco del dialogo politico UE-NATO e la sistematica esclusione dall’agenda di qualsiasi questione che non fosse legata alle missioni correnti in regime di Berlin plus, e cioè la sola missione Althea in Bosnia.

Dal punto di vista tecnico, gli Accordi Berlin plus hanno avuto successo nei due casi in cui sono stati utilizzati, cioè in Macedonia e Bosnia, e la cooperazione tra ufficiali e organizzazioni sul campo è stata molto buona. Ma dal punto di vista politico le difficoltà sono evidenti. Come è stato notato, l’UE ha saputo trarre vantaggio dalle relazioni con la NATO, apprendendo da essa modalità di intervento e replicandone gli assetti istituzionali. Ma ciò ha accentuato una tendenza alla autonomizzazione della PESD, nonché a una graduale europeizzazione e “deNATOizzazione” delle politiche nazionali degli Stati membri.  Non a caso, l’operazione in Bosnia è stata l’ultima in regime Berlin plus, nonostante altre ne fossero state proposte successivamente (ad esempio per la crisi in Libano del 2006). Lungi dall’aver dato vita a un “Berlin plus in reverse”, UE e NATO hanno piuttosto proceduto più di una volta a operazioni parallele negli stessi contesti – come nel già citato caso del Darfur nel 2005, o come nel caso dell’Operazione NAVFOR Atalanta, lanciata dall’UE l’8 dicembre 2008 per contrastare la pirateria al largo delle coste somale, dopo che la NATO aveva lanciato una missione quasi identica. La cooperazione sul campo sviluppatasi tra la missione in Darfur o le missioni civili EULEX Kosovo e EUPOL Afghanistan con le missioni NATO in loco, per quanto lodevole è del tutto asistematica in quanto gli Accordi Berlin plus nulla prescrivono circa le missioni civili e circa le relazioni tra missioni UE e NATO autonome presenti sullo stesso territorio.

Il sistema Berlin plus avrebbe bisogno di una revisione e di un ampliamento, ma a causa di ostacoli di natura prettamente politica fino a ora non è stato possibile né utilizzarlo pienamente, né lanciare nuove missioni che di esso si avvalgano.

Giovanni Finizio (2017)




Accordi di Fontainebleau

Gli Accordi di Fontainebleau, raggiunti durante il Consiglio europeo del 25 e 26 giugno 1984, operavano modifiche al sistema di finanziamento comunitario degli Stati membri contestato dal Regno Unito. La soluzione emersa a Fontainebleau, nonostante fosse provvisoria, pose fine alla lunga disputa relativa all’entità della contribuzione britannica al bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea).

Già il Consiglio europeo di Lussemburgo dell’aprile 1970, avente all’ordine del giorno il raggiungimento di una progressiva emancipazione finanziaria dai trasferimenti degli Stati membri, aveva introdotto per la prima volta un sistema di risorse proprie per il bilancio della Comunità. Gli strumenti finanziari introdotti erano i dazi doganali e i prelievi agricoli, affiancati da una risorsa fondata su una base IVA, le cui necessità d’armonizzazione però ne ritardarono l’introduzione fino al 1979. Di fatto le difficoltà registratesi nelle entrate del periodo 1975-1987 e l’incapacità di contenere le spese del settore agricolo, parallelamente al rafforzarsi delle politiche comunitarie, portavano a una scarsa disponibilità di risorse. Le continue rimostranze del Regno Unito, relative al proprio contributo di bilancio, finirono per condizionare seriamente le questioni finanziarie comunitarie. Londra chiedeva con forza una riduzione dell’importo del proprio contributo di bilancio, in considerazione dello squilibrio esistente tra quanto versato e le cifre ottenute come finanziamenti comunitari. Il Consiglio europeo di Fontainebleau, svoltosi il 25 e 26 giugno 1984, offrì in questo senso una soluzione provvisoria ai problemi di bilancio. Gli accordi sottoscritti in tale occasione stabilirono un aumento del tasso massimo di prelievo sulla quota IVA, portato all’1,4%, e contemporaneamente un meccanismo di correzione degli squilibri di bilancio in base al quale ogni Stato membro che dovesse assumersi un onere finanziario eccessivo rispetto alla propria prosperità relativa poteva accedere a una correzione relativa in grado di salvaguardarne le necessità finanziarie.

Nonostante l’apparenza, questa norma fu specificatamente prevista per il solo Regno Unito, cui veniva infine concessa una riduzione dei contributi che era tenuta a versare. L’accordo fu successivamente riconfermato nel Vertice di Edimburgo del 1992, nell’ambito della riforma delle disposizioni finanziarie comunitarie contenute nel “pacchetto Delors II” (v. Delors, Jacques): il nuovo sistema prevedeva una compensazione percentuale del suo saldo netto. Il finanziamento di quella che fu presto definita la “compensazione britannica” andava a carico di tutti i membri comunitari, in base alle rispettive quote di finanziamento IVA, a eccezione della Germania, il cui contributo venne ridotto ai due terzi. Queste modifiche al finanziamento comunitario rivelarono ben presto la propria inadeguatezza, non essendo in grado di garantire un equilibrio rispetto alla continua diminuzione degli introiti generali. Si venne ben presto a configurare un effettivo problema d’insufficienza e di mancanza d’equità nelle entrate, che veniva ad aggravarsi a causa dei crescenti impegni di spesa, su cui influiva anche la situazione economica internazionale. Nella sessione di Fontainebleau venne inoltre adottato il principio della soppressione delle formalità doganali e di polizia per le persone che circolano all’interno della Comunità economica europea (CEE).

Il Consiglio europeo di Fontainebleau riconosceva la possibile esistenza di squilibri di bilancio, da risolversi attraverso una politica di spesa, prevedendo quindi la possibilità di un meccanismo correttivo per gli Stati membri che si trovano a dover sostenere un onere di bilancio eccessivo rispetto alla loro prosperità relativa. Per la prima volta venne ammessa l’azione sugli squilibri di bilancio di vari fattori, quali il livello globale di spesa, il contenuto delle riforme nelle politiche economiche e la struttura stessa delle risorse proprie degli Stati. Tuttavia, non andrebbe taciuto il carattere provvisorio di un intervento che, nonostante il testo, si caratterizza per essere nel solo interesse del Regno Unito. Per quanto al momento del suo varo si sia rilevato particolarmente utile per permettere il proseguimento dei normali lavori della CEE, col passare del tempo esso è venuto ad assumere le caratteristiche di un privilegium, cui Londra non sembra disposta a rinunciare neanche in presenza di un mutato scenario economico.

Andrea Carteny  (2008)




Accordi di Bretton Woods

A guerra ancora in corso, con le truppe alleate che entrano in Toscana e preparano lo sfondamento del fronte tedesco in Normandia dopo lo sbarco del 6 giugno, dal 1° al 22 luglio 1944 ben 730 delegati in rappresentanza di 44 paesi si riuniscono al Mount Washington Hotel di Bretton Woods (New Hampshire, USA). È la United nations monetary and financial conference, convocata per decidere l’assetto che il sistema economico e monetario internazionale avrebbe dovuto assumere alla fine del conflitto.

La conferenza fu dominata dal confronto fra due posizioni autorevoli e, di fatto, diametralmente opposte: quella della delegazione inglese, capeggiata da John Maynard Keynes, e quella della delegazione statunitense, rappresentata dal dirigente del Dipartimento del Tesoro americano Harry Dexter White.

I punti cruciali del dibattito erano due: a) come assicurare ai vari paesi la ripresa degli scambi necessaria per sostenere lo sforzo di ricostruzione post-bellica; b) come fornire al sistema monetario internazionale la liquidità sufficiente ad assicurare la crescita degli scambi e la ricostruzione (con sistemi economici strutturalmente diversi), al tempo stesso garantendo la stabilità dei tassi di cambio e la credibilità (quindi la tenuta) dell’intero sistema.

Il Piano Keynes puntava su un sistema cooperativo di creazione e gestione della liquidità, che assicurasse la possibilità di concertare una politica espansiva a livello internazionale. Il progetto si basava sul ruolo che avrebbe dovuto giocare una International clearing union (in sostanza una stanza di compensazione internazionale) nella creazione di una moneta parallela, il bancor, da utilizzare come moneta di scambio e compensazione dei saldi commerciali fra paesi. In questo modo, si sarebbero ottenuti tre vantaggi: il primo, che scambiando solo i saldi contabili complessivi, non era necessario adeguare l’offerta di moneta nazionale alle esigenze immediate del commercio internazionale, in questo modo riducendo l’impatto delle partite con l’estero sulla circolazione interna; il secondo era che la creazione di liquidità internazionale poteva essere accresciuta dalla banca mondiale stessa, rendendola più flessibile e reattiva alle mutevoli esigenze degli scambi internazionali; il terzo vantaggio era relativo al fatto che, prevedendo limiti e penalità per il mantenimento e l’accumulo di saldi in attivo e passivo presso la banca, il sistema risultava altamente simmetrico, e tendeva a scoraggiare squilibri esterni persistenti.

Il Piano White prevedeva invece l’adozione di un sistema asimmetrico di natura egemonica, basato sulla preminenza del dollaro come àncora della liquidità internazionale. Si trattava di un esplicito riconoscimento del fatto che l’egemonia statunitense emersa dalla guerra dovesse tradursi in un’egemonia anche sulla ricostruzione e sulla gestione dei rapporti economici e politici nei decenni a venire. Il dollaro, e solo il dollaro, avrebbe assicurato la piena convertibilità con l’oro a un tasso prestabilito. In questo modo, la regolazione del sistema monetario internazionale veniva a dipendere dalla volontà e dalla capacità degli USA di assicurare un equilibrio nelle emissioni di moneta tale da permettere la stabilità del rapporto di convertibilità.

Il risultato dei negoziati fu l’adozione di un sistema formalmente di compromesso tra le due posizioni, nella sostanza basato sulla proposta di White: il dollaro diventava il pivot del sistema monetario internazionale, assicurando la piena convertibilità un tasso prestabilito (35 dollari all’oncia, pari a poco più di 31 grammi), mentre le altre banche centrali avrebbero garantito parità stabili (fisse ma aggiustabili entro una soglia del ± 1%, sulla base di motivate richieste) col dollaro stesso. Le riserve nazionali e le transazioni internazionali avrebbero potuto aver luogo in oro o in dollari (gold-exchange standard).

Il sistema veniva completato con la creazione di due istituzioni, il Fondo monetario internazionale (per gestire situazioni temporanee di squilibrio nelle bilance dei pagamenti) e la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (destinata a finanziare investimenti a lungo termine), poi denominata Banca mondiale. Esse divennero attive dal 1946, e furono affiancate l’anno successivo dall’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (General agreement on tariffs and trade, GATT), poi trasformatosi nel 1995 nella World trade organization (WTO), per la liberalizzazione del commercio internazionale.

Nei primi quindici anni di vita del sistema di Bretton Woods, gli economisti erano fortemente preoccupati della possibilità che si verificasse un dollar shortage, ossia la carenza di dollari (essendo la loro emissione vincolata alla convertibilità e alle scelte di emissione da parte della FED), necessari per finanziare l’eccezionale aumento del commercio internazionale e la ripresa economica che seguirono la guerra. Il primo a denunciare invece che il problema sarebbe stato l’eccesso, non la carenza, di dollari fu all’inizio degli anni Sessanta Robert Triffin, economista belga trasferitosi negli Stati Uniti e all’epoca docente a Yale, in un noto discorso di fronte al Congresso americano, sulla base di una visione già maturata alla fine degli anni Cinquanta e poi elaborata e diffusa nel corso del decennio successivo.

La sua tesi era la seguente: un sistema monetario internazionale che si regge su una moneta nazionale presenta una debolezza intrinseca, legata al fatto che le autorità di politica monetaria del paese devono essere pronte a far fronte alle esigenze dettate dal ruolo internazionale della valuta, tramite persistenti deficit di bilancia dei pagamenti, mettendo però in questo modo a repentaglio l’impegno alla convertibilità e la stabilità complessiva del sistema. Nel corso degli anni Sessanta, durante le amministrazioni Kennedy (v. Kennedy, John Fitzgerald) e soprattutto Johnson (v. Johnson, Lyndon Baines), gli Stati Uniti aumentarono sia l’impegno bellico diretto nella guerra del Vietnam, sia le spese per lo Stato sociale, premendo in tal modo sulla politica monetaria per “accomodare” le scelte espansive di politica fiscale. Gli Stati Uniti non erano più in grado di garantire la convertibilità del dollaro in oro, e il 15 agosto 1971 il presidente Nixon dichiarò l’inconvertibilità del dollaro, decretando di fatto la fine del sistema di Bretton Woods.

Negli anni in cui il sistema di Bretton Woods sopravvisse, esso contribuì a determinare una cornice entro la quale fu possibile avviare l’integrazione economica e politica dell’Europa senza preoccupazioni riguardo alla volatilità dei tassi di cambio, che avrebbero reso ancora più complessa la gestione di un mercato continentale. Tutti i primi passi nel cammino dell’integrazione europea sono stati compiuti sotto l’ombrello dei cambi fissi sanciti a Bretton Woods, anche se inizialmente fu necessaria una fase di transizione (terminata nel 1958), gestita attraverso l’Unione europea dei pagamenti, che con i fondi del Piano Marshall agevolò la ricostruzione, nonostante livelli insufficienti di riserve.

Quando il sistema di Bretton Woods cessò di esistere, l’Europa si trovò nella necessità di stabilizzare i tassi di cambio intraeuropei per non mettere a repentaglio gli scambi tra i paesi della CEE (e l’esistenza del mercato unico), costringendo di fatto a individuare quelle soluzioni che portarono nel 1979 alla nascita del Sistema monetario europeo.

Fabio Masini (2017)




Accordi di San José

Gli Accordi di San José sono il risultato di un processo di dialogo politico (da cui la denominazione alternativa di “dialoghi di San José”) avviato tra l’Unione europea e i sei paesi dell’Istmo centroamericano (Costa Rica, El Salvador, Guatemala, Honduras, Nicaragua e Panama) a seguito della celebrazione di una conferenza ministeriale, nella città di San José, in Costarica, nel 1984. Su tale meccanismo si basa ancora oggi la cooperazione regionale tra Unione europea e tali paesi.

Il primo accordo, siglato nel 1985 tra la Comunità economica europea e i paesi sopra menzionati, faceva riferimento alla grave crisi che, negli anni Ottanta, aveva colpito l’area centroamericana: gli assi principali dell’intesa erano fortemente correlati ad aspetti quali la promozione del processo di pace e di stabilizzazione politica nell’area, il rafforzamento della democrazia, il rispetto dei diritti dell’uomo e l’integrazione regionale (v. Integrazione, metodo della).

A seguito di tale incontro, i rappresentanti europei e centroamericani hanno continuato a riunirsi annualmente, alternando quale sede di incontro una capitale centroamericana e una europea.

Il dialogo di San José ha giocato un ruolo determinante nel conseguimento della pace e nel ripristino della democrazia nei paesi dell’America centrale agli inizi degli anni Novanta, e si è evoluto nel corso del tempo quale principale canale di comunicazione, a livello politico ed economico, tra le due regioni.

Sul piano dell’integrazione regionale, infatti, è importante evidenziare che, nel 1992, i sei paesi centroamericani hanno istituito il cosiddetto Sistema de integración centroamericana (SICA) che prevede quale obiettivo principale la promozione di uno sviluppo equo e democratico della regione. La riunione euro-centroamericana del 1993 si concludeva con la firma di un nuovo accordo, subentrato a quello del 1985, nel quale si prendeva atto di tale evoluzione.

I buoni risultati ottenuti relativamente alla fine della guerra civile e alla reintroduzione della democrazia nell’America centrale hanno consentito al dialogo di San José di orientarsi maggiormente verso il rafforzamento dei legami economici con l’Unione europea.

Questa posizione trovava espressione nella “dichiarazione di Firenze”, enunciata durante la conclusione della XII conferenza, tenutasi proprio nella città toscana, nel 1996, nell’ambito della quale il rapporto di cooperazione tra le due aree si orientava su tre linee: in primo luogo la promozione dello Stato di diritto, il supporto alle politiche sociali e l’ampliamento delle possibilità per i paesi centroamericani di inserirsi nel quadro economico internazionale; in secondo luogo, la riorganizzazione del rapporto di cooperazione in base a metodi improntati a un maggior grado di partecipazione, soprattutto per quanto riguarda i beneficiari; infine, la razionalizzazione degli incontri annuali che, da quel momento, avrebbero iniziato ad aver luogo, a livello plenario, ogni due anni, e, a livello di troika, negli anni intermedi.

Nel 2000 a Vilamoura, in Portogallo, i partecipanti alla XVI conferenza decretavano il potenziamento del piano d’azione comunitario, varato dopo la XV conferenza nel 1999, a sostegno della ricostruzione dell’area centroamericana devastata dall’uragano Mitch.

I rappresentanti europei, inoltre, esprimevano ufficialmente la propria soddisfazione in relazione ai progressi compiuti dai paesi centroamericani nel loro percorso di democratizzazione, testimoniati dalle elezioni in El Salvador e Panama e dall’impegno guatemalteco nella concretizzazione degli accordi di pace del 1996.

Nel 2003, nell’ambito della XIX conferenza ministeriale celebrata a Panama, si stabiliva di formulare un nuovo accordo di dialogo politico e cooperazione tra le parti, così come statuito anche nel Vertice ibero-americano, tenuto a Madrid nel 2002, che prevedeva, oltre ai tradizionali assi riguardanti la democrazia, la tutela dei diritti umani, lo sviluppo economico e l’integrazione regionale, anche temi quali le migrazioni e la lotta contro il terrorismo.

José Luis Rhi-Sausi (2007)




Accordi Europei

Gli accordi europei sono accordi bilaterali conclusi tra la Comunità economica europea (CEE) e i suoi Stati membri, da una parte, e singoli paesi dell’Europa centrale e orientale (PECO), dall’altra. Essi rientrano nella categoria degli accordi di associazione, di cui costituiscono un tipo particolare, caratterizzato dalla situazione politica dei suddetti paesi e dagli scopi conseguentemente perseguiti.

L’origine degli accordi europei si può rintracciare nell’esigenza degli Stati membri dell’epoca di agevolare gli scambi, di sviluppare forme di cooperazione culturale, economica e finanziaria e, soprattutto, di aprire un dialogo politico con i paesi del blocco comunista. Il punto di partenza di questo processo di ravvicinamento è costituito dalla Dichiarazione comune sull’instaurazione di relazioni ufficiali fra la CEE e il Consiglio di mutua assistenza economica (COMECON), del 25 giugno 1988. Successivamente, il crollo dei suddetti regimi, il processo di democratizzazione che ne è derivato e, in particolare, la graduale transizione a un’economia di mercato hanno consentito ai PECO di instaurare relazioni diplomatiche e di concludere con la CE accordi bilaterali i quali, in una prima fase, consistevano in semplici accordi commerciali e di cooperazione.

Tuttavia, i radicali mutamenti verificatisi nell’Europa centrale e orientale richiedevano una risposta più ampia da parte della CE, che andasse oltre la mera cooperazione economica. Coerentemente con questa impostazione, il Consiglio europeo di Strasburgo del 9 dicembre 1989 espresse la volontà di procedere verso forme più avanzate di dialogo e di collaborazione con i PECO. A seguito di ciò, il 27 agosto 1990, la Commissione europea presentava al Consiglio (v. Consiglio dell’Unione europea) e al Parlamento europeo una comunicazione (COM/1990/398, def.) in cui si prevedeva di concludere accordi di associazione, ai sensi dell’art. 238 (oggi art. 310) del Trattato che istituisce la Comunità europea (TCE) (v. Trattati di Roma). Ed era la stessa comunicazione a denominarli “accordi europei”, al fine di sottolinearne la valenza politica. Le relative controparti dovevano essere quei paesi che avessero dimostrato maggiore impegno nel processo di riforme economiche e politiche auspicato dalla CE.

I primi accordi europei furono conclusi il 16 dicembre 1991 con l’Ungheria e con la Polonia. Nella medesima data fu siglato anche un accordo con la Cecoslovacchia che, tuttavia, non entrò in vigore in seguito alla scissione di questo Stato nella Repubblica Ceca e nella Slovacchia. Di conseguenza la CE negoziò due accordi distinti con entrambi gli Stati nell’ottobre del 1993. Lo stesso anno furono conclusi accordi europei con la Romania e con la Bulgaria. Infine, accordi di questo tipo furono firmati con l’Estonia, la Lettonia e la Lituania il 12 giugno 1995 e con la Slovenia il 10 giugno 1996.

Nel biennio 1998-99 il quadro degli accordi europei venne completato dall’entrata in vigore, il 1° febbraio 1998, degli accordi con i tre Stati baltici (Estonia, Lettonia e Lituania) e, il 1° febbraio 1999, dell’accordo con la Slovenia. Tuttavia, in seguito all’adesione di tutti questi paesi all’UE, gli accordi europei con detti paesi non sono più in vigore e sono stati sostituiti dal Trattato di adesione (v. Criteri di adesione).

A quest’ultimo proposito è opportuno precisare che, inizialmente, gli accordi europei non erano stati previsti come uno strumento preparatorio all’adesione dei PECO all’Unione europea. Tuttavia, il Consiglio europeo di Copenaghen del 21 e 22 giugno 1993 aveva dichiarato che l’adesione alla CE dei suddetti paesi associati si sarebbe realizzata non appena questi fossero stati in grado di assumere gli obblighi connessi a tali accordi, adempiendo le condizioni economiche e politiche richieste. Per di più, tutti questi paesi avevano anche presentato domanda di adesione. Pertanto, l’associazione è diventata un passaggio preliminare ai negoziati di adesione, mentre gli accordi europei sono stati espressamente inseriti tra gli strumenti della c.d. “Strategia di preadesione”.

Per quanto riguarda il loro contenuto, gli accordi europei mostrano una struttura uniforme. Tuttavia, nel contesto di questo quadro comune, i singoli accordi presentano alcune diversità che tengono conto delle peculiarità storiche ed economiche relative a ciascun paese associato. L’accordo tipo prevede un preambolo in cui si pone l’accento sulla democratizzazione dei PECO, volta a costruire un nuovo sistema politico ed economico basato sullo Stato di diritto, sul rispetto dei diritti dell’uomo e su un sistema multipartitico pluralista. Il rispetto di questi principi da parte dei paesi associati assume un’importanza fondamentale ai fini dell’attuazione di ciascun accordo. L’interruzione dell’attesa progressione verso l’economia di mercato e la democrazia di stampo occidentale da parte dei paesi associati comporterebbe cioè la sospensione dell’accordo.

Un elemento particolarmente innovativo degli accordi europei è stato rappresentato dal fatto che essi hanno predisposto gli elementi idonei a consentire un dialogo politico. Ciò ha permesso di favorire il ravvicinamento dei paesi associati alla Comunità, attraverso una progressiva convergenza di posizioni sulle questioni internazionali e in materia di sicurezza (v. anche Spazio di libertà, sicurezza e giustizia). A tal fine, si è convenuto fin dall’inizio che il dialogo politico fosse condotto in un quadro istituzionalizzato. Pertanto, gli accordi prevedono, in primo luogo, un Consiglio di associazione composto sia da membri del Consiglio e della Commissione, sia da membri designati dal governo dello Stato associato.

Il Consiglio di associazione deve sorvegliare l’attuazione dell’accordo, formulare raccomandazioni, prendere decisioni nei casi contemplati dall’accordo stesso ed esaminare qualsiasi problema bilaterale o internazionale di interesse delle parti. Queste possono deferire al Consiglio di associazione qualsiasi controversia relativa all’applicazione o all’interpretazione dell’accordo. Il Consiglio di associazione compone la controversia mediante una decisione e le parti sono tenute a prendere i provvedimenti necessari ai fini della sua esecuzione. Resta salvo che le eventuali controversie possono essere risolte, in alternativa, mediante arbitrato.

In secondo luogo, il Consiglio di associazione è assistito, nell’esercizio delle sue funzioni, da un Comitato di associazione composto da un lato, da rappresentanti dei membri del Consiglio e della Commissione e, dall’altro, da rappresentanti del governo dello Stato associato. Il quadro istituzionale, infine, è completato da un Comitato parlamentare di associazione che riunisce membri dei parlamenti dei singoli Stati associati e membri del Parlamento europeo. La sua funzione consiste nel favorire lo scambio di opinioni tra i membri dei rispettivi parlamenti.

Uno dei principali obiettivi degli accordi europei consiste nella realizzazione, alla fine di un periodo transitorio, di una zona di libero scambio tra le parti contraenti. Gli accordi europei affermano espressamente che le disposizioni in materia di liberalizzazione degli scambi sono prese in conformità con le disposizioni dell’Accordo generale sulle tariffe il commercio (GATT) (v. Organizzazione mondiale del commercio). La liberalizzazione degli scambi costituisce uno strumento necessario per dare impulso al processo di ristrutturazione economica e per sostenere il passaggio dalla pianificazione centrale all’economia di mercato dei paesi interessati. La zona di libero scambio si realizza attraverso l’eliminazione delle restrizioni quantitative e la progressiva diminuzione dei dazi e delle tasse di effetto equivalente sui prodotti originari dei paesi associati importati nella CE e sui prodotti originari degli Stati membri della CE esportati nei paesi associati.

La liberalizzazione degli scambi programmata dagli accordi europei presenta la particolarità di basarsi sul c.d. “principio di asimmetria”. Vale a dire, i tempi previsti per l’abolizione delle restrizioni al libero movimento di beni e servizi sono più brevi da parte dei membri della CE, al fine di facilitare il processo di transizione dei paesi associati. Da parte di questi ultimi, invece, il calendario previsto per la liberalizzazione è scadenzato in tempi più lunghi, nell’arco di un decennio, con possibilità di essere dilazionato attraverso deroghe.

Gli accordi europei non creano peraltro un’unione doganale tra i paesi associati nel loro insieme e la Comunità e, quindi, non è prevista l’instaurazione di una tariffa doganale comune. Questo aspetto contribuisce a differenziare gli accordi europei da altri accordi di associazione, quali quelli di c.d. “prima generazione” con i paesi del Mediterraneo del Nord, il cui obiettivo comune era proprio quello di stabilire un’unione doganale. In altri termini, per quanto riguarda i paesi associati che hanno aderito all’Unione europea, l’Unione doganale non ha rappresentato una condizione giuridica necessaria per la preparazione all’adesione.

Oltre alle disposizioni sulla libera circolazione delle merci, gli accordi europei contengono un apposito titolo dedicato alla libera circolazione dei lavoratori e al diritto di stabilimento (v. Libera circolazione delle persone). Vi sono, altresì, garantite la libertà di circolazione delle persone, la libertà di eseguire trasferimenti di capitale (v. Libera circolazione dei capitali) a fronte di transazioni commerciali, la possibilità di fornire servizi (v. Libera circolazione dei servizi), di investire e di rimpatriare sia i capitali investiti, sia gli utili da questi ricavati. Inoltre, vi sono provvedimenti per la tutela dei diritti concernenti aspetti della proprietà intellettuale i quali si rifanno espressamente alla normativa comunitaria già esistente sul tema.

Gli accordi europei contengono inoltre disposizioni sulla concorrenza (v. Politica europea di concorrenza), in base alle quali i paesi associati si impegnano ad attuare nel diritto e nelle pratiche nazionali i criteri e i principi comunitari che regolano tale disciplina, con particolare riguardo alle norme relative agli aiuti di Stato. Pertanto, qualsiasi forma di aiuto di Stato è incompatibile con il corretto funzionamento dell’accordo, poiché può compromettere gli scambi tra la CE e il paese associato. Tuttavia, qualsiasi aiuto statale deve essere valutato tenendo conto del fatto che i paesi associati sono assimilati alle regioni della Comunità disciplinate dall’art. 87, paragrafo 3, lettera a del TCE.

È poi prevista l’instaurazione di forme diverse di cooperazione con i PECO. Si tratta, in particolare, della cooperazione economica, della cooperazione culturale e della cooperazione finanziaria. La prima riguarda tutti quei settori che presentano un interesse comune per la Comunità e per i singoli paesi associati. Essa è guidata dal principio dello sviluppo sostenibile, mettendo in primo piano gli aspetti ambientali e sociali. In ogni modo, l’obiettivo finale della cooperazione economica è quello di consentire ai paesi associati di ristrutturare le loro economie e di renderle competitive entro la fine di un periodo transitorio.

Per quanto riguarda la cooperazione culturale, le parti si impegnano a promuovere, incoraggiare e agevolare tale cooperazione. All’occorrenza, gli accordi prevedono che possono essere estesi al paese associato i programmi di cooperazione culturale comunitari o quelli di uno o più Stati membri e che si possono sviluppare ulteriori attività di reciproco interesse. Infine, la cooperazione finanziaria comprende gli abituali strumenti dei protocolli finanziari comunitari con i paesi terzi, quali le sovvenzioni per finanziare l’assistenza tecnica e i prestiti della Banca europea per gli investimenti (BEI) o della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (BERS), nonché la possibilità di concedere assistenza finanziaria volta a risolvere problemi strutturali e macroeconomici.

Luigi Marchegiani (2007)




Accordi Interistituzionali

Gli accordi interistituzionali sono atti con cui il Parlamento europeo, il Consiglio dei ministri e la Commissione europea convengono in determinate occasioni su obblighi reciproci intesi a organizzare i loro rapporti in uno spirito di collaborazione. In altri termini, un accordo interistituzionale è uno strumento di dialogo tra le istituzioni responsabili del processo decisionale dell’Unione europea. Essi hanno lo scopo di regolare le modalità di esercizio delle rispettive funzioni in settori diversi di tale processo, evitando così potenziali situazioni di conflitto. È pertanto, possibile che, in considerazione degli interessi in gioco, vi partecipino solo due delle suddette istituzioni.

Alla base di tali accordi vi è il principio secondo il quale la ripartizione delle competenze attribuite a ciascuna istituzione avviene nel quadro di un equilibrio istituzionale insito nel Trattato istitutivo della Comunità europea (di seguito denominato il Trattato) (v. Trattati di Roma). Tale equilibrio impone, in sostanza, alle istituzioni di esercitare le proprie competenze nel rispetto di quelle attribuite alle altre istituzioni (Corte di giustizia delle Comunità europee, 10 luglio 1986, causa 149/85; v. Wybot, in “Raccolta della giurisprudenza”, 1986, p. 2409, punto 23) (v. Corte di giustizia dell’Unione europea).

Gli accordi in oggetto riguardano dunque il rapporto che si instaura all’interno del c.d. “triangolo istituzionale”. Com’è noto, l’ambito dei compiti affidati alle tre istituzioni e le prerogative loro attribuite dal Trattato sono mutati nel corso degli anni. In particolare, a seguito di una sentita esigenza di “legittimazione democratica” (v. Deficit democratico), il Parlamento europeo ha visto crescere significativamente il proprio ruolo.

Ora, è inevitabile che in una simmetria di poteri tuttora incompleta si verifichino frizioni dovute alle inevitabili interferenze tra le prerogative conferite a ciascuna istituzione. Per questa ragione, l’oggetto degli accordi interistituzionali può riguardare diverse materie. L’evenienza di siffatte frizioni è particolarmente riscontrabile al di fuori della c.d. “Procedura di codecisione”, e cioè negli altri casi in cui si realizza una partecipazione delle prerogative del Consiglio con quelle del Parlamento.

Ne consegue che la relazione tra tali poteri può sfociare in un conflitto tra le istituzioni interessate e che questo conflitto si risolve in un rallentamento o anche in una paralisi del processo decisionale comunitario. Ed è proprio in una siffatta situazione di conflitto potenziale che gli accordi interistituzionali esplicano il loro ruolo di strumento idoneo a comporre gli interessi contrapposti delle istituzioni.

Inoltre, gli accordi interistituzionali possono essere considerati un mezzo semplice e pragmatico per ridefinire le rispettive competenze delle istituzioni. In effetti, a fronte della lunghezza e della complessità del procedimento di revisione di trattati, gli accordi interistituzionali presentano il vantaggio di non richiederne un emendamento formale. È, peraltro, opportuno rilevare che tali accordi possono servire a precisare il significato di talune disposizioni lacunose del Trattato, ma non le possono modificare.

Il problema maggiore sollevato in dottrina a proposito degli accordi interistituzionali concerne la loro natura giuridica, con particolare riferimento alla loro portata coercitiva. A tale riguardo, occorre innanzitutto ricordare che alcuni di essi sono previsti da norme di rango primario (ad esempio gli artt. 193, c. 3, e 272, par. 9 del Trattato), per cui si deve ritenere che questi atti abbiano una forza vincolante per i loro sottoscrittori.

Per quanto riguarda, invece, gli altri accordi finora sottoscritti dalle suddette istituzioni, essi debbono essere considerati atti atipici, non solo in quanto non rientrano nel novero degli atti comunitari menzionati nell’art. 189 del Trattato, ma anche perché non sono previsti da nessuna altra norma di rango primario (v. Gerarchia degli atti comunitari). Ne consegue che la dottrina non è concorde sulla definizione del loro status giuridico. Infatti, gli accordi di questo secondo tipo sono stati ricondotti, a seconda del loro contenuto, sia nella categoria degli accordi politici, quindi non vincolanti giuridicamente, sia nella categoria intermedia della soft law, sia in quella degli accordi vincolanti.

La Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea), dal canto suo, ha riconosciuto che un accordo interistituzionale di questa natura può essere giuridicamente vincolante allorché ha annullato una decisione del Consiglio presa in violazione di un “accomodamento” con il quale le istituzioni interessate avevano «inteso impegnarsi reciprocamente» (CGCE 19 marzo 1996, causa C-25/94, Commissione c. Consiglio, in “Raccolta della giurisprudenza”, 1996, p. I-1469). Inoltre, con l’occasione, la Corte ha anche precisato che l’accordo era stato convenuto «per attuare l’obbligo di stretta cooperazione fra Stati membri e istituzioni comunitarie».

A quest’ultimo proposito occorre ricordare, da un lato, che lo stesso giudice aveva già esteso alle istituzioni questo principio sancito dall’art. 10 del Trattato nei confronti dei rapporti tra le istituzioni comunitarie e gli Stati membri (CGCE 27 settembre 1988, causa 204/86, Grecia c. Consiglio, in “Raccolta della giurisprudenza”, 1988, p. 5323, punto 16). Da un altro lato, la Dichiarazione n. 3, allegata all’Atto finale del Trattato di Nizza, ha, da ultimo, precisato che il suddetto principio di collaborazione tra istituzioni europee si applica anche a tali accordi.

Pertanto, è legittimo sostenere che un’eventuale violazione di un obbligo assunto in un accordo di questo tipo può costituire una violazione del principio di leale cooperazione sancito dall’art. 10 del Trattato, se la Corte di giustizia ritiene che ne ricorrano i presupposti. Con la logica conseguenza che la natura vincolante degli accordi interistituzionali discende indirettamente anche dal fatto che, nelle dovute circostanze, essi debbono essere considerati strumenti di attuazione del suddetto obbligo di leale cooperazione.

In conclusione, si può affermare che gli accordi interistituzionali costituiscono un importante elemento nel processo di integrazione dell’Unione europea (v. Integrazione, metodo della; Integrazione, teorie della). Infatti, per un verso, essi rappresentano un mezzo pragmatico di attuazione dell’obbligo di leale cooperazione fra le istituzioni. Per un altro verso, hanno spesso aperto la via a future revisioni del Trattato, agevolando così l’equilibrio del suo quadro istituzionale, fattore essenziale per il funzionamento efficiente e democratico del sistema comunitario.

Luigi Marchegiani (2008)




Accordo di Cotonou

Visto il limitato successo del metodo di gestione prevalente delle Convenzioni passate, basato sulle preferenze commerciali non reciproche, e vista la necessità di adattarsi agli sviluppi internazionali quali la globalizzazione e l’evoluzione tecnologica nonché ai profondi cambiamenti sociali negli Stati dell’Africa sub sahariana, Caraibi e Pacifico (ACP), l’Unione europea e il gruppo degli ACP (attualmente composto da 79 paesi) firmavano a Cotonou (Benin) il 23 giugno 2000 una nuova convenzione, che stabiliva un approccio per la cooperazione di durata ventennale, dal marzo 2000 al febbraio 2020, con una clausola di revisione ogni cinque anni.

Si trattava del risultato di una lunga fase di dibattito preparatorio, animato dal Libro verde della Commissione europea (1996), e di una fase negoziale avviata nel settembre del 1998 e conclusa appunto nel febbraio del 2000, in coincidenza con la fine della Convenzione di Lomé (v. Convenzioni di Lomé).

Gli obiettivi principali dell’accordo sono la riduzione e, in prospettiva, l’eliminazione della povertà e la progressiva integrazione dei paesi ACP nell’economia mondiale, rispettando gli obiettivi dello sviluppo sostenibile. Il nuovo approccio sotteso all’accordo intende potenziare la dimensione politica, garantire una nuova flessibilità e conferire maggiori responsabilità agli Stati ACP. Tale approccio si basa su tre dimensioni principali, vale a dire la politica, il commercio e lo sviluppo, ed è un approccio sia integrato che settoriale. Gli interventi sono rivolti a settori specifici (sanità, istruzione, nutrizione, tutela dei giovani, patrimonio culturale, pesca, trasporti, ecc.) e mirano a combinare vari aspetti della cooperazione (economici, ambientali, sociali, ecc.) al fine di indirizzare meglio gli aiuti.

Si parla esplicitamente di temi trasversali in tutti i settori della cooperazione, con riferimento a: uguaglianza tra i generi; gestione sostenibile dell’ambiente (che riguarda diversi aspetti, come le foreste tropicali, le risorse idriche, la desertificazione, l’uso delle energie rinnovabili); sviluppo istituzionale e potenziamento delle capacità.

I pilastri dell’accordo sono: una dimensione politica globale; la promozione di metodi partecipativi; le strategie di sviluppo e una concentrazione sull’obiettivo della riduzione della povertà; l’introduzione di un nuovo quadro per la cooperazione economica e commerciale; una riforma della cooperazione finanziaria.

Un importante aspetto innovativo riguarda l’inclusione di attori non statali (società civile, settore privato, sindacati) e di attori locali, sia per la formulazione che per la realizzazione delle iniziative promosse dalla Politica europea di cooperazione allo sviluppo. È riconosciuto il ruolo della società civile per il rafforzamento sia delle organizzazioni non governative (ONG) che degli enti no profit. Viene inoltre implicitamente riconosciuto il ruolo che le autorità locali possono giocare nelle strategie di sviluppo, evidenziando la necessità della compresenza di tutti i possibili attori della cooperazione decentrata del Sud e del Nord quali promotori dello sviluppo.

Il nuovo accordo è fondato sul rispetto dei diritti dell’uomo, dei principi democratici e dello Stato di diritto e sulla buona gestione degli affari pubblici (good governance) ed è arricchito da un approfondimento del dialogo politico e da un rafforzamento della cooperazione economica e finanziaria.

Particolare significato riveste l’inserimento nell’Accordo della cosiddetta “clausola di riammissione” concernente disposizioni relative alla riammissione degli immigrati illegali, anche originari di paesi terzi e apolidi, da negoziare nel quadro di accordi bilaterali. Questi accordi dovranno definire le categorie di persone alle quali si applicheranno tali disposizioni e le modalità della riammissione e rimpatrio.

Le disposizioni commerciali rappresentano un’altra delle principali innovazioni dell’Accordo: il nuovo regime dovrebbe progressivamente avvalersi delle iniziative di integrazione regionale dei paesi ACP, che sono considerate la chiave per il loro accesso all’economia mondiale.

Il partenariato si propone, infatti, di fornire un quadro coerente di sostegno alle strategie di sviluppo degli ACP, e in tale contesto sono incoraggiati e sostenuti i processi d’integrazione regionali intra-ACP che favoriscono l’inserimento progressivo di questi paesi nell’economia mondiale.

Per l’attuazione del nuovo regime commerciale si prevede il mantenimento fino al 2008 del sistema preferenziale di Lomé – per il quale è stato richiesto il regime di deroga dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC). Tale periodo, definito preparatorio, serve a preparare il cammino alla stipula di Accordi di partenariato economico regionale (APER) volti alla creazione di aree di libero scambio fra l’Unione europea e sei subregioni ACP. In particolare, il periodo preparatorio deve essere utilizzato per sviluppare le capacità dei settori pubblico e privato dei paesi ACP, per rafforzare le organizzazioni regionali e per sostenere le iniziative d’integrazione commerciale regionale.

I negoziati formali per i nuovi accordi regionali di partenariato economico hanno avuto inizio nell’ottobre 2003 con la Comunità economica e monetaria dell’Africa centrale (CEMAC) e la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (ECOWAS) e dovrebbero entrare in vigore nel gennaio 2008. Tali negoziati sono andati avanti piuttosto lentamente e hanno incontrato resistenze molto forti nell’ambito della società civile dei diversi paesi, in quanto si sono manifestate preoccupazioni circa l’impatto negativo che i nuovi accordi avrebbero potuto avere in relazione alla marginalizzazione e all’esclusione di ampie fasce di popolazione dedite a settori agricoli e rurali di autoconsumo e di scambi locali, alla sostenibilità ambientale e all’accesso agli alimenti e ai mezzi per soddisfare i bisogni fondamentali.

I negoziati per gli accordi di partenariato sono stati avviati con tutti gli ACP che ritengono di essere pronti ad affrontarli, al livello che essi giudicano appropriato e secondo le procedure concordate dal gruppo ACP, tenendo conto dei processi di integrazione regionale intra-ACP in atto. I negoziati possono prevedere adeguati periodi transitori, tenere conto dei settori sensibili e accordare un calendario asimmetrico di smantellamento delle tariffe, in conformità con le norme dell’OMC.

Oltre alla liberalizzazione del commercio con questi gruppi di paesi ACP, i futuri accordi regionali dovrebbero promuovere gli investimenti e la cooperazione fra gli stessi paesi ACP.

All’azione di sostegno per l’integrazione regionale, determinante soprattutto in Africa per la configurazione del nuovo partenariato, il Protocollo finanziario, allegato all’Accordo, destina 1,3 miliardi di Euro per cinque anni.

Per i paesi ACP che non fossero rientrati nella categoria dei paesi meno avanzati (PMA) e che non fossero stati in grado di aderire agli APER, la Comunità economica europea avrebbe esaminato tutte le alternative possibili per offrire loro un nuovo quadro commerciale, equivalente alle condizioni esistenti e conforme alle regole dell’OMC.

I 39 paesi del gruppo ACP, qualificati come PMA, beneficiano di un trattamento particolarmente favorevole: l’accesso in esenzione doganale per quasi tutti i prodotti originari di questi paesi. A vantaggio delle esportazioni dei PMA sono previsti anche una semplificazione e un riesame del regime delle regole di origine e delle norme sul cumulo dell’origine.

La cooperazione in materia commerciale si estende anche a temi quali la concorrenza, la tutela della proprietà intellettuale, i servizi, gli standard tecnici e le misure sanitarie e fitosanitarie, l’ambiente, gli scambi e le norme sul lavoro, la politica dei consumatori.

I principali strumenti finanziari della cooperazione sono il Fondo europeo di sviluppo (FES) e i crediti della Banca europea per gli investimenti (BEI); è inoltre previsto il cofinanziamento con le istituzioni finanziarie internazionali e con gli Stati membri. La definizione degli interventi avviene in collaborazione con i paesi ACP con un nuovo sistema di programmazione che prevede un riesame delle allocazioni di fondi sulla base dei risultati conseguiti. Sono previsti interventi a sostegno delle riforme strutturali e settoriali e per mitigare gli effetti sociali di tali riforme.

Rispetto al passato, il nuovo sistema di programmazione degli aiuti concessi dalla Comunità conferisce maggiore flessibilità al partenariato e responsabilità agli Stati ACP, in particolare introducendo un sistema di programmazione evolutiva che abolisce la distinzione tra aiuti programmabili e aiuti non programmabili (aiuti, questi ultimi, programmati unilateralmente dalla Comunità senza un precedente dialogo e previo accordo con il paese ACP interessato). Infatti, gli Stati ACP sono investiti di maggiori responsabilità nella definizione degli obiettivi, delle strategie e degli interventi e nella gestione e nella selezione dei programmi. Soprattutto, il processo di programmazione si basa sui risultati. Gli aiuti finanziari d’importo fisso non sono più un diritto automatico. Gli aiuti non rimborsabili vengono assegnati in base a una valutazione delle necessità e delle prestazioni basata su criteri negoziati fra gli Stati ACP e la Comunità. Tali criteri riflettono gli obiettivi principali del partenariato, come ad esempio la riduzione della povertà.

Il principale strumento della programmazione degli aiuti non rimborsabili è la strategia di cooperazione nazionale (SCN), elaborata per ciascuno Stato ACP dalla Commissione e dallo Stato stesso. Tale strategia stabilisce un orientamento generale per l’impiego degli aiuti e viene completata da un programma indicativo operativo contenente le operazioni concrete con relativo calendario per l’esecuzione. È stato introdotto un meccanismo di esame annuo per modificare la SCN, il programma operativo o le risorse concesse.

Anche i programmi regionali sono soggetti a un sistema di programmazione evolutiva che si basa sulle stesse componenti.

Il quadro del nuovo partenariato intende superare il tradizionale approccio fondato sugli aiuti ai progetti e sulle preferenze commerciali, per puntare a un rafforzamento della capacità di offerta dei paesi ACP in termini qualitativi e quantitativi. Non sono stati prorogati gli strumenti System for the stabilisation of ACP and OCT export earnings (STABEX) e System of stabilization of export earnings from mining products (SYSMIN) delle Convenzioni di Lomé, ma è stato previsto un sostegno supplementare in caso di fluttuazione dei proventi delle esportazioni. In tale ottica si prevede un sostegno ampliato e rafforzato agli investimenti e allo sviluppo del settore privato, anche attraverso interventi volti a promuovere il settore finanziario e bancario. Particolare cura è rivolta ai servizi finanziari alle microimprese. Si attribuisce inoltre priorità all’accesso ai servizi di base per tutti, all’istruzione e alla formazione, nonché allo sviluppo di infrastrutture informatiche e per le comunicazioni.

Il nuovo accordo di Cotonou, in sintonia con gli orientamenti più recenti prevalenti a livello internazionale, dedica molto spazio (l’intero capitolo 7) allo sviluppo del settore privato e degli investimenti. Il partenariato non è più limitato agli Stati membri, ma coinvolge tanti soggetti come la società civile, gli enti locali, il settore privato dei paesi ACP e dell’Unione europea.

Investimenti e sviluppo del settore privato formano anche oggetto di un corpo organico di disposizioni (artt. 74-78) fra le quali assumono rilievo quelle che prevedono la fornitura di risorse finanziarie a lungo termine per promuovere la crescita del settore privato e quelle relative a fondi e programmi di garanzia per l’assicurazione contro rischi legati agli investimenti.

I testi dettagliati relativi agli obiettivi e alle strategie di cooperazione allo sviluppo, in particolare le politiche e le strategie settoriali, sono inseriti in un compendio contenente gli orientamenti operativi per i campi o i settori di cooperazione specifici.

La quota di partecipazione degli Stati membri al FES si basa in parte sul prodotto nazionale lordo (PNL) e in parte sulle responsabilità storiche (coloniali) nei confronti degli ACP. Visto che il FES non è iscritto all’interno del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) (in termini tecnici, non è budgetizzato), non è soggetto al principio dell’annualità: il fondo dovrebbe in teoria avere un orizzonte decennale, ma non sempre questo è vero e solitamente il contributo effettivo al fondo è ritardato.

Il livello di risorse per il IX FES (2000-2005) è stato pari a 13,5 miliardi di euro, cui si sono sommati 10 miliardi di euro previsti nei precedenti FES e non erogati. Il Protocollo finanziario allegato all’Accordo (allegato I) indicava le allocazioni di fondi del IX FES a favore dei diversi strumenti di cooperazione prevedendo, in particolare, che 10 miliardi di euro fossero riservati come sovvenzioni (a dono) al sostegno dello sviluppo a lungo termine; 1,3 miliardi di euro come sovvenzioni per il sostegno alla cooperazione e all’integrazione regionale degli Stati ACP; 2,2 miliardi di euro fossero destinati alla investment facility. L’Italia vi ha contribuito per il 12,54%.

A ciò si sono aggiunti, nello stesso periodo, gli interventi della BEI, pari a 1,7 miliardi di euro, in forma di prestiti concessi sulle proprie risorse. Si trattava di una ripartizione strategica perché riservava somme importanti all’integrazione regionale e alla nuova facility per gli investimenti. La BEI gestisce i prestiti concessi sulle sue risorse unitamente alle operazioni finanziate sul Fondo europeo per gli investimenti, le restanti risorse sono amministrate dalla Commissione.

Dal 1° marzo 2005, un quadro finanziario di cooperazione pluriennale copre gli importi degli impegni che cominciano il 1° gennaio 2008 per un periodo di cinque o sei anni. Per il nuovo periodo, l’Unione europea intende mantenere gli aiuti almeno allo stesso livello del IX FES, rimanenze escluse, cui occorre aggiungere gli effetti dell’inflazione, della crescita nell’ambito dell’UE e del suo Allargamento a venticinque (2004) e ventisette (2007) Stati membri.

Due organismi sono destinati a fornire assistenza alle società e alle imprese e a promuovere l’agricoltura e lo sviluppo rurale: il Centro per lo sviluppo delle imprese (CSI) e il Centro tecnico per l’agricoltura e la cooperazione rurale (CTA).

L’attività di programmazione del IX FES avviene attraverso la definizione di appositi documenti di strategia (Country strategy paper, CSP) la cui preparazione si svolge a Bruxelles. I documenti sono approvati dal Comitato FES.

In conformità con quanto previsto dalla specifica clausola dell’Accordo (all’articolo 95), la prima revisione quinquennale è stata negoziata tra il maggio 2004 e il febbraio 2005. Obiettivo specifico di questo processo di revisione è stato quello di migliorare efficacia e qualità del partenariato, eccetto per quanto riguarda le disposizioni in materia di cooperazione economica e commerciale non oggetto di revisione quinquennale.

In particolare, il nuovo accordo riveduto riflette i nuovi orientamenti internazionali e dell’Unione europea, a seguito delle trasformazioni avvenute dopo l’11 settembre 2001, e abbraccia una gamma di temi nuovi, contemplando una disposizione volta a potenziare il dialogo politico e riferimenti alla lotta contro il terrorismo, alla cooperazione in materia di lotta contro le armi di distruzione di massa e al tribunale penale internazionale (TPI).

In materia di strategie di sviluppo, invece, sono stati esplicitamente inseriti nuovi elementi quali gli “Obiettivi del millennio per lo sviluppo” e lo sviluppo delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

Sul piano finanziario, da un lato è stata dedicata attenzione al fondo investimenti a favore dei paesi ACP, gestito dalla Banca europea per gli investimenti; da un altro lato, si sono riviste le procedure di attuazione e di gestione, grazie a una semplificazione di tali procedure e all’introduzione, in particolare, di una maggiore flessibilità nella destinazione delle risorse. Non è stato precisato nei dettagli il nuovo quadro finanziario pluriennale. A questo proposito, l’Unione si è impegnata a mantenere la sua politica di assistenza ai paesi ACP a un livello almeno equivalente a quello convenuto per i primi cinque anni di applicazione dell’accordo di Cotonou.

Marco Zupi (2005)




Accordo Generale sulle Tariffe e il Commercio

Il commercio internazionale avrebbe dovuto originariamente essere disciplinato dalla Carta dell’Avana, firmata il 24 marzo del 1948, la quale prevedeva l’istituzione dell’International trade organization (ITO). Tale Organizzazione avrebbe dovuto costituire, con il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale, un sistema giuridico organico per la regolamentazione delle relazioni economiche internazionali postbelliche.

La Carta dell’Avana, tuttavia, non entrò mai in vigore, a causa, principalmente, del venir meno del sostegno statunitense, rendendo di fatto l’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (General agreement on tariffs and trade, GATT) l’unico strumento di disciplina giuridica multilaterale della cooperazione commerciale tra gli Stati nel secondo dopoguerra. Il GATT, firmato a Ginevra il 30 ottobre del 1947, era il frutto di negoziati paralleli avviati, su iniziativa degli Stati Uniti, dagli Stati partecipanti alla Conferenza dell’Avana per una riduzione degli ostacoli al commercio internazionale. Secondo l’art. XXVI, l’Accordo sarebbe entrato in vigore dopo la ratifica da parte degli Stati rappresentanti l’85% del commercio estero complessivo dei paesi firmatari; tuttavia, sulla base di un protocollo ad hoc, si convenne di dare attuazione provvisoria al GATT a partire dal 1° gennaio 1948.

L’Accordo era stato concepito dagli Stati firmatari come un sistema temporaneo, in attesa dell’istituzione dell’ITO e di una più strutturata disciplina degli scambi internazionali. Quindi, non dovendo condurre all’istituzione di un’organizzazione internazionale, ma meramente avviare la liberalizzazione del commercio internazionale prima dell’entrata in vigore della Carta dell’Avana, l’Accordo non prevedeva un apparato istituzionale e le poche norme in materia presenti avevano un contenuto limitato. Originariamente non esisteva neanche un Segretariato: vi era solo una Commissione ad interim, la Commissione interinale dell’ITO, che sarebbe divenuta, in seguito, il Segretariato di fatto del GATT. L’unico organo espressamente previsto dall’Accordo erano le “parti contraenti”, che operavano piuttosto come una “conferenza di Stati” con la partecipazione di tutti i paesi aderenti al GATT, senza alcun carattere di stabilità. Secondo l’art. XXV, le parti contraenti erano tenute a riunirsi periodicamente per assicurare l’esecuzione delle norme dell’Accordo che richiedevano un’azione congiunta e, in generale, per facilitare l’applicazione e la realizzazione dei suoi obiettivi.

Negli anni si è assistito a uno sviluppo della struttura iniziale, con l’istituzione, nel 1960, del Consiglio dei rappresentanti, organo decisionale che si riuniva nel periodo intercorrente tra le riunioni delle parti contraenti. Sono stati creati, inoltre, vari comitati e gruppi di lavoro, e istituito un Segretariato con un direttore generale.

A causa dell’originaria assenza di un apparato istituzionale, l’azione del GATT si è svolta essenzialmente attraverso i cosiddetti rounds, cicli di negoziati che hanno condotto, tramite la conclusione di nuovi accordi, a una progressiva liberalizzazione degli scambi commerciali, in particolare attraverso la riduzione delle tariffe doganali. Complessivamente vi sono stati otto rounds: i primi cinque volti quasi esclusivamente alla riduzione dei dazi doganali e di imposizioni di altro tipo sulle importazioni ed esportazioni; i successivi concentrati anche sulle barriere non tariffarie al commercio. Tra i vari negoziati i più noti sono il Kennedy round (1964-1967) (v. anche Kennedy, John Fitzgerald), che ha regolamentato le sovvenzioni pubbliche alle imprese e il dumping, e il Tokyo round (1973-1979), che ha portato all’adozione di accordi (i cosiddetti “Codici”) in materia di pratiche relative al dumping, sovvenzioni pubbliche alle imprese, fornitura di merci alle pubbliche amministrazioni, valutazione del valore delle merci in dogana, ostacoli tecnici e licenze di importazione, oltre che di Codici settoriali in materia di aeromobili civili, prodotti lattiero-caseari, carni bovine. Il round più importante è stato però l’Uruguay round (1986-1994), i cui negoziati, conclusi con l’accordo di Marrakech del 15 aprile 1994, hanno condotto a una radicale riforma della regolamentazione degli scambi internazionali, nonché all’istituzione dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC). Il passaggio dal regime giuridico del GATT a quello dell’OMC è stato regolato da alcune decisioni adottate dalle parti contraenti nel dicembre 1994, in occasione della Implementation conference, secondo le quali il GATT del 1947 avrebbe dovuto estinguersi entro un anno dall’entrata in vigore dell’Accordo OMC; tra i due sistemi si è mantenuto, tuttavia, un nesso di continuità, in particolare attraverso il GATT 1994, che è comprensivo del GATT 1947 e delle sue successive integrazioni (a eccezione del Protocollo sull’applicazione provvisoria).

Principio cardine del GATT è l’obbligo di non discriminazione, in virtù del quale le parti sono tenute, in primo luogo, ad accordare automaticamente a tutte le altre parti il trattamento più favorevole concesso a una di esse in materia di dazi doganali o altre imposizioni alle importazioni e alle esportazioni (cosiddetto trattamento generalizzato della nazione più favorita, art. I, par. 1). Inoltre, esse sono obbligate a garantire, in materia di imposizioni fiscali (o di altro genere) e regolamentazioni interne, la parità di trattamento tra i prodotti importati e quelli nazionali (cosiddetto trattamento nazionale, art. III). Altro principio basilare è il divieto di ricorrere a restrizioni non tariffarie e quantitative all’importazione e all’esportazione (art. XI); sono presenti, infine, disposizioni in materia di dumping (art. VI) e sovvenzioni governative (artt. VI e XVI).

Deroghe al regime generale sono state ammesse in presenza di realtà economiche particolari. L’art. XXIV dell’Accordo, ad esempio, consente espressamente la formazione, tra le parti contraenti, di unioni doganali e zone di libero scambio, purché volte alla riduzione degli ostacoli al commercio esistenti e non a introdurre barriere al commercio con le altre parti contraenti. Per quanto riguarda in particolare la Comunità europea (CE), varie situazioni conflittuali sono state risolte tramite negoziati avvenuti in applicazione del GATT; le parti dell’Accordo generale si sono pronunciate via via su singole questioni, senza però mai dichiarare la piena conformità del Trattato CE al GATT. A livello comunitario, l’obbligo per gli Stati membri di rispettare le norme GATT è stato riconosciuto dalla Corte di giustizia, che, tuttavia, ha svuotato di valore pratico tale affermazione nel dichiarare le suddette norme flessibili e programmatiche, e pertanto non invocabili dai cittadini degli Stati membri. Deroghe sono poi previste a favore dei paesi in via di sviluppo (PVS), ai quali è consentito applicare restrizioni quantitative per esigenze di sviluppo economico (art. XVIII).

Il sistema di soluzione delle controversie originariamente previsto era assai poco articolato. Le procedure potevano essere avviate nel caso in cui una parte ritenesse che un proprio vantaggio, derivante dall’Accordo, fosse stato annullato o compresso, o che la realizzazione di uno degli obiettivi del GATT fosse stata impedita dal comportamento, lecito o illecito, dell’altra parte contraente, o da un’altra situazione. Il sistema originario (artt. XXII e XXIII) contemplava una fase preliminare, in cui vi erano consultazioni tra le parti interessate; nel caso in cui queste fossero fallite, intervenivano le parti contraenti, organo a composizione plenaria di natura politica e non tecnica. Procedure più dettagliate sono state introdotte dalla prassi e da decisioni delle stesse parti contraenti, in virtù delle quali, se le consultazioni bilaterali non avessero risolto la controversia, sarebbe intervenuto il Consiglio dei rappresentanti per l’istituzione di un panel di esperti, l’adozione di un giudizio sulla liceità della condotta contestata e l’eventuale autorizzazione alla parte lesa a sospendere l’applicazione di qualsiasi concessione o altro obbligo derivante dall’Accordo nei confronti della parte responsabile. Il principale limite di tale sistema risiedeva nella procedura seguita per l’adozione delle decisioni tramite cui il Consiglio dei rappresentanti si pronunciava sull’istituzione del panel, l’approvazione del suo rapporto, l’autorizzazione alla sospensione di concessioni o di altri obblighi, che richiedeva il consenso di tutte le parti, anche di quella soccombente. Tale sistema è stato completamente superato dal nuovo regime previsto dai negoziati dell’Uruguay round.

Maria Rosaria Mauro (2012) 




Acheson, Dean Gooderham

Avvocato, diplomatico e uomo politico statunitense, A. (Middletown, Connecticut 1893-Harewood, Maryland 1971), figlio del vescovo della Chiesa episcopale del Connecticut, frequentò la scuola privata di Groton, si laureò a Yale nel 1915 e alla Harvard Law School nel 1918. Ufficiale di Marina per un breve periodo durante la Prima guerra mondiale, divenne segretario di Louis D. Brandeis, giudice della Corte suprema. A partire dal 1921 entrò nello studio legale Covington and Burling e, da allora e per circa cinquant’anni, divise la sua vita pubblica tra la professione forense e la politica. Roosevelt (v. Roosevelt, Franklin Delano) lo nominò sottosegretario al Tesoro nel 1933, ma A. si dimise nel giro di sei mesi, in polemica con alcune misure finanziarie decise dal Presidente. Tornò a occuparsi degli affari pubblici solo nel 1939, entrando nel Committee to defend America by aiding the Allies e battendosi per l’intervento in guerra degli Stati Uniti al fianco del Regno Unito contro la Germania hitleriana. Contribuì a tal fine a stilare il dispositivo legale necessario per la sottoscrizione dell’accordo con Londra per lo scambio tra concessioni a Washington di basi britanniche e cacciatorpediniere statunitensi da assegnare alla Marina britannica.

Roosevelt lo coinvolse di nuovo nell’amministrazione come segretario di Stato assistente, prima per gli affari economici, carica che coprì sotto Cordell Hull dal febbraio 1941 al novembre 1944, poi per le relazioni con il Congresso e le conferenze internazionali, sotto Edward R. Stettinius e James F. Byrnes, fino all’agosto 1945. In quegli anni seguì con attenzione la realizzazione del programma di aiuti collegato alla Legge affitti e prestiti, tenendo i necessari contatti politici e operativi con il Congresso e offrendo un contributo decisivo per la costruzione di alcuni pilastri della politica economica internazionale degli Stati Uniti nel periodo bellico e postbellico: l’United Nations relief and rehabilitation administration (UNRRA), la Banca mondiale, il Fondo monetario internazionale e la Food and agriculture organization (FAO). Sebbene la Carta delle Nazioni Unite non lo convincesse appieno, A. si adoperò per indurre il Congresso ad appoggiare anche quel progetto. Fondamentale per la futura politica estera statunitense fu la sua persuasione che Washington dovesse garantire la pace mondiale attraverso l’aiuto alla ricostruzione economica dell’Europa, devastata dalla guerra. Oppositore dell’internazionalismo idealistico wilsoniano, persuaso che l’esercizio del potere non potesse che collegarsi a pragmatiche assunzioni di responsabilità, nel corso del conflitto A. definì la sua percezione dei rapporti internazionali in termini di politica di potenza. Quando, nel dopoguerra, si lanciò in una crociata contro l’espansione mondiale del comunismo, non esitò tuttavia a ricorrere anche a forme di retorica ideologica e moralistica per raggiungere gli obiettivi che riteneva prioritari per la politica statunitense.

Sottosegretario di Stato nel periodo 1945-47, poi segretario di Stato dal 1949 al 1953, A. fu uno dei principali collaboratori di Truman (v. Truman, Harry Spencer), di cui contribuì a forgiare la politica estera negli anni cruciali segnati prima dall’innesco della Guerra fredda e poi dall’apice della tensione tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, con la rottura completa dell’intesa raggiunta durante il conflitto mondiale. Come sottosegretario, prestandosi con grande abilità a mediare le tensioni tra il presidente e il segretario di Stato Byrnes, e assumendosi gran parte delle responsabilità connesse alla conduzione operativa del Dipartimento, A. riuscì a creare una relazione di profonda fiducia e cooperazione reciproca con Truman, basata in particolare sulla convinzione di entrambi che occorresse negoziare con i sovietici da posizioni di forza e contenerne la spinta espansionistica, sfruttando un asse privilegiato di proiezione internazionale verso l’Europa occidentale. Unico punto di parziale divergenza tra i due fu la politica da adottare verso lo Stato di Israele, che Truman volle riconoscere senza indugi mentre A. avrebbe preferito al principio un atteggiamento di maggiore equidistanza, per potenziare le relazioni con i Paesi arabi.

Fondamentale fu l’influenza di A. anche nella formulazione della politica nucleare statunitense. In chiara opposizione a quanti, come lo stesso Byrnes e il segretario alla Marina, James V. Forrestal, ritenevano che Washington dovesse approfittare del monopolio atomico per obbligare i sovietici al negoziato nelle principali questioni internazionali, A. si schierò con chi, come Henry L. Stimson, segretario alla Guerra dal 1940 al 1945, riteneva invece che tale monopolio non sarebbe durato a lungo e propendeva quindi per la creazione di un organismo internazionale per il controllo delle risorse mondiali di uranio, che potesse ostacolare lo sviluppo di una capacità atomica sovietica e, per quanto possibile, scongiurare il pericolo di una successiva corsa agli armamenti. Il 28 marzo 1946, una commissione ad hoc, presieduta da A. e formata, tra gli altri consulenti, anche da David E. Lilienthal, presidente della Tennessee Valley Authority, e dal noto scienziato J. Robert Oppenheimer, pubblicò un rapporto sul controllo internazionale dell’energia atomica, l’A.-Lilienthal Report, incentrato sulla proposta di creazione di una Atomic development authority. Inoltrato a Byrnes, il rapporto venne modificato da Bernard M. Baruch, delegato statunitense nella Commissione delle Nazioni Unite per l’energia atomica, che volle inserirvi, prima di presentarlo, una clausola per impedire che i membri del Consiglio di sicurezza esercitassero il diritto di veto sulle questioni atomiche. A. si oppose all’idea, convinto che Mosca avrebbe respinto di conseguenza l’intero progetto, come infatti avvenne in giugno. Quando poi, nel settembre 1949, i sovietici realizzarono con successo il primo esperimento atomico, A. si adoperò per il lancio di un programma per l’acquisizione della bomba all’idrogeno.

Incline, nei primi mesi da sottosegretario, a continuare gli sforzi compiuti da Roosevelt durante la guerra per garantire la collaborazione con Mosca, A. registrò con preoccupazione crescente le mosse dei sovietici nell’Europa centrorientale, in Grecia, in Turchia e in Iran. Nella primavera del 1946 era ormai persuaso, al pari di George F. Kennan, che occorresse controbilanciarle, ponendo in atto una politica di fermezza e contenimento. Dal punto di vista di A., assai meno sfumato di quello di Kennan, Mosca puntava con evidenza a forme di dominio globale: non la tolleranza statunitense in sede di negoziato, ma solo una chiara posizione di forza militare avrebbe potuto frenare il suo espansionismo. In base a queste convinzioni, negli ultimi sei mesi da sottosegretario, dopo che Truman ebbe nominato come nuovo segretario di Stato George C. Marshall (v. Marshall, George Catlett) – una figura di grande prestigio interno e internazionale, capace di controllare la politica estera anche delegandone con intelligenza l’elaborazione a chi, come A., aveva acquisito esperienza preziosa negli anni precedenti – A. continuò a svolgere una funzione essenziale nella definizione e nella gestione delle principali questioni attinenti alla proiezione globale degli Stati Uniti. Si adoperò per convincere la Casa Bianca e il Congresso della necessità di fondare la politica estera sul rafforzamento delle relazioni economiche, politiche e militari con l’Europa occidentale, in modo tale da sottrarla alle ambizioni dell’Unione Sovietica. Fu dunque tra i principali promotori della dottrina Truman, enunciata il 12 marzo 1947, e, in un memorandum inoltrato al presidente il 5 marzo, poi modificato nel dibattito interno all’amministrazione e confluito in un discorso pronunciato in Mississippi l’8 maggio, elaborò alcune linee di fondo del piano che Marshall, smorzandone alcuni toni, ma approvandone la sostanza, avrebbe poi annunciato a Harvard nel noto discorso del 5 giugno. In luglio, passate le consegne al suo successore, Robert A. Lovett, A. tornò ancora una volta alla professione legale ma mantenne la carica di vicepresidente nella commissione Hoover, incaricata di proporre alcune riforme della pubblica amministrazione, e continuò ad adoperarsi per la realizzazione del Piano Marshall.

Nel novembre 1948, Truman gli propose la nomina a segretario di Stato. A. assunse formalmente la carica il 21 gennaio 1949 e la conservò fino al termine dell’amministrazione democratica, nel 1953. Alla guida del Dipartimento di Stato, si impegnò a fondo per dare continuità alle scelte compiute in Europa dall’amministrazione, favorendo via via la nascita dell’Alleanza atlantica, la costituzione e il riarmo della Repubblica Federale Tedesca, la sua adesione prima al progetto della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) e poi a quello della Comunità europea di difesa (CED), e la completa trasformazione del Patto atlantico nell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), cioè in un’organizzazione tale da garantire l’indispensabile partecipazione statunitense a un esercito permanente in tempo di pace nell’Europa occidentale. Accusato di eccessivo eurocentrismo e di aver sottovalutato anche per tale motivo le conseguenze di una vittoria comunista nella guerra civile cinese, A. subì pesanti attacchi politici quando il conflitto si concluse con la proclamazione della Repubblica popolare, nell’ottobre 1949, e con la sconfitta di Chang Kai-Shek, che si rifugiò a Taiwan con le massime autorità nazionaliste alla fine dell’anno. In un discorso dedicato alle future responsabilità statunitensi in Asia, pronunciato nel gennaio 1950 al National press club di Washington, A. dichiarò tuttavia che l’amministrazione non era intenzionata a coprire tutto il Pacifico da attacchi militari e non citò la Corea del Sud come parte del perimetro di difesa previsto, confermando un atteggiamento ambiguo nei confronti del governo di Syngman Rhee. Sei mesi dopo, quando le truppe della Corea del Nord entrarono nella parte meridionale della penisola, i critici di A. sostennero che quell’omissione nel discorso doveva essere stata interpretata come un invito implicito all’invasione.

Nell’estate del 1949, mentre crollava la resistenza della Cina nazionalista, i sovietici avevano infranto il monopolio statunitense, facendo esplodere un ordigno nucleare. Truman annunciò l’evento in settembre e, il 31 gennaio 1950, dichiarò che gli Stati Uniti avrebbero sviluppato la bomba all’idrogeno. Per aggiornare la politica estera e di sicurezza statunitense di fronte alle nuove minacce, A. dispose la preparazione di alcuni studi che confluirono poi nella risoluzione 68 approvata in aprile dal National security council (NSC). Ispirato soprattutto da Paul H. Nitze, successore di Kennan alla guida del Policy planning staff, il documento lanciava l’allarme rispetto alla “sfida mortale” costituita dall’Unione Sovietica e dai suoi progetti di dominio mondiale e sottolineava l’urgenza di una reazione organica a tutto campo: ideologica, politica, economica e militare. La risoluzione riteneva tra l’altro necessario che gli Stati Uniti destinassero alle spese militari il 20% del prodotto nazionale lordo. A. si trovò esposto alle critiche, anche all’interno dell’amministrazione, di coloro che ritenevano tali misure troppo incentrate sul concetto di superiorità militare e destinate a esacerbare lo scontro con Mosca. Lo stesso Truman esitò all’inizio rispetto alla possibilità di adottarle e A., per tutto il 1950 («l’anno in cui iniziò la mia immolazione al Senato», come scrisse nelle sue memorie), si adoperò per convincere gli oppositori e l’opinione pubblica della fondatezza della risoluzione NSC-68. La necessità di finanziare la guerra di Corea, peraltro, avrebbe presto agevolato l’introduzione delle raccomandazioni finanziarie suggerite dal documento: le spese militari statunitensi superarono i 22 miliardi di dollari già nel bilancio del 1951, raggiunsero i 44 miliardi l’anno successivo e culminarono nel 1953 a più di 50 miliardi.

Quando le truppe nordcoreane invasero la Corea meridionale, oltrepassando il 25 giugno il 38° parallelo, A. dichiarò che Washington avrebbe dovuto impegnarsi in guerra per difenderla e salvarla, anche per dimostrare ai paesi dell’Europa occidentale che gli Stati Uniti sarebbero davvero corsi in loro aiuto in circostanze analoghe, rispettando gli impegni assunti con l’Alleanza atlantica. Truman dispose subito l’invio di truppe e l’intervento trovò presto collocazione all’interno di un’operazione delle Nazioni Unite, che il Consiglio di sicurezza pose sotto il comando del generale Douglas MacArthur. I successi militari conseguiti grazie alla sua brillante conduzione della guerra lasciarono intravedere a fine settembre la possibilità di applicare le raccomandazioni dell’ONU per la riunificazione delle due Coree. A. riteneva che il momento fosse propizio, sottovalutando, al pari di Truman e di MacArthur, la possibilità che la Cina popolare entrasse nel conflitto. Parte dell’opinione conservatrice statunitense, sostenuta anche dagli sforzi della cosiddetta China lobby, era attratta addirittura dalla possibilità di rovesciare in toto la situazione del 1949, con un tentativo di sbarco di Chang sul continente, appoggiato da Washington. A metà ottobre, reparti di “volontari” della Cina popolare cominciarono però a concentrarsi nella Corea del Nord e il conflitto entrò in una fase critica. Alla fine di novembre aumentarono le pressioni di MacArthur perché si concedesse alle forze dell’ONU di varcare il fiume Yalu, che segnava il confine tra Cina e Corea. L’alleanza sino-sovietica rendeva molto pericolosa l’estensione del conflitto: quando il generale, nel marzo 1951, compì alcuni gesti di insubordinazione, Truman lo destituì, pagando un prezzo politico molto alto, dati il prestigio e la grande popolarità di MacArthur.

Poco prima dell’apertura delle ostilità in Corea, il 4 giugno 1950, A. aveva inviato chiare disposizioni alle ambasciate degli Stati Uniti in Europa, sottolineando come Washington attribuisse la massima importanza alla dichiarazione solenne rilasciata il 9 maggio, a nome del governo di Parigi, dal ministro degli Esteri Schuman (v. Schuman, Robert), in merito a una durevole riconciliazione franco-tedesca, mediata dalla condivisione delle risorse di carbone e acciaio, nell’ambito di una nuova organizzazione aperta all’adesione di tutti i paesi europei (v. Piano Schuman). Il piano, ispirato da Jean Monnet e destinato a sfociare in breve nella CECA, era stato presentato in anticipo, il giorno 7, da Schuman ad A. e all’ambasciatore David K. Bruce, che contribuì a guadagnare il favore degli Stati Uniti al progetto e, più in generale, ai vantaggi complessivi della costruzione europea dal punto di vista americano. A., legato a Monnet da una solida relazione di collaborazione e stima reciproca costruita negli anni di guerra, in particolare nel contesto dell’UNRRA, reagì con cautela, non sottovalutando le valenze negative del progetto francese nel medio e nel lungo termine, quali ad esempio la possibile costituzione di un grande cartello del carbone e dell’acciaio o di un’Europa non allineata, incline a definirsi come “terza forza” e dunque a sganciarsi dalla tutela statunitense per salvaguardare i propri interessi, magari anche in contrapposizione con quelli americani. Intravide, però, anche gli indubbi vantaggi del progetto – in termini di composizione del conflitto franco-tedesco, integrazione della Germania nell’Occidente, aggregazione delle forze economiche e politiche degli Alleati euroccidentali in funzione di contenimento della spinta sovietica – e ne agevolò la realizzazione. La necessità di non guastare le relazioni con la Gran Bretagna, che rese pubblica l’intenzione di non aderire al piano, consigliò però prudenza e l’amministrazione statunitense seguì i negoziati tra i Sei (Francia, Germania federale, Italia e i tre paesi del Benelux) in modo discreto, non esitando comunque a intervenire in alcuni casi per facilitare le trattative.

Ben diverso, almeno in prima battuta, fu l’atteggiamento di A., favorevole al collegamento diretto tra il riarmo e l’inserimento della Germania federale nella NATO, rispetto al cosiddetto Piano Pleven, anch’esso d’ispirazione monnetiana, avanzato nell’ottobre 1950 dal governo francese per la creazione di una difesa integrata all’interno di una nuova Comunità europea: «costernazione e sconforto», tanto per lui quanto per Marshall e per Truman, di fronte a un progetto ritenuto «irrealizzabile», come lo avrebbe definito A. nelle sue memorie. A partire dal Consiglio atlantico tenuto a Bruxelles in dicembre, si decise pertanto di considerare in modo separato il tema del riarmo tedesco, la costituzione di un esercito europeo nella CED e l’organizzazione di un esercito atlantico. Mentre quest’ultimo decollava rapidamente, il governo di Londra dichiarò che non avrebbe interferito con i negoziati per la CED e gli Stati Uniti si dichiararono favorevoli al loro avvio. Solo nell’estate del 1951, tuttavia, il governo di Washington si impegnò più a fondo per il successo delle trattative, grazie all’interesse tributato all’iniziativa, tra gli altri, da A. e da Bruce, così come da John J. McCloy, Alto commissario per la Germania, amico e fondamentale alleato di Monnet nella sua lotta per l’unità europea, da W. Averell Harriman, da poco nominato da Truman assistente speciale per la sicurezza nazionale, e dal generale Eisenhower (v. Eisenhower, Dwight David), comandante in capo delle forze atlantiche in Europa, che lo stesso Monnet aveva indotto a pronunciare un chiaro discorso sull’opportunità di una costruzione federale nel continente (v. anche Federalismo). Firmato dai governi dei sei paesi membri della CECA nel maggio 1952, il trattato istitutivo della CED incontrò il pieno favore della nuova amministrazione repubblicana, presieduta dallo stesso Eisenhower, ma non avrebbe poi superato la fase di ratifica, due anni dopo. Nel dicembre 1952, quando partecipò a Parigi alla riunione del Consiglio atlantico, per l’ultima volta come segretario di Stato, A. espresse a Monnet l’opinione che in Europa, nonostante i grandi progressi compiuti dagli Stati Uniti per cooperare anche con le iniziative partite dagli alleati, si fosse perso ormai lo slancio. Solo se, viceversa, gli Europei si fossero dimostrati capaci di costruire una «comunità unita dal punto di vista politico e forte sotto il profilo economico e militare», gli americani avrebbero potuto continuare a impegnarsi oltreoceano come negli ultimi sei anni: proprio perché quella comunità essi «avrebbero potuto e voluto sostenere come un punto centrale della loro politica estera».

Le vicende e le difficoltà create dalle questioni asiatiche nei rapporti tra il Congresso e il Presidente avevano contribuito a portare A. al centro della crociata anticomunista promossa da Joseph R. McCarthy. Quando tentò di proteggere alcuni diplomatici e funzionari del Dipartimento di Stato che il senatore repubblicano aveva definito in pubblico comunisti o simpatizzanti del comunismo, accusandoli di aver reso di proposito inefficace la strategia asiatica del Segretario, A. si espose a un attacco frontale, volto ad accollargli la responsabilità della “perdita della Cina” e a ottenere – invano – che Truman lo privasse dell’incarico. Nel gennaio 1953, quando ancora infuriavano le iniziative di McCarthy, A. lasciò dunque il Dipartimento mentre la sua figura era bersaglio di polemiche sulla conduzione della politica asiatica sotto l’amministrazione Truman. Tornato a esercitare la professione legale, non abbandonò l’attività politica e, durante i due mandati del presidente repubblicano Eisenhower, criticò apertamente la politica estera del segretario di Stato, John Foster Dulles. Dal 1957 al 1960, l’anno in cui i democratici riconquistarono la Casa Bianca, fu presidente della Commissione affari esteri del partito.

Negli anni Sessanta, A. intrattenne importanti rapporti di collaborazione con il governo, prima con John F. Kennedy (1961-63), di cui contribuì a elaborare soprattutto la politica europea, poi con Lyndon B. Johnson (1963-68). Agevolando con efficacia l’azione di Monnet, del sottosegretario di Stato Ball (v. Ball, George Wildman), e di altri elementi dell’amministrazione sensibili ai temi dell’integrazione – o, per alcuni, della costruzione federale – europea o atlantica, fu tra gli ispiratori del discorso pronunciato da Kennedy a Filadelfia il 4 luglio 1962, in vista del lancio della nuova partnership atlantica. Nominato membro del Comitato esecutivo del NSC che il Presidente creò in ottobre per gestire la crisi dei missili, A. raccomandò l’opzione di un attacco aereo alle basi sovietiche nell’isola, ma il Presidente preferì la soluzione del blocco navale e inviò A. in missione nelle principali capitali europee per informare gli alleati delle decisioni assunte dalla Casa Bianca e per sollecitarli a manifestare la loro solidarietà. Nella questione vietnamita, A. favorì nei primi anni l’intervento, schierandosi con i cosiddetti “falchi” dell’amministrazione. Per ottenere la piena cooperazione del governo francese alla politica europea degli Stati Uniti nel 1950, infatti, egli aveva cominciato ad appoggiarne la politica indocinese di scontro con il Vietnam a partire dalla primavera di quell’anno, dapprima con qualche esitazione, poi con crescente intensità dopo lo scoppio della guerra in Corea. Quando però Ball, nell’aprile 1965, chiese il suo aiuto per rielaborare e firmare insieme un memorandum da sottoporre a Johnson in vista di una soluzione politica del conflitto, A. accettò. Il piano fu discusso in maggio con lui e con Ball dal Presidente, dal segretario di Stato Dean Rusk e dal segretario alla Difesa Robert S. McNamara, ma venne scartato. Consultato ancora da Johnson nel 1968, A. gli suggerì di procedere al ritiro appena possibile, per evitare che la presidenza perdesse del tutto il consenso interno. Il consiglio contribuì alle importanti decisioni assunte dalla Casa Bianca nei mesi successivi.

Amareggiato e preoccupato dall’ondata di proteste sociali che aveva scosso gli Stati Uniti negli ultimi anni, A. ritenne che la presidenza repubblicana di Richard M. Nixon potesse contribuire a stabilizzare il paese e a districarlo dalla situazione vietnamita. Non si sottrasse dunque alle sue richieste di collaborazione e, tramite Kissinger (v. Kissinger, Henry Alfred), offrì la propria esperienza per l’elaborazione della politica atlantica e africana della nuova amministrazione. La relazione si incrinò però nel 1970, quando la Casa Bianca decise di estendere il conflitto indocinese alla Cambogia. L’anno prima, A., scrittore elegante e prolifico, aveva pubblicato con successo il suo sesto libro, Present at the creation: il volume, dedicato agli anni trascorsi al Dipartimento di Stato, vinse il premio Pulitzer.

Massimiliano Guderzo (2010)