Archivi Storici delle Comunità Europee

All’indomani della firma dei Trattati di Roma l’Italia avanzava l’ipotesi che il paese potesse accogliere una struttura delle Comunità, e in tale ambito venne elaborato il progetto per la costituzione di un’università europea. Il piano incontrò però la ferma opposizione di alcuni membri della Comunità economica europea (CEE), in particolare della Francia di Charles de Gaulle, il quale riteneva che l’educazione dovesse restare ambito di stretta competenza nazionale. Solo dopo l’uscita di scena del generale e a seguito del “rilancio europeo” avviato con il vertice dell’Aia del 1969 il progetto per un’istituzione europea di carattere universitario venne ripresa dalle autorità italiane, fino a quando nel 1976 vide alfine la luce l’Istituto universitario europeo (IUE), con sede a San Domenico di Fiesole nell’edificio della Badia Fiesolana. In realtà, l’IUE si qualificava come centro di ricerca destinato a laureati che avrebbero dovuto conseguire un dottorato e si articolava in quattro Dipartimenti (Economia, Diritto, Scienza della politica, Storia e Civiltà).

Con il trascorrere del tempo, a dispetto delle difficoltà iniziali, l’Università europea consolidava la sua posizione; nel frattempo la Comunità diveniva non solo un fattore determinante dello scenario continentale, ma cominciava ad avere anche un “passato”. Quasi nello stesso periodo si assisteva a una apertura degli archivi nazionali di vari paesi del mondo occidentale sulla base di regole più “liberali”, nella fattispecie la cosiddetta “regola dei trent’anni”. Agli inizi degli anni Ottanta le istituzioni comunitarie decidevano così di aprire i loro archivi a Bruxelles (Commissione, Consiglio, Comitato economico e sociale – CES) e a Lussemburgo (Parlamento) applicando tale regola. Traendo spunto dall’esistenza dell’IUE, nel 1984 la Commissione (v. Commissione europea), a nome delle altre istituzioni europee siglava una convenzione con l’Università europea per la creazione di un archivio a cui tutti gli organi comunitari erano tenuti a versare i loro documenti. Nascevano così nel 1985 gli Archivi storici delle Comunità europee (attualmente Archivi storici dell’Unione europea) con sede a Firenze, presso l’edificio Villa il Poggiolo, ai piedi della collina di Fiesole e a breve distanza dalla Badia Fiesolana.

Dopo un avvio faticoso, soprattutto a partire dagli anni Novanta e con il progressivo arrivo della documentazione dalle varie istituzioni comunitarie, gli archivi acquisivano rapidamente consistenza e rilievo. Va in primo luogo ricordato come gli archivi siano organizzati intorno a un nucleo centrale formato dai fondi della Commissione europea, del Consiglio (v. Consiglio dei ministri), del Parlamento (v. Parlamento europeo), del Comitato economico e sociale e della Corte dei conti. Tali fondi conservano anche le carte relative all’esperienza della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). Alle carte delle Istituzioni comunitarie, si affiancano documenti provenienti da altri organismi di cooperazione, quali ad esempio l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) (v. Organizzazione europea per la cooperazione economica) e l’Agenzia spaziale europea. Nel corso degli anni, grazie a un’attiva politica di acquisizione di altre fonti primarie, gli Archivi sono entrati in possesso e ne permettono la consultazione secondo le regole previste, di una serie di fondi di movimenti e associazioni non governative (ad esempio l’Unione europea dei federalisti, il Movimento europeo, ecc.), di carte di personalità che in vario modo hanno svolto un qualche ruolo nel processo di integrazione (da Altiero Spinelli a Émile Noël, da Pierre Uri a Étienne Hirsch). Infine, gli archivi hanno acquisito in copia collezioni provenienti da archivi nazionali (ministero degli Affari esteri francese, ministero degli Affari esteri italiano, ecc.) relative a questioni concernenti la costruzione europea, in particolare la nascita e gli sviluppi della CECA.

Gli Archivi storici possiedono una adeguata sala di lettura, una biblioteca specializzata, nonché una serie di supporti, anche di carattere informatico, che facilitano il compito dei ricercatori. Prosegue inoltre la politica di acquisizione, non solo dei fondi provenienti dalle istituzioni (fra le disponibilità più recenti va menzionato il fondo della Banca europea per gli investimenti), ma anche di carte che abbiano comunque rilievo per lo studio dell’integrazione europea. Gli Archivi, dunque, rappresentano ormai un punto di riferimento fondamentale per chiunque intenda affrontare lo studio della storia della costruzione europea.

Antonio Varsori (2008)




Areilza, Josè Maria De

A. (Portugalete, Bilbao 1909-Madrid 1998) proveniva da una tipica famiglia della borghesia bilbaina. Il padre medico, umanista liberale era stato militante attivo della generazione del 1898, la madre apparteneva ad una famiglia di militari.

Sin dai primi anni di scuola A. impara l’inglese, il francese e il tedesco, nel 1932 si laurea in Giurisprudenza presso il prestigioso ateneo di Salamanca.

Sin dalla gioventù milita nella Uniόn monárquica in Viscaya. In seguito alla caduta della monarchia nel 1931 stringe contatti con il gruppo politico Renovaciόn española. Attraverso Ramiro Ledesma Ramos entra in contatto con Gimenez Caballero, Santiago Montero Diaz e con l’ambiente dei circoli letterari. La fede monarchica sarà una costante nella sua vita. Nel 1933 e nel 1936 si presenta alle elezioni repubblicane come candidato dell’Uniόn monárquica nella circoscrizione di Bilbao, ma non viene eletto. All’epoca A. non è ancora un uomo politico di primo piano. Quando, nel giugno 1936, scoppia la guerra civile si arruola nel fronte nazionalista.

Nel 1937 viene nominato sindaco di Bilbao, incarico che ricopre fino al 1939 quando diventa direttore generale del ministero dell’Industria.

Partecipa alle attività dell’Instituto de estudios políticos e nel 1941 pubblica insieme a Fernando María Castiella Reivindicaciones de España opera con la quale gli autori rivendicano la sollevazione del luglio 1936 come una legittima ribellione del popolo spagnolo contro la Repubblica.

Nel 1945, in seguito alla nomina di Alberto Martín Artajo al ministero degli Esteri, gli viene offerto di svolgere la funzione di ambasciatore in Argentina, paese strategico e centrale per la politica estera spagnola. A. rimane a Buenos Aires dal 1947 al 1950, dove, in un momento di grande isolamento della Spagna tenta di riallacciare i contatti internazionali del suo paese e facendosi portavoce delle istanze franchiste riesce a ottenere degli aiuti da parte di Peron.

Dal 1954 al 1960 ricopre l’incarico di ambasciatore a Washington. Il processo di normalizzazione delle relazioni spagnole con i paesi occidentali compie i primi passi e in particolare A. cura il processo di adesione del suo paese alle Nazioni Unite (1955).

Dopo gli Stati Uniti viene chiamato per dirigere l’ambasciata di Spagna a Parigi dal 1960 al 1964. Sono centrali in questo torno di tempo i contatti stabiliti da A., nonché l’azione sinergica con il ministro degli Esteri Castiella, in nome dell’ingresso del paese nella Comunità economica europea (CEE).

Gli anni parigini sono quelli in cui matura il progressivo allontanamento di A. dal regime franchista. Insiste molto nei resoconti inviati al ministro Castiella sulla necessità di adottare misure di liberalizzazione per conformarsi quanto più possibile alle democrazie occidentali.

Assolutamente contrario alle misure adottate dal governo (confino o esilio) nei confronti dei membri dell’opposizione interna che avevano partecipato al Congresso di Monaco di Baviera il 7-8 giugno 1962, così come alla fucilazione del giovane Julian Grimau il 20 aprile 1963, A. ravvisò come peggiore conseguenza di tali atti il mantenimento del suo paese in una situazione di isolamento internazionale.

La consapevolezza dell’impossibilità di riformare il regime lo spinge nel 1964 a lasciare il suo incarico. Entra nel Consiglio privato di Don Juan, all’epoca in esilio a Estoril in Portogallo, e da allora in poi diventa una sorta di trait d’union tra i gruppi di opposizione interna al regime di stampo monarchico e il legittimo erede al trono di Spagna in esilio.

In questi anni A. concentra la sua attività politica intorno all’obiettivo della restaurazione della monarchia che vede come naturale premessa tanto all’avvio di un processo di transizione democratica come all’integrazione spagnola nella CEE. Nel 1966 diventa membro della Real academia de ciencias morales y políticas. Anche in seguito allo scioglimento del Consiglio privato del legittimo erede al trono di Spagna (avvenuto nel giugno del 1969 in conseguenza della nomina di Juan Carlos come successore di Franco), continua a difendere l’importanza della restaurazione monarchica come garanzia di una futura transizione all’insegna dei principi democratici. Da questo momento in poi la sua vita pubblica è fortemente osteggiata dal regime che lo addita come un traditore dei principi ispiratori del franchismo.

Sempre attento al contesto internazionale e al ruolo occupato dalla Spagna dopo aver lasciato la guida della rappresentanza diplomatica del suo paese a Parigi, A. inizia a scrivere sui giornali “El Pueblo”, “ABC” e “La Vanguardia”.

Nell’immediato postfranchismo, il 15 dicembre 1975 entra nel primo governo della monarchia come ministro degli Esteri, incarico che ricopre fino al giugno 1976.

La presentazione tanto agli Stati Uniti come ai paesi membri della CEE del carattere democratico della monarchia di Juan Carlos I è il leitmotiv del suo mandato. Il suo principale obiettivo è creare un ambiente favorevole al reinserimento della Spagna nel novero delle democrazie occidentali.

Emblematiche in tal senso le dichiarazioni rilasciate da A. durante il viaggio effettuato nel gennaio del 1976 presso le nove capitali dei paesi membri della CEE, dove l’allora ministro degli Esteri spagnolo presentò il programma di democratizzazione previsto dalla monarchia spagnola, l’imminente legalizzazione dei partiti politici e la celebrazione delle elezioni democratiche per il rinnovo delle Cortes, per annunciare che non appena questi progetti si fossero realizzati il paese avrebbe presentato la richiesta d’adesione alla CEE.

Parallelamente alla sua azione a livello diplomatico sin dalla fondazione del quotidiano “El Pais” (maggio 1976), A: scrive una serie di articoli sul contenuto della riforma democratica interna e prepara il lancio del primo Partito popolare (che confluirà poi nell’Uniόn de centro democrático). Viene eletto presidente di quest’ultimo, ma poco dopo, a causa di pressioni governative e dei cattivi rapporti con Adolfo Suárez si dimette dalla carica prima delle elezioni politiche del giugno 1977.

Dopo l’approvazione della nuova Costituzione avvenuta nel dicembre 1978, in seguito allo scioglimento delle Cortes è tra i membri fondatori della Coaliciόn democrática (CD) e alle elezioni politiche per il rinnovo delle Cortes celebrate nel marzo 1979 viene eletto deputato.

Nel 1981, come riconoscimento del suo impegno a favore dell’integrazione in Europa, A. è eletto presidente dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, incarico che ricopre fino al 1983. Sempre nel 1981 dopo le dimissioni di Suárez dall’Uniόn de centro democrático (UCD) entra nel partito ed è eletto deputato per la provincia di Santander. Nel 1987 diventa membro della Real academia española. Tra le sue opere ricordiamo Así lo he visto (1974), Diario de un ministro de la monarquía (1977) e in occasione dell’ingresso della Spagna nella Comunità europea La Europa que queremos.
Maria Elena Cavallaro (2012)




Armand, Louis

Figlio di una coppia di maestri, A. (Cruseilles 1905-Villiers-sur Mer 1971) trascorre un’infanzia serena e studiosa nel villaggio di Cruseilles nell’Alta Savoia. Dopo essere stato ammesso all’École Polytechnique nel 1924 e poi, brillantemente, al Corps des Mines, nel 1929 alla inizia la sua carriera di ingegnere. In un primo tempo è in servizio nelle miniere di Clermont-Ferrand; in seguito entrando entra nel 1934 nella compagnia Paris-Lyon-Marseille (PLM). La sua formazione lo segna in modo duraturo: diverrà infatti membro e poi presidente (1956-1968) del Consiglio di perfezionamento dell’Ècole Polytechnique, alla quale resta profondamente legato per tutta la vita. Apprezzato per le sue qualità di ingegnere, la sua carriera prosegue nella PLM, poi nella Société nationale des chemins de fer (SNCF) francese – dopo la sua creazione avvenuta nel 1938 – e nel 1940 diventa docente all’École des Ponts et Chaussées.

Durante la guerra A. rifiuta nel 1942 un incarico propostogli da Laval, il quale aveva apprezzato la sua intelligenza all’epoca del passaggio a Clermont-Ferrand al principio degli anni Trenta. Lavora parallelamente per la Resistenza e sfrutta la sua posizione per inviare informazioni a Londra dall’autunno del 1940. In seguito incontra il colonnello Passy, capo del Bureau central de renseignements et d’action (BCRA) della Francia libera e organizza insieme ad altri la rete Résistance Fer, una federazione dei gruppi di resistenza dei ferrovieri, preparando in questo contesto un piano di blocco delle vie ferrate prima dello sbarco degli Alleati in Normandia. Dopo essere stato arrestato nel giugno del 1944, a stento si sottrae all’esecuzione ed è liberato in agosto. Alla fine della guerra è nominato “compagno” dell’Ordine della Liberazione e grand’ufficiale della Legion d’Onore.

Il suo impegno discreto, le sue qualità di trascinatore di uomini e le sue competenze tecniche gli conferiscono un grande risalto al momento della Liberazione. La carriera di A. progredisce rapidamente all’interno della SNCF: nel 1945 è direttore del servizio centrale del materiale, nel 1946 è vicedirettore generale, nel 1949 direttore generale e nel 1955 presidente. Pieno di entusiasmo, sostenitore delle innovazioni tecniche, svolge un ruolo cruciale nella modernizzazione e nell’elettrificazione della rete ferroviaria francese e si interessa da vicino all’energia nucleare, che all’epoca era considerata un settore di punta indispensabile alla crescita. La sua influenza è riconosciuta anche nel suo settore professionale – è presidente dell’Union internationale des chemins de fer (UIC) dal 1951 al 1959, in seguito ne diverrà segretario generale fino alla morte – e negli ambienti scientifici e governativi. Fra il 1952 e il 1958 è nominato membro del consiglio scientifico e poi presidente del comitato per l’equipaggiamento industriale del Commissariato per l’energia atomica (CEA) creato nell’autunno del 1945. A partire dal 1947 insegna i “dati tecnici dell’economia industriale” all’École nationale d’administration (ENA), creata all’indomani della Liberazione per reclutare la nuova élite della funzione pubblica. A. si impone quindi come uno dei grandi ingegneri amministratori che hanno pianificato la ricostruzione e la modernizzazione industriale della Francia negli anni Cinquanta, al pari di Raoul Dautry alla CEA o di Pierre Massé all’EDF (Electricité de France).

La dimensione europea del suo percorso si sviluppa nel secondo dopoguerra intorno all’Eurafrica e all’energia nucleare. Nel 1952 A. aderisce al comitato per la pianificazione delle zone industriali in Africa, creato dal residente generale francese in Marocco Erik Labonne, grande promotore dell’Eurafrica. Negli anni seguenti entra a far parte anche del Conseil supérieur du pétrole e diventa presidente del Bureau d’organisation des ensembles sahariens e del Bureau industriel africaine. Nel 1956 suggerisce a Guy Alcide Mollet di creare un’Organizzazione comune delle regioni sahariane (OCRS) che viene costituita nel gennaio del 1957.

Più importante sul piano istituzionale, l’impegno per l’Europa dell’energia nucleare si inserisce con estrema coerenza nella carriera di A. Nel 1954 viene sollecitato dall’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) affinché prepari un rapporto sul problema dell’energia in Europa, che prefigura la cooperazione europea, la pianificazione delle politiche energetiche e il ricorso all’energia atomica civile (Quelques aspects du problème européen de l’énergie, luglio 1954). Esperto riconosciuto, nel 1955 presiede una delle sottocommissioni (sull’energia atomica) del comitato guidato da Paul-Henri Spaak, che prepara un rapporto fondamentale per il rilancio europeo. Quando Jean Monnet progetta una nuova organizzazione europea imperniata sull’atomo civile, è A. a suggerirgli la denominazione Euratom. Convinto dell’importanza del progetto, aderisce al Comitato d’azione per gli Stati Uniti d’Europa creato da Monnet e usa la sua influenza personale per sostenerlo. Nel luglio 1956, durante una sessione rimasta famosa all’Assemblea nazionale, viene a perorare la causa dell’Euratom insieme all’alto commissario del CEA Francis Perrin, su richiesta del Presidente del Consiglio Guy Mollet. In novembre, in seguito alle pressioni del Comitato Monnet e nel contesto travagliato della crisi di Suez, insieme a Franz Etzel e Francesco Giordani A. è designato come uno dei tre “saggi” del comitato di esperti nominato dai ministri degli Esteri dei paesi della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) per valutare le possibilità dell’energia atomica in Europa. Il loro rapporto (Un objectif pour l’Euratom) è consegnato nel maggio 1957, poco dopo la firma dei Trattati di Roma. I Sei scelgono A. per presiedere la Commissione dell’Euratom a partire dal gennaio 1958 (v. Comunità europea dell’energia atomica). In questa veste A. negozia un importante accordo con gli Stati Uniti ma, deluso dalle tensioni che affiorano, si dimette dall’incarico dopo un anno.

Questo mezzo fallimento dà avvio ad una nuova fase della sua carriera, ormai meno centrata sull’alta amministrazione e più orientata verso gli ambienti economici e intellettuali. Presidente delle Miniere di carbon fossile del bacino lorenese e amministratore di numerose società, A. incarna la figura dell’esperto per eccellenza. Nel 1959-1960 diventa presidente del gruppo di lavoro dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) per l’accrescimento del potenziale scientifico dei paesi occidentali e nel novembre 1959 è nominato copresidente del Comitato sugli ostacoli all’espansione economica creato dal primo ministro Michel Debré. Gli viene affidata anche la vicepresidenza della Fondazione europea della cultura (1960) ed è eletto all’Accademia delle scienze morali e politiche (1960), poi all’Accademia di Francia (1963). Queste cariche rappresentano la prosecuzione di una riflessione avviata dal 1953 nel Centre international de prospective di Gaston Berger. A., appassionato dall’evoluzione della tecnica, in particolare della cibernetica e dell’informatica, e dal loro impatto sull’organizzazione delle società, riflette sulla “rivoluzione manageriale” venuta dagli Stati Uniti, sui problemi dell’insegnamento e della ricerca, su quella che chiama “l’universalizzazione” del commercio, dei trasporti, delle tecniche e della cultura (attraverso la “mondovisione” o la televisione satellitare). In una serie di scritti – Pladoyer pour l’avenir (1961), Simples propos (1968) e Le pari européen (1968), in cui sviluppa le sue riflessioni pubblicate alla fine di Défi américain (1967) di J.-J. Servan-Schreiber – A. invita i francesi e gli europei ad adattare le loro mentalità alle nuove realtà e a ripensare l’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), più che mai indispensabile, ma ormai invecchiata nei metodi. Ai suoi occhi l’Europa unita non deve opporsi all’America, ma “tradurla” al resto del mondo e proporre una soluzione nuova all’“universalizzazione” in corso – non un nuovo Stato sovranazionale ma un “federalismo alla carta”, con cooperazioni rafforzate scelte dagli Stati europei intorno ad una base minima (estensione dell’unione doganale, moneta comune, Europa dei brevetti). A. immagina anche degli “uffici” europei in settori nuovi (nucleare, ambiente, gestione dell’acqua), una nuova “camera di riflessione politica europea”, un ministro per l’Europa in ciascun governo – allo scopo di «offrire [all’America] un interlocutore in posizione eretta», capace di «farsi carico di una parte dei problemi dell’organizzazione mondiale» (Le pari européen, p. 299) e di restituire all’Europa un ruolo creativo con l’invenzione di nuove istituzioni. L’originalità della sua visione europea – in certo qual modo una versione modernizzata e più liberale del funzionalismo alla Monnet – consiste nel pensare la sfida della mondializzazione all’integrazione europea. Nel 1965 rifiuta di presentarsi alle elezioni presidenziali come gli propongono i centristi, ma nel 1969 accetta di presiedere un ultimo comitato sul miglioramento dell’ambiente i cui suggerimenti sono recepiti nel 1970 dal governo. Scomparso il 31 agosto 1971, A. incarna al tempo stesso una figura tipica delle élites tecniche francesi dell’epoca e un europeista convinto.

Valérie Aubourg (2013)




Armonizzazione

L’armonizzazione delle legislazioni nazionali è un concetto fondamentale del diritto comunitario, che presenta, però, dei contorni piuttosto sfumati. Il punto di partenza è costituito da un dato di fatto: le legislazioni degli Stati membri sono diverse e queste differenze possono ostacolare la realizzazione degli obiettivi previsti dal Trattato. L’armonizzazione è il mezzo attraverso il quale eliminare o ridurre tali disparità.

In assenza di una definizione nel diritto positivo, appare utile esaminare quali sono le attestazioni dell’uso del termine “armonizzazione” nel Trattato. Due sono gli usi ricorrenti: nel primo, è impiegato ad indicare il contenuto della competenza comunitaria (accezione positiva); nel secondo, designa il limite al contenuto della competenza stessa (accezione negativa).

In via preliminare, è necessario ricordare che le istituzioni comunitarie agiscono nei limiti delle competenze loro conferite dai Trattati (principio di attribuzione). Una competenza è una abilitazione ad agire in un determinato ambito, di solito al fine di conseguire un dato risultato. La “azione” comunitaria si traduce di regola (e sempre quando si tratta di armonizzazione) nell’adozione di atti normativi. Gli ambiti sono i settori materiali nei quali le istituzioni possono agire, e sono elencati all’art. 3 del Trattato istitutivo della Comunità europea (CE) (v. Trattati di Roma) e specificati nella parte del Trattato stesso dedicata alle politiche. Gli scopi sono indicati sia nella specifica norma che costituisce la base giuridica dell’atto, sia più in generale in altre disposizioni del Trattato, quali l’art. 2 o altre norme di analoga portata.

Il termine “armonizzazione” compare in alcune disposizioni del Trattato come contenuto di un possibile atto comunitario. In questo senso, si possono richiamare le seguenti disposizioni: l’art. 93, relativo all’armonizzazione delle disposizioni nazionali relative alle imposte indirette, «nella misura in cui detta armonizzazione sia necessaria per assicurare l’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno»; l’art. 95, contenuto nel capo intitolato Ravvicinamento delle legislazioni, relativo al «ravvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative degli Stati membri che hanno per oggetto l’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno», in cui il termine “armonizzazione” compare accanto a “ravvicinamento”.

Il termine è invece usato ad indicate il limite all’azione delle istituzioni in un’altra serie di articoli, di regola basi giuridiche introdotte o modificate in modo sostanziale a partire dal Trattato di Maastricht. Esse possono a loro volta essere divise in due gruppi. Nel primo possono essere comprese quelle basi giuridiche che non escludono l’armonizzazione, ma la sottopongono a condizioni, di tipo procedurale o contenutistico; nel secondo, l’armonizzazione è esclusa, e le istituzioni possono adottare nella materia atti che si limitino a incentivare o sostenere l’azione statale. Il primo sottogruppo comprende: l’art. 13, sulla non discriminazione per motivi diversi dalla nazionalità (la procedura per adottare atti di armonizzazione è delineata nel par. 1; il par. 2 stabilisce una diversa procedura che assicura un peso paritario a Consiglio e Parlamento, ma la limita alle ipotesi diverse dall’armonizzazione); l’art. 137, relativo alla politica sociale (se in tutti i settori della politica sociale le istituzioni possono adottare misure diverse dall’armonizzazione, solo in alcuni possono emanare direttive che definiscano «prescrizioni minime applicabili progressivamente»); e l’art. 152 relativo alla sanità pubblica («le misure di incentivazione destinate a proteggere e a migliorare la salute umana» non possono comportare l’armonizzazione delle disposizioni nazionali, ma altre disposizioni nazionali che rientrano nella nozione di “sanità pubblica” possono essere armonizzate). Al secondo sottogruppo appartengono: l’art. 129 relativo al settore dell’occupazione, l’art. 149 relativo all’istruzione, l’art. 150 relativo alla formazione professionale, l’art. 151 relativo alla cultura.

Da questa breve disamina si ricava che l’armonizzazione è il contenuto dell’azione delle istituzioni, che si contrappone e si differenzia rispetto ad altri possibili contenuti, quali il sostegno o l’incentivazione dell’azione statale. L’armonizzazione nell’accezione positiva non è limitata alle sole ipotesi in cui è espressamente prevista. Dal momento che si tratta di una tecnica normativa, che si traduce nell’imporre modifiche alle legislazioni nazionali per ridurre le disparità, allora, è possibile tutte le volte in cui il Trattato attribuisce un potere normativo alle istituzioni e non la esclude espressamente. In questo senso, altre espressioni che il Trattato impiega, quali ravvicinamento delle legislazioni (come ad es. all’art. 94), coordinamento delle disposizioni nazionali (come all’art. 47, ma non come all’art. 99, che riguarda il diverso concetto del coordinamento delle politiche nazionali, in quel caso in materia di politica economica), sono equivalenti ad “armonizzazione”.

L’armonizzazione non è neppure una prerogativa del pilastro comunitario, ma anzi è utilizzata anche nel c.d. terzo pilastro (v. Pilastri dell’Unione europea) ed è estesa a tutti i settori che rientrano nella cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale. Può essere realizzata solo con decisioni-quadro (v. Decisione), atti che hanno per scopo precipuo «il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri» (a differenza delle decisioni, che hanno «qualsiasi altro scopo coerente con gli obiettivi del presente titolo, escluso qualsiasi ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri»: art. 34 del Trattato sull’Unione europea). L’armonizzazione non è invece possibile nel c.d. secondo pilastro (Politica estera e di sicurezza comune), non perché espressamente esclusa, ma come conseguenza dell’assenza di competenza normativa in capo alle istituzioni.

Nell’economia generale del Trattato di Roma come concepito dagli Stati che lo sottoscrissero, l’intervento normativo delle istituzioni comunitarie attraverso atti di armonizzazione delle legislazioni nazionali era essenziale per rendere concretamente operanti le c.d. quattro libertà fondamentali (libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali) (v. Libera circolazione delle merci; Libera circolazione delle persone; Libera circolazione dei servizi; Libera circolazione dei capitali). Tuttavia, in molti settori le istituzioni non riuscirono ad adottare gli atti nei casi previsti dal Trattato, circostanza che avrebbe potuto impedire la realizzazione del mercato comune, se non fosse intervenuta la Corte di giustizia a valorizzare altre disposizioni del Trattato. La Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) infatti, sin dal caso Van Gend & Loos (sentenza 5 febbraio 1963, causa 26/62, in “Raccolta”, p. 1 e ss.), ha elaborato la dottrina degli effetti diretti delle norme del Trattato. In particolare, ha affermato che le disposizioni del Trattato che sono chiare, precise e incondizionate possono far sorgere diritti in capo ai singoli. La diretta applicabilità comporta che le disposizioni nazionali siano disapplicate se contrastano con il Trattato. Questa dottrina ha consentito di superare l’inerzia delle istituzioni, che per vari motivi non riuscirono ad adottare atti di armonizzazione. La Corte ha così realizzato una sorta di “integrazione negativa”, che ha permesso di superare alcune delle barriere all’instaurazione delle quattro libertà. È utile ricordare quanto la Corte affermò nel caso Reyners: «dopo la fine del periodo transitorio [scaduto il 31 dicembre 1969], le direttive contemplate dal capitolo relativo al diritto di insediamento sono divenute superflue per l’attuazione della norma del trattamento nazionale, dato che quest’ultima è ormai sancita, con efficacia diretta, dal trattato stesso. Tali direttive non hanno tuttavia perduto ogni interesse, in quanto conservano un campo di applicazione importante nel settore delle misure dirette a favorire ed a facilitare l’effettivo esercizio del diritto di libero stabilimento» (sentenza 21 giugno 1974, causa 2/74, in “Raccolta”, p. 631, parr. 30-31). In altri termini, la Corte chiarisce il rapporto tra atti che le istituzioni devono adottare e disposizioni del Trattato sulle libertà fondamentali. Il trattamento nazionale o il divieto di discriminazioni in base alla nazionalità si impongono agli Stati in quanto norme chiare, precise e incondizionate. Gli atti delle istituzioni possono e devono facilitare l’esercizio delle libertà, ma non ne sono la fonte.

Questa giurisprudenza ha cambiato il rapporto tra diritto nazionale e diritto comunitario. Da quel momento, la contrarietà al Trattato di una disposizione nazionale ha potuto essere fatta valere da chiunque ne avesse interesse attraverso un ricorso al giudice nazionale. La misura statale è considerata incompatibile con il Trattato, e quindi disapplicabile, a meno che non sia giustificata da esigenze imperative, nei casi stabiliti dal Trattato quando la misura nazionale è discriminatoria, oppure nei casi previsti dalla giurisprudenza Cassis de Dijon se la misura è indistintamente applicabile. Le esigenze di armonizzazione non sono però venute meno. Anzi, trovano un campo di intervento in relazione ai settori nei quali gli Stati possono invocare le esigenze imperative, in quanto l’armonizzazione delle legislazioni nazionali in quei settori agevola le quattro libertà fondamentali. In questo senso, si può parlare di “integrazione positiva” realizzata attraverso atti di diritto derivato.

In altri settori, diversi dalle quattro libertà, il rapporto tra integrazione negativa e positiva non si pone negli stessi termini. L’armonizzazione è allora indipendente alla diretta applicabilità e diventa contenuto della misura comunitaria.

Il sistema comunitario, fondato, come già ricordato, sul principio delle competenze di attribuzione, comporta che per ogni atto normativo, in questo caso di armonizzazione, sia necessario identificare una base giuridica. Il Trattato prevede due possibilità a questo fine: basi giuridiche generali e speciali. Sono generali le basi giuridiche costituite dagli art. 94, 95 e 308. Sulle prime due si ritornerà diffusamente nel paragrafo successivo. L’art. 308 definisce una procedura per l’adozione di atti per realizzare obiettivi comunitari nel caso in cui il Trattato non abbia attribuito alle istituzioni specifici poteri di azione. La disposizione può allora essere utilizzata per emanare atti di armonizzazione. Il Trattato di Lisbona del 2007 modifica però l’art. 308 stabilendo che per questa via non è possibile realizzare l’armonizzazione dei diritti nazionali nei casi in cui il Trattato espressamente la esclude. Questa limitazione è comunque ricavabile in via interpretativa, se solo si considera che si tratterebbe di una modifica del Trattato che non può essere realizzata per mezzo dell’art. 308, ma richiede una specifica procedura (parere 2/94 del 28 marzo 1996, in “Raccolta”, p. I-1759 e ss.).

Le basi giuridiche specifiche sono quelle previste dai Trattati in relazione a specifiche materie, alle quali si deve ricorrere se la misura di armonizzazione incide su quella materia. Il rapporto tra le prime e le seconde è retto dal principio di specialità: alle basi giuridiche generali si ricorre soltanto se non esiste una base giuridica specifica e, viceversa, le basi giuridiche specifiche sono da preferire a quelle generali (sentenza 23 febbraio 1988, causa 131/86, Regno Unito contro Consiglio, in “Raccolta”, p. 905 e ss. Sul problema della scelta della base giuridica con riferimento alle misure di armonizzazione, v. Fallon, 2002, p. 216 e ss.; Barnard, 2007, p. 581 e ss.).

Determinare la base giuridica dell’atto è questione interpretativa di capitale importanza nel sistema comunitario. La scelta deve essere guidata da alcuni principi, elaborati dalla Corte di giustizia. Secondo costante giurisprudenza, l’elemento che guida la scelta è costituito dallo scopo principale dell’atto in progetto, quale si ricava dal suo contenuto. Solo se l’atto è destinato a perseguire contemporaneamente più obiettivi tra loro inscindibili e di pari importanza, esso dovrà basarsi su più basi giuridiche.

La base giuridica dell’atto è fondamentale anche sotto un profilo più specifico: l’ammissibilità di misure nazionali derogatorie dipende dalla base giuridica posta a fondamento dell’atto di armonizzazione ed è in relazione ad essa che la questione deve essere esaminata e risolta (v. oltre, § 5).

L’art. 94 era già contenuto nella versione originaria del 1957 e le modifiche che vi sono state apportate dal Trattato di Maastricht hanno riguardato la procedura di adozione degli atti, ma non la sua sostanza. La disposizione prevede che il Consiglio dei ministri, all’unanimità (v. Voto all’unanimità), possa adottare direttive per il ravvicinamento delle disposizioni nazionali «che abbiano un’incidenza diretta sull’instaurazione o sul funzionamento del mercato comune». In origine, il Consiglio doveva consultare il Parlamento europeo e il Comitato economico e sociale solo nel caso in cui l’attuazione dell’atto in progetto comportasse una modifica di atti legislativi in uno o più Stati membri. Ora la consultazione è sempre obbligatoria, benché non vincolante.

L’idea alla base della disposizione è quella secondo la quale la differenza tra le legislazioni nazionali in materie relative al mercato comune può produrre distorsioni che ne ostacolano il funzionamento, mentre l’identità delle regolamentazioni non è un requisito indispensabile per il funzionamento del mercato comune (v. Draetta, 1965, p. 785).

Il ravvicinamento è quindi un mezzo per realizzare il fine costituito dal funzionamento del mercato comune. Di conseguenza, non ogni divergenza tra le disposizioni nazionali deve essere eliminata attraverso il ravvicinamento, perché la competenza che l’art. 94 assegna alle istituzioni si limita all’eliminazione per mezzo del ravvicinamento delle sole differenze che abbiano un’incidenza e perlopiù diretta sull’instaurazione e sul funzionamento del mercato comune.

L’art. 95 è stato invece inserito dall’Atto unico europeo (AUE), e modificato in modo significativo dai successivi Trattati di revisione. È anch’essa una base giuridica generale, ma si pone come subordinata rispetto all’art. 94. L’art. 95 consente l’adozione di misure secondo la Procedura di codecisione, per il ravvicinamento delle disposizioni nazionali «che hanno per oggetto l’instaurazione ed il funzionamento del mercato interno», ma a esclusione delle disposizioni fiscali, di quelle relative alla libera circolazione delle persone e a quelle relative ai diritti ed interessi dei lavoratori dipendenti (par. 2). Le materie escluse possono comunque essere oggetto di ravvicinamento, ma ricorrendo ad una diversa base giuridica, speciale (per es. l’art. 93 in tema di armonizzazione delle imposte indirette: sentenza 26 gennaio 2006, causa C-533/03, Commissione contro Consiglio, in “Raccolta”, p. I-1025 e ss.) oppure generale (e il riferimento principale è all’art. 94).

In ogni caso, presupposto per l’applicazione dell’art. 95, come anche dell’art. 94, è la presenza di norme nazionali da armonizzare. In assenza di disposizioni nazionali in una certa materia, esso non è base giuridica appropriata per l’introduzione di istituti nuovi. In questa ipotesi, l’unica base giuridica generale utilizzabile è l’art. 308 (in questo senso, v. sentenza della Corte 2 maggio 2006, causa C-436/03, Parlamento europeo contro Consiglio dell’Unione europea, in “Raccolta”, p. I-3733 e ss.).

Dal punto di vista dei poteri delle istituzioni, due sono le principali differenze tra gli articoli 94 e 95. In primo luogo, la scelta dell’atto che l’art. 95 conferisce alle istituzioni non è limitata, come nell’art. 94, alle direttive, con la conseguenza che anche un regolamento potrà essere utilizzato al fine di realizzare il ravvicinamento. Tuttavia, una dichiarazione allegata all’AUE stabiliva che la Commissione europea avrebbe privilegiato la direttiva «se l’armonizzazione comporta in uno o più Stati membri una modifica di disposizioni legislative». Il favore per le direttive è espresso anche in termini più generali dal Protocollo sull’applicazione del principio di sussidiarietà e del principio di proporzionalità, allegato al Trattato comunitario e parte integrante di esso. Le direttive devono essere attuate dagli Stati. La Corte, tuttavia, non esclude che misure di armonizzazione non recepite entro il termine di scadenza possano essere invocate dai singoli per opporsi a norme nazionali incompatibili (uno dei casi fondamentali per lo sviluppo della dottrina degli effetti diretti delle direttive verteva su misure di armonizzazione, adottate in base all’art. 100, ora 94: v. sentenza della Corte 5 aprile 1979, causa 148/78, Ratti, in “Raccolta”, p. 1629 e ss.).

In secondo luogo, la procedura di adozione degli atti prevista dall’art. 95 garantisce, rispetto a quella di cui all’art. 94, un migliore bilanciamento dei poteri di Parlamento e Consiglio: il primo assurge al ruolo di colegislatore e il peso del secondo è ridotto, non essendo prevista l’unanimità come regola di voto. Tale risultato è frutto di due fenomeni concomitanti: da un lato, la progressiva sostituzione alla procedura di cooperazione (prevista dalla versione originaria dell’articolo) di quella di codecisione (modifica apportata con il Trattato di Maastricht); dall’altro, il perfezionamento della procedura di codecisione, realizzata con il Trattato di Amsterdam, che ha effettivamente equiparato i poteri del Parlamento e del Consiglio.

Per quanto riguarda il campo di applicazione dell’art. 95, essenziale è il riferimento alla giurisprudenza comunitaria. Il Trattato, infatti, si limita a richiedere che le legislazioni da armonizzare debbano avere per oggetto l’instaurazione e il funzionamento del mercato interno. L’interpretazione secondo la quale la sola disparità tra le normative nazionali giustifica il ricorso all’art. 95, è stata infatti respinta dalla Corte di giustizia. Una misura di armonizzazione è giustificata solo se le disparità sono tali da ostacolare le libertà fondamentali o da creare distorsioni di concorrenza, incidendo così direttamente sul funzionamento del mercato interno, e solo se la misura comunitaria è effettivamente diretta all’eliminazione o alla prevenzione di quegli ostacoli o di quelle distorsioni (la giurisprudenza sul punto è consolidata. La formula è espressa con particolare chiarezza nella sentenza 12 dicembre 2006, causa C-380/03, Germania contro Parlamento europeo e Consiglio, in “Raccolta”, p. I-11573 e ss. Per un’analisi della coerenza della Corte nell’applicazione di questa formula, v. Barnard, 2007, p. 578). Questa interpretazione valorizza il legame tra armonizzazione e mercato interno, letto alla luce degli articoli 2 e 3 del Trattato.

In ogni caso, se l’obiettivo che la misura persegue rientra in una base giuridica specifica che esclude l’armonizzazione, il ricorso all’art. 95 è precluso (sentenza 5 ottobre 2000, causa C-376/98, Germania contro Parlamento europeo e Consiglio dell’Unione europea, in “Raccolta”, p. I-8419 e ss.).

A bilanciare l’assenza dell’unanimità del Consiglio (che riduce il peso dei singoli Stati membri) stanno due previsioni dell’art. 95: da una parte, alcune indicazioni quanto al contenuto dell’atto; dall’altra, la facoltà per gli Stati di mantenere o introdurre disposizioni nazionali in deroga alla misura comunitaria.

Sotto il primo profilo, le istituzioni devono basarsi su «un livello elevato di protezione» in materia di «sanità, sicurezza, protezione dell’ambiente e protezione dei consumatori» (par. 3) e devono, se del caso, contemplare l’introduzione di clausole di salvaguardia nelle singole misure di armonizzazione, per autorizzare gli Stati «ad adottare, per uno o più dei motivi non economici di cui all’articolo 30, misure provvisorie soggette ad una procedura comunitaria di controllo» (par. 10).

Sotto il secondo profilo, è utile premettere che le direttive adottate in base all’art. 94 non consentono deroghe agli Stati, a meno che ciò non sia previsto dall’atto stesso (v. sentenza 25 aprile 2002, causa C-183/00, González Sánchez, in “Raccolta”, p. I-3901 e ss.). Al contrario, un atto che ha per base giuridica l’art. 95 può essere derogato dagli Stati nel rispetto delle procedure previste in termini generali dalla disposizione stessa. Al fine di evitare un uso abusivo di tali facoltà, è previsto il controllo della Corte di giustizia, che può essere adita direttamente dalla Commissione o da un altro Stato membro, in deroga alla procedura ordinaria di infrazione (par. 9).

Il par. 4 è relativo all’ipotesi in cui uno Stato membro voglia mantenere disposizioni già esistenti che siano giustificate da una delle esigenze di cui all’art. 30 (deroghe al divieto di restrizioni quantitative all’importazione e all’esportazione delle merci) o relative alla protezione dell’ambiente o dell’ambiente di lavoro. Il par. 5 riguarda l’introduzione di nuove norme, cioè l’adozione, dopo la misura comunitaria di armonizzazione, di «disposizioni nazionali fondate su nuove prove scientifiche inerenti alla protezione dell’ambiente o dell’ambiente di lavoro, giustificate da un problema specifico a detto Stato membro insorto dopo l’adozione della misura di armonizzazione». Il Tribunale di primo grado ha interpretato in modo restrittivo il requisito del “problema specifico”, escludendo che uno Stato possa beneficiare della deroga del par. 5 per far fronte ad un rischio, per esempio ambientale, che presenta un carattere generale e tocca tutti gli Stati membri (v. sentenza 27 giugno 2007, causa T-182/06, Paesi Bassi contro Commissione, in “Raccolta”, p. II-1983 e ss.).

In entrambi i casi, lo Stato deve notificare alla Commissione l’intenzione di mantenere o introdurre norme nazionali, motivandola in base ai requisiti sostanziali indicati.

La versione dell’AUE era molto più ambigua, sia poiché faceva riferimento alla possibilità per gli Stati di “applicare” norme nazionali, senza specificare se precedenti o successive alla misura comunitaria, sia perché non chiariva i poteri della Commissione, ed ha così dato adito a dubbi interpretativi, chiariti dalla Corte di giustizia (v. Condinanzi, 2001, p. 499) e superati grazie alla modifica della disposizione in senso conforme alla giurisprudenza, realizzata con il Trattato di Amsterdam.

In base alla versione attuale dell’art. 95, la Commissione, ricevuta la notifica, dispone di sei mesi di tempo (eventualmente prorogabili di ulteriori sei mesi) per approvare o respingere la richiesta (il silenzio equivale ad approvazione), valutando se le disposizioni nazionali, oltre a soddisfare i requisiti previsti, costituiscono o no «uno strumento di discriminazione arbitraria o una restrizione dissimulata nel commercio tra gli Stati membri» e se rappresentano o no «un ostacolo al funzionamento del mercato comune» (par. 6). Le condizioni previste ai par. 4 o 5 e al par. 6 devono essere cumulativamente soddisfatte (v. sentenza della Corte 20 marzo 2003, causa C‑3/00, Danimarca contro Commissione, in “Raccolta”, p. I‑2643 e ss.). La procedura non ha carattere contraddittorio, perché la Commissione si limita a valutare gli argomenti prodotti dallo Stato, che non deve pertanto essere sentito prima della decisione (v., a proposito del par. 4, sentenza della Corte 20 marzo 2003, causa C‑3/00, Danimarca contro Commissione, in “Raccolta”, p. I‑2643 e ss., e del par. 5, sentenza della Corte 13 settembre 2007, cause riunite C-439/05 P e C-454/05 P, Land Oberösterreich e Austria contro Commissione, in “Raccolta”, p. I-7141 e ss., punti 37-38). In pendenza dell’autorizzazione, lo Stato non può applicare le norme nazionali derogatorie, perché la decisione della Commissione ha valore costitutivo (sentenza 17 maggio 1994, causa C-41/93, Francia contro Commissione, in “Raccolta”, p. I-1829 e ss.).

Nell’ipotesi in cui uno Stato sia stato autorizzato a mantenere o a introdurre disposizioni nazionali derogatorie, la Commissione deve verificare se non sia opportuno proporre una modifica della misura comunitaria di armonizzazione (par. 7). La Commissione, inoltre, esamina l’opportunità di proporre una modifica della misura comunitaria, qualora uno Stato sollevi un problema attinente alla pubblica sanità (par. 8), anche se non chiede di mantenere o introdurre disposizioni nazionali derogatorie.

La Corte ha riconosciuto che le istituzioni godono di un certo margine di discrezionalità nel determinare quale sia la tecnica di armonizzazione più appropriata per ottenere il risultato auspicato. Ne consegue che le misure di ravvicinamento delle legislazioni nazionali che pure presentano la stessa base giuridica possono avere caratteristiche molto diverse. Per esempio, in relazione all’art. 95 sono state considerate valide sia una direttiva che vietava la commercializzazione di un prodotto in tutti gli Stati membri (sentenza 14 dicembre 2004, causa C-434/02, Arnold André, in “Raccolta”, p. I-11825 e ss.), sia una direttiva che prevedeva una procedura comunitaria per l’autorizzazione di certi prodotti alimentari (sentenza 6 dicembre 2005, causa C-66/04, Regno Unito contro Parlamento europeo e Consiglio dell’Unione europea, in “Raccolta”, p. I-10553 e ss.).

La dottrina suole classificare le misure di armonizzazione secondo il grado di intensità (v. Fallon, 2002, p. 227 e ss.; Dubouis, Blumann, 2004, p. 268 e ss.; Barnard, 2007, p. 591 e ss.).

L’armonizzazione è completa, quando la misura comunitaria disciplina tutti gli aspetti di una materia, senza lasciare spazio a disposizioni nazionali e sostituendosi ad esse. Nel caso di prodotti, si tratta di disciplinare le caratteristiche che una merce deve presentare per essere prodotta e commercializzata nella Comunità. La produzione di beni difformi dagli standard comunitari non è possibile.

L’armonizzazione è parziale, se riguarda solo alcuni aspetti; in questo caso, gli Stati sono liberi di regolare le questioni non disciplinate a livello comunitario (v. sentenza 22 giugno 1993, causa C-222/91, Philip Morris Belgium e a., in “Raccolta”, p. I-3469 e ss.).

L’armonizzazione è minima, quando la misura comunitaria stabilisce quali sono le caratteristiche che un prodotto o servizio deve possedere per essere commercializzato nella Comunità, ma lascia agli Stati la possibilità di prevedere standard diversi e più severi per i prodotti o servizi nazionali. Ciò significa che ogni Stato deve accettare la commercializzazione sul suo territorio di beni o servizi che rispettano lo standard comune, ma può imporre ai prodotti o servizi nazionali standard diversi e più severi. Il limite alla libertà degli Stati è data dal Trattato stesso, e in particolare dalle disposizioni sulle quattro libertà. Lo standard minimo non è quello proprio dello Stato che prevede le norme meno rigorose (v. sentenza 12 novembre 1996, causa C-84/94, Regno Unito contro Consiglio, in “Raccolta”, p. I-5755 e ss., par. 17), ma può essere determinato dalle istituzioni in base all’obiettivo perseguito. Questa forma di armonizzazione si impone laddove il Trattato stabilisce che le istituzioni possano adottare solo prescrizioni minime (come nel caso dell’art. 137), ma è preclusa nel caso dell’art. 94 (v. sentenza 25 aprile 2002, causa C-154/00, Commissione contro Grecia, in “Raccolta”, p. I-3879 e ss.).

Con riferimento alle norme relative ai prodotti, si suole anche distinguere l’armonizzazione “tradizionale” dall’armonizzazione realizzata secondo il c.d. “nuovo approccio”. Non si tratta di una distinzione operata dalla dottrina, ma dalle stesse istituzioni comunitarie. L’armonizzazione tradizionale garantisce condizioni identiche in ogni Stato membro per quanto riguarda ogni aspetto della produzione e commercializzazione dei prodotti, ma è molto onerosa e tanto più difficile da realizzare quanti più sono gli Stati membri (per una critica a questo tipo di approccio, v. Weatherill, 2006, p. 623 e ss.). Il “nuovo approccio” comporta che siano oggetto di armonizzazione completa soltanto le disposizioni relative alla definizione dei requisiti essenziali di sicurezza, salute, tutela dell’ambiente che i prodotti devono soddisfare per poter essere immessi sul mercato e circolare nella Comunità. Le specifiche tecniche per produrre beni conformi alle esigenze essenziali sono elaborate dagli enti di certificazione e sono volontarie. I prodotti conformi alle suddette specifiche devono essere riconosciuti dagli Stati membri come idonei a tutelare le esigenze essenziali. Questo meccanismo è assai più duttile del precedente e ha il merito di focalizzarsi sugli obiettivi (tutela delle esigenze essenziali e della circolazione delle merci) e non sugli strumenti per conseguirli (specifiche tecniche).

Alessandra Lang (2007)




Arnaldo Forlani




Aron, Raymond

Quando era in vita e anche in seguito A. (Parigi 1905-ivi 1983) è stato spesso descritto soprattutto come un “atlantista”. Questo non è esatto: in realtà egli era molto più “europeista” che “atlantista”. Tuttavia non fu sempre un fautore della costruzione europea nel senso dell’integrazione e della sovranazionalità (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). A. era “europeista” in senso generale, in cui del resto la sua visione della cultura e della storia aveva un ruolo importante, ma lo era molto meno nel senso particolare che spesso oggi ha assunto questo termine (vale a dire sostenitore dell’“Europa di Bruxelles”). Il tema europeo non compare comunque nel suo pensiero prima del 1945, se non attraverso una condanna generale del nazionalismo, di cui A. aveva potuto osservare i devastanti effetti incrociati nei rapporti franco-tedeschi durante il periodo trascorso in Germania fra il 1930 e il 1933. Oltre alle sue riflessioni filosofiche e sociologiche A. allora si era concentrato soprattutto sullo spettacolo della Germania in crisi e, dopo l’ascesa al potere di Hitler, sul fenomeno dei totalitarismi.

Fu chiaramente la Seconda guerra mondiale a indurre A. a prendere coscienza dell’Europa e farla diventare un tema costante delle sue riflessioni. Nei suoi articoli su “Combat” nel 1946 A. descriveva un’Europa ridimensionata di fronte alle due superpotenze che erano le vere vincitrici del 1945, auspicando che potesse affermarsi nei loro confronti per mantenere la propria indipendenza. Inoltre si augurava che la Francia si mettesse alla testa di questo movimento. Ma non si trattava di riflessioni particolarmente originali rispetto alle idee emerse nella cerchia di Aristide Briand alla fine degli anni Venti, epoca in cui il declino relativo dell’Europa rispetto agli Stati Uniti e all’URSS era già un elemento di forte inquietudine. A partire dal 1947 l’evidenza del progetto espansionistico totalitario sovietico e l’inizio della Guerra fredda portano A. a insistere con forza sulla necessità della coesione occidentale e sul ruolo importante dell’America rispetto a Mosca. Ma l’idea di un’Europa indipendente e, se possibile, di un superamento della Guerra fredda non sarebbe mai scomparsa, anche se per lungo tempo le riflessioni di A. saranno consacrate al conflitto Est-Ovest più che alla costruzione europea. Sul piano delle relazioni internazionali la Francia e l’Alleanza atlantica (v. Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico) restarono in effetti al centro del suo sistema di coordinate molto più dell’Europa, almeno fino a metà degli anni Sessanta: su “Le Figaro” del 31 agosto 1948 A. osservava a proposito del Piano Marshall che la ricostruzione della Germania da parte degli Stati Uniti era conforme al «bene comune del Vecchio continente, a una sola condizione: che si sappia tradurre in realtà lo slogan dell’unità europea», formula in cui il termine “realtà” opposto al termine “slogan” ben riassume l’approccio aroniano.

A. accolse favorevolmente il Piano Schuman del 9 maggio 1950, ma per due ragioni precise e assai più circoscritte rispetto alle preoccupazioni europeiste a lungo termine di Robert Schuman e soprattutto di Jean Monnet: gli pareva utile un’organizzazione dell’industria pesante europea, con una funzione modernizzatrice, che rendesse più accettabile politicamente la formula dei cartelli siderurgici dell’anteguerra. E l’iniziativa francese dimostrava che alla fine era stata abbandonata la politica punitiva seguita nei confronti della Germania dal 1945 e che ci si era orientati verso una riconciliazione franco-tedesca. Secondo A., in quel momento, era questo l’essenziale e la condizione indispensabile per qualsiasi riavvicinamento europeo. In effetti è in questo periodo, trattando il tema della riconciliazione, che Aron trovò i suoi accenti più profondamente europeisti, come dimostra il discorso rivolto agli studenti dell’Università di Francoforte pronunciato il 30 giugno 1952. Per le stesse ragioni (visione pragmatica delle cose e volontà di riconciliazione con la Germania) egli accettò senza problemi, sempre nel 1950, il principio del riarmo tedesco. In compenso era fortemente critico nei confronti della Comunità europea di difesa (CED) e assolutamente contrario a coloro che intendevano costruire, a partire dalla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) e dalla CED, una vera e propria federazione europea (v. anche Federalismo), come spiegava molto chiaramente nel suo articolo su “Le Figaro” del 24 settembre 1952 Fédération européenne: objectif ou mirage?, A. riteneva che una federazione di questo tipo fosse un progetto irrealistico poiché non teneva conto del peso delle tradizioni e degli interessi nazionali e che inoltre fosse contrario agli interessi della Francia, una potenza con interessi considerevoli anche fuori dell’Europa. Europeista per ragione ragioni culturali e razionali, A. non era certo un europeista idealista e ancor meno un federalista.

Lo scetticismo di A. nei confronti dell’Europa integrata si manifestò ancora nel 1955, al momento del “rilancio europeo” alla Conferenza di Messina, sia che si trattasse del Mercato comune (v. Comunità economica europea) o dell’Euratom (v. Comunità europea dell’energia atomica): la cooperazione sarebbe stata assai più utile dell’integrazione e sarebbe stato «assolutamente inammissibile» che la Francia rinunciasse alla bomba atomica nel quadro dell’Euratom, ipotesi fortemente discussa all’epoca. Tuttavia, A. si opponeva all’idea, molto diffusa fra i partner della Francia nel 1958, di accettare la proposta britannica di un’ampia zona di libero scambio in cui diluire il Mercato comune. In effetti il suo pragmatismo e la sua visione europeista, seppure non integrazionista, lo inducevano a riconoscere la necessità di un’unione economica dotata di una sua personalità rispetto al mondo esterno, anche se i meccanismi complessi dei Trattati di Roma evidentemente non lo convincevano. Auspicava però che la Gran Bretagna (v. Regno Unito) finisse per aderire alla Comunità economica europea (CEE). Nell’autunno del 1958 i negoziati avviati nel 1957 fra i Sei e gli altri paesi, in particolare la Gran Bretagna, sulla costituzione di una zona europea di libero scambio giungevano a un punto cruciale. A. ritiene indispensabile non far diluire il Mercato comune, che per definizione avrebbe comportato una parziale discriminazione nei confronti dei paesi europei non membri, ma al tempo stesso auspicava la conclusione di un ragionevole compromesso tariffario che tenesse conto degli interessi dei partner, comprese le relazioni fra Gran Bretagna e Commonwealth. A. deplorò la brusca rottura dei negoziati imposta dalla Francia il 15 dicembre 1958, come pure il deteriorarsi dei rapporti fra Parigi e Londra, e continuò a sostenere la necessità di un accordo franco-inglese. In effetti, egli riteneva che l’Europa dovesse fondarsi su un accordo di questo tipo non meno che su un accordo franco-tedesco. L’orientamento della politica francese verso Bonn a partire dal 1960 palesemente non lo entusiasmava: per esempio, dalla sua tribuna regolare su “Le Figaro” non dedicò neppure un articolo al progetto di unione politica europea del 1960-1962 (conosciuto come Piano Fouchet).

Il generale Charles de Gaulle tornò al potere nel giugno 1958. All’inizio A. si mostrò estremamente moderato nei giudizi: dopo tutto, la sua visione di un’Europa pragmatica che non pretendesse di negare le realtà nazionali e la sua diffidenza nei confronti del federalismo coincidevano, almeno a una prima analisi, con gli orientamenti gollisti. A. apprezzava il fatto che il generale non cercasse di stravolgere l’Alleanza atlantica o lo stato delle cose in Europa, ma che volesse semplicemente permettere alla Francia di far sentire meglio la sua voce, un’idea che non lo disturbava affatto. Ma le ambizioni di de Gaulle andavano molto più lontano, mirando a riorganizzare l’Europa occidentale intorno alla coppia franco-tedesca e l’intera Europa intorno al rapporto privilegiato fra Parigi e Mosca, allo scopo di superare la Guerra fredda, mentre gli Stati Uniti sarebbero stati sospinti in una posizione periferica. A. comprese nel 1962 che quel che effettivamente voleva de Gaulle era il ritorno al concerto europeo delle potenze precedente al 1914 (certamente modernizzato per tener conto delle realtà del XX secolo). A partire da questo momento la critica di A. non si rivolse solo ad argomenti particolari, ma investì il cuore della politica di de Gaulle, che mirava ad una sintesi, a suo parere impossibile, fra la vecchia Europa degli Stati e la moderna aspirazione all’unificazione europea (articolo su “Le Figaro” del 14-15 luglio 1962: De Charles-Quint à Clemenceau), tanto più che de Gaulle, nel 1962, annunciò il futuro riavvicinamento fra le due Europe, al di là delle ideologie, e il ritorno ad un sistema internazionale che evocava di fatto il concerto europeo precedente al 1914. Secondo A., ciò era assolutamente insufficiente: «Equilibrio e cooperazione, era la formula di pace all’epoca in cui gli Europei si facevano la guerra più volte al secolo». Ma A. se la prendeva anche con certi orientamenti specifici del generale: in particolare, l’asse Parigi-Bonn voluto da de Gaulle indisponeva non solo gli Stati Uniti, ma anche gli altri partner europei e isolava la Francia.

Ma il 4 luglio 1962, a Filadelfia, John F. Kennedy annunciò quello che è stato definito il suo “grande progetto”, vale a dire una comunità atlantica politica, economica, strategica fondata su due pilastri, l’America del Nord e un’Europa unita che comprendesse la Gran Bretagna. A questo punto entrarono apertamente in conflitto i due “grandi progetti” di un’“Europa europea”, quello di Kennedy e quello di de Gaulle, ed ebbe inizio quel percorso che avrebbe condotto alla conferenza stampa del generale il 14 gennaio 1963 e alla rottura dichiarata fra Parigi e Washington. Da quel momento in poi A. smise di credere nella possibilità di un accordo con Washington. Ai suoi occhi de Gaulle non cercava più un compromesso sulla base di obiettivi precisi, ma un rovesciamento dell’Alleanza atlantica e dell’Europa in funzione di una visione superata del ruolo della Francia nel mondo, rovesciamento che non era di per sé auspicabile e che Parigi, inoltre, non aveva alcuna possibilità di imporre. A. puntò più volte il dito sulla difficoltà principale del progetto gollista: la Repubblica Federale Tedesca non poteva scegliere Parigi contro Washington a meno che la Francia non la incoraggiasse a dotarsi anch’essa dell’arma nucleare, il che era impensabile. Ne seguiva una conclusione perfettamente logica, che era al tempo stesso la critica più forte rivolta da A. contro de Gaulle e senz’altro il punto centrale del loro disaccordo: «È nel quadro atlantico e non a favore di una rivalità franco-americana che può e deve svilupparsi l’amicizia tra la Francia e la Germania» (“Le Figaro”, 4 agosto 1964, Un ensemble occidentale). Per A. l’Europa e l’Alleanza atlantica non erano antinomiche ma complementari. Questo non gli impedì (il gollismo in atto fu per lui una seconda esperienza fondante dopo la Seconda guerra mondiale) di estendere ormai le sue critiche specificamente alla politica europea del generale, in particolare a partire dalla crisi detta della “sedia vuota” del 1965-1966, mentre fino a quel momento aveva spesso dimostrato un certo scetticismo nei confronti delle idee federaliste o sovranazionali che preconizzavano un abbandono della sovranità. In una serie di cinque articoli su “Le Figaro” dedicati all’idea europea, dal 15 novembre al 12 dicembre 1966, A. sviluppò le sue sottili concezioni. In primo luogo constatava che il Mercato comune non era diventato altro che una zona di libero scambio, «un’unità commerciale, non un’unità economica, ancora meno un’unità tecnica» (15 novembre 1966). D’altra parte, l’idea dei padri fondatori secondo cui l’unità politica sarebbe scaturita del tutto naturalmente dall’unità economica si era rivelata falsa (17 novembre, L’échec politique). Di fatto, «l’Europa che si sta sviluppando, sia all’Est che all’Ovest, è un’Europa delle nazioni”. La concezione di Robert Schuman e della sua scuola, secondo cui l’integrazione dell’Europa occidentale avrebbe permesso sia di resistere in un primo tempo all’URSS che di far pazientare la Germania, prima di potersi estendere progressivamente all’Europa orientale quando fosse finita la Guerra fredda, si era rivelata efficace per un certo lasso di tempo, ma ormai non rispondeva più alle realtà del momento, ossia non teneva conto della potenza americana che il Mercato comune non aveva potuto eguagliare e del rifiuto dell’URSS di modificare lo statu quo (7 e 12 dicembre). Tuttavia questo parziale fallimento nulla toglieva all’apporto essenziale dell’impresa: l’instaurazione di «relazioni interstatali di tipo nuovo […] fra popoli divisi da memorie tragiche […] che senza sottrarre agli Stati nazionali la responsabilità delle decisioni ultime devono incoraggiali o aiutarli a comprendersi» (7 dicembre).

Allo stesso tempo, un altro modello di Europa, quello di de Gaulle, era altrettanto condannato al fallimento, ma in modo assai più radicale. Innanzitutto i sovietici non ne volevano sapere, e inoltre esso non poteva che portare ad un equilibrio instabile fra nazioni indipendenti, «senza altri legami all’infuori dei loro mutevoli interessi», a meno che non comparisse un domatore «che non risiederebbe a Parigi» (7 dicembre). A. denunciava «i pericoli dell’evoluzione in corso, che conduce dalla congiuntura di ieri, dominata dalla Guerra fredda, a un’Europa non più separata in due campi ma suddivisa in un gran numero di Stati sovrani» (12 dicembre). Nel dibattito fra gli “europeisti” alla Schuman e gli europeisti gollisti, A. dava fondamentalmente ragione ai primi, ma sottolineando che potevano accontentarsi di aspettare la fase postgollista per riprendere il precedente corso europeo. In effetti, la politica francese, anche dopo de Gaulle, rischiava «di restare, almeno per qualche tempo, di ispirazione gollista» e d’altra parte Bonn tendeva a guardare sempre più a Est. L’entrata della Gran Bretagna nel Mercato comune, di per sé auspicabile, poteva senz’altro provocare un rilancio europeo, ma nell’immediato appariva poco probabile. Quindi era necessario che gli “europei” pensassero in primo luogo a una «stretta intesa fra i paesi dell’Europa occidentale, condizione di un’accresciuta autonomia nei confronti degli Stati Uniti»; e, per raggiungere quest’obiettivo, A. raccomandava di puntare sulla pressione dei “popoli” sui governi (12 novembre, Garder confiance).

L’adesione al progetto europeo di A., complessa e ricca di sfumature, non è stata sempre compresa. Jean Monnet, in ogni caso, non la fraintese e il 17 dicembre 1966 scriveva ad A. di aver seguito i suoi articoli «con interesse crescente» e manifestava la convinzione che in quel momento fosse «necessario agire», cosa che osava «credere possibile», chiedendogli di incontrarlo per «parlargli dei mezzi» ai quali pensava. Di fatto i federalisti francesi erano giunti alle stesse conclusioni di A.: il cammino rapido verso la costituzione di un’Europa sovranazionale che dalla sfera economica sfociasse in quella politica in cui si era creduto fino alla crisi della “sedia vuota” del 1965 era ormai bloccato. In prima istanza bisognava consolidare le acquisizioni della CEE e a questo scopo accogliere la Gran Bretagna nel Mercato comune, per fare da contrappeso al gollismo. Il 16 marzo 1967 Jean Monnet annunciava che il Comitato d’azione per gli Stati uniti d’Europa, all’unanimità, si pronunciava per l’ingresso dell’Inghilterra nella CEE, il che per Monnet ed il Comitato, ostili alla prima domanda di adesione britannica del 1961, rappresentava un notevole cambiamento.

Ma A. si preoccupava anche del mantenimento dell’Alleanza atlantica: a proposito del famoso discorso di Henry Alfred Kissinger del 23 aprile 1973, in cui quest’ultimo propose la stesura di una nuova Carta atlantica e annunciò che per l’amministrazione americana il 1973 sarebbe stato «l’anno dell’Europa», A. approvò l’iniziativa, al contrario di numerosi commentatori europei. In effetti, per Kissinger si trattava di mantenere l’Alleanza atlantica «malgrado i contrasti economici», confermando «alcuni obiettivi politici» comuni, una posizione che corrispondeva perfettamente alle preoccupazioni di A. Sembra che nell’ultima fase della sua carriera, prima della scomparsa nel 1983, A. Tornasse a essere più scettico nei confronti dell’Europa e si preoccupasse preoccupato nuovamente per l’evoluzione del totalitarismo comunista e delle relazioni Est-Ovest, ritenendo che il recupero della solidarietà occidentale si facesse quanto mai pressante. La crisi economica provocata dallo choc petrolifero successivo alla guerra del Kippur indeboliva l’Occidente, che doveva affrontare una recrudescenza dell’attivismo sovietico a partire dal 1975. Inoltre la crisi rendeva più fragili i governi moderati dell’Europa occidentale, in particolare in Italia, dove i comunisti si avvicinavano al potere, e in Francia, dove la posta in gioco delle elezioni legislative del 1978 fra la maggioranza e l’opposizione social-comunista del “Programme commun” appariva eccezionalmente importante, mentre la crisi portoghese a partire dal 1974 e la transizione spagnola dopo la morte di Franco nel 1975 appassionavano le élites francesi. Il pessimismo di A. traspariva nel libro pubblicato nel 1977, Pladoyer pour l’Europe. Ai suoi occhi la crisi investiva l’Europa quanto l’America, se non di più. La crisi contemporanea del funzionamento della democrazia liberale in Francia, in Italia, in Gran Bretagna (Le syndrome de Weimar, “Le Figaro”, 4 agosto 1976), i problemi della Comunità europea, in particolare a causa delle esitazioni britanniche, la prospettiva dell’ascesa al potere dei comunisti in Francia e in Italia sottolineavano l’inesistenza a livello internazionale dell’Europa dei Nove, che pure dopo la guerra del Kippur si era sforzata di smarcarsi dagli Stati Uniti con alcune dichiarazioni prive di conseguenze (L’Europe aussi est en crise, “Le Figaro”, 7 maggio 1975).

In ultima analisi il sistema che A. preferiva era un mondo occidentale concepito come un’ellissi con due fuochi: gli Stati Uniti e un’Europa con una propria personalità, ma su basi realistiche, che tenesse conto delle nazioni e della loro storia e introducesse la sovranazionalità solo con grande cautela, laddove fosse al tempo stesso utile e possibile.

Georges-Henri Soutou (2010)               




Artajo Y Alvarez, Alberto Martín

Uomo politico e accademico spagnolo, A. (Madrid 1905-ivi 1979), dopo aver compiuto gli studi di giurisprudenza a Madrid si specializzò a Nimega, Lovanio, Friburgo e Milano. Assistente di diritto amministrativo all’Università di Madrid, vi divenne docente di politica sociale nel 1944-1945. Entrò per concorso nel Cuerpo de letrados del Consiglio di Stato e ne fu eletto segretario nel 1940. Durante la guerra civile, schieratosi per gli insorti, fu consigliere giuridico della Commissione per il lavoro della Giunta tecnica dello Stato e consigliere tecnico del ministero del Lavoro. Avvocato, vicepresidente dal 1931 e poi presidente dell’Azione cattolica spagnola dal 1939 al 1945, esponente di spicco di un potente gruppo di pressione, la Asociación católica nacional de propagandistas, il 20 luglio 1945 fu nominato da Francisco Franco ministro degli Esteri e mantenne l’incarico nei primi due gabinetti del dopoguerra, fino al 25 febbraio 1957, offrendo al dittatore, in sintonia con gli auspici del cardinale primate Enrique Pla y Deniel e delle alte gerarchie ecclesiastiche spagnole, la piena collaborazione della maggioranza dei cattolici nella prospettiva di un ritorno alla monarchia, di un graduale allontanamento del regime dalle sue connotazioni più spiccatamente falangiste e di un simmetrico avvicinamento alle istituzioni politiche europee.

In stretta cooperazione con Franco, che mantenne un rigido controllo degli orientamenti di fondo in politica estera lasciando spazio assai limitato a un’effettiva autonomia del ministero, A. – in realtà privo di esperienza diplomatica e scelto dal “Caudillo” per il suo profilo moderato e confessionale, utile al regime tanto sul fronte interno quanto nei rapporti con l’estero, in particolare con Londra, con Washington e con la Santa sede – guidò con fedeltà, serietà professionale e prudenza la diplomazia spagnola dal relativo isolamento internazionale della seconda metà degli anni Quaranta (contraddistinto dalla risoluzione che l’Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò il 12 dicembre 1946 per escludere il paese dall’Organizzazione e dalle agenzie a essa collegate, e dalla conseguente rottura delle relazioni diplomatiche con Madrid da parte di quasi tutti gli Stati, con le importanti eccezioni del Portogallo, del Vaticano e della Svizzera) al reinserimento formale nell’orbita politica e nel sistema difensivo degli Stati Uniti, grazie soprattutto all’inasprirsi del confronto politico e militare tra i blocchi occidentale e sovietico nei primi anni Cinquanta.

Esclusa dal Piano Marshall, la Spagna poté giovarsi dell’aiuto alimentare e finanziario assicurato dall’Argentina di Juan Domingo Perón e, riaperta la frontiera nel febbraio 1948, dell’intesa commerciale con la Francia, che si accompagnò a quella rinnovata su base annuale anche dalla Gran Bretagna (v. Regno Unito). A. seguì la preparazione di quegli accordi, si adoperò in buona fede e con alterna efficacia per convincere gli interlocutori della propensione di Franco alla restaurazione della monarchia, cioè a una normalizzazione graduale e controllata della situazione spagnola funzionale alle nuove esigenze della Guerra fredda, sfruttò la sua fitta rete di contatti con il Vaticano per attenuare le forme e la sostanza dell’isolamento diplomatico, e prestò la debita attenzione ai rapporti con Lisbona, anche in considerazione del fatto che il Patto iberico sottoscritto con il Portogallo offriva un aggancio indiretto all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO). Nonostante le ovvie difficoltà collegate alla presenza coloniale in Marocco, ridimensionata solo nell’aprile 1956 dalla firma a Madrid di un accordo con il sultano Maometto V, A. cercò di migliorare le relazioni con i paesi arabi e, sfruttando il concetto di hispanidad e la creazione, nel dicembre 1945, dell’Instituto de cultura hispánica, lavorò per la ristrutturazione dei rapporti con gli interlocutori latinoamericani in modo strumentale alle esigenze del regime franchista. Secondo linee analoghe, attente agli obiettivi locali ma soprattutto alle reazioni delle potenze principali, fu impostata anche la ripresa graduale dell’azione in Asia orientale, dove la fine del conflitto mondiale aveva segnato il momento più critico della presenza spagnola.

Nel medio e nel lungo periodo, comunque, l’investimento diplomatico più accorto e proficuo fu diretto verso gli Stati Uniti, dai quali la Spagna ottenne un prestito di 62,5 milioni di dollari nel novembre 1950. Nel giugno 1951, A. discusse con il diplomatico William D. Pawley, consigliere politico del generale Omar N. Bradley, allora presidente dei Joint chiefs of staff, l’opportunità di un contributo spagnolo alla difesa occidentale, agevolato dalla fornitura di aiuti economici e militari statunitensi. Sebbene il controllo dei successivi negoziati per la concessione di basi al governo di Washington, avviati in luglio, rimanesse saldamente nelle mani di Franco e del generale Juan Vigón, Capo dello stato maggiore, A. si mosse nel suo circoscritto spazio di manovra anche per la conclusione di quei Patti che, firmati a Madrid il 26 settembre 1953, durante il primo mandato del presidente repubblicano Dwight D. Eisenhower, consentirono al regime franchista di creare un legame molto solido con il centro del blocco occidentale quanto meno su base bilaterale, non essendo ancora maturo il tempo per l’inserimento nei contesti multilaterali dell’Alleanza atlantica e, con diversa sfumatura, della Comunità europea. La visita di A. in Egitto, Iraq, Giordania, Libano, Arabia Saudita e Siria, nell’aprile 1952, aveva permesso al governo statunitense di presentare all’opinione pubblica i vantaggi di un accordo con un Paese che godeva non solo di una posizione strategica di importanza primaria ma anche di buone relazioni con il mondo arabo. Ammessa già nel 1950 alla Food and agricolture organization (FAO) e nel novembre 1952 alla United Nations educational, scientific and cultural organization (UNESCO), la Spagna sarebbe poi entrata nell’ONU nel dicembre 1955, raccogliendo i frutti di una marcia di avvicinamento iniziata cinque anni prima e agevolata dalle iniziative diplomatiche realizzate nei confronti dei paesi arabi e latinoamericani, seppur nel costante riferimento agli orientamenti statunitensi. Nel 1956, prima e durante la crisi di Suez, A. consigliò con successo a Franco, che aveva assecondato in un primo tempo la vendita di armi all’Egitto e la propensione di elementi falangisti del regime a stringere i legami ideologici e diplomatici con il nazionalismo nasseriano, di tenersi in linea con il governo di Washington nelle relazioni con Il Cairo.

Molto importanti furono anche la presenza di A. alla guida degli Esteri e la sua stretta collaborazione con Joaquín Ruiz Giménez Cortés e Fernando Maria Castiella, come lui esponenti di spicco del cattolicesimo spagnolo, per i negoziati che sfociarono nel Concordato con la Santa sede, il 27 agosto 1953, e per il mantenimento di contatti con esponenti della democrazia cristiana sul piano europeo, alcuni dei quali si stavano adoperando per la costruzione istituzionale comunitaria in un periodo in cui la Spagna, anche qualora il regime vi avesse dedicato maggiore attenzione e consapevolezza, sarebbe rimasta comunque al margine del processo integrativo. Durante la sua prima visita a Roma, organizzata nel 1949 per l’inaugurazione dell’Anno santo su iniziativa di Ruiz Giménez, allora ambasciatore presso la Santa sede, e del cardinale Domenico Tardini, futuro segretario di Stato, A. fu ricevuto in udienza da Pio XII e da monsignore Giovanni Battista Montini, che con Tardini era allora il più stretto collaboratore del papa per la gestione della Segreteria di Stato, vacante dal 1944. A. colse l’occasione anche per incontrare, tra gli altri, Alcide De Gasperi, Carlo Sforza e Guido Gonella. Di De Gasperi e Sforza A. condivideva solo in parte l’europeismo, limitandosi a quegli aspetti che, vicini ai suoi principi confessionali e conservatori, risultavano anche i più vantaggiosi per un possibile riavvicinamento della Spagna ai paesi impegnati nella costruzione delle nuove istituzioni internazionali e sovranazionali. In tal senso A. incoraggiò le prime forme di interessamento del governo alla cooperazione continentale e, in particolare, appoggiò le attività del Centro europeo de documentación e información (CEDI) (v. Centro europeo di documentazione e informazione), l’organizzazione che, fondata nel 1952, contribuì a mantenere contatti significativi tra alcuni esponenti del regime e vari circoli conservatori europei.

La firma del Concordato, che A. definì un esempio perfetto di collaborazione tra Stato e Chiesa, costituì una tappa significativa per il franchismo, che nelle forme ideologiche e operative del nazional-cattolicesimo e nella cooptazione del laicato militante, soprattutto a partire dalla formazione del nuovo governo del luglio 1945, aveva trovato una delle strade più vantaggiose verso la legittimazione sul piano interno e, nonostante le difficoltà dei primi anni, anche sulla scena internazionale. Non a caso A. fu tra i protagonisti della crisi che diede vita al nuovo gabinetto del luglio 1951, mentre sei anni dopo, nel febbraio 1957, mutati gli equilibri interni al regime e aggiornati gli obiettivi di politica estera, Franco lo sostituì con Castiella. Emarginato dal vero centro del potere, A. continuò comunque a occupare cariche di rilievo in seno al Consiglio di Stato, nei consigli di amministrazione di banche e società, alla presidenza del CEDI e nelle sedi direttive dell’associazionismo cattolico, si dedicò alla stesura di alcuni saggi e rimase una delle personalità più note della politica spagnola, individuato ancora nei primi anni Settanta come la figura di punta della cosiddetta democrazia cristiana franchista e come un uomo di fiducia del dittatore. Sopravvissuto per quasi quattro anni alla sua fine, poté assistere alla transizione verso la democrazia e morì a Madrid nell’agosto 1979.

Massimiliano Guderzo (2010)




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