Attali, Jacques

A. (Algeri 1943), si trasferì a Parigi nel 1956 con la famiglia. Diplomatosi all’école nationale d’administration (ENA) nel 1970, iniziò la sua carriera nel Consiglio di Stato e parallelamente quella di docente di economia in diversi atenei parigini, laureandosi nel 1979 in Scienze economiche. Fin dall’inizio degli anni Settanta cominciò a pubblicare volumi di analisi economica di un certo successo che attirarono l’attenzione del segretario socialista François Mitterrand. Il primo incontro tra il giovane funzionario e il maturo leader politico era avvenuto nel 1968 nella Nièvre, il collegio elettorale di Mitterrand. Fu però solo durante la campagna presidenziale del 1974 che A. divenne prima consulente di Mitterrand nella redazione del programma, poi capo della commissione economica della ristretta équipe de campagne del candidato, benché A. non fosse iscritto al Partito socialista.

Nel corso degli anni A. acquistò importanza nel suo ruolo di consigliere economico del leader socialista, e la sua attività di pubblicista cominciò a varcare i limiti della scienza economica spaziando su temi storici, sociologici e demografici. In questa fase A. rappresentava il versante modernizzatore di Mitterrand, sempre più stretto dalle necessità imposte dall’alleanza con il Partito comunista. Che il suo peso fosse andato crescendo negli anni lo si vide nella campagna elettorale del 1981, quando il comitato elettorale mitterrandiano fu guidato da sole tre figure, e A. era tra queste (gli altri erano Laurent Fabius e Paul Quilès).

Il fatto di essere un’eminenza grigia, un “enarca”, indipendente dal Partito socialista e per di più investitore finanziario farlo rendeva la convivenza di A. con gli altri dirigenti dell’apparato socialista piuttosto scomoda. Perciò Mitterrand preferì non coinvolgerlo nel governo di Pierre Mauroy, ma di tenerlo accanto a sé nell’equipe presidenziale: visto che il ruolo di segretario generale alla presidenza era già occupato da Pierre Bérégovoy, Mitterrand creò l’inedita figura del consigliere speciale del Presidente: un compito delicato, che pose A. sempre a fianco di Mitterrand, il quale in più lo nominò rappresentante personale del capo dello Stato per i vertici del G7.

Fin dall’inizio della presidenza mitterrandiana, A. rappresentò appieno l’ala europeista dell’équipe presidenziale. Tra i 1982 e il 1983, si schierò a favore del rigore economico e per il mantenimento della Francia nello SME, contro il parere dello stesso Mitterrand, inizialmente restio. Fu A., assieme a Jacques Delors, a convincere definitivamente Mitterrand a non far uscire il franco dal circuito monetario europeo. E fu sempre A. a scrivere molti degli interventi di Mitterrand più aperti al mercato, in particolare nella lettera al nuovo primo ministro Laurent Fabius del luglio ’84, in cui il Presidente francese invocava una modernizzazione per rianimare l’economia accompagnata dalla creazione di Istituzioni comunitarie di saperi e tecnologie. Nel 1984 A. si occupò altresì in prima persona del programma EUREKA per lo sviluppo di nuove tecnologie. Nell’organizzazione delle celebrazioni del bicentenario della Rivoluzione francese, a lui affidate, A. si curò di dare all’evento connotazioni europee senza limitarlo a una rivendicazione di una specificità nazionale. Ma il principale sforzo in ambito comunitario di A. fu la creazione della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (BERS) nel 1991.

Nell’estate del 1989 A. invitò Mitterrand a proporre ai partner europei la creazione di una Banca dell’Europa, un progetto che affinò con il direttore del ministero del Tesoro, Jean-Claude Trichet. Già alla fine dell’anno però alcuni paesi espressero i loro dubbi; il Regno Unito chiese che tutti i paesi membri dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) ne fossero azionisti, i tedeschi chiesero che la sede fosse stabilita a Francoforte, gli olandesi chiesero che a dirigerla fosse il loro ministro delle Finanze Onno Ruding. Nel frattempo, il crollo repentino del muro di Berlino convinse A. che la Banca avrebbe dovuto finanziare lo sviluppo dei paesi dell’Est europei e attuare così una sorta di nuovo Piano Marshall per quella parte di Europa uscita dal comunismo. Intanto le difficoltà proseguivano, tra l’esplicita ostilità dell’Irlanda, in quel momento presidente di turno della Comunità europea (v. anche Presidenza dell’Unione europea), fino ai timori per la presenza tra i paesi azionisti dell’Unione Sovietica. Tra mille difficoltà, il trattato istitutivo della BERS fu firmato all’Eliseo nel maggio 1990, anche se la sede dell’istituto fu fissata a Londra; la pretesa che fosse a Parigi avrebbe infatti messo in discussione la sede del Parlamento europeo a Strasburgo, anche se il presidente non fu Ruding, ma lo stesso A., che nel 1991 lasciò il ruolo di consigliere di Mitterrand.

Come spiegò A. nel volume Europe(s) in cui ripercorre le vicende della BERS, «le cose non cominciavano sotto i migliori auspici. La Banca fin dalla sua nascita è più anglosassone che europea nella sua filosofia e nelle sue strutture. Ma la Gran Bretagna e gli Stati Uniti erano furibondi per aver dovuto rinunciare a Ruding e aver dovuto accettare la presenza dell’URSS. Quanto ai piccoli paesi europei, erano delusi dall’aver ceduto sia sulla sede che sulla presidenza». Come presidente della BERS, A. fece il più possibile per coinvolgere l’URSS: nel 1991 invitò Michail Gorbačëv nella sede londinese della Banca contro il parere del primo ministro britannico John Major e obbligò i capi di Stato, presenti in quei giorni nella capitale inglese per una riunione del G7, a ricevere il segretario del Partito comunista sovietico.

Ai pessimi rapporti con il governo britannico si aggiunse la cattiva stampa di cui A. e la BERS furono vittime nel Regno Unito fin dall’inizio, che diffuse voci su malversazioni amministrative. Ciò non impedì ad A. di finanziare diverse iniziative, in particolare gli investimenti per la protezione delle centrali nucleari, per la difesa dell’ambiente, per la costruzione di infrastrutture e per favorire le privatizzazioni. Dopo la caduta di Gorbačëv e l’indebolimento politico di Mitterrand a causa della pesante sconfitta socialista nel marzo 1993, vennero però meno i due interlocutori principali di A., il segretario del PCUS (Partito comunista dell’Unione Sovietica) e il Presidente francese; egli perciò diede spontaneamente le dimissioni dalla presidenza della BERS. Un’istituzione, secondo A., fin dall’inizio sabotata dagli USA e dal Regno Unito. La BERS, osservava al riguardo, era nata per «creare le condizioni che permettessero agli europei di occuparsi da soli dei loro affari, senza gli USA – o almeno senza dominazione americana. Abbiamo tentato di costruire un’Europa continentale unificata e indipendente. L’impresa è fallita. Non sono stati però tanto gli americani ad avere avuto la forza e l’intenzione di distruggere tale iniziativa: sono stati gli europei stessi, all’Est come all’Ovest, che, per ragioni diverse e contraddittorie, non hanno voluto darsi i mezzi per la loro indipendenza».

Nel 1994 A. creò una impresa di consulenza internazionale e nel 1998, fondò Planet finance, un’associazione di microcredito senza scopo di lucro per il finanziamento della piccola imprenditoria nei paesi in via di sviluppo. Ne luglio del 2007 era incaricato dal nuovo Presidente della Repubblica, Nicolas Sarkozy, di presiedere una commissione incaricata di “eliminare i freni alla crescita”.

Marco Gervasoni (2009)




Attilio Cattani




Attlee, Clement Richard

A. (Putney 1883-Londra 1967) crebbe in un ambiente familiare tipico della middle class vittoriana. Henry Attlee, un avvocato che accumulò rapidamente una consistente fortuna con il commercio delle granaglie, era un gladstoniano convinto, mentre la moglie aveva orientamenti più conservatori. Clement fu educato secondo le convenzioni della classe sociale di provenienza: la scuola elementare nell’Hertfordshire, la public school ad Haileybury, dove originariamente si formavano i quadri dell’amministrazione coloniale, e infine l’università a Oxford, dove si laureò in storia nel 1904.

Il torismo giovanile di A., ispirato alla tradizione filantropica ereditata dalla madre, fu ben presto rinnegato a favore dell’adesione agli ideali socialisti che egli maturò in seguito alla lettura di John Ruskin e di William Morris. Accanto alle letture, ebbe un forte impatto sulla sua conversione politica l’impegno sociale con i ragazzi dei bassifondi londinesi dell’East End. Abbandonata la prospettiva di una carriera da avvocato, nonostante avesse superato nel 1905 l’esame per entrare nell’ordine professionale, si occupò a tempo pieno della disciplina e del benessere dei giovani. Nel 1908 si iscrisse all’Indipendent labour party, assumendo rapidamente la carica di segretario del partito a Stepney. Nel 1912 la sua esperienza sociale nell’East End gli valse un posto di lettore in scienze sociali presso la London School of Economics. Lo scoppio della Grande guerra lo convinse della necessità di battersi in prima persona per gli ideali dell’interventismo democratico. Fu aggregato al sesto battaglione del Lancashire del sud e combatté a Gallipoli e in Mesopotamia, riportando gravi ferite. Dopo una lunga convalescenza, tornò a combattere, ma questa volta sul fronte occidentale, in Francia. Alla fine della guerra fu promosso maggiore.

Una volta smobilitato, A. tornò al suo impiego presso la London School of Economics, pubblicando nel 1920 il suo primo libro, The Social Worker, frutto delle sue esperienze precedenti alla guerra. A partire dal dopoguerra, A. si dedicò interamente alla vita politica nelle file del partito laburista. Divenne sindaco di Stepney in seguito al successo ottenuto alle elezioni locali del 1919. Successivamente, abbandonò Stepney e si trasferì a Woodford Green, una zona del nord est di Londra abitata da famiglie della classe media. Si presentò alle elezioni generali nelle file del partito laburista, riuscendo ad essere eletto ai Comuni nel collegio elettorale di Limehouse, a Stepney. A. visse un’intera stagione della lotta politica all’ombra di Ramsay MacDonald, prima come suo segretario particolare e dunque come sottosegretario al War Office nel corso del primo governo laburista, guidato dallo stesso MacDonald nel 1924. Condivise le posizioni moderate del leader laburista, convinto che l’emancipazione delle classi lavoratrici dovesse avvenire attraverso il graduale innesto della legislazione sociale nel tessuto delle istituzioni rappresentative britanniche. Sostenne le Trade unions nella loro azione rivendicativa culminante nello sciopero generale del 1926, senza però condividere la strategia dello scontro frontale, né tanto meno l’estremismo anticapitalista di alcune frange della sinistra del partito.

Nel 1927 A. divenne membro della Commissione parlamentare presieduta da Sir John Simon che aveva il mandato di esplorare la possibilità dell’autogoverno in India. A. si recò oltremare per studiare a fondo la questione, diventando rapidamente un esperto in materia. I tempi e i modi dell’indipendenza indiana nel 1947, allorquando A. era diventato primo ministro, dipesero per una parte significativa dalle convinzioni che egli aveva maturato già nei tardi anni Venti e che avevano trovato espressione nelle parti che egli scrisse di suo pugno nel Report conclusivo dei lavori della Commissione nel 1930. Terminato l’impegno con la Commissione presieduta da Simon, A. entrò nel nuovo governo laburista di minoranza, guidato a partire dal 1929 ancora da MacDonald. A. ebbe la carica di cancelliere del ducato di Lancaster in sostituzione di Oswald Mosley, il quale aveva lasciato l’incarico perché le sue proposte per combattere la disoccupazione dilagante con un forte intervento statale non erano state accettate in nome dell’ortodossia liberista, propugnata dal cancelliere dello scacchiere, Philip Snowden. Di lì a poco Mosley, uscito dalle file del partito, avrebbe fondato la British union of fascists. Nel frattempo, MacDonald e Snowden proseguirono sulla strada del risanamento finanziario, proponendo un piano di tagli drastici alla spesa pubblica. Respinto dalla maggioranza laburista nell’agosto 1931, il piano fu realizzato da un nuovo governo “nazionale”, ancora guidato da MacDonald, il quale aveva nel frattempo abbandonato il partito laburista insieme a Snowden. I primi anni Trenta furono dunque anni difficili per il partito laburista, come del resto rivelò l’esito disastroso delle elezioni di ottobre del 1931. I problemi venivano anche dalla sinistra interna. Proprio in questo periodo nasceva la Socialist league, guidata da Stafford Cripps, e Harold Laski pubblicava un’opera –Democracy in crisis – in cui il gradualismo era criticato aspramente come metodo per giungere al socialismo.

Dallo stato di disorientamento in cui si trovava allora il partito emerse una nuova generazione di quarantenni, i quali, provenienti per lo più dagli ambienti dei ceti medi e intellettuali, erano decisi a mantenere al “centro” la barra politica e ideologica del partito laburista. A. vinse la corsa per la leadership, mentre i concorrenti Greenwood e Herbert Morrison furono battuti. Accanto allo spinoso problema di come uscire dalla crisi economica – continuando con le ricette ortodosse dell’economia liberale oppure adottando la lezione keynesiana che iniziava allora a circolare nelle file laburiste – si stagliava infatti all’orizzonte il problema del fascismo internazionale e della guerra. L’attacco dell’Italia mussoliniana all’Etiopia e l’inizio della guerra civile spagnola rappresentarono uno spartiacque nella storia del laburismo inglese. George Lansbury, pacifista a oltranza, dovette lasciare il posto ad A., il quale, accordatosi con Hugh Dalton e Morrison, spinse il congresso annuale del partito ad approvare una risoluzione a favore delle sanzioni contro l’Italia fascista. A. mostrò nei confronti della politica di riarmo ancora qualche titubanza, che però fu superata con il congresso di Bournemouth nel 1937. A partire da allora, le critiche laburiste nei confronti dell’appeasement furono sempre più intense fino a quando il 3 settembre 1939 la Gran Bretagna (v. Regno Unito) entrò in guerra contro Hitler con il pieno appoggio laburista. L’8 novembre 1939 A. intervenne ai Comuni. Con il suo discorso, egli intese sbarrare la strada a quanti sperassero ancora di giungere a un accomodamento con Hitler; quindi lanciò un drammatico appello ai popoli europei perché unissero i loro sforzi contro l’avvento del totalitarismo.

In seguito alla campagna che l’esercito tedesco condusse contro la Norvegia, il partito di A. si dichiarò disponibile a partecipare a un governo di coalizione che non fosse però guidato da Chamberlain. Il governo fu affidato a Winston Churchill, l’uomo politico che più di ogni altro aveva criticato la politica dell’appeasement nei confronti della Germania nazista. A. ebbe un ruolo di grande importanza nel governo per tutta la durata del conflitto, rimanendo a fianco di Churchill nei momenti più difficili. La conduzione della guerra fu svolta da tre commissioni tra loro collegate. A. prese parte (fino a diventarne presidente) al Lord president committee, vale a dire la commissione che si occupava dell’economia di guerra nonché dell’organizzazione della vita sociale. Fu anche il vice di Churchill nelle commissioni da questo dirette: il Gabinetto di guerra e la commissione di Difesa. Quando Churchill era assente, toccava ad A. riferire in Parlamento circa l’andamento delle operazioni militari. Negli anni della guerra A. dovette gestire un problema politico estremamente complesso: da un lato, doveva operare per l’unità del governo, tenendo a freno le spinte più radicali provenienti dalla sinistra del partito laburista; dall’altro, doveva preoccuparsi dell’unità del partito, stimolando il governo sulla strada di una graduale trasformazione della società. La “guerra popolare” di A. aveva insomma una duplice dimensione: da un lato, era una guerra combattuta da un popolo libero contro l’aggressione totalitaria, dall’altra significava un deciso impegno per la trasformazione sociale attraverso un intervento delle istituzioni pubbliche a favore di una maggiore uguaglianza sociale.

La vittoria elettorale dei laburisti all’inizio del luglio 1945, a cui seguì il 28 dello stesso mese l’annuncio della formazione di un governo presieduto da A., era il risultato di un programma elettorale efficace che prometteva pieno impiego, un vasto piano di nazionalizzazioni e la riorganizzazione dei servizi sociali secondo le direttrici indicate dal Rapporto Beveridge del 1942. Il governo A. realizzò la costruzione di un moderno Stato sociale (con al centro il National health service) nonché un vasto piano di nazionalizzazioni (dalla Banca d’Inghilterra alle miniere del carbone fino alle acciaierie, alle ferrovie, al gas e all’elettricità). Se la politica estera non aveva avuto un ruolo particolare nella vittoria laburista, essa tuttavia tornò a giocare un ruolo decisivo quando il clima di cooperazione esistente tra i vincitori della coalizione anti-hitleriana venne rapidamente meno, già a partire dal 1946. A. e il ministro degli esteri Ernest Bevin guidarono la Gran Bretagna negli anni della Guerra fredda seguendo linee strategiche probabilmente non dissimili da quelle che avrebbe seguito un governo conservatore guidato da Churchill. Scartata l’ipotesi terzaforzista e socialista, caldeggiata da quella parte della sinistra laburista che si era riunita a partire dal 1947 nel gruppo Keep Left, A. e Bevin cercarono infatti di mettere in atto la teoria churchilliana dei “tre cerchi”. Secondo questo ragionamento, il rafforzamento della special relationship con gli Stati Uniti doveva servire da puntello per la conquista di un ruolo di primo piano nella formazione dei nuovi equilibri europei, evitando però che questo ruolo di primo piano nel vecchio continente, accompagnato da forme di integrazione economica e militare, finisse per distogliere il governo britannico dal compito decisivo, cioè la riorganizzazione del Commonwealth su nuove basi.

Il terreno principale di questa complessa strategia fu la Guerra fredda. Già nel corso delle conferenze dei ministri degli Esteri che si tennero tra l’autunno 1945 e la primavera del 1946, i britannici si batterono contro la pressione sovietica in attesa che gli americani assumessero le redini del mondo occidentale, abbandonando l’aspirazione di Franklin Delano Roosevelt di collaborazione mondiale con l’URSS. La contestazione che settori del laburismo inscenarono contro il discorso di Churchill sulla “cortina di ferro” fu respinta con durezza da A., il quale mostrò una forte consapevolezza della realtà del confronto globale tra le democrazie occidentali e l’impero sovietico in via di formazione. In considerazione delle difficoltà dell’economia, A. spinse un riluttante Bevin ad accettare la prospettiva del ritiro della Gran Bretagna da alcune aree strategiche; prospettiva che il titolare del Foreign office accettò laddove gli Stati Uniti mostrarono una decisa propensione a intervenire, come effettivamente avvenne in Grecia e in Turchia nella primavera del 1947. A. aveva compreso che il declino dell’impero era diventato inarrestabile e che la posizione britannica nel mondo dovesse affermarsi in nuove forme. Anche grazie alle competenze che aveva acquisito come membro della Commissione Simon alla fine degli anni Venti, A. indicò tempi e modi dell’indipendenza del subcontinente indiano nella convinzione che la fine dell’impero avrebbe contribuito alla riorganizzazione del Commowealth. Effettivamente, i due Stati che uscirono dal processo di indipendenza, l’India e il Pakistan, entrarono a far parte del Commonwealth che già nel 1949 mutò le regole di adesione, estendendo la possibilità anche agli Stati che si erano dati forme repubblicane.

Pur non mancando in questi anni motivi di contrasto con gli americani (la sospensione del lend lease act, il condizionamento di nuovi prestiti alla convertibilità della sterlina, la mancata condivisione delle informazioni cruciali per la costruzione della bomba atomica), il governo presieduto da A. puntò con forza sull’intervento statunitense in Europa come elemento chiave della propria politica estera. Bevin spinse il presidente Harry Spencer Truman a elaborare un progetto di aiuti economici per la ripresa europea, che si concretizzò con il Piano Marshall. Grazie all’iniziativa del titolare del Foreign office, con il quale A. era oramai entrato in piena sintonia, la Gran Bretagna ebbe un ruolo decisivo nei negoziati che condussero alla nascita dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE). Il 1948 si aprì a Londra con il discorso di inizio anno tenuto dal primo ministro. Nel corso della sua prolusione, A. pose l’accento sulla collaborazione tra USA e Gran Bretagna contro l’espansione della tirannia sovietica in Europa. Nella fase più dura della Guerra fredda, segnata dal colpo di Praga del febbraio 1948, A. mantenne un atteggiamento di fermezza, equiparando a più riprese fascismo e comunismo e collocandoli entrambi dentro la comune cornice del totalitarismo. I comunisti britannici furono interdetti dalle cariche cruciali per la sicurezza dello Stato. La sinistra laburista denunciò l’attacco alle libertà civili.

A conclusione delle trattative per il Patto di Bruxelles, iniziate da Bevin con l’intento di dimostrare agli americani la volontà degli europei di contrastare anche sul terreno militare la minaccia comunista e allo stesso tempo di rassicurare gli europei circa la determinazione britannica a svolgere un ruolo centrale nella difesa dell’Europa, A. annunciò al Parlamento il 17 marzo 1948 l’adesione britannica al patto (v. anche Unione dell’Europa occidentale). Nel contesto della Guerra fredda, il governo laburista si faceva nel complesso promotore di forme di intensa cooperazione europea (economica e militare), che tuttavia non intaccassero la sovranità degli Stati. Il culmine del disegno britannico sembrò raggiunto con la firma a Washington dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), il 4 aprile 1949. La tutela statunitense sull’Europa rendeva la special relationship anglo-americana un elemento decisivo per l’affermazione di un ruolo di primo piano per Londra in Europa. Se è vero – come lo stesso A. ha narrato nelle sue memorie – che il Patto di Bruxelles e il Patto atlantico rappresentarono essenzialmente il frutto dell’impegno personale di Bevin, si deve nondimeno aggiungere che A. contribuì a rafforzare quelle scelte, compiendo un paziente lavoro di tessitura all’interno del partito laburista per cercare di isolare le forze antiamericane, come il gruppo Keep Left.

A. non aveva mai creduto a una politica estera volta a costruire una federazione europea (v. anche Federalismo), se si eccettua qualche vago riferimento all’inizio della guerra antihitleriana. Fu costantemente scettico verso le posizioni terzaforziste, in particolare nei confronti di quelle che circolavano intorno al 1947-48 nella sinistra socialista per opera del gruppo Keep Left, i cui esponenti erano convinti che compito della Gran Bretagna laburista fosse quello di guidare l’Europa come soggetto internazionale equidistante dall’URSS e dagli USA. Già nel 1945 A. aveva espresso un forte scetticismo circa le basi materiali e spirituali della terza forza europea, sostenendo – in una lettera a un vecchio amico sindacalista, Fenner Brockway – che ciò che era rimasto dell’Europa dopo la guerra di Hitler non era sufficiente per resistere alla pressione sovietica senza l’impiego della forza economica e militare, rappresentata dagli USA. Al di là delle posizioni terzaforziste, emersero nel corso di quegli anni anche le motivazioni dell’estraneità di A. e del suo governo rispetto alla prospettiva della federazione europea, caldeggiata invece dagli Stati Uniti. In sintonia con Bevin, A. era convinto che la federazione europea avrebbe innanzi tutto messo fine alla specificità della tradizione giuridica britannica, immergendola nel calco del costituzionalismo europeo continentale. Integrando la Gran Bretagna nello spazio europeo, la federazione avrebbe inoltre finito per allentare i forti legami che invece Londra intendeva mantenere con il Commonwealth. Ancora, la natura stessa della special relationship con gli USA sarebbe stata modificata in profondità qualora Londra non avesse più svolto la funzione di iniziativa e mediazione che aveva svolto per il Piano Marshall, il Patto di Bruxelles e il Patto atlantico. Infine, i progetti di pianificazione socialista, intrapresi dal governo laburista a partire dal 1945, sarebbero stati ostacolati da un super-Stato europeo, nato sotto le insegne del moderatismo di Robert Schuman, Alcide De Gasperi e di Konrad Adenauer.

Una celebre battuta di A. («Non ho fiducia negli Europei, perché non giocano a cricket») rappresenta qualcosa di più di una tipica espressione dello humour inglese. Il disagio nelle relazioni con i partner europei si acuì allorquando questi ultimi (e in particolare la Francia) misero in campo progetti di integrazione europea che entravano in contrasto con il design britannico (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Le autorità francesi raccolsero le proposte per un’assemblea europea, lanciata dal Movimento europeo presieduto da Churchill, nella convinzione che la carta dell’integrazione potesse risultare utile affinché la Francia uscisse dallo stato di marginalità in cui si trovava nell’ambito del sistema occidentale che si andava allora costituendo. Soprattutto Schuman pensò che un asse franco-tedesco potesse bilanciare l’iniziativa inglese, risolvendo il problema della ricostruzione della Germania e del riarmo tedesco in modo consono agli interessi francesi. Iniziava allora una forte conflittualità tra il governo britannico e quello francese che giunse a una tregua con la nascita del Consiglio d’Europa. L’ostilità del laburismo inglese guidato da A. nei confronti delle iniziative funzionaliste (v. Funzionalismo) di Jean Monnet (dall’integrazione del carbone e dell’acciaio fino al progetto di difesa comune) è ben rappresentato dai giudizi sferzanti che il periodico laburista, “New Stateman” dedicò alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), stigmatizzata come l’espressione di un accordo reazionario tra Vaticano, industriali della Ruhr e burocrazie francesi.

Dopo la sconfitta di misura riportata alle elezioni dell’ottobre 1951, che aprì la strada al ritorno al potere di Churchill, A. rimase a capo del partito per altri quattro anni, anche se la sua rinomata capacità di mediare tra le diverse anime del partito sembrava oramai essersi logorata. Del resto, questo logoramento era già emerso nell’aprile 1951 con le dimissioni di Aneurin Bevan da ministro della Sanità per protestare contro le deroghe alla gratuità del servizio sanitario, decise dal cancelliere dello scacchiere Hugh Gaitskell per finanziare il riarmo britannico. Quando i laburisti vennero sconfitti per la seconda volta, alle elezioni generali del 1955, A. decise di ritirarsi dalla scena politica, lasciando il posto di leader laburista a Gaitskell. A. ricevette quale riconoscimento della sua attività politica e istituzionale il titolo di conte.

Luca Polese Remaggi (2010)




Atto Unico Europeo

Introduzione

L’ Atto unico europeo (AUE) ha rappresentato il punto di svolta del processo di integrazione dei mercati che, iniziato nel 1957 con l’istituzione della Comunità economica europea (CEE), ha subito una battuta d’arresto nel corso degli anni Settanta, a causa del verificarsi di forti squilibri economici e monetari. In particolare, con l’Atto unico sono state apportate una serie di modifiche al Trattato di Roma (v. Trattati di Roma) istitutivo della Comunità economica europea (Trattato CEE) e agli accordi sulla Cooperazione politica europea (COPE), modifiche dirette a rilanciare il cammino comunitario.

Dal punto di vista formale, l’Atto unico si presenta come un documento unico composto da due distinti volets costituiti, a loro volta, da quattro titoli ed un atto finale: disposizioni comuni che illustrano gli obiettivi e i limiti di funzionamento delle Istituzioni comunitarie nell’ambito della cooperazione politica e dei Trattati CEE, nonché del Consiglio europeo; disposizioni che modificano il Trattato CEE; disposizioni sulla cooperazione europea in materia di politica estera (v. anche Politica estera e di sicurezza comune); disposizioni generali e finali; atto finale: contenente venti dichiarazioni a processo verbale sulla interpretazione che la Conferenza o gli Stati membri attribuiscono alle modifiche apportate con l’Atto unico. Questa unicità ha permesso di procedere in modo coordinato e globale in direzione dell’Unione europea, senza sancire formalmente la separazione tra l’aspetto economico e l’aspetto politico. Tale unicità ha acquistato un particolare valore simbolico. Con essa si è voluto, infatti, mostrare all’opinione pubblica e ai paesi terzi che gli Stati membri della Comunità europea erano realmente intenzionati a trasformare l’insieme delle loro relazioni – economiche, monetarie e politiche – in un’Unione europea.

Accanto all’aspetto formale rilevano gli aspetti sostanziali. Principale obiettivo dell’Atto unico è stato la realizzazione, entro il 1992, di un mercato comune (v. Comunità economica europea), ossia di uno spazio senza frontiere interne nel quale potessero circolare liberamente merci, servizi, persone e capitali (v. Libera circolazione delle merci; Libera circolazione dei servizi; Libera circolazione delle persone; Libera circolazione dei capitali).

Parallelamente alla creazione del mercato interno l’Atto unico ha previsto il ravvicinamento delle politiche degli Stati membri in materia economica e sociale. Tale ravvicinamento si è reso necessario a causa dell’esistenza di barriere tecniche agli scambi formatesi a seguito dell’adozione, da parte di ciascun Stato membro, di politiche industriali proprie, nonché a causa della sempre maggiore divergenza che si andava realizzando tra le politiche nazionali in materia di tutela della salute, del lavoro e dell’ambiente.

Anche una serie di norme dirette a modificare o completare il processo decisionale delineato nel Trattato CEE ha trovato collocazione nell’Atto unico. Si tratta, in particolare, dell’inserimento del principio del voto a Maggioranza qualificata che ha sostituito, in ipotesi significative, il principio del Voto all’unanimità. L’introduzione del voto a maggioranza ha impresso un maggiore dinamismo al processo decisionale del Consiglio e ha consentito il compimento di un salto qualitativo nelle procedure comunitarie.

Oltre al Consiglio, anche le altre due istituzioni comunitarie, il Parlamento europeo (PE) e la Commissione europea, hanno costituito oggetto di interesse nel processo di riforma istituzionale concretizzatosi con la firma dell’Atto unico. Con particolare riguardo al PE si deve osservare che, seppure non sia stato possibile attribuire allo stesso una competenza ed una responsabilità di carattere realmente codecisionale (v. Codecisione; Procedura di codecisione), la previsione di una formula di cooperazione tra Parlamento e Consiglio (v. Procedura di cooperazione), nonché l’introduzione del sistema della doppia lettura hanno notevolmente migliorato il ruolo del PE nei processi normativi comunitari.

Per quanto concerne la Commissione, sono stati compiuti alcuni progressi relativamente ai poteri esecutivi della stessa. In particolare nell’AUE è stato previsto che, anche in presenza di un parere contrario degli Stati membri, la Commissione potesse, comunque, adottare misure di esecuzione.

L’Atto unico ha, altresì, disposto il rafforzamento della cooperazione monetaria, nonché l’introduzione, tra le competenze della Comunità, di due nuove materie: la tutela dell’ambiente (v. Politica ambientale) e la ricerca scientifica e tecnologica (v. Politica della ricerca scientifica e tecnologica).

Con l’Atto unico si è, infine, proceduto all’istituzionalizzazione della cooperazione politica europea, il cui scopo era quello di giungere a una politica estera comune. A tal fine gli Stati membri erano tenuti a consultarsi preventivamente in vista di azioni comuni concernenti questioni di politica estera di interesse generale.

Entrato in vigore il 1° luglio 1987, a seguito della ratifica dei parlamenti nazionali degli Stati membri, l’Atto unico è stato sottoscritto in due fasi: il 17 febbraio a Lussemburgo firmavano 9 Stati membri, mentre Italia, Danimarca e Grecia procedevano alla sottoscrizione dell’Atto il 28 febbraio, successivamente al referendum danese. In Italia l’Atto unico europeo è stato ratificato e reso esecutivo con la L. 23 dicembre 1986, n. 909. La ratifica dell’Atto unico era stata subordinata, in Italia, al parere favorevole del Parlamento europeo.

Genesi dell’Atto unico: il progetto Genscher-Colombo

L’Atto unico europeo ha rappresentato la conclusione di un lungo percorso negoziale iniziatosi il 9 luglio 1981 su iniziativa del Parlamento europeo e conclusosi il 28 febbraio 1986 con le prime sostanziali modifiche ai Trattati di Roma approvate dalla Conferenza intergovernativa (CIG), convocata dal Consiglio europeo tenutosi a Milano, nel giugno 1985, sotto presidenza italiana.

Al fine di rilanciare il processo di costruzione comunitario giunto al limite delle sue potenzialità, Altiero Spinelli aveva proposto la creazione in seno al Parlamento europeo di una Commissione per i problemi istituzionali. Si trattava di una scelta strategica che avrebbe consentito all’Assemblea di Strasburgo di svolgere, negli anni futuri, un ruolo trainante nel sollecitare il Consiglio ad adottare le riforme necessarie all’evoluzione della Comunità.

I lavori, oltre che in seno alla neonata Commissione istituzionale, si svolsero informalmente nel cosiddetto “Club del Coccodrillo”, che prese nome da un famoso ristorante di Strasburgo, dove Spinelli era solito svolgere alcune riunioni.

Spinelli decise di concentrare i lavori su un progetto di Trattato dell’Unione europea. Quest’ultima avrebbe posseduto competenze proprie e organi decisionali tali da prefigurare la nascita di una struttura con forti caratteristiche federali. I compiti dell’Unione, nel progetto elaborato dal Parlamento europeo, avrebbero dovuto tendere a rafforzare la solidarietà dei popoli nel rispetto dei diritti e dei valori individuali e collettivi e delle libertà democratiche.

A seguito del raggiungimento dell’obiettivo primario di realizzazione dell’unione doganale, avvenuta nel 1968, e dell’allargamento della Comunità economica europea, con l’adesione di Regno Unito, Grecia, Spagna e Portogallo, si rese necessaria una rivisitazione del sistema di partecipazione alle risorse comunitarie e della Politica agricola comune. Con il passaggio al sistema delle risorse proprie si prevedeva un’autonomia finanziaria della Comunità: il suo bilancio non veniva più a dipendere dai contributi versati dai singoli Stati membri (v. Bilancio dell’Unione europea). Il sistema delle risorse proprie, infatti, prevede delle precise fonti: i dazi doganali, i prelievi agricoli, le aliquote sull’IVA. Questo sistema avrebbe permesso di sottrarsi alla legge del “giusto rimborso” e avrebbe dovuto realizzarsi progressivamente: sarebbe divenuto effettivo per i nove Stati membri solo a partire dal 1980. Nel corso della preparazione del bilancio del 1980 ci si rese conto che il Regno Unito forniva il 20% delle risorse e beneficiava solo del 10%, circa, delle spese. Questo scarto derivava dal fatto che il Regno Unito importava molte materie prime e la sua agricoltura era relativamente debole rispetto a quella degli altri Stati membri. Pertanto, il Regno Unito fruiva in modo minore degli aiuti all’agricoltura che, invece, rappresentavano una parte rilevante del bilancio della Comunità.

La soluzione di questi problemi venne affidata alla Commissione europea mediante un mandato del Consiglio (mandato del 30 maggio 1980).

Nella redazione del suo rapporto, tuttavia, la Commissione ritenne impossibile limitare il proprio studio ai soli problemi agricoli e di risorse, considerando, invece, necessario soffermare l’attenzione anche sulle c.d. “nuove politiche”. Per rilanciare il processo di integrazione comunitario si sarebbe reso necessario, oltre un riequilibrio del sistema delle risorse proprie e dei programmi di sostegno all’agricoltura, il rafforzamento e l’istituzionalizzazione del Sistema monetario europeo, la realizzazione di un mercato interno, lo sviluppo di nuove tecnologie e di politiche energetiche.

La Commissione, infatti, intendeva riequilibrare non solo il sistema finanziario, ma anche il campo d’azione della Comunità, fino a quel momento dominato dall’agricoltura. Per raggiungere questo obiettivo era necessario creare un legame tra gli aspetti finanziari, agricoli e le “nuove politiche”: in questo modo gli Stati membri che beneficiavano in misura minore della politica agricola comune avrebbero apprezzato maggiormente i vantaggi derivanti dalla loro partecipazione alla Comunità e, in materia finanziaria, avrebbero avuto un approccio meno braquée. La ricerca di una simile soluzione si inseriva all’interno dei negoziati che avrebbero dovuto portare al lancio di una nuova costruzione politica europea.

In tale contesto si inseriva il Piano Genscher-Colombo (dal nome dei ministri degli Esteri tedesco e italiano, appunto Hans-Dietrich Genscher ed Emilio Colombo, che lo presentarono) di un Atto europeo”, progetto che rappresentò un importantissimo strumento sul quale si è basata la costruzione dell’Atto unico europeo.

Il piano prevedeva la creazione di un legame tra l’azione posta in essere dagli Stati membri nel quadro della Comunità e la cooperazione politica. Quest’ultima forma d’azione sarebbe stata garantita dal Consiglio dei ministri, mentre l’organo di “direzione politica” sarebbe stato il Consiglio europeo. Il testo definitivo, che non portava il nome di “Atto” ma di “Dichiarazione solenne sull’Unione europea”, fu sottoscritto dai dieci capi di Stato e di governo a Stoccarda il 19 giugno 1983. La Dichiarazione di Stoccarda elenca le istituzioni dell’Unione, prevede il ripristino della procedura di votazione a maggioranza qualificata, dispone che, relativamente alla cooperazione politica, i governi dovranno cercare di «facilitare il processo di decisione al fine di raggiungere il più rapidamente possibile delle posizioni comuni». Inoltre, vi si definisce il campo di azione dell’Unione europea sui piani comunitari: politica estera, cooperazione culturale, ravvicinamento delle legislazioni.

I risultati raggiunti furono meno ambiziosi rispetto agli obiettivi iniziali. Il progetto, che si proponeva di avviare una riforma istituzionale, si concluse infatti, con l’adozione di un testo finale che, dopo un preambolo contenente una serie di paragrafi che avrebbero ispirato il preambolo dell’Atto unico, definiva, in via generica, gli obiettivi dell’Unione europea. La Dichiarazione conteneva anche un inciso ai sensi del quale «L’applicazione delle procedure di decisione (v. Processo decisionale) previste nei Trattati di Parigi (v. Trattato di Parigi) e di Roma rivestono un’importanza essenziale al fine di migliorare la capacità d’azione delle Comunità europee».

Per quanto riguarda la cooperazione politica, nella Dichiarazione era previsto che i governi avrebbero dovuto «cercare di facilitare il processo di decisione al fine di raggiungere più facilmente delle posizioni comuni».

Dopo il capitolo istituzionale, la Dichiarazione di Stoccarda conteneva una definizione del campo d’azione dell’Unione sul piano comunitario e nella politica estera, nonché una definizione di cooperazione in materia di cultura e in tema di ravvicinamento delle legislazioni.

Approvazione del Progetto di trattato che istituisce l’Unione europea (14 febbraio 1984)

Nel dibattito sul rilancio del funzionamento delle istituzioni comunitarie e – più in generale – del processo di unificazione politica europea, un ruolo di rilievo fu svolto dal Parlamento europeo. In particolare, alcuni parlamentari di diversi gruppi, dietro l’impulso di Altiero Spinelli, sottoposero all’Assemblea un «progetto di trattato che istituisce l’Unione europea» con il quale si intese predisporre lo schema di ciò che avrebbe dovuto costituire l’Unione europea.

Il gruppo, definito il “club del Coccodrillo” dal nome del ristorante in cui erano soliti riunirsi i membri dell’Assemblea per discutere di questioni legate all’avvenire europeo, era intenzionato a «scuotere la paralisi nella quale si trovavano le istituzioni comunitarie a seguito del determinarsi di uno squilibrio, nel sistema decisionale, tra Consiglio e Parlamento, nonché dalla limitatezza delle competenze previste nel Trattato di Roma».

Il progetto, approvato dal Parlamento europeo in seduta plenaria il 14 febbraio 1984 (con 237 voti a favore, 31 contrari e 43 astensioni), si presentava come una costruzione coerente ed equilibrata, nonché profondamente democratica e prevedeva la trasposizione dell’acquis communautaire (v. Acquis comunitario) esistente nel diritto dell’Unione.

Dal punto di vista istituzionale, il progetto prevedeva la realizzazione di una vera e propria struttura confederale, l’Unione europea, dotata di autonoma personalità (v. Personalità giuridica dell’Unione europea), di competenze proprie e di organi decisionali e di controllo.

Per quanto riguarda le competenze, erano contemplate quelle esclusive, concorrenti e sussidiarie. Relativamente alle competenze esclusive, esse non avevano subìto alcun cambiamento nel progetto restando, pertanto, uguali, dal punto di vista contenutistico, a quelle riconosciute alla Comunità dal Trattato CEE.

Circa gli aspetti istituzionali, i principi del nuovo trattato si ispiravano alla separazione dei poteri, alla legittimità ed al controllo democratico, alla partecipazione degli Stati, nonché al miglioramento delle capacità di decisione e di funzionamento della Comunità. Sulla base di questi principi avrebbe dovuto essere realizzato un nuovo equilibrio istituzionale tale da permettere al Consiglio e al Parlamento l’esercizio congiunto dei poteri legislativi, di bilancio e di ratifica dei Trattati internazionali. Anche i poteri della Commissione esecutiva avrebbero dovuto essere rafforzati.

Il Trattato disponeva anche l’uso di determinati strumenti per il raggiungimento degli obiettivi dell’Unione. Si trattava dell’azione comune e della cooperazione. Il primo consistente in un metodo sopranazionale previsto dal Trattato per le azioni proprie dell’Unione, il secondo in un impegno assunto dagli Stati membri nel quadro del Consiglio europeo.

Non va tralasciato l’aspetto più all’avanguardia del progetto, ossia la previsione della soppressione del Voto all’unanimità. Venivano totalmente eliminate le ipotesi di decisione all’unanimità e si disponeva che il Consiglio avrebbe sempre deciso alla maggioranza.

Una particolarità del progetto va, altresì, rinvenuta nell’art. 82, in base al quale si prevedeva che il Trattato fosse «aperto alla ratifica di tutti gli Stati membri delle Comunità europee». Non era, pertanto, prevista alcuna fase di sottoscrizione. L’intento era quello di saltare la tappa dei negoziati tra i governi e passare la parola, direttamente, ai Parlamenti nazionali. Proprio su questa disposizione, si sono basate la maggior parte delle critiche mosse al progetto e che hanno fatto sì che non fossero raggiunti gli ambiziosi obiettivi inizialmente posti.

Nonostante la modestia dei risultati concreti ottenuti, l’approvazione del progetto di trattato Spinelli è valsa a sensibilizzare l’opinione pubblica sul problema del rilancio dell’Europa e a porre le premesse di quel che sarebbe stato un problema ineludibile nei mesi successivi.

Il progetto di Trattato costituiva, infatti, il primo passo formale verso l’apertura del problema della riforma della Comunità, questione che avrebbe occupato il lavoro dei successivi Consigli europei.

Il Consiglio europeo di Fontainebleau (giugno 1984)

La questione del rilancio dell’Europa costituì uno degli elementi portanti del programma della presidenza francese del 1984. L’obiettivo primario del governo francese fu il rilancio del pacchetto di Stoccarda con particolare attenzione alla questione agricola, al rimborso del bilancio al Regno Unito, nonché al problema delle risorse proprie (v. Bilancio dell’Unione europea). Tuttavia, il governo francese si mostrò intenzionato a non limitare la sua attenzione esclusivamente a quei temi. Forte era, infatti, il desiderio di rilanciare il dibattito sul futuro della Comunità, di portare a compimento l’originario progetto di dare vita ad un’Unione europea, come prospettato dal Parlamento europeo nel documento approvato il 14 febbraio 1984. A un mese dal Consiglio europeo di Fontainebleau il Presidente François Mitterrand, nel suo discorso di fronte al Parlamento europeo dichiarò, fra l’altro: «la situazione nuova deve corrispondere un Trattato nuovo, che non potrebbe sostituirsi ai trattati esistenti, ma li prolungherebbe nei settori che sfuggono ad essi. È il caso dell’Europa politica. Per tale impresa la Francia è pronta».

Nel corso della presidenza francese il Consiglio europeo di Fontainebleau, che concluse la presidenza francese, rappresentò una svolta determinante (v. Accordi di Fontainebleau). Al Consiglio, che si limitò a individuare le modalità organizzative dei futuri lavori, va riconosciuto il pregio di aver creato due Comitati ad hoc diretti, il primo a rafforzare e promuovere l’identità e l’immagine della Comunità presso di cittadini e nel mondo, il secondo ad affrontare le questioni istituzionali. Si trattava, nel secondo caso, del Comitato Dooge dal nome del Senatore irlandese incaricato di presiederlo (v. Dooge, James). A tale Comitato venne affidato il compito di individuare le modalità mediante le quali migliorare il funzionamento della cooperazione politica europea. Non v’è dubbio che tra i due Comitati quello sulle questioni istituzionali acquistò maggior rilievo.

Importanti furono le conclusioni cui pervenne il Comitato Dooge, i cui lavori iniziarono sotto presidenza irlandese. Un rapporto fu presentato al Consiglio europeo di Dublino, il 4 dicembre 1984: nel preambolo veniva affermato che «con quel documento i redattori si limitavano ad indicare gli obiettivi, le politiche e le riforme istituzionali indispensabili per ridare all’Europa il vigore e l’ambizione delle sue origini». Conclusioni che sono state, in linea di massima, approvate dal Consiglio europeo di Dublino il quale, incaricò contestualmente il Comitato di procedere nei lavori e presentare una relazione che, dopo un esame preliminare da svolgere nel corso del Consiglio europeo di Bruxelles che si sarebbe riunito, sotto presidenza italiana, nel marzo 1985, avrebbe costituito l’oggetto principale del Consiglio europeo di Milano del giugno 1985.

La Presidenza italiana e la missione di Ferri nelle capitali europee

Lo scenario che si prospettava alla vigilia della presidenza italiana era assai complesso. Per la prima parte del semestre l’attenzione era stata assorbita dalla soluzione del problema dell’allargamento, che rischiava di paralizzare ogni attività comunitaria essendo a esso strettamente connessa la questione del rimborso del bilancio al Regno Unito e del sistema delle risorse proprie.

Il Regno Unito, assieme a Grecia e Danimarca continuava a portare avanti la battaglia contro un rafforzamento della costruzione europea.

Fortunatamente, tutti questi problemi vennero affrontati e risolti nel corso del Consiglio europeo di Bruxelles, allorquando il Comitato Dooge presentò la sua relazione conclusiva.

Il rapporto finale presentato dal Comitato si presentava quale formulazione equilibrata di una serie di proposte che, nonostante alcune riserve avanzate dai rappresentanti danese, inglese e greco, costituiva una base sufficiente di consenso per il rilancio dell’idea europea e la realizzazione di una riforma sufficientemente articolata. In particolare, nella relazione era prevista la creazione di uno spazio economico omogeneo, un vero mercato interno basato sul rafforzamento della competitività dell’economia europea, sulla promozione della convergenza economica, nonché sul potenziamento del Sistema monetario europeo e la mobilitazione delle risorse necessarie. Era altresì prevista la promozione dei valori comuni di civiltà nei campi della cultura e dell’ambiente e l’attuazione progressiva di uno spazio sociale europeo e di uno spazio giuridico omogeneo. Infine, veniva proposta la ricerca di una identità esterna, da perseguire mediante una politica estera comune e azioni concertate nel campo della sicurezza e della difesa.

Il Comitato prevedeva, quanto al metodo, di «riunire una Conferenza dei rappresentanti dei governi degli Stati membri che avrebbe dovuto negoziare un progetto di trattato sull’Unione europea basato sull’acquis communautaire, sul documento presentato dallo stesso Comitato, sulla Dichiarazione solenne di Stoccarda sull’Unione europea e che si ispirasse allo spirito ed al metodo del progetto di trattato votato dal Parlamento europeo».

Le vaghe indicazioni del Consiglio europeo di Bruxelles rimettevano interamente nelle mani della presidenza italiana il compito di individuare quelli che avrebbero dovuto essere i temi di accordo per il successivo Consiglio europeo di giugno. Alle perplessità e reticenze di alcuni Stati membri, si aggiungeva il mutato atteggiamento di Francia e Germania, il cui fervore europeista era andato via via scemando: difficilmente si sarebbe raggiunto l’obiettivo di procedere a una riforma radicale dell’assetto istituzionale comunitario mediante la redazione di un nuovo Trattato.

Regno Unito, Grecia e Danimarca, inoltre, si schieravano contro la convocazione di una Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative), proposta avanzata dal Comitato Dooge.

Tuttavia, il governo italiano era intenzionato a trovare un accordo diretto ad attribuire un mandato alla Conferenza. Si rendeva necessario, al fine di evitare il fallimento del Consiglio europeo di Milano di giugno, il raggiungimento di una posizione comune.

Fondamentale, in questo contesto, l’azione svolta dall’on. Mauro Ferri. Quest’ultimo, incaricato dal Presidente del Consiglio di sviluppare una serie di contatti nelle capitali comunitarie al più alto livello, cercò di riavvicinare le posizioni dei paesi più distanti – Regno Unito, Danimarca e Grecia – e individuare le basi di un possibile accordo sul mandato da attribuire alla Conferenza intergovernativa.

Il risultato di questa intensa attività condusse alla predisposizione, da parte della presidenza italiana, di un “progetto di mandato” che prevedeva la convocazione – a breve termine – di una Conferenza intergovernativa. Venivano altresì fissati alcuni precisi obiettivi che avrebbero dovuto portare, gradualmente, alla trasformazione della Comunità in Unione europea.

Nel “progetto di mandato” era previsto un aumento dei casi di decisioni da prendere alla maggioranza, nonché l’inclusione, nel Trattato, delle “nuove politiche” elaborate su base di diritto derivato.

Il Consiglio europeo di Milano e la convocazione della Conferenza intergovernativa

Il lavoro svolto dal Comitato ad hoc per i problemi istituzionali, istituito a Fontainebleau, e il “progetto di mandato” della presidenza italiana costituirono l’oggetto primario del Consiglio europeo di Milano.

Il contesto in cui si apriva il Consiglio era caratterizzato, da una parte per l’affermarsi dell’approccio pragmatico, prospettato dal Regno Unito e a cui facilmente avevano aderito Danimarca e Grecia, dall’altra parte per la posizione assunta dai sei paesi fondatori, diretti a sostenere il rilancio dell’Unione europea. Le proposte pragmatiche avanzate dal Regno Unito riguardavano la materia della cooperazione politica, il voto a maggioranza i poteri del Parlamento europeo ed il mercato interno e, di fatto, ridimensionavano il progetto italiano svuotandolo dei più significativi contenuti politici e istituzionali. Non era certo che nel corso del Consiglio europeo di Milano tra le due tesi contrapposte prevalesse quella europeista.

Tuttavia, il governo italiano era intenzionato a non mollare la presa e portare avanti il vecchio progetto spinelliano, facendo così compiere alla Comunità un passo avanti nella costruzione europea.

In tale contesto il ruolo giocato dalla presidenza italiana fu essenziale. Il presidente Craxi (Craxi, Bettino) e il ministro Giulio Andreotti decisero di avvalersi della procedura prevista congiuntamente dagli articoli 236 e 148 del Trattato, sulla base della quale veniva constatato che sette delegazioni su dieci erano favorevoli alla convocazione della Conferenza intergovernativa.

Il Consiglio europeo di Milano non si occupò esclusivamente di questioni istituzionali, quali la predisposizione di proposte di miglioramento del processo decisionale del Consiglio, dell’esercizio del potere di gestione della Commissione e del rafforzamento dei poteri del Parlamento. Esso concentrò la sua attenzione anche sulla realizzazione del mercato interno. In tale contesto assunse particolare rilevanza la redazione, da parte della Commissione, del Libro bianco sul mercato interno (v. Mercato unico europeo), un progetto, quest’ultimo, inteso a eliminare le barriere fisiche, tecniche e fiscali esistenti tra gli Stati membri.

Nelle conclusioni del Consiglio europeo di Milano veniva delineato il mandato della Conferenza intergovernativa: elaborare un trattato sulla politica estera e di sicurezza comune, nonché le modifiche istituzionali da apportare al Trattato CEE. L’obiettivo era quello di far progredire concretamente l’Unione europea.

L’attività svolta dalla presidenza italiana consentì, dunque, di giungere al traguardo auspicato da più parti, la convocazione della Conferenza intergovernativa, fino ad allora ritenuta un obiettivo proibito.

La convocazione della Conferenza avveniva, tuttavia, sotto auspici non del tutto favorevoli. Da una parte, infatti, il Regno Unito non nascondeva la propria irritazione per i risultati raggiunti a Milano, dall’altra Francia e Germania lasciavano intendere che non avrebbero isolato la Gran Bretagna.

La Conferenza intergovernativa, quindi, appariva minata alle sue radici già prima di cominciare.

Lo svolgimento della Conferenza intergovernativa

La Conferenza intergovernativa si aprì il 9 settembre 1985, sotto la presidenza lussemburghese, con il mandato di «elaborare, in vista di far progredire l’Unione europea, un Trattato sulla politica estera e la sicurezza comune, le modifiche del Trattato CEE, conformemente all’art. 236 del trattato, necessarie alla messa in opera degli adattamenti istituzionali concernenti il processo decisionale del Consiglio, i poteri esecutivi della Commissione e i poteri del Parlamento europeo, nonché l’estensione a nuovi campi d’attività sulla base delle proposte fatte dai Comitati Adonnino e Dooge».

Alla sessione inaugurale del 9 settembre seguirono altre cinque riunioni della CIG, a livello dei ministri degli Esteri. Questi ultimi, il 19 dicembre, misero a punto il preambolo e le disposizioni comuni dell’Atto unico. Il 27 gennaio 1986 veniva definito il testo finale in forma giuridica.

In meno di sei mesi, dunque, la CIG era stata in grado di concludere i suoi lavori e di portare a compimento il mandato affidatole dal Consiglio europeo di Milano.

Diverse furono le ragioni che consentirono una celere chiusura dei lavori. In proposito, appare, in primo luogo, opportuno tenere in considerazione l’efficacia con cui la presidenza lussemburghese condusse i lavori preparatori. Un ruolo fondamentale fu, altresì, svolto dalla Commissione, concretamente interessata al raggiungimento degli obiettivi del programma della presidenza lussemburghese. La Commissione partecipò attivamente, fin dall’inizio, ai lavori presentando, sulla maggior parte delle questioni trattate, una serie di documenti che furono di volta in volta rivisitati a seconda delle reazioni delle delegazioni.

In particolare, la Commissione avanzò un progetto diretto a inserire nel trattato due nuovi capitoli: uno sulla ricerca e sviluppo tecnologico, l’altro sull’ambiente. Di particolare rilevanza fu anche la presentazione, sempre da parte della Commissione, di un testo sul «rafforzamento della coesione della Comunità», un’iniziativa mirante a rassicurare i paesi più piccoli sulla solidarietà della Comunità nei confronti dei loro problemi di adattamento.

Le questioni istituzionali furono, invece, affrontate solo in un momento successivo. Anche in questo ambito l’intervento della Commissione fu determinante. Quest’ultima, infatti, presentò un progetto sui propri poteri esecutivi accompagnato da un documento relativo alla cultura.

Anche il Parlamento europeo presentò un progetto in materia, redatto dalla delegazione tedesca e vertente sui procedimenti di consultazione (v. Procedura di consultazione), collaborazione e codecisione (v. Procedura di codecisione).

Grazie al diligente lavoro della Commissione, dopo un mese di lavori la Conferenza intergovernativa disponeva di testi elaborati in forma di modifiche od aggiunte da apportare su alcuni aspetti essenziali del Trattato di Roma. Tali interventi erano rivolti, in particolare, alla disciplina relativa al mercato interno, al rafforzamento della coesione, ai poteri esecutivi della Commissione, ai poteri del Parlamento europeo, alla tecnologia ed all’ambiente.

La data ultima per la presentazione di progetti nazionali fu fissata al 15 ottobre. Pochi furono, tuttavia, i documenti sottoposti all’attenzione della Conferenza e di questi nessuno arrivò a mettere in discussione lo schema stabilito nei sei temi proposti dalla Commissione.

L’approvazione dell’Atto unico. Analisi del testo e considerazioni finali

Il Consiglio europeo di Lussemburgo si riunì il 2 e 3 dicembre 1986. Questo Consiglio viene ricordato come uno dei più lunghi della storia: 28 ore di riunione.

Il tema maggiormente dibattuto nel corso di tale Consiglio europeo fu quello del mercato interno. L’attenzione fu posta in particolar modo sulla definizione degli obiettivi e sulle implicazioni derivanti dal passaggio dall’unanimità alla maggioranza qualificata per l’armonizzazione delle legislazioni. Risultava, infatti, assai difficile convincere gli Stati membri a passare dal principio dell’unanimità a quello della maggioranza qualificata. Tuttavia, il raggiungimento di un compromesso su questa questione risultava indispensabile, altrimenti il progetto di realizzare uno spazio economico senza frontiere sarebbe fallito.

Tale compromesso fu raggiunto, ma alcuni Stati membri vollero inserire, nei settori di maggior rilevanza ai fini della realizzazione del grande mercato, una serie di eccezioni, cautele e deroghe che di fatto hanno attenuato la portata della decisione. Tuttavia, l’accettazione del principio del voto a maggioranza per materie coperte da un numero rilevante di articoli e per quelle relative all’armonizzazione delle legislazioni, per le quali fino a quel momento era prevista l’unanimità, costituì indubbiamente un dato positivo.

Per quanto riguarda il Parlamento europeo, di rilevante importanza fu la trasformazione del sistema elettorale europeo da un modello di elezioni di secondo grado a un modello di elezioni dirette a suffragio universale (v. Procedura elettorale uniforme e composizione del Parlamento europeo). Il che ha consentito di permettere la diretta investitura di questa istituzione da parte del corpo elettorale. A questo cambiamento non ha, tuttavia, fatto seguito un aumento del potere dello stesso Parlamento: non è stato, infatti, perseguito l’intento della delegazione italiana di dotare il Parlamento europeo di un reale potere di codecisione nell’ambito di quei poteri che la Comunità già possedeva tra le sue competenze istituzionali. Non va però tralasciato il fatto che, grazie all’impegno dell’Italia, il Parlamento europeo è stato inserito nel processo legislativo in modo incomparabile rispetto al passato. Questo risultato è stato raggiunto mediante l’inserimento della previsione sulla cooperazione con il Consiglio e del procedimento della doppia lettura.

Particolarmente rilevante risulta, inoltre, la previsione di un generale obbligo, per gli Stati, di adoperarsi al fine di «definire ed attuare in comune una politica estera europea». L’Atto unico, infatti, codifica al titolo III del Trattato la cooperazione politica europea. Per raggiungere questo obiettivo è stato previsto che gli Stati membri si impegnino a consultarsi preventivamente in vista di azioni comuni concernenti questioni di politica estera di interesse generale.

Per quanto riguarda l’estensione delle competenze comunitarie, queste sono state inserite la ricerca e l’ambiente. Non si è, pertanto, proceduto a quell’ampliamento auspicato in settori vitali per la cooperazione europea: non sono state comprese nelle competenze comunitarie materie quali la sanità, la cultura, la lotta contro il terrorismo, la criminalità organizzata e la droga.

Il Consiglio europeo di Lussemburgo si concludeva, quindi, con il raggiungimento, da parte della Conferenza, di una serie di risultati che si presentavano come un insieme di otto testi ripresi dalle “conclusioni” del Consiglio europeo: mercato interno, Parlamento europeo, capacità monetaria, coesione economica e sociale, poteri di gestione ed esecutivi della Commissione, ricerca e sviluppo tecnologico, ambiente, politica sociale. Questi testi furono considerati come sacri e da quel momento in poi si discusse solo di alcune riserve specifiche sulla coesione economica e sociale presentate al Consiglio da parte dell’Italia, della Grecia e dell’Irlanda.

Per quanto riguarda la forma che avrebbe dovuto avere il documento nel quale incorporare le conclusioni raggiunte, la Commissione propose di procedere mediante il raggruppamento in un unico atto delle modifiche del trattato CEE e del trattato sulla cooperazione politica. Anche la Francia presentò un progetto intitolato “Atto dell’Unione europea”.

La presidenza lussemburghese, infine, presentò un testo di “Atto unico” che, riprendendo la struttura e numerosi passaggi del progetto francese, evitava gli articoli più controversi.

Il testo definitivo dell’Atto unico fu approvato il 19 dicembre 1986 dai ministri degli Esteri. La sola questione che restava aperta riguardava l’individuazione delle modalità mediante le quali menzionare l’Unione europea. La scelta finale fu quella di inserire tra gli obiettivi comuni della Comunità europea e della cooperazione politica quello di «contribuire insieme a far progredire concretamente l’Unione europea».

L’Atto unico fu dapprima sottoscritto da nove Stati membri, a Lussemburgo il 17 febbraio 1986; gli altri tre Stati, Italia, Grecia e Danimarca, lo sottoscrissero all’Aia il 28 febbraio, successivamente al referendum tenutosi in Danimarca. Suo principale obiettivo fu il rilancio del processo di costruzione europea da perseguire mediante la realizzazione di un mercato comune, il ravvicinamento delle politiche degli Stati membri in materia economica e sociale, nonché l’inserimento, in diverse materie, del principio del voto a maggioranza.

Antonio Rocco Cangelosi (2008)