Baeza Martos, Fernando

B.M. (Madrid 1920-ivi 2002) studiò nel collegio dei Marinisti a Madrid, ma nel 1939, alla fine della guerra civile, il padre, repubblicano, fu costretto all’esilio e la famiglia si trasferì in Argentina, dove B.M. si laureò in lettere e filosofia all’Università di Buenos Aires. Tornato in Spagna, proseguì gli studi a Madrid, e nel 1956 partecipò alla protesta degli studenti universitari che provocò la crisi di governo. Nello stesso anno fu tra i fondatori del movimento clandestino Azione democratica, più tardi convertitasi nel Partito sociale di azione democratica (Partido social de acción democrática, PSAD), insieme a Dionisio Ridruejo e a un gruppo di intellettuali antifranchisti. La base programmatica del partito si imperniava sulla unità delle forze di opposizione, sul superamento del passato e sull’impegno attivo per la restaurazione delle libertà democratiche, accettando l’ideologia socialdemocratica aconfessionale e indifferente alle forme di governo. Nel 1957 fu arrestato e condotto nel carcere madrileno di Carabanchel, assieme ad altri membri del PSAD come Ridruejo, Fermin Solana e Antonio Menchaca.

Nel 1962 B.M. prese parte al congresso del Movimento europeo tenuto a Monaco, dove si ebbe l’incontro tra gli esiliati repubblicani e l’opposizione interna al regime franchista, a eccezione dei comunisti. A seguito della dura reazione del governo spagnolo, che arrestò e mandò al confino vari partecipanti, B.M. andò nuovamente in esilio, soggiornando nei mesi seguenti in Colombia, Argentina, Messico e Francia, anche se non poté evitare di essere multato al suo ritorno in Spagna. Nello stesso periodo collaborò attivamente con l’Associazione spagnola di cooperazione europea (Asociación española de cooperación europea, AECE), del cui direttivo fu eletto membro nella giunta generale del febbraio 1967. Durante la seconda metà degli anni Sessanta intervenne in buona parte dei negoziati e delle attività dell’opposizione antifranchista, e nella sua casa si tennero varie riunioni fra i rappresentanti dei diversi partiti clandestini, inclusi i comunisti.

Nel 1972 B.M. aderì al Partito socialista operaio spagnolo (Partido socialista obrero español, PSOE) e fu arrestato ancora una volta nel 1975, poco prima termine della fine della dittatura.

Eletto senatore nelle liste del PSOE nella provincia di Huesca nelle prime elezioni democratiche del giugno 1977 e in quelle successive del 1979, B.M. fu primo vicepresidente della giunta direttiva del Parlamento, dell’Unione parlamentare e della Commissione mista parlamento spagnolo-Parlamento europeo, fino al 1982. Dal 1983 al 1987 fu ambasciatore spagnolo presso il Consiglio d’Europa, sempre in stretta collaborazione con il ministro spagnolo degli Affari esteri, Fernando Morán, amico e compagno di partito dai tempi dell’antifranchismo. Nel Consiglio europeo fece parte della Commissione economica, e fu inoltre vicecommissario nella Commissione politica e membro della Sottocommissione per il Medioriente.

All’interno del PSOE B.M. fu uno dei fondatori del Gruppo socialista de Chamartin (Madrid), della Federazione nazionale di arti grafiche dell’Unione generale dei lavoratori (Unión general de trabajadores, UGT), del gruppo di lavoro “Jaime Vera” e della Fondazione “Pablo Iglesias”, di cui fu membro. Autore del libro Baroja y su mundo (1962), tradusse in spagnolo l’opera di importanti autori stranieri, tra cui George Bernard Shaw e Honoré de Balzac e nel 1955 fondò a Madrid la casa editrice Arion.

Javier Munoz Soro (2009)




Baffi, Paolo

B. (Pavia 1911-Roma 1989) nel 1932 si laurea in economia e commercio alla Università Bocconi di Milano dove, dal 1933, diventa assistente di Giorgio Mortara alla cattedra di Statistica. Nel 1936 entra al Servizio studi della Banca d’Italia, che poi dirigerà dal 1945 al 1956.

In quegli anni diviene membro della Commissione economica presso il ministero per la Costituente, presieduta da Giovanni Demaria. Dopo il 1956 diviene Consigliere economico della Banca d’Italia e della Banca per i regolamenti internazionali. Dal 1960 è nominato direttore generale della Banca d’Italia di cui diviene governatore quando, nel 1975, Guido Carli passa alla guida di Confindustria.

Anche se l’ interesse di B. per la questione della compatibilità fra vari regimi di cambio e la politica economica, in particolare quella monetaria, si sviluppa negli anni Cinquanta e Sessanta (v. Baffi, 1957; Id., Studi, 1965; Id., Considerazioni, 1968), è principalmente nel corso degli anni Settanta (quando diviene anche professore incaricato di Storia e politica monetaria presso la facoltà di Scienze politiche di Roma) e soprattutto nel periodo del governatorato che assume un ruolo importante nel dibattito sul processo di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

Sono gli anni successivi al crollo del sistema monetario internazionale fondato sul dollar-exchange standard ereditato dalla conferenza di Bretton Woods del 1944. Il passaggio a un regime generalizzato di cambi flessibili permette certo di svalutare per risollevare le esportazioni, ma al costo di creare maggiore incertezza, favorendo la speculazione sul mercato internazionale dei capitali, e di accrescere l’inflazione, particolarmente dannosa in un’economia di trasformazione fortemente esposta alle importazioni come quella italiana.

Sono anche gli anni dell’austerità, della crisi della bilancia dei pagamenti, dei prestiti del Fondo monetario internazionale che chiedono come contropartita il controllo di un nuovo aggregato monetario, piuttosto inconsueto per l’Italia: il credito totale interno. Diventa quindi sempre più aspro e diretto il contrasto e l’effetto-spiazzamento reciproco tra finanziamento del settore pubblico e di quello privato. Vincoli monetari esterni e gradi di manovra della politica nazionale si trovano così sempre più ai ferri corti, lasciando spazi di manovra che vengono ancor più schiacciati dalle pressioni espansive di una classe politica che, al di là di spinte clientelari, deve oggettivamente fare i conti con una situazione sociale particolarmente turbolenta (non dimentichiamo che stiamo parlando degli anni più bui dell’esperienza terroristica nazionale).

Proprio nel ruolo di governatore B. si trova quindi ad affrontare in maniera diretta e concreta la propria posizione nei confronti di un progetto di rilancio del processo di integrazione europea, quello del Sistema monetario europeo (SME).

Non v’è dubbio che B. fu tra i maggiori e più coerenti rappresentanti dell’opposizione allo SME, ma si tratta di un giudizio che deve essere qualificato. In quanto rappresentante della già difficile autonomia dell’autorità monetaria in Italia, B. era convinto che un sistema di cambi fissi, anche se con parità aggiustabili, non fosse coerente con l’assetto istituzionale della politica economica in Italia.

Con governi che, in risposta alle tensioni sociali e alle profonde crisi strutturali degli anni Settanta, aprivano il cordone della borsa e con un meccanismo di collocazione del debito pubblico che poneva una responsabilità alla Banca d’Italia come acquirente residuale obbligatorio del Tesoro, era evidente la difficoltà di trovare coerenza fra obiettivi interni (crescita del reddito, piena occupazione, bilanci in ordine) ed esterni (pareggio di bilancia dei pagamenti) di politica economica.

La politica monetaria si sarebbe trovata, in presenza di un vincolo di cambio, a servire due padroni che solo casualmente avrebbero potuto condividere gli stessi obiettivi. Secondo B., in un sistema economico caratterizzato da rigidità istituzionali di varia natura (spesa pubblica governativa e locale, rivendicazioni salariali ecc.) le autorità monetarie avevano il compito di veicolare le aspettative degli agenti economici con azioni discrezionali. Aggiungere un ulteriore grado di rigidità al sistema poteva significare il tracollo: perdita di credibilità, di competitività, di strumenti insomma indispensabili per la conduzione della politica economica.

In tale atteggiamento, B. appare inizialmente in assoluta continuità con lo schema neoricardiano ufficialmente portato avanti da Carli: in presenza di un sistema salariale che fissa le retribuzioni in maniera indipendente dall’andamento della produttività ed anzi perfettamente indicizzate all’inflazione, la politica monetaria era destinata al fallimento, e anche i tentativi di moderazione salariale potevano avere successo solo in presenza di «costanza della spesa pubblica e flessibilità del cambio» (v. Baffi, Disavanzo, 1976, p. 447).

Ma nel corso degli anni lo scetticismo di B. verso ogni disegno di integrazione monetaria in Europa viene argomentato facendo sempre più ricorso alla letteratura sulle aree monetarie ottimali, essenzialmente nella versione originaria (ci riferiamo al noto saggio di Robert Mundell del 1961, A theory of optimum currency areas), peraltro largamente utilizzata nel dibattito (v. Masini, 2004) sullo SME da coloro che avversavano tale scelta. Secondo tali teorie, un’area composta da più Stati poteva passare ad un accordo valutario, o a una moneta unica, solo con un efficiente mercato dei fattori, soprattutto del lavoro. In presenza di shock asimmetrici, se i salari non fossero stati flessibili e il lavoro mobile sul piano territoriale, si sarebbe rischiato di mettere a repentaglio la credibilità e quindi la tenuta del cambio, oltre che alimentare speculazioni sulle valute più deboli.

Su queste basi, B. giudicava la Comunità economica europea un’area monetaria non ottimale. Per sostenere un sistema di cambi sostanzialmente fissi occorreva, come ebbe a ribadire con forza in più occasioni nelle varie “Considerazioni finali” all’assemblea di BankItalia e soprattutto nel corso di un’audizione alla Commissione Finanze e Tesoro del Senato (v. Baffi, I cambi, 1978), aumentare i margini di oscillazione dei cambi bilaterali, istituire e fornire liquidità ad un Fondo monetario europeo a favore delle operazioni di sostegno delle banche centrali, accrescere la dotazione dei fondi strutturali a fini di redistribuzione del reddito.

Senza queste condizioni, un sistema economico pieno di rigidità come quello italiano sarebbe stato spazzato via ai primi venti della speculazione internazionale o di shock asimmetrici, sia quelli comunemente considerati nella letteratura sul lato della domanda, sia sul lato dell’offerta (come gli shock energetici e tecnologici).

Mentre però la maggior parte dell’intellighenzia politica ed economica del paese credeva fermamente nell’effetto benefico dell’integrazione europea come veicolo di comportamenti virtuosi, nel senso che i soggetti responsabili delle rigidità del sistema Italia sarebbero state costretti a rivedere i propri atteggiamenti, B. era pessimista nei confronti della possibilità che il vincolo esterno costituito dall’accordo di cambio potesse scardinare le tare ataviche del sistema istituzionale italiano. Non credeva, in particolare, che avrebbe posto dei freni agli abusi del potere politico su quello economico. Questo suo profondo scetticismo lo etichettò nel tempo in maniera indelebile come un avversario del processo di integrazione europea, come egli stesso ebbe a lamentarsi con Carli (v. Carli, 1993, p. 353).

Certo la sua vicenda personale non poteva fornirgli ottimismo nei confronti del tessuto civile, politico e istituzionale italiano: proprio mentre prendeva avvio l’esperimento del sistema monetario europeo, B. pagava in prima persona la colpa di aver disposto un’ispezione bancaria “scomoda” che lo portò a una denuncia alla Procura per abuso di potere e al ritiro del passaporto.

Una vicenda dalla quale fu poi completamente dichiarato estraneo, ma che ormai aveva colpito irrimediabilmente alle fondamenta la fiducia dell’uomo pubblico, il quale accettò probabilmente con disincanto la carica di governatore onorario, l’incarico di professore ordinario di Politica monetaria alla Sapienza e la presidenza della Società italiana degli economisti dal 1980 al 1982. Fu ancora consigliere e poi vicepresidente della Banca dei regolamenti internazionali.

Nei suoi ultimi anni B. fu ancora una volta dalla parte “storicamente perdente” del percorso di integrazione europea. Di fronte alle tesi di coloro che spingevano per un passo istituzionale concreto verso una moneta unica in Europa (che sarebbero sfociate nel Rapporto Delors del 1989 e divenute poi il “manuale” per l’adozione dell’euro), B. aderì alle tesi della concorrenza monetaria (nella versione proposta coi contributi di Hayek degli anni Settanta, riportata alla superficie del dibattito pubblico negli anni Ottanta da Vaubel), come testimoniano articoli sui quotidiani dell’epoca e una lettera a Carli (v. Carli, 1993, p. 358).

Una tesi, quella della concorrenza fra valute e della moneta parallela, che negli anni Settanta aveva avuto il merito di rilanciare il processo di integrazione in Europa, ma che nel 1989 appariva ormai una battaglia di retroguardia e si apprestava infatti a essere utilizzata dal governo inglese per contrastare il progetto di moneta unica proposto dal Comitato Delors (v. Delors, Jacques).

Protagonista nel dibattito e nel potere istituzionale relativo al percorso di integrazione europea, B. potrebbe insomma essere definito un antieroe di quel disegno istituzionale, testimone e latore di timori troppo grandi di fronte a un processo storico di tale portata, che richiedeva (e tuttora richiede) una lucida follia per essere portato a compimento. Una follia che la figura di uno studioso rigoroso come B. certo non poteva che rifuggire.

 Fabio Masini (2010)




Bahr, Egon Karl-Heinz

B. (Treffurt, Turingia 1922), dopo aver combattuto nella Seconda guerra mondiale dal 1942 al 1944, B. inizia la sua attività di giornalista come inviato di “Berliner Zeitung”, “Allgemeine Zeitung” e “Tagesspiegel”; dal 1950 al 1960 è anche caporedattore dell’emittente radiofonica berlinese RIAS. La sua carriera politica è strettamente legata a quella del suo mentore, nonché amico, Willy Brandt. Iscritto alla SPD (Sozialdemokratische Partei Deutschlands) dal 1956, B. viene nominato nel 1960 dall’allora borgomastro berlinese portavoce al Senato e direttore dell’ufficio stampa e informazione di Berlino Ovest. Nel 1966, quando Brandt diventa ministro degli Esteri, B. viene nominato ambasciatore straordinario (Sonderbotschafter) e, nel 1967, direttore della Commissione di pianificazione presso lo stesso ministero. Al culmine della carriera politica di Brandt, B. riceve nel 1969 il duplice incarico di segretario di Stato presso la cancelleria e di delegato plenipotenziario della città di Berlino e, nel 1972, diventa ministro agli Affari particolari. La sua attività politica prosegue, tuttavia, anche dopo le dimissioni di Brandt da capo del governo. Nel luglio 1974 il neoeletto cancelliere Helmut Schmidt gli affida, infatti, il ministero per la Cooperazione allo sviluppo. Nel 1976 B. lascia il governo e diventa amministratore federale della SPD, incarico che svolgerà fino al 1981. Membro del Bundestag sin dal 1972, resterà parlamentare fino al 1990, l’anno della riunificazione tedesca (v. Germania).

B., o il “Kissinger tedesco”, come è stato una volta definito dal presidente degli Stati Uniti Richard Nixon, è considerato uno dei principali artefici dell’Ostpolitik: egli svolse un ruolo di primissimo piano sia nella fase di elaborazione delle linee guida della politica di normalizzazione e di distensione dei rapporti della Repubblica federale con il blocco comunista, sia nella sua concreta realizzazione. In particolare, il 15 luglio 1963 lo stratega socialdemocratico tenne all’Accademia evangelica di Tutzing, in Baviera, uno dei discorsi più significativi sulle premesse concettuali della futura Ostpolitik. Più precisamente, in quell’occasione B., suscitando peraltro non poche polemiche all’esterno come all’interno del suo partito, affermò che l’evoluzione della Guerra fredda, con particolare riguardo alla cristallizzazione della divisione della Germania e alle strategie distensive prevalenti nel blocco occidentale, rendeva necessario da parte della Repubblica Federale Tedesca (RFT) l’abbandono della tradizionale politica di forza e di isolamento nei confronti dell’Unione Sovietica, dell’Europa orientale e della Deutsche Demokratische Republik (DDR). In quell’occasione, B. riprendeva l’idea espressa da Kennedy (v. Kennedy, John Fitzgerald), all’indomani della costruzione del Muro di Berlino (13 agosto 1961), che solo il riconoscimento dello status quo avrebbe potuto determinarne il superamento e individuava nella formula del “cambiamento attraverso l’avvicinamento” (Wandel durch Annäherung) la nuova strategia entro cui la RFT avrebbe dovuto dispiegare ogni sforzo per la riunificazione del paese. Analoghe considerazioni vennero ulteriormente sviluppate dallo stesso B. in un manoscritto (Was nun?) del 1965-66 che, tuttavia, non fu mai pubblicato (v. Gallus, 2001, pp. 302 e ss.). Sul piano politico le idee di B., che spesso (anche se non sempre) coincidevano con quelle di Brandt, trovarono una prima, sia pure limitata, traduzione politica nel miglioramento dei rapporti tra Berlino Ovest e Berlino Est. Il mutamento di rotta nella politica orientale della Bundesregierung avvenne, infatti, solo negli anni della Grosse Koalition: la tradizionale ostilità verso la Repubblica Democratica Tedesca fu sostituita con un atteggiamento più conciliante nei problemi confinari; allo stesso modo, Bonn stabilì rapporti diplomatici normali con i paesi dell’Europa dell’Est (nel 1967 con la Romania e nel 1968 con la Iugoslavia), prendendo così nettamente le distanze da quello che fino a quel momento era stato uno dei principali dogmi della politica estera tedesca, la dottrina Hallstein (v. Hallstein, Walter). In quegli anni B., in qualità di direttore della Commissione di pianificazione del ministero degli Esteri, elaborò una serie di documenti programmatici sulla sicurezza in Europa e sulla politica estera della futura Bundesregierung, contribuendo così concretamente alla definizione di quelle che sarebbero state le linee guida in politica estera della futura coalizione di governo social-liberale.

D’altra parte, ancora più rilevante fu il ruolo che B. svolse all’inizio degli anni Settanta nel corso dei negoziati che portarono al trattato di non aggressione con Mosca (1970) e al Trattato fondamentale tra le due Germanie (1972), il quale prevedeva relazioni di buon vicinato sulla base dell’eguaglianza dei diritti e dunque il riconoscimento formale della Repubblica Democratica Tedesca come Stato da parte della Repubblica federale. Quale uomo di fiducia di Brandt, B. negoziò personalmente, anche se non sempre attraverso i canali convenzionali o formalmente riconosciuti, con i massimi vertici dell’URSS, da Gromyko a Kossigyn, e della DDR, da Honecker (v. Honecher, Erich) a Stoph, finendo per svolgere un compito che, da protocollo, sarebbe spettato al ministro degli Esteri.

La centralità della questione nazionale per B. è evidente nel suo operato, ma anche nei suoi scritti. D’altra parte, la dimensione internazionale e più specificatamente europea del suo pensiero e della sua azione politica non può essere trascurata. Con il superamento dello status quo B. non si limitava ad auspicare la progressiva normalizzazione e distensione nei rapporti tra le due Germanie, ma indicava anche il contesto entro il quale un tale avvicinamento sarebbe stato, a suo giudizio, favorito. Più precisamente, movendo dalla constatazione che nell’età del terrore nucleare la sicurezza dell’uno non poteva prescindere dalla sicurezza del proprio nemico, egli avanzò, sulla base di quella che egli stesso definiva la dottrina della “sicurezza comune”, la proposta di creare in Europa una “zona di distensione” denuclearizzata (v. Bahr, 1988). Come nel manoscritto non pubblicato del 1965-66, così nel “piano in quattro punti”, esplicitato in un’intervista rilasciata al politologo americano Walter F. Hahn nel 1969, lo stratega socialdemocratico non escludeva, peraltro, la possibilità di pervenire, sempre nel quadro di un sistema di sicurezza europea, al superamento della logica dei blocchi e alla realizzazione di una Germania unita e svincolata da qualsiasi sistema di alleanza militare. Una prospettiva, quella ventilata da B., che gli valse, da più parti, l’accusa di coltivare sentimenti nazional-neutralisti e antioccidentali (v. Gallus, 2001, p. 296 e ss.).

Per quanto riguarda invece il processo d’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) in senso stretto, la posizione di B., almeno fino alla caduta del muro di Berlino, è segnata da una certa ambiguità: pur ritenendola, quanto meno sul piano della retorica, storicamente necessaria e politicamente opportuna, B. rivela, infatti, nelle sue memorie di non aver mai abbandonato la convinzione, sulla scia del pensiero di uomini politici come Kurt Schumacher (SPD) e Jakob Kaiser (CDU, Christlich-demokratische Union Deutschlands), che un’integrazione troppo stretta tra i paesi dell’Europa occidentale potesse seriamente compromettere la possibilità di pervenire a una soluzione nella questione nazionale: «Era una questione di priorità e di direzione: l’integrazione escludeva la riunificazione» (v. Bahr, 1996, p. 175).

Tuttavia, nel contesto di un mutamento complessivo di paradigma storico, reso evidente dall’11 settembre 2001 e dal successivo intervento militare degli USA in Iraq nel 2003, B. ha rivendicato per l’Europa allargata (v. anche Allargamento) un ruolo di maggior rilievo sulla scena internazionale, invocando la costruzione di un’identità europea sulla base di un modello di “potenza civile” non contrapposto, ma comunque alternativo a quello dell’iperpotenza americana (v. Bahr, 2003).

Gabriele D’Ottavio (2009)




Ball, George Wildman

B. (Des Moines, Iowa 1909-New York 1994), laureato in Legge alla Northwestern University nel 1933, ha avuto grande influenza sulla politica estera americana. Iniziò la sua carriera come funzionario governativo lavorando come consigliere legale al dipartimento del Tesoro (1933-1935). Durante la Seconda guerra mondiale collaborò con il segretario di Stato di Franklin Delano Roosevelt, Edward Stettinius, nel General counsel’s office dell’amministrazione della legge affitti e prestiti, che in seguito divenne Foreign economic administration (1942-1944). Nel 1944-45 diresse a Londra l’U.S. Strategic bombing survey, doveva incaricato di studiare la strategia dell’offensiva degli alleati contro la Germania. Subito dopo la guerra fece parte del French supply council a Washington (1945-1946), occupandosi dei progetti di ripresa economica della Francia. A Washington durante la guerra incontrò Jean Monnet, che era stato cooptato alla vicepresidenza della British purchasing commission, e tra i due nacque uno stretto rapporto professionale e di amicizia. B., convinto fautore dell’unificazione europea, collaborò a molte delle iniziative di Monnet, fu consulente della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), della Comunità economica europea (CEE) e della Comunità europea dell’energia atomica (Euratom) e divenne uno degli esponenti di punta della “sponda” americana sulla quale l’esponente francese poté contare per ottenere il sostegno dell’amministrazione americana per i progetti di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), soprattutto durante gli anni (1961-1966) in cui B. fu sottosegretario di Stato nelle amministrazioni Kennedy (v. Kennedy, John Fitzgerald) e Johnson (v. Johnson, Lyndon Baines). I legami di B. con il partito democratico si erano rafforzati all’inizio degli anni Cinquanta, a seguito dello stretto rapporto di amicizia che lo legava a Adlai Stevenson, con il quale aveva condiviso l’esercizio della professione di avvocato, e che sostenne nelle due campagne presidenziali del 1952 e del 1956. Insieme a Stevenson B. entrò nella ristretta cerchia dei collaboratori di Kennedy, che nel 1961 lo nominò sottosegretario di Stato agli Affari economici. Svolse un ruolo importante nel formulare la politica economica e commerciale degli Stati Uniti e fu uno degli architetti principali del Trade expansion act del 1962. Occupandosi di commercio estero, tariffe, integrazione europea, B. lavorò strettamente con il segretario di Stato Dean Rusk e con lo stesso presidente, ottenendo la promozione a sottosegretario di Stato. Nel periodo in cui ricoprì l’incarico B. partecipò all’inner circle di Kennedy durante la crisi di Cuba, prese parte alle riunioni del National security council, svolse il ruolo di mediatore durante le crisi di Cipro, Pakistan, Congo e della Repubblica Dominicana. Fortemente critico verso il crescente coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra in Vietnam, nel settembre 1966 B. dette le dimissioni dal dipartimento di Stato e entrò come senior partner presso la Banca di investimenti Lehman Brothers. Nominato dal Presidente Johnson, dal 26 giugno al 25 settembre 1968, ricoprì l’incarico di ambasciatore degli Stati Uniti presso le Nazioni Unite. Nel 1969, tornato alla vita privata rientrò presso Lehman Brothers, dove rimase fino al 1982. Negli anni dell’amministrazione Carter (v. Carter, James Earl) fu chiamato a collaborare alla definizione della politica americana nel Golfo Persico durante la crisi iraniana e all’elaborazione dei trattati tra Stati Uniti e Panama per regolamentare lo status di neutralità e il controllo del canale. Membro della Commissione trilaterale, B. è stato anche tra i membri fondatori del Bilderberg group, un club internazionale di leader europei e americani molto elitario e segreto che prendeva il nome da un hotel in Olanda dove si riunì la prima volta nel 1954. Scrittore molto prolifico, B. è autore oltre che di numerosi interventi e articoli su riviste di politica internazionale anche di alcuni importanti volumi sulla politica estera degli Stati Uniti. Tra i più importanti: The discipline of power (1968), Diplomacy for a crowded world: an American Foreign Policy (1976), The past has another pattern: memoirs (1982), The passionate attachment: American involvement with Israel, 1947 to the present (1992). Le sue carte personali sono depositate presso la John Fitzgerald Kennedy Presidential Library per il periodo 1961-1963 e la Princeton University Mudd Library per il periodo 1933-1994. Negli anni in cui svolse la sua attività diplomatica B. appoggiò l’obiettivo dell’unità europea, ritenendolo perfettamente conciliabile con quello di una maggior cooperazione transatlantica. Per unità dell’Europa egli intendeva soprattutto l’unità politica, la sola che avrebbe dato all’Europa la taglia e il peso necessari a assumere la sua parte di responsabilità nella difesa del “mondo libero”. Una maggiore unità europea era anche una sfida per gli Stati Uniti, la cui leadership nella Guerra fredda non doveva certo essere messa in discussione. L’approccio di B. tendeva da un lato a rafforzare il sistema economico multilaterale di scambi per evitare che la Comunità europea sviluppasse un sistema commerciale chiuso, col rischio di un isolamento economico, politico, dell’Europa, certamente contrario agli interessi statunitensi; dall’altro lato, nel campo della difesa, era la Forza nucleare multilaterale, una flotta dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO) armata di missili Polaris, lo strumento per associare gli europei alla tecnologia nucleare americana lasciando agli Stati Uniti il diritto di porre il veto sull’uso delle armi atomiche di proprietà multilaterale. Un progetto che B. sostenne con tenacia, convinto che impedire lo sviluppo di deterrenti nazionali rappresentasse la strada più agevole verso una maggiore unità politica e un’efficace forza europea. La MLF (Multilateral force) non riuscì però a vincere le perplessità degli europei e le esitazioni all’interno della stessa amministrazione americana. La sintonia delle concezioni “euroatlantiche” di B. e Monnet, che causò anche aspre critiche a B. da parte del Senato americano, non fu sempre totale. In comune con Monnet B. ebbe comunque la convinzione che fosse fondamentale evitare che l’Europa ricadesse nelle disastrose rivalità nazionali del passato. Distinguendosi dai cold warriors vicini al Presidente, dal maggio 1964 al 1966 B. divenne uno strenuo oppositore della politica dell’amministrazione Johnson in Vietnam. Dopo l’incidente del Golfo del Tonchino, con ripetuti memoranda cercò di fermare l’escalation del coinvolgimento statunitense nel conflitto vietnamita e di mettere fine ai bombardamenti sul Vietnam del Nord. Il fatto che esprimesse queste critiche mentre pubblicamente difendeva la politica di Johnson, scelta compiuta da B. perché si riteneva legato dagli oneri e dalle restrizioni di una responsabilità pubblica, gli alienò le simpatie di alcuni uomini dell’amministrazione, in particolare del segretario alla Difesa McNamara. B. non auspicò solo di trovare una via d’uscita dalla guerra in Vietnam mediante una soluzione diplomatica alla guerra nel Sud, per perseguire la ricerca di una solida base sulla quale costruire un nuovo sistema di rapporti di forza in Estremo Oriente. Sottolineò anche la necessità per gli Stati Uniti di elaborare una dottrina di extrication, che fornisse un’opportuna via d’uscita da una situazione deteriorata e costituisse allo stesso tempo un’utile guida per evitare di ritrovarsi in un pantano senza fondo. Rimproverato per l’eccessivo eurocentrismo della sua visione di politica estera, accusato di elitismo e ostinazione, B. diede prova di indipendenza intellettuale e acutezza di giudizio sia nei momenti in cui ricoprì incarichi governativi che come analista e commentatore della politica internazionale. Esponente dell’America ufficiale, è tuttavia considerato una figura controversa perché non esitò a andare controcorrente pur di difendere le proprie idee. In particolare, fecero discutere le sue prese di posizione per la cessazione dei bombardamenti sul Vietnam del Nord, a favore dell’ingresso della Cina alle Nazioni Unite, la critica alla politica mediorientale degli Stati Uniti, ritenuta troppo imperniata sull’alleanza con Israele. Polemista brillante, capace di analisi penetranti delle questioni internazionali ma calato in un realismo privo di utopismo a-storico, B. era convinto che la tecnica della diplomazia non dovesse essere mai disgiunta dal riferimento a principi e valori che ne ispirassero l’azione.

Marinella Neri Gualdesi (2010)




Balladur, Édouard

B. (Smirne 1929) a si trasferisce nel 1934 con la famiglia a Marsiglia, dove compie gli studi elementari e superiori. Si iscrive alla Facoltà di giurisprudenza a Aix-en-Provence; in seguito, si reca a Parigi per frequentare l’Institut d’Etudes Politiques, presso il quale si diploma in diritto. Nel 1955, dopo aver compiuto il servizio militare in Algeria, entra all’École nationale d’administration (ENA), la scuola che forma gli alti funzionari francesi. Due anni dopo, uscito quinto dall’ENA, sceglie di entrare al Consiglio di Stato.

Nel 1964 B. entra nel gabinetto del primo ministro Georges Pompidou con l’incarico di seguire le questioni sociali, amministrative e giuridiche. Con Pompidou si instaura un rapporto di fiducia che porta B. a diventare uno dei suoi principali collaboratori per i successivi dieci anni. Nel 1967 partecipa alla stesura delle ordinanze sulla “partecipazione”, la sicurezza sociale e l’impiego. Nel maggio del 1968, assieme a Jacques Chirac, affianca Pompidou nei negoziati sociali di Grenelle. Quando, nel luglio di quell’anno, a Pompidou succede Maurice Couve de Murville, B. segue l’ex primo ministro nel suo “ritiro attivo”. Con l’elezione di Pompidou alla presidenza della Repubblica, nel giugno del 1969 il suo fedele collaboratore entra all’Eliseo come vicesegretario generale e dal 1973 come segretario generale. Nel 1974 la morte del Presidente allontana a lungo B. dalla politica: egli sceglie di ritornare al Consiglio di Stato e poi di lavorare nel privato.

B. si riavvicina alla politica negli anni Ottanta. Nel 1986 è nominato ministro di Stato, ministro dell’Economia, delle finanze e della privatizzazione nel governo appena formato dall’amico Chirac. Propone a questo titolo le prime ordinanze sulle privatizzazioni, che egli considera come uno dei suoi successi. Alle elezioni legislative del giugno 1988, che segnano al fine del governo Chirac, B. è eletto deputato (XII circoscrizione di Parigi), seggio che conquista anche alle successive elezioni del 1993. In questi anni di opposizione ai governi socialisti nelle file del Rassemblement pour la République (RPR), B. si dedica alla riflessione scrivendo libri, tra i quali Passion et longueur de temps (1989) e Dictionnaire de la riforme (1992).

In occasione del referendum sul Trattato di Maastricht nel 1992, mentre l’RPR si spacca sulla risposta da dare, B. si schiera, anche se in modo prudente, a favore del “sì”. Nella sua visione, la costruzione di un’Europa più unita deve essere «un mezzo al servizio degli interessi della Francia e della sua perennità». In questa prospettiva, il Trattato di Maastricht rafforza la Francia evitandole la «solitudine»; permette un’associazione che non significa la «perdita della sua identità», ma che al contrario «preserva la capacità di decisione della Francia negli ambiti vitali e mantiene la sua indipendenza». Il Trattato, che secondo B. necessita tuttavia di essere completato, in particolare al fine di assicurare «un controllo più stretto del parlamento francese sulle decisioni legislative e finanziarie della comunità», deve costituire il primo passo verso un’Europa a più velocità. Il nucleo duro di quest’Europa deve essere costituito dal tandem Francia-Germania, attorno al quale ruotano paesi con statuti differenti secondo l’ambito regolato in comune (questioni monetarie, sociali, militari, commerciali, finanziarie) (v. Balladour, 1992, pp. 112-113).

Nel marzo del 1993, all’indomani delle elezioni legislative che vedono una netta vittoria dei partiti di centrodestra, B. è nominato primo ministro dal capo dello Stato, il socialista François Mitterrand. Membro del RPR, B. è gradito anche alla maggior parte dell’Union pour la Démocratie française (UDF), il partito centrista della coalizione, in quanto vicino alla dottrina cristiano-democratica alla tedesca dell’economia sociale di mercato e in quanto riformista pragmatico. Dovendo coabitare con un Presidente della Repubblica di opposto colore politico, B. si trova tuttavia a dover fare i conti con le linee della politica estera di Mitterrand, che non ha alcuna intenzione di delegargli tale ambito decisionale. Infatti, fin dalla nomina del primo ministro, Mitterrand insiste sulla necessaria continuità nella politica estera della Francia, specificamente per quanto riguarda la realizzazione del Trattato di Maastricht, la parità tra franco e marco tedesco e la preservazione del Sistema monetario europeo.

In realtà, il primo ministro si trova in sintonia con il presidente sulla necessità di proseguire il processo innescato da Maastricht. Non a caso, il suo governo è composto in maggioranza da favorevoli al Trattato. Nel suo discorso di politica generale davanti ai deputati (8 aprile 1993), B. afferma che Francia e Germania, coppia dalla cui solidità dipende il futuro dell’Europa, devono condurre una politica di bilancio, monetaria e fiscale tale da evitare le divergenze nell’evoluzione delle economie. Per questo è necessario mantenere la parità tra il franco e il marco tedesco, «fondamento del sistema monetario europeo», e rendere autonoma la Banca di Francia, affinché essa possa dialogare con le altre Banche centrali (in particolare con la Bundesbank) in vista dell’unione monetaria. In ottemperanza alle sue promesse, nell’agosto del 1993 la Banca di Francia viene dotata di uno statuto che la rende indipendente. Più difficile, invece, è il compito di difendere il franco dagli attacchi speculativi che colpiscono alcune monete europee proprio nell’estate di quell’anno senza stravolgere il Sistema monetario europeo.

Nei due anni del suo governo (1993-1995), l’Unione europea (UE) deve affrontare due questioni principali, condizionate dallo sfaldamento del blocco sovietico: le nuove domande d’adesione di Austria, Finlandia, Svezia e Norvegia, i cui negoziati, iniziati già all’inizio del 1993, procedono rapidamente e si concludono con il trattato di allargamento firmato al Consiglio europeo di Corfù nel giugno del 1994; i conflitti regionali nei Balcani, in particolare la guerra che lacera la Bosnia-Erzegovina. Al Consiglio europeo di Copenaghen del 21 e 22 giugno 1993, B. propone una conferenza internazionale per la stabilizzazione delle frontiere dell’Europa centrale e orientale, che il governo francese ritiene costituisca una condizione all’adesione di nuovi stati all’UE (v. anche Criteri di adesione). La conferenza inaugurale sulla stabilità in Europa si tiene a Parigi nel maggio 1994 e, nel 1995, l’UE adotta il Patto di stabilità il cui obiettivo è incitare tali paesi a firmare trattati bilaterali per la regolamentazione delle dispute dei confini e sulla presenza di minoranze.

Nel frattempo, a livello politico B. può vantare il successo ottenuto nei difficili negoziati finali dell’Uruguay Round nell’ambito dell’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT), affrontati nel corso del 1993. Il governo francese ottiene dai partner europei di non cedere sull’“eccezione culturale”, ossia di escludere la produzione culturale (cinematografica in particolare) dagli accordi di libero scambio, e negli accordi finali strappa alcune concessioni in materia di agricoltura, tali da temperare l’accordo di Blair House del novembre 1992 tra la Commissione europea e il governo americano.

Le elezioni per il Parlamento europeo del 1994 segnano una sconfitta per la lista comune che RPR e UDF hanno deciso di presentare uniti assumendo il rischio di ignorare le fratture interne rivelate dal dibattito sul referendum sul Trattato di Maastricht di due anni prima: la lista comunque ottiene solo il 25,6% dei voti e deve affrontare il successo delle liste della destra antifederalista (v. Federalismo) di Philippe de Villiers e di Jean-Marie Le Pen, che insieme ottengono quasi il 23%.

Il primo gennaio 1995 la Francia assume la presidenza dell’UE. Alla fine del 1994 B. traccia le linee guida di tale presidenza partendo dalla constatazione che «l’organizzazione dell’Europa è per la Francia un elemento supplementare di forza e influenza». A suo parere il governo «ha dimostrato che l’Europa può servire gli interessi della Francia, nel momento in cui la volontà politica di questa si esprime senza ambiguità». Nella prospettiva di un allargamento dei confini dell’UE, che non deve spingersi però oltre la Polonia e la Romania, il primo ministro francese auspica l’adozione di «formule elastiche» di cooperazione, in grado di «organizzare la diversità e gestire il gigantismo». Per evitare la diluizione dell’UE in una zona di libero scambio, l’Europa allargata necessita di una riforma istituzionale che preceda l’allargamento a Est. Tale riforma deve tenere conto del fatto che i paesi dell’Unione non possono progredire allo stesso ritmo in tutti gli ambiti e deve sviluppare pertanto istituzioni per un’Europa a più velocità, che permetta collaborazioni più strette in determinati ambiti. B. propone un nuovo Trattato dell’Eliseo, poiché a suo parere la nuova Europa dipende dalle risposte comuni che Francia e Germania daranno in tutti gli ambiti (politico, economico, diplomatico e militare). Tuttavia, egli non è disposto a seguire gli impulsi del governo tedesco che spera di riformare le istituzioni comunitarie in senso più federale e di sviluppare un nucleo europeo Francia-Germania-Benelux. Infine, lo sviluppo di una difesa comune dell’Unione europea, unico mezzo affinché essa pesi sulla scena internazionale, è fortemente auspicata dalla presidenza dell’unione europea francese (v. anche Politica europea di sicurezza e difesa).

Tuttavia, il programma per l’Europa è presto messo in secondo piano dall’impegno di B. come candidato alle elezioni presidenziali dell’aprile di quell’anno. Al primo turno, però, è solo terzo con il 18,58 dei voti espressi e non passa al II turno. In settembre ritrova il seggio di deputato in un’elezione suppletiva. È rieletto all’Assemblea nazionale nel 1997 e ancora cinque anni dopo. Nel 2002 diventa presidente della Commissione per gli Affari esteri dell’Assemblea nazionale.

Ancora nel 2006 B. sostiene l’idea dei tre cerchi dell’Europa: il primo è il cerchio di diritto comune, corrispondente all’Unione europea; il secondo è il cerchio delle cooperazioni specializzate in seno all’UE; il terzo è il cerchio del partenariato con alcuni paesi vicini (v. Balladour, 2006) (v. anche Europa a “cerchi concentrici”). Nel 2007 viene nominato dal Presidente Nicolas Sarkozy presidente del Comitato di riflessione e di proposta sulla modernizzazione e sul riequilibrio delle istituzioni della V Repubblica.

Lucia Bonfreschi (2009)




Banca centrale della Repubblica di Estonia

La Eesti Pank è la Banca centrale della Repubblica di Estonia. Il suo compito fondamentale è quello di garantire la stabilità dei prezzi in Estonia. A questo scopo, la Eesti Pank svolge le seguenti funzioni: partecipa alla politica economica estone implementando una politica monetaria indipendente, consultando il governo e promuovendo la cooperazione internazionale; supervisiona la stabilità finanziaria, impostando le politiche del settore finanziario e mantenendo sistemi di pagamento affidabili ed efficaci; predispone la circolazione di contanti in Estonia.

La Eesti Pank fu fondata il 24 febbraio 1919 su decisione del governo provvisorio dell’Estonia. Nel giugno 1940, dopo l’annessione dell’Estonia all’Unione Sovietica, venne nazionalizzata diventando l’Ufficio repubblicano estone della Banca statale dell’URSS. Il 28 agosto 1941, dopo l’occupazione di Tallinn da parte delle truppe tedesche, la Eesti Pank riprese la sua attività. Formalmente la banca venne denominata “Eesti Pank”, ma in realtà non era una banca centrale. Era piuttosto una banca che operava sotto il controllo delle autorità di occupazione, fornendo servizi ai governi locali e ad altre istituzioni e predisponendo l’avvicendamento della nuova valuta di occupazione.

Negli anni compresi tra il 1944 e il 1990, l’attività bancaria del paese fu ancora una volta orientata verso il sistema monetario e bancario dell’Unione Sovietica. La banca centrale, come istituzione, era inesistente. L’anno 1987 aveva già fornito un chiaro segnale dell’imminente crisi sia dell’economia dell’Unione Sovietica che del suo sistema bancario. Al contempo quello stesso anno si rivelò decisivo: si può considerare l’anno in cui iniziarono i preparativi per la ricostituzione della Eesti Pank. Nel maggio 1989 il Consiglio supremo della Repubblica Socialista Sovietica estone (RSS) approvò l’idea di autofinanziamento del paese e adottò la legge sui fondamenti di autofinanziamento della RSS estone. Entrambi i documenti prevedevano un sistema bancario nazionale che comprendesse l’istituzione di una banca centrale e l’introduzione di una valuta nazionale. Il 15 dicembre 1989 il Consiglio supremo della RSS dell’Estonia approvò la risoluzione per ricostituire la Eesti Pank.

La Eesti Pank tornò a essere operativa il 1° gennaio 1990, dopo una pausa di 50 anni. Assorbì l’agenzia di Tallinn della Banca del commercio estero dell’Unione Sovietica, trasformandola nel Centro operazioni in valuta estera della Eesti Pank. La banca centrale tentò inoltre, entro i suoi limiti, di compiere ulteriori passi per liberalizzare l’economia e di attuare la transizione verso un’economia di mercato: iniziò a organizzare aste di valuta, a pubblicare stime della quantità di rubli in circolazione, a rilasciare autorizzazioni per pagamenti e saldi in valuta estera, ecc.

Nel settembre 1991 Siim Kallas fu nominato presidente della Eesti Pank. Egli stabilì l’obiettivo di attuare la riforma monetaria non più tardi della prima metà del 1992. L’Estonia aveva ristabilito la sua indipendenza, che era la principale condizione preliminare per l’introduzione della valuta nazionale. Nel 1992 la questione principale riguardò la scelta del sistema monetario. Doveva essere un sistema affidabile, chiaro e semplice poiché il successo di qualsiasi valuta dipende dalla fiducia e soltanto un sistema monetario vincente avrebbe potuto rafforzare la fiducia nella moneta legale di un piccolo paese che aveva appena ristabilito la sua indipendenza. Il regime di currency board applicato in Estonia fece agganciare la corona a una moneta-àncora. La base monetaria messa in circolazione dalla Eesti Pank era pienamente sostenuta da un cambio liberamente convertibile e non sussistevano restrizioni sulle transazioni estere. Dalla riforma monetaria e fino al dicembre 2001, la corona estone era stata agganciata al marco tedesco: 8 eek = 1 dem. Oggi la corona è ancorata all’Euro con il seguente tasso di cambio: 1 euro = 15,6466 eek. La riforma monetaria venne attuata il 20 giugno 1992. La corona estone venne dichiarata l’unica valuta legale in circolazione e la Eesti Pank l’unico ente regolatore delle relazioni monetarie in Estonia.

Dal 1992 l’obiettivo della politica monetaria estone è stato quello di raggiungere e mantenere una valuta stabile per assicurare la stabilità dei prezzi e una crescita economica sostenibile. La riforma monetaria ha gettato le basi per lo sviluppo di un contesto macroeconomico stabile, sostenuto, innanzitutto, da una politica economica equilibrata, che potesse gradualmente rafforzare il settore finanziario e favorire il rapido riorientamento del settore reale verso mercati esteri sviluppati.

La politica monetaria dell’Estonia indipendente può essere suddivisa in tre fasi: creazione e implementazione del sistema monetario; aggiornamento della politica monetaria; preparativi per l’ingresso nell’eurosistema.

L’evento più significativo degli ultimi dieci anni è stato senza dubbio la riforma monetaria attuata con l’obiettivo di introdurre la valuta nazionale e raggiungere una stabilità economica attraverso la politica dei cambi. La riforma ha avuto esiti molto positivi ed è riuscita a diminuire rapidamente sia il tasso di inflazione che i tassi d’interesse sui depositi e sui prestiti. La stabilità economica ha aumentato la fiducia nella corona estone e di conseguenza anche gli investimenti esteri diretti, fattore molto importante per uno Stato in via di sviluppo come l’Estonia. Negli anni successivi alla riforma, oltre ad attuare una politica economica conservatrice, è stata migliorata anche l’efficienza del sistema finanziario, creando un quadro regolamentare conforme alle norme internazionali in materia di adeguatezza patrimoniale, rapporti di liquidità e requisiti di capitale sociale minimo.

A metà degli anni Novanta è aumentata la necessità di regolamentare il quadro d’azione della politica monetaria. Per facilitare l’integrazione del sistema bancario nei mercati esteri sono state abolite le differenze dei tassi di cambio nell’acquisto e nella vendita della corona estone rispetto alla valuta di riferimento tra la Eesti Pank e gli istituti di credito. Inoltre, per promuovere lo sviluppo di un mercato monetario interno, la banca centrale ha iniziato a far riferimento ai tassi d’interesse dei mercati finanziari. In più, per poter incrementare i cuscinetti di liquidità, è stato introdotto il sistema delle medie mensili nelle riserve obbligatorie e alle banche è stato concesso di effettuare depositi e operazioni presso la banca centrale.

In un ambiente economico in via di stabilizzazione, l’aumento dell’efficienza del sistema di currency board e la preparazione all’adesione all’Unione economica e monetaria (UEM) sono stati gli obiettivi principali della politica monetaria estone nel 1999, considerata anche la condizione di Stato in fase di adesione dell’Estonia e l’introduzione dell’euro come moneta di conto.

Il sistema monetario dell’Estonia, che si basa su regole molto rigide, si è rivelato affidabile per tutto il periodo della riconquistata indipendenza e ha fornito un quadro ben definito per una politica monetaria affidabile e trasparente. I prerequisiti per una convergenza “morbida” sono: una politica fiscale ed economica conservatrice, un consolidamento finanziario sostenibile e riforme strutturali continue per aumentare la credibilità dell’Estonia sia presso i residenti sia presso gli investitori stranieri (v. anche Criteri di convergenza).

Il 16 aprile 2003 l’Estonia insieme ad altri nove Stati in via di adesione firmò il Trattato di adesione all’Unione europea. L’adesione fu approvata anche con il referendum del 14 settembre 2003. Secondo il Trattato di adesione tutti i nuovi Stati membri vengono ammessi con deroga all’Unione economica e monetaria. La Eesti Pank considera l’adozione finale dell’euro un passo fondamentale per l’economia estone al fine di garantire un clima favorevole agli investimenti, migliorare la propria competitività, rafforzare le condizioni per una crescita economica sostenuta a lungo termine ed equilibrata, e un miglioramento degli standard di vita.

L’Estonia ha aderito alla zona euro dal 1° gennaio 2011.

Barbi Pilvre (2012)




Banca centrale della Repubblica Estone

La Eesti Pank è la Banca centrale della Repubblica di Estonia. Il suo compito fondamentale è quello di garantire la stabilità dei prezzi in Estonia. A questo scopo, la Eesti Pank svolge le seguenti funzioni: partecipa alla politica economica estone implementando una politica monetaria indipendente, consultando il governo e promuovendo la cooperazione internazionale; supervisiona la stabilità finanziaria, impostando le politiche del settore finanziario e mantenendo sistemi di pagamento affidabili ed efficaci; predispone la circolazione di contanti in Estonia.

La Eesti Pank fu fondata il 24 febbraio 1919 su decisione del governo provvisorio dell’Estonia. Nel giugno 1940, dopo l’annessione dell’Estonia all’Unione Sovietica, venne nazionalizzata diventando l’Ufficio repubblicano estone della Banca statale dell’URSS. Il 28 agosto 1941, dopo l’occupazione di Tallinn da parte delle truppe tedesche, la Eesti Pank riprese la sua attività. Formalmente la banca venne denominata “Eesti Pank”, ma in realtà non era una banca centrale. Era piuttosto una banca che operava sotto il controllo delle autorità di occupazione, fornendo servizi ai governi locali e ad altre istituzioni e predisponendo l’avvicendamento della nuova valuta di occupazione.

Negli anni compresi tra il 1944 e il 1990, l’attività bancaria del paese fu ancora una volta orientata verso il sistema monetario e bancario dell’Unione Sovietica. La banca centrale, come istituzione, era inesistente. L’anno 1987 aveva già fornito un chiaro segnale dell’imminente crisi sia dell’economia dell’Unione Sovietica che del suo sistema bancario. Al contempo quello stesso anno si rivelò decisivo: si può considerare l’anno in cui iniziarono i preparativi per la ricostituzione della Eesti Pank. Nel maggio 1989 il Consiglio supremo della Repubblica socialista sovietica estone (RSS) approvò l’idea di autofinanziamento del paese e adottò la legge sui fondamenti di autofinanziamento della RSS estone. Entrambi i documenti prevedevano un sistema bancario nazionale che comprendesse l’istituzione di una banca centrale e l’introduzione di una valuta nazionale. Il 15 dicembre 1989 il Consiglio supremo della RSS dell’Estonia approvò la risoluzione per ricostituire la Eesti Pank.

La Eesti Pank tornò a essere operativa il 1° gennaio 1990, dopo una pausa di 50 anni. Assorbì l’agenzia di Tallinn della Banca del commercio estero dell’Unione Sovietica, trasformandola nel Centro operazioni in valuta estera della Eesti Pank. La banca centrale tentò inoltre, entro i suoi limiti, di compiere ulteriori passi per liberalizzare l’economia e di attuare la transizione verso un’economia di mercato: iniziò a organizzare aste di valuta, a pubblicare stime della quantità di rubli in circolazione, a rilasciare autorizzazioni per pagamenti e saldi in valuta estera, ecc.

Nel settembre 1991 Siim Kallas fu nominato presidente della Eesti Pank. Egli stabilì l’obiettivo di attuare la riforma monetaria non più tardi della prima metà del 1992. L’Estonia aveva ristabilito la sua indipendenza, che era la principale condizione preliminare per l’introduzione della valuta nazionale. Nel 1992 la questione principale riguardò la scelta del sistema monetario. Doveva essere un sistema affidabile, chiaro e semplice poiché il successo di qualsiasi valuta dipende dalla fiducia e soltanto un sistema monetario vincente avrebbe potuto rafforzare la fiducia nella moneta legale di un piccolo paese che aveva appena ristabilito la sua indipendenza. Il regime di currency board applicato in Estonia fece agganciare la corona a una moneta-àncora. La base monetaria messa in circolazione dalla Eesti Pank era pienamente sostenuta da un cambio liberamente convertibile e non sussistevano restrizioni sulle transazioni estere. Dalla riforma monetaria e fino al dicembre 2001, la corona estone era stata agganciata al marco tedesco: 8 eek = 1 dem. Oggi la corona è ancorata all’euro con il seguente tasso di cambio: 1 euro= 15,6466 eek. La riforma monetaria venne attuata il 20 giugno 1992. La corona estone venne dichiarata l’unica valuta legale in circolazione e la Eesti Pank l’unico ente regolatore delle relazioni monetarie in Estonia.

Dal 1992 l’obiettivo della politica monetaria estone è stato quello di raggiungere e mantenere una valuta stabile per assicurare la stabilità dei prezzi e una crescita economica sostenibile. La riforma monetaria ha gettato le basi per lo sviluppo di un contesto macroeconomico stabile, sostenuto, innanzitutto, da una politica economica equilibrata, che potesse gradualmente rafforzare il settore finanziario e favorire il rapido riorientamento del settore reale verso mercati esteri sviluppati.

La politica monetaria dell’Estonia indipendente può essere suddivisa in tre fasi: creazione e implementazione del sistema monetario; aggiornamento della politica monetaria; preparativi per l’ingresso nell’eurosistema.

L’evento più significativo degli ultimi dieci anni è stato senza dubbio la riforma monetaria attuata con l’obiettivo di introdurre la valuta nazionale e raggiungere una stabilità economica attraverso la politica dei cambi. La riforma ha avuto esiti molto positivi ed è riuscita a diminuire rapidamente sia il tasso di inflazione che i tassi d’interesse sui depositi e sui prestiti. La stabilità economica ha aumentato la fiducia nella corona estone e di conseguenza anche gli investimenti esteri diretti, fattore molto importante per uno Stato in via di sviluppo come l’Estonia. Negli anni successivi alla riforma, oltre ad attuare una politica economica conservatrice, è stata migliorata anche l’efficienza del sistema finanziario, creando un quadro regolamentare conforme alle norme internazionali in materia di adeguatezza patrimoniale, rapporti di liquidità e requisiti di capitale sociale minimo.

A metà degli anni Novanta è aumentata la necessità di regolamentare il quadro d’azione della politica monetaria. Per facilitare l’integrazione del sistema bancario nei mercati esteri sono state abolite le differenze dei tassi di cambio nell’acquisto e nella vendita della corona estone rispetto alla valuta di riferimento tra la Eesti Pank e gli istituti di credito. Inoltre, per promuovere lo sviluppo di un mercato monetario interno, la banca centrale ha iniziato a far riferimento ai tassi d’interesse dei mercati finanziari. In più, per poter incrementare i cuscinetti di liquidità, è stato introdotto il sistema delle medie mensili nelle riserve obbligatorie e alle banche è stato concesso di effettuare depositi e operazioni presso la banca centrale.

In un ambiente economico in via di stabilizzazione, l’aumento dell’efficienza del sistema di currency board e la preparazione all’adesione all’UEM (Unione economica e monetaria) sono stati gli obiettivi principali della politica monetaria estone nel 1999, considerata anche la condizione di Stato in fase di adesione dell’Estonia e l’introduzione dell’euro come moneta di conto.

Il sistema monetario dell’Estonia, che si basa su regole molto rigide, si è rivelato affidabile per tutto il periodo della riconquistata indipendenza e ha fornito un quadro ben definito per una politica monetaria affidabile e trasparente. I prerequisiti per una convergenza “morbida” sono: una politica fiscale ed economica conservatrice, un consolidamento finanziario sostenibile e riforme strutturali continue per aumentare la credibilità dell’Estonia sia presso i residenti sia presso gli investitori stranieri.

Il 16 aprile 2003 l’Estonia insieme ad altri nove Stati in via di adesione firmò il Trattato di adesione all’Unione europea. L’adesione fu approvata anche con il referendum del 14 settembre 2003. Secondo il Trattato di adesione tutti i nuovi Stati membri vengono ammessi con deroga all’Unione economica e monetaria. La Eesti Pank considera l’adozione finale dell’euro un passo fondamentale per l’economia estone al fine di garantire un clima favorevole agli investimenti, migliorare la propria competitività, rafforzare le condizioni per una crescita economica sostenuta a lungo termine ed equilibrata, e un miglioramento degli standard di vita.

L’Estonia ha aderito alla zona euro dal 1° gennaio 2011.




Banca centrale europea

La Banca centrale europea è un’istituzione frutto del processo di unificazione monetaria dell’Europa (v. Unione economica e monetaria, UEM). L’esigenza di raggiungere l’obiettivo della stabilità dei cambi ha iniziato ad evidenziarsi in Europa a partire dagli anni Sessanta, quando il periodo di relativa stabilità monetaria garantita dal sistema di Bretton Woods iniziava a mostrare i primi segni di cedimento. La stabilità dei mercati valutari che era stata garantita dalla convertibilità del dollaro in oro viene messa in crisi nel 1968 dall’avvio di un mercato parallelo dell’oro. Le autorità statunitensi negano di conseguenza la convertibilità alle Banche centrali sospettate di realizzare arbitraggi, portando de facto a una inconvertibilità tecnica del dollaro pur non esplicitamente dichiarata. Ciò determina una crisi valutaria internazionale. Con l’accentuarsi dell’instabilità dei cambi nei sei paesi fondatori europei emerge l’esigenza di garantire qualche forma di collaborazione a livello monetario, affinché la volatilità dei cambi non produca distorsioni all’interno del Mercato unico europeo.

È in questo quadro che nell’ottobre del 1970 viene presentato il primo progetto di integrazione monetaria (il Piano Werner) volto a ottenere entro 10 anni, attraverso 3 fasi, il raggiungimento dell’unione monetaria europea. Tuttavia, il crollo del sistema di Bretton Woods con la dichiarazione, l’anno seguente, dell’inconvertibilità del dollaro in oro e la conseguente crisi monetaria internazionale determinano, di fatto, l’abbandono del progetto iniziale. Gli Stati membri tentano di introdurre un sistema di fluttuazione coordinata tra le valute, il cosiddetto “serpente monetario europeo” (v. Serpente monetario). Anche questo progetto tuttavia entra rapidamente in crisi a causa delle forti fluttuazioni dei cambi conseguenti alla inconvertibilità del dollaro che il Presidente americano Richard Nixon dichiara nell’agosto del 1971 e alla crisi economica internazionale successiva alla crisi petrolifera del 1972.

Il fallimento del Piano Werner mette chiaramente in luce come il progetto di unione monetaria non può essere realizzato se non nel quadro di un’unione di tipo politico. L’iniziativa viene inizialmente portata avanti dai federalisti (v. Movimento federalista europeo; Unione europea dei federalisti), i quali propongono che l’unione monetaria si accompagni all’elezione diretta dei membri del Parlamento europeo (v. Elezioni dirette del Parlamento europeo). Nel 1979 si svolgono le prime elezioni nella storia di un parlamento sovranazionale e, non a caso, proprio nello stesso anno l’allora Presidente della Repubblica francese, Valéry Giscard d’Estaing, e il cancelliere tedesco Helmut Schmidt propongono di introdurre un sistema di fluttuazione dei cambi amministrato, denominato “Sistema monetario europeo” (SME). La proposta viene approvata il 13 marzo 1979.

Lo SME costituisce un punto di svolta nel processo d’integrazione monetaria europea. Il Sistema, infatti, non solo è volto a ridurre la fluttuazione dei cambi intraeuropei e a favorire la convergenza dei tassi d’inflazione verso livelli contenuti, ma introduce anche meccanismi di sostegno reciproco tra i partecipanti per favorire il raggiungimento dell’obiettivo della stabilità valutaria. Con lo SME viene anche introdotta l’Unità di conto europea (ECU), una moneta espressione del valore medio delle valute partecipanti al sistema, presa come riferimento per misurare le fluttuazioni dei cambi che devono mantenersi entro il tasso di fluttuazione stabilito pari al 2,25% rispetto alla parità centrale (con la sola eccezione dell’Italia, che ha un margine del 6%, e del Regno Unito inizialmente fuori dal sistema).

Il Sistema monetario europeo ha costituito una tappa fondamentale per il processo di integrazione monetaria del continente. Sostenuto dalla stabilità della principale moneta di riferimento dell’area, il marco, il sistema ha infatti avviato il processo di graduale convergenza tra le monete partecipanti e garantito un progressivo rientro dell’economia europea dai tassi di inflazione a doppia cifra che avevano caratterizzato gli anni Settanta.

Nel 1986, la Comunità economica europea decide di lanciare l’obiettivo di raggiungere il Mercato unico europeo entro il 1992. Con la firma dell’Atto unico europeo risulta subito evidente che l’obiettivo di creare uno spazio comune europeo privo di barriere alla circolazione di merci, servizi, persone e capitali richiede un parallelo salto in avanti nel processo di unificazione monetaria. Nel giugno 1988 al Consiglio europeo di Hannover viene istituito un comitato presieduto dall’allora presidente della Commissione, Jacques Delors, che ha il compito di elaborare un piano per la realizzazione dell’unione monetaria. Il Rapporto Delors vede la luce in poco meno di un anno e costituirà successivamente la base del futuro Trattato di Maastricht. Il piano definisce i passi per il raggiungimento in tre fasi successive dell’Unione economica e monetaria. In particolare, il Piano Delors prevede la creazione di un’istituzione monetaria comune, il Sistema europeo di banche centrali (SEBC), al cui centro vi è un istituto di emissione europeo, la Banca centrale europea (BCE), con il compito di designare e condurre la politica monetaria. Last but not least, il piano individua la necessità di introdurre una moneta unica europea, l’euro.

Il Piano Delors viene approvato dal Consiglio europeo di Madrid del giugno 1989. Il primo luglio 1990 inizia così la prima fase del processo previsto nel piano, che consiste nel completamento del processo di liberalizzazione dei capitali (v. Libera circolazione dei capitali), in un maggior coordinamento delle politiche monetarie, nella progressiva introduzione per tutte le valute della banda stretta del 2,25% dello SME. Da ultimo, viene prevista l’abolizione di ogni forma di finanziamento monetario del Tesoro da parte delle Banche centrali nazionali dei paesi membri.

La seconda fase dell’UEM (gennaio 1994-dicembre 1998) prevede l’introduzione di cambiamenti istituzionali, tra cui l’introduzione dell’Istituto monetario europeo (IME), precursore della successiva BCE. Per poter realizzare questi cambiamenti è dunque necessario aggiornare i Trattati di Roma. Viene così convocata una Conferenza Intergovernativa (v. Conferenze intergovernative, CIG), che porta alla stesura del Trattato istitutivo dell’Unione europea firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992. Il Trattato di Maastricht, tra l’altro, stabilisce i criteri economici che i paesi che vogliono aderire alla moneta unica devono ottemperare in materia di finanza pubblica, tassi d’interesse e di inflazione.

Al Consiglio europeo di Madrid del dicembre 1995 viene deciso che il nome della valuta europea sarà “euro”, e che per il 1° gennaio 1999 verranno fissati i tassi di conversione irrevocabili tra le valute partecipanti all’euro. L’istituzione in carica per la gestione della nuova valuta sarà la Banca centrale europea, che sarà operativa proprio da questa data.

Con il 1° gennaio 1999 la Banca centrale europea ha dunque assunto la responsabilità della politica monetaria europea nell’area dell’euro, sostituendosi alle 11 banche centrali che fino a quella data avevano avuto la responsabilità delle politiche monetarie nazionali. La struttura istituzionale della Banca centrale europea è stata definita nelle sue linee principali dal Trattato di Maastricht e, in particolare, dal Protocollo sullo statuto del Sistema europeo di banche centrali e della Banca centrale europea, che all’articolo 1 così si esprime: «Il Sistema europeo di banche centrali (SEBC) e la Banca centrale europea (BCE) […] assolvono i loro compiti ed espletano le loro attività conformemente alle disposizioni del trattato e del presente statuto […], il SEBC è composto dalla BCE e dalle banche centrali degli Stati membri (banche centrali nazionali)». La base legale per la politica monetaria europea è definita dal Trattato che istituisce la Comunità europea.

I due principî fondamentali su cui l’architettura della SEBC è costituita sono il principio della assoluta autonomia della Banca nella conduzione della politica monetaria e la priorità data all’obiettivo di un basso tasso d’inflazione. Questi principî sono coerenti con i principi federalisti che sono alla base del progetto di unione monetaria. In una visione ispirata al principio di sussidiarietà a tutti i livelli, infatti, alle autorità centrali risulta impossibile drenare risorse dai livelli più bassi attraverso politiche inflazioniste (v. Principio di sussidiarietà).

Va rilevato come l’importanza attribuita all’obiettivo della stabilità dei prezzi sia coerente con l’idea, recentemente affermatasi nel dibattito economico, che non esista uno stabile trade-off tra i tassi di crescita dei prezzi e il tasso di crescita reale dell’economia, per cui il perseguimento di contenuti tassi di crescita dei livelli dei prezzi non compromette le prospettive di crescita dell’economia reale. In questo modo i principî ispiratori della costituzione monetaria europea hanno posto le premesse per una rivalutazione delle politiche fiscali a tutti i livelli dell’Unione europea secondo i principi del federalismo fiscale. Dal punto di vista storico, questa soluzione era già stata sperimentata nella Germania federale come conseguenza della sua struttura federale.

Questi principi sono chiaramente espressi nel Trattato istitutivo della Comunità europea, che all’articolo 105 così recita: «L’obiettivo principale del SEBC è il mantenimento della stabilità dei prezzi. Fatto salvo l’obiettivo della stabilità dei prezzi, il SEBC sostiene le politiche economiche generali nella Comunità al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi della Comunità definiti nell’articolo».

La missione prioritaria della Banca centrale europea è dunque chiaramente definita: garantire un basso livello d’inflazione (obiettivo della stabilità dei prezzi). Nell’articolo 105 il riferimento al secondo obiettivo della Banca centrale, ossia il sostegno delle politiche economiche generali, è esplicitamente subordinato al primo obiettivo. Ne consegue che, nel perseguimento delle proprie finalità, gli organi di governo dell’istituto di emissione devono privilegiare gli obiettivi monetari, eventualmente anche a scapito di eventuali obiettivi di crescita economica. Il disegno istituzionale che emerge è quindi caratterizzato da una chiara divisione dei compiti con le autorità monetarie europee, che hanno l’obiettivo di contenere la crescita dei prezzi, e le autorità fiscali a tutti i livelli di governo, che hanno invece il compito primario di promuovere la crescita economica, pur nel rispetto della stabilità economica.

Queste considerazioni valgono anche per le politiche relative al tasso di cambio dell’euro. Queste politiche sono condivise dalla BCE e dal Consiglio economia e finanza (ECOFIN) e, anche in questo caso, la conduzione della politica del cambio è guidata dall’obiettivo generale volto al mantenimento della stabilità dei prezzi.

L’indipendenza della Banca costituisce quindi la condizione necessaria affinché gli organi di governo della Banca centrale possano mantenere la necessaria autonomia da quelle istituzioni, in primis i governi nazionali, i quali sono invece primariamente interessati al raggiungimento di obiettivi di politica economica – tipicamente la crescita – che in certe condizioni e nel breve termine possono dimostrarsi in contrasto con quelli della stabilità monetaria.

Il concetto di autonomia è declinato precisamente dal Trattato che istituisce la Comunità europea (art. 108) allorquando così si esprime: «Nell’esercizio dei poteri e nell’assolvimento dei compiti e dei doveri loro attribuiti dal presente trattato e dallo statuto del SEBC, né la BCE né una banca centrale nazionale né un membro dei rispettivi organi decisionali possono sollecitare o accettare istruzioni dalle istituzioni o dagli organi comunitari, dai governi degli Stati membri né da qualsiasi altro organismo. Le istituzioni e gli organi comunitari nonché i governi degli Stati membri si impegnano a rispettare questo principio e a non cercare di influenzare i membri degli organi decisionali della BCE o delle banche centrali nazionali nell’assolvimento dei loro compiti».

Nel rispetto della sua indipendenza e autonomia, la BCE non è un’istituzione slegata dal contesto istituzionale dell’Unione europea. La Banca ha degli obblighi e delle responsabilità di informazione nei confronti delle altre istituzioni; il Trattato prevede degli obblighi specifici a carico della Banca affinché i cittadini europei siano informati sulle motivazioni e sulle modalità di operare dell’istituto di emissione. A tale riguardo la BCE ha obblighi in primo luogo nei confronti del Parlamento europeo, unica istituzione europea direttamente eletta dai cittadini dell’Unione.

In base alle disposizioni del Trattato, la BCE trasmette al Parlamento europeo, al Consiglio dei ministri e alla Commissione europea nonché al Consiglio europeo una relazione annuale sull’attività del SEBC e sulla politica monetaria dell’anno precedente e dell’anno in corso. È il presidente della BCE che presenta questa relazione al Consiglio e al Parlamento europeo il quale, sulla base delle informazioni ricevute, può procedere ad un dibattito generale. Il Parlamento, in qualsiasi momento, può convocare il presidente o gli altri membri del comitato esecutivo per essere informato sulle attività della Banca.

È sempre il Trattato che all’articolo 105 definisce i compiti fondamentali che il SEBC deve realizzare; tali compiti, oltre alla definizione e attuazione della politica monetaria, sono i seguenti: svolgere le operazioni sui cambi; detenere e gestire le riserve ufficiali in valuta estera degli Stati membri; promuovere il regolare funzionamento dei sistemi di pagamento. Alla BCE, inoltre, compete l’esclusivo diritto di autorizzare l’emissione di banconote nell’area dell’euro e, in cooperazione con le banche centrali nazionali, di raccogliere le informazioni statistiche necessarie all’implementazione della politica monetaria.

Alla BCE non sono invece affidati direttamente compiti di vigilanza prudenziale e di controllo della stabilità degli intermediari finanziari e del sistema finanziario. Questi compiti sono rimasti di pertinenza delle autorità nazionali di controllo, con le quali tuttavia la BCE collabora ai fini di una buona conduzione delle politiche nazionali. Da questo punto di vista tale distinzione rimane una peculiarità del sistema europeo. È opinione diffusa che, nella misura in cui l’euro porterà alla realizzazione di un mercato finanziario continentale, questa netta separazione delle competenze dovrà in qualche modo essere riconsiderata; è realistico ipotizzare una suddivisione delle competenze di tipo concorrente tra i due diversi livelli di governo, europeo e nazionale, seguendo il percorso istituzionale della suddivisione realizzata, ad esempio, nelle politiche antitrust.

Per quanto riguarda la struttura istituzionale del SEBC, il modello di riferimento è costituito dalle autorità monetarie federali, come ad esempio quella della Repubblica Federale Tedesca o il Federal riserve system statunitense. Nel caso europeo, tuttavia, vi sono alcune particolarità che rendono l’architettura istituzionale europea unica. In primo luogo, poiché non tutti i paesi hanno introdotto la moneta unica, è necessario distinguere il SEBC, comprendente la BCE e tutte le banche centrali nazionali dei paesi membri, dal cosiddetto “Eurosistema”, la struttura istituzionale costituita dalla BCE e dalle sole banche centrali nazionali dei paesi che hanno adottato l’euro. Nella fase attuale, quindi, e finché ci sarà anche un solo paese membro che non avrà adottato la moneta comune, sarà necessario distinguere tra Eurosistema e SEBC. La gestione della politica monetaria comune è di pertinenza della BCE e dei soli paesi che compongono l’Eurosistema.

Gli organi decisionali della BCE sono due: il Consiglio direttivo (Governing council) e il Comitato esecutivo (Executive board). Il Consiglio direttivo è composto dai 6 membri del Comitato esecutivo e dai governatori delle banche centrali nazionali dell’Eurosistema (12 governatori nel 2003). Il Consiglio direttivo è presieduto dal presidente della BCE e ha il compito di definire le linee generali e le decisioni fondamentali relative alla realizzazione della politica monetaria europea. Il Consiglio direttivo si riunisce generalmente due volte al mese, di regola il giovedì, e si occupa quindi di prendere quelle decisioni relative agli obiettivi intermedi di politica monetaria, ai tassi di interesse e all’offerta di moneta. Ogni membro del Consiglio direttivo è titolare di un solo diritto di voto e le decisioni all’interno dell’organo sono prese a maggioranza semplice. L’obiettivo di questa regola è fare sì che gli organi della BCE decidano non sulla base di un compromesso tra i diversi interessi nazionali, bensì secondo uno spirito autenticamente europeo.

Il Comitato esecutivo è un organo più ristretto con il compito della gestione quotidiana della politica monetaria, ed è composto dal presidente, dal vicepresidente e da altri quattro membri di riconosciuta reputazione ed esperienza in campo monetario e bancario. Tutti i membri del Comitato esecutivo sono nominati con decisione dei capi di Stato e di governo dei paesi che compongono l’Eurosistema e rimangono in carica per un periodo (8 anni) sufficientemente lungo a garantirne e promuoverne la dovuta indipendenza.

I compiti del Comitato esecutivo sono essenzialmente due: formulare e attuare la politica monetaria della Comunità con riferimento sia agli obiettivi generali che agli obiettivi monetari intermedi, ai tassi di interesse guida e all’offerta di riserve nel SEBC secondo le decisioni e gli indirizzi stabiliti dal Consiglio; preparare le riunioni del Consiglio direttivo.

La BCE, conformemente allo spirito di sussidiarietà che permea la struttura del SEBC, prevede che, laddove possibile, i compiti operativi di politica monetaria vengano svolti direttamente dalle banche centrali nazionali. Ne consegue che gli enti creditizi hanno mantenuto i loro depositi presso le banche centrali nazionali, cui spettano le operazioni per la regolazione della liquidità e i tassi di interesse nonché il compito di stampa delle banconote (non delle monete che rimane di competenza dei singoli governi nazionali) e di raccolta ed elaborazione delle statistiche monetarie e finanziarie

A fianco dei due organi di governo menzionati sopra vi è infine il Consiglio generale, che è composto da tutti governatori della Banche centrali dei paesi membri e che ha solo una funzione consultiva.

Allo scopo di conseguire l’obiettivo della stabilità dei prezzi, la Banca centrale europea ha sviluppato una strategia complessiva che viene comunicata al mercato al fine di raggiungere la massima trasparenza nei rapporti tra l’istituzione e gli operatori di mercato. L’obiettivo della trasparenza e della corretta informazione al mercato costituisce il primo passo della strategia complessiva della BCE, la quale ha costantemente comunicato al mercato i suoi obiettivi di politica monetaria e le sue modalità operative al fine di orientare i comportamenti degli attori economici nel senso desiderato dalle autorità di politica monetaria.

A questo proposito il primo, importante punto di riferimento che la BCE ha offerto al mercato è costituito da una precisa definizione del concetto di stabilità monetaria, definizione che è rimasta sostanzialmente immutata fin dalla nascita della BCE. La stabilità dei prezzi è stata definita in termini quantitativi e più precisamente, come «un aumento sui dodici mesi dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo (IAPC) per l’area dell’euro inferiore al 2%». L’obiettivo della BCE non è solo quello di garantire livelli d’inflazione inferiore al 2% ma, come è stato specificato in una dichiarazione del Consiglio direttivo del 2003, è anche quello di fornire un margine di sicurezza sufficientemente ampio a salvaguardia dai rischi di deflazione e di possibili distorsioni nella misurazione dello IAPC; il Consiglio direttivo ha precisato che si prefiggerà di mantenere l’inflazione su livelli prossimi al 2%. Va sottolineato come la BCE abbia specificato che la definizione del target di inflazione da seguire si riferisca a un orizzonte di riferimento di medio termine. Questa specificazione è rilevante in quanto la BCE sta annunciando che si muoverà sul mercato solo in caso di rischi stabili di inflazione, ma non nel caso di aumento dei prezzi che la Banca stessa giudicasse solo di brevissimo termine.

Poiché l’obiettivo della BCE è quello di mantenere il livello generale dei prezzi entro i target definiti, l’istituto di emissione ha definito una strategia coerente per valutare i potenziali rischi di crescita dei prezzi. La comunicazione al mercato dei metodi di indagine utilizzati per valutare i potenziali rischi inflattivi è volta, nelle intenzioni del istituto di emissione, a rendere gli operatori economici informati sulle modalità di analisi e quindi sul comportamento della BCE. Si ritiene che questo modo di procedere sia in grado di influenzare direttamente i comportamenti degli agenti nel mercato nel senso auspicato dalla Banca.

L’istituto centrale ha sviluppato una metodologia di indagine dei potenziali rischi d’inflazione basata su due differenti approcci (two-pillar framework). Il primo fa riferimento a diversi aggregati e variabili dell’economia reale quali il tasso di cambio, la bilancia dei pagamenti, l’andamento della domanda, al fine di individuare potenziali fonti d’inflazione nel breve termine. Il secondo approccio è costituito dall’analisi degli aggregati monetari, e si basa sulla ben nota relazione che esiste nel lungo periodo fra dimensione dell’offerta di moneta e livello generale dei prezzi (teoria quantitativa della moneta). Sulla base di questa relazione, la Banca centrale ha deciso di definire quale sia il tasso di crescita degli aggregati monetari di riferimento compatibile, a suo parere, con il tasso d’inflazione programmato. L’aggregato monetario che la Banca centrale attualmente usa è quello definito M3, costituito dalla somma del circolante e dai depositi a vista presenti nel sistema (M1), più i depositi a risparmio e un aggregato di passività finanziarie emesse dal sistema bancario con scadenza inferiore ai due anni (pronti contro termine, quote di fondi comuni monetari e titoli di mercato monetario). Una volta definito l’aggregato monetario di riferimento, la Banca annuncia al mercato i criteri con i quali determina il tasso di crescita della moneta ritenuto compatibile con il tasso d’inflazione programmato. Questo metodo di analisi del mercato è volto a incrementare la trasparenza delle operazioni svolte dall’Istituto di emissione, rafforzando in questo modo la credibilità della Banca. A sua volta una maggiore credibilità dell’Istituto centrale indurrà comportamenti da parte degli agenti economici in linea con quelle che sono le aspettative della Banca stessa.

Una volta definito l’obiettivo finale in termini di stabilità dei prezzi e l’obiettivo intermedio in termini di tasso di crescita degli aggregati monetari compatibili con le condizioni economiche generali, la Banca centrale dispone di un complesso di strumenti atti a conseguire questi obiettivi, riconducibili essenzialmente agli strumenti e alle procedure volte al controllo della liquidità totale del sistema e al controllo dei tassi di interesse.

Alle procedure di controllo degli aggregati monetari sono ascrivibili tutte quelle operazioni destinate a fornire o drenare liquidità dal sistema. Con queste operazioni la Banca centrale cerca di portare i tassi di crescita degli aggregati monetari e di influenzare i tassi di mercato monetario verso gli obiettivi perseguiti.

Un ruolo fondamentale a questo riguardo è svolto dalle operazioni di mercato aperto, ossia da quelle operazioni con cui l’Eurosistema offre fondi alle controparti creditizie. Queste operazioni di finanziamento assumono la forma di contratti di pronti contro termine, tipicamente garantiti da titoli che la Banca centrale classifica in due categorie a seconda che siano a diffusione europea (Tier 1) o invece a prevalente circolazione nazionale (Tier 2).

Le operazioni di mercato aperto sono realizzate con riferimento al tasso di sconto, che è il tasso di riferimento principale della politica monetaria della BCE. Queste operazioni possono essere classificate in quattro differenti categorie a seconda dell’obiettivo perseguito, della tempistica e delle modalità di finanziamento adottate: operazioni di rifinanziamento principale; operazioni di rifinanziamento a lungo termine; operazioni temporanee (fine tuning); operazioni di tipo strutturale.

Le operazioni di rifinanziamento principale costituiscono il principale strumento di finanziamento delle controparti creditizie. Oltre a influenzare tassi a breve e gli aggregati monetari esse svolgono un ruolo fondamentale nel segnalare al mercato i principali indirizzi della politica monetaria della Banca centrale. Queste operazioni sono condotte settimanalmente dalla Banca centrale e hanno di regola, a partire dal 2004, una durata settimanale. Con tali operazioni le controparti creditizie partecipano ad aste, stabilite in base a un calendario predefinito, per acquistare liquidità dalla Banca centrale a un tasso fisso o variabile a seconda delle modalità definite dalla BCE.

Le operazione di rifinanziamento a lungo termine si distinguono dalle operazioni precedenti essenzialmente per la durata, in quanto hanno una scadenza tipica di tre mesi.

Le operazioni di fine tuning, infine, non seguono un calendario prestabilito e non hanno una durata predeterminata. Queste operazioni possono avere obiettivi sia di creazione di liquidità che di distruzione della liquidità. In questo caso sarà la BCE a proporsi come controparte per acquistare liquidità dagli enti creditizi. Dato il loro carattere eccezionale, queste operazioni sono realizzate essenzialmente per fare fronte a situazioni di fluttuazioni inattese della liquidità o a eventi eccezionali. La BCE ha utilizzato queste procedure di finanziamento eccezionali in situazioni particolari: ad esempio nei due giorni seguenti l’attacco alle torri gemelle negli Stati Uniti, introducendo nei giorni 12 e 13 settembre liquidità nel sistema pari a 109.776 milioni di euro quando le operazioni di rifinanziamento principale nel mese precedente avevano immesso liquidità nel sistema per importi compresi trai 71.000 e 91.000 milioni di euro.

L’ultima tipologia di finanziamento a disposizione della BCE è costituita delle operazioni strutturali, volte a influenzare la posizione di liquidità nel lungo periodo del sistema bancario. La portata operativa di queste operazioni è tuttavia scarsa, non avendo ancora utilizzato la BCE questo strumento.

Particolarmente rilevanti risultano le potenzialità delle operazioni su iniziativa delle controparti (standing facilities). Le standing facilities costituiscono un agile strumento per la regolazione delle posizioni di liquidità tra il sistema creditizio e l’Eurosistema, e permettono di fornire o assorbire liquidità su iniziativa delle controparti bancarie, le quali possono acquistare depositi overnight ad un tasso denominato tasso marginale o possono depositare la liquidità in eccesso ad un tasso chiamato tasso di deposito. Il tasso marginale e il tasso di deposito si collocano tipicamente al di fuori dei normali tassi di mercato, per cui per le banche vi è uno scarso incentivo a ricorrere a questa opzione. Questi tassi, insieme ai tassi delle operazioni di rifinanziamento, definiscono il cosiddetto “corridoio dei tassi”, ossia quella griglia di tassi di interesse controllati dalla BCE che definisce il tipico ambito di oscillazione entro cui si muovono i tassi di mercato a breve termine. In condizioni normali, infatti, il tasso di interesse sui depositi presso la Banca centrale costituisce il limite minimo per il tasso di interesse del mercato overnight, mentre il tasso di rifinanziamento marginale costituisce il limite massimo.

Accanto alle operazioni di mercato aperto e a quelle su iniziativa delle controparti, l’Istituto di emissione utilizza un terzo strumento: l’imposizione della riserva obbligatoria. La BCE richiede agli enti creditizi di detenere riserve su conti costituiti presso le banche centrali nazionali. L’obiettivo del regime di riserva obbligatoria è principalmente quello di stabilizzare i tassi di interesse del mercato monetario e di modificare la posizione di liquidità del sistema creando o ampliando il fabbisogno strutturale di liquidità.

L’entità dei deposti che gli enti creditizi devono mantenere è calcolata come una percentuale (2%) dei depositi a breve raccolti dall’ente creditizio nel mese, al netto di una somma fissa che le banche possono detrarre. L’importo così depositato è remunerato in base al tasso delle operazioni di rifinanziamento principale dell’Eurosistema, e può essere in parte utilizzato dall’ente creditizio (meccanismo di mobilizzazione della riserva), purché la media dei depositi sul periodo di mantenimento sia in linea con le richieste dell’istituto centrale.

Antonio Majocchi – Dario Velo (2008)




Banca del Portogallo

La Banca del Portogallo (Banco de Portogal) venne istituita il 19 novembre 1846 in seguito alla fusione tra il Banco de Lisboa e la società di assicurazioni Compagnia nazionale; iniziò come banca per investimenti, specializzata nel finanziamento del debito pubblico. Fino al 1887 condivise i diritti di emissione della valuta nazionale con altre istituzioni bancarie, ma nel 1891 ottenne un diritto esclusivo in questo ambito, per il Portogallo continentale e per le isole Azzorre e Madeira. Fino al 1974 appartenne principalmente ad azionisti privati, in seguito la partecipazione dello Stato aumentò in modo sostanziale. Durante la seconda metà del XIX secolo, la Banca del Portogallo divenne la maggiore banca commerciale del paese ed esercitò la funzione di “banca di tutte le banche”, contribuendo a una certa supervisione informale del settore.

Durante la prima fase del regime autoritario di Antonio Oliveira Salazar, la Banca del Portogallo venne obbligata a modificare significativamente le proprie attività. Questo diede il via a un controllo monetario più rigoroso ed efficace. Il governo aumentò il controllo amministrativo nei confronti della banca, che aveva l’obbligo, tra l’altro, di seguire una politica di tassi fissi d’interesse e di cambio. Contemporaneamente, il commercio e il movimento dei capitali vennero completamente liberalizzati e la banca fu in grado di estendere le proprie Competenze al settore dei pagamenti internazionali, della gestione dei fondi di riserva e della politica monetaria interna. Dopo la Seconda guerra mondiale, furono introdotti dal regime autoritario vari regolamenti amministrativi che limitarono le transazioni internazionali e portarono allo sviluppo di un sistema molto complesso di controllo sui cambi. Inoltre, il settore bancario fu obbligato a mantenere le riserve minime. La Banca del Portogallo, inoltre, aumentò le proprie competenze, particolarmente nell’area del controllo sul credito e in materia di fissazione dei tassi d’interesse.

La “Rivoluzione dei garofani” del 25 aprile 1974 pose fine allo status privato della Banca del Portogallo, che nel settembre 1974 venne nazionalizzata dal governo provvisorio. Con la legge organica del 15 settembre 1975 le fu attribuito lo statuto di banca centrale nazionale, comprendente per la prima volta la funzione formale di supervisione del settore bancario. La Banca del Portogallo divenne un attore più attivo nella governance economica del paese, acquisendo maggiori competenze nelle aree di controllo monetario, del credito e nell’organizzazione dei mercati monetari, particolarmente dopo l’adesione alla Comunità europea, nel 1986. Durante gli anni Settanta e Ottanta il ruolo e le funzioni della Banca del Portogallo si avvicinarono a quelle delle banche nazionali dell’UE. Nell’ottobre 1990, essa acquisì più autonomia tramite una nuova legge organica. In più, vennero imposti limiti al finanziamento dei deficit di bilancio.

Durante gli anni Novanta, la Banca del Portogallo si impegnò, in collaborazione con il governo portoghese, a raggiungere la stabilizzazione dell’economia. Nell’aprile 1992 fu adottata la decisione di partecipare al Meccanismo di cambio (Exchange rate mechanism, ERM) del Sistema monetario europeo (SME). L’adesione all’ERM implicò varie svalutazioni nell’economia portoghese e un periodo di recessione. Furono mosse critiche nei confronti di questa politica dell’escudo forte. Malgrado tali critiche, il governo portoghese, insieme alla Banca del Portogallo, portò avanti politiche di convergenza con gli altri Stati membri. Nel dicembre 1992, fu completata la piena liberalizzazione dei movimenti dei capitali e l’escudo portoghese diventò del tutto convertibile. La Banca del Portogallo divenne un importante attore nella guida del paese verso l’adesione all’Unione economica e monetaria (UEM), come stabilito dal Trattato sull’Unione europea (TUE) entrato in vigore nel 1993. Le politiche di stabilità monetaria e dei prezzi della Banca del Portogallo furono sostenute dalle ponderate strategie fiscali e di bilancio dei governi di Cavaco Silva, tra il 1991 e il 1995, e successivamente dal governo Guterres, tra il 1995 e il 1998. Come adattamento alle disposizioni dell’UEM, la legge organica della Banca fu nuovamente cambiata nel 1995.

L’adesione del Portogallo alla terza fase dell’UEM, in seguito al rapporto della Commissione europea del marzo 1998, condusse alla completa integrazione della Banca del Portogallo nel Sistema europeo di banche centrali (SEBC). Ufficialmente, l’UEM prese il via il 1° gennaio 1999 e la Banca del Portogallo divenne parte del SEBC il 1° giugno 1998. Nel 1998 il varo di una nuova legge organica rifletteva questi cambiamenti nello status della Banca del Portogallo e rafforzava ulteriormente la sua indipendenza. La partecipazione alla terza fase dell’UEM richiedeva l’adesione del Portogallo all’ERM II, che fissava un tasso centrale della valuta nazionale in rapporto all’euro, ma con una possibile fluttuazione del +/- 15%.

Il 1° gennaio 2002, l’euro entrò in circolazione in tutti i dodici paesi che aderivano alla terza fase dell’UEM.

La Banca del Portogallo è oggi il ramo nazionale del SEBC. Essa segue effettivamente politiche compatibili con quelle della Banca centrale europea (BCE). La Banca del Portogallo è impegnata a seguire la politica della moneta unica stabilita dal SEBC. Il principale obiettivo è quello di assicurare una sostenibile stabilità dei prezzi. Ciò significa che il SEBC è impegnato nel mantenere basso il livello dell’inflazione. La Banca del Portogallo applica i tassi d’interesse della Banca centrale europea.

Il Portogallo deve inoltre aderire a un patto di crescita e di stabilità che mira a mantenere un deficit di bilancio inferiore alla soglia del 3% del prodotto interno lordo (PIL). Il governo portoghese ebbe difficoltà nell’aderirvi fin dal 2001. In realtà, nell’estate del 2002, l’Unione europea aprì un procedimento di infrazione per eccessivo deficit di bilancio nei confronti del Portogallo. In una situazione di tensione tra i due principali partiti politici, quello Socialista e quello Socialdemocratico, il rapporto della Banca del Portogallo riguardante la situazione del bilancio risultò essere un fattore importante e imparziale per stabilire l’esatta entità del deficit di bilancio stesso.

Infatti, nel 2002 (durante il governo della coalizione di centrodestra), fu richiesto alla Banca del Portogallo di presentare un rapporto. Quest’ultimo fu reso pubblico il 23 luglio 2002; dal medesimo emergeva la valutazione per il 2001 di un deficit di bilancio pari al 4,1% del PIL. La causa principale di questo dato era il fatto che nell’anno 2001 si era verificata una recessione economica che aveva causato una considerevole diminuzione delle entrate fiscali. Il governo della coalizione di centrodestra, presieduto da José Manuel Durão Barroso, fu sollecitato dalla Banca ad adottare misure drastiche per ridurre il deficit di bilancio al fine di evitare un procedimento di infrazione a tale proposito della Commissione europea. Malgrado gli sforzi per mantenere il deficit al di sotto del 3% nel 2002, 2003 e 2004, il governo portoghese continuò ad avere difficoltà nel tenerlo sotto controllo. Il basso livello di crescita economica e il calo del gettito fiscale contribuirono a un aumento del deficit di bilancio nel 2004. Secondo il rapporto della Banca del Portogallo del maggio 2005, la previsione del deficit di bilancio per il 2005 era del 6,8%, senza considerare le entrate straordinarie derivanti dalla vendita di società pubbliche, o altri proventi. Se si fosse tenuto conto di tali entrate straordinarie, si sarebbe potuto pensare a un deficit di bilancio superiore al 4% del PIL. Nel 2006, il governo socialista, presieduto dal primo ministro José Socrates, considerava di ridurre il deficit al 4,8% del PIL. Il nuovo piano di convergenza voleva arrivare a una riduzione del deficit di bilancio al di sotto del 3% del PIL entro il 2008.

La Banca del Portogallo partecipa a varie organizzazioni internazionali, come ad esempio il Fondo monetario internazionale (FMI).

La Banca del Portogallo è anche diventata un modello di riferimento per le economie di transizione. Ha privilegiato le relazioni con i paesi di lingua portoghese in Africa (Paises africanos de lingua oficial portuguesa, PALOP), vale a dire Angola, Mozambico, Guinea-Bissau, Sao Tomé e Principe e le isole di Capo Verde. I partecipanti al PALOP seguono i programmi di formazione presso la Banca del Portogallo, al fine di migliorare le proprie qualifiche ed esercitarle nelle proprie banche nazionali. Ogni anno si organizzano incontri tra le banche nazionali del PALOP e la Banca del Portogallo con rappresentanti del FMI e della Banca mondiale. La Banca del Portogallo monitora le economie del PALOP e questa è una importante fonte di informazioni per queste banche nazionali africane. La Banca del Portogallo è coinvolta nella formazione dei funzionari dei nuovi paesi membri dell’UE dell’Europa centrale e orientale, che intendono imitare il vincente modello portoghese.

José M. Magone (2012)




Banca della Lettonia

Introduzione

La Banca di Lettonia è la banca centrale della Repubblica di Lettonia. È un ente giuridico che opera secondo le norme stabilite dalla Legge “sulla Banca di Lettonia” del 19 maggio 1992. È diretta da un Consiglio d’amministrazione e da un Consiglio esecutivo. Il Consiglio d’amministrazione, composto da otto membri e presieduto dal Governatore della Banca di Lettonia, assume tutte le decisioni per conto della Banca. Il Consiglio esecutivo è nominato dal Consiglio d’amministrazione per “eseguire l’attività operativa e assicurare un’efficiente gestione della Banca di Lettonia” (articolo 23, Legge sulla Banca di Lettonia). Ai sensi dell’articolo 22, “il Governatore della Banca di Lettonia è nominato tramite votazione segreta dalla Saeima della Repubblica di Lettonia su raccomandazione di almeno dieci membri della Saeima”. Il vicegovernatore e i membri del Consiglio d’amministrazione vengono successivamente nominati dal Parlamento su raccomandazione del Governatore.

Storia

La prima “Legge sulla Banca di Lettonia” fu adottata dall’Assemblea Costituzionale della neoindipendente Repubblica di Lettonia, il 7 settembre 1922, per favorire l’attuazione della politica monetaria lettone e, in particolare, introdurre la nuova valuta nazionale. Lo statuto provvisorio della Banca fu approvato il 19 settembre 1922 e il 2 novembre la Banca di Lettonia stampò le sue prime banconote. La Banca operava sia come banca centrale che come banca commerciale, battendo moneta ed erogando prestiti a imprese pubbliche e private.

Nel 1940, la Banca di Lettonia fu incorporata nel sistema finanziario sovietico, in seguito all’annessione della Repubblica di Lettonia all’URSS. Di conseguenza, il sistema monetario della Repubblica Socialista Sovietica di Lettonia fu controllato dalla Banca di Stato dell’Unione Sovietica fino all’avvento della perestrojka alla metà degli anni ’80, che comportò una significativa ristrutturazione del sistema bancario. Nel 1987, l’Ufficio della Repubblica di Lettonia presso la Banca di Stato dell’Unione Sovietica venne ridenominato Banca della Repubblica di Lettonia presso la Banca di Stato dell’Unione Sovietica ma non diventò una banca centrale e non poté quindi battere moneta o stabilire la politica monetaria.

Il 2 marzo 1990, la Banca di Lettonia fu ridenominata Banca centrale della Repubblica Socialista Sovietica di Lettonia a seguito della Legge “Sulle Banche” e della Risoluzione “Sulla Banca di Lettonia” adottata dal Consiglio supremo della Repubblica Socialista Sovietica di Lettonia. Sebbene la legge garantisse alla Banca il diritto esclusivo de jure di emettere la valuta nazionale e di sviluppare e attuare una politica monetaria indipendente, fu solo dopo il riconoscimento internazionale dell’indipendenza della Lettonia, nell’agosto del 1991, che poté esercitare tali competenze de facto. In conformità alla Risoluzione del Consiglio supremo della Repubblica di Lettonia “Sulla Riorganizzazione delle Banche nel territorio della Repubblica di Lettonia”, approvata il 3 settembre 1991, la Banca di Lettonia assunse il controllo della Banca della Repubblica di Lettonia presso la Banca di Stato dell’Unione Sovietica e di altri istituti di credito statali, che essa incorporò nella propria struttura. Einars Repse, presidente del Sottocomitato banca e finanza del Comitato economico del Consiglio supremo della Repubblica di Lettonia (e futuro primo ministro), diventò il primo governatore della rinnovata Banca di Lettonia. Il 19 maggio 1992 il Consiglio supremo adottò la Legge “Sulle Banche” e la Legge “Sulla Banca di Lettonia”, che per la prima volta consacrarono l’indipendenza della banca centrale dal governo.

Obiettivi della Banca di Lettonia

Il principale obiettivo della rinnovata Banca di Lettonia fu quello di riprendere il controllo della politica monetaria e reintrodurre la moneta nazionale lettone. Per raggiungere il secondo obiettivo, la Banca si avvalse di numerosi consulenti lettoni e stranieri e istituì il Comitato per la Riforma monetaria della Repubblica di Lettonia. Il 4 maggio 1992 fu approvata una risoluzione che introdusse una moneta temporanea, il rublo lettone. Nel 1993 fu introdotta come moneta nazionale il lats, suddiviso in 100 santims. L’introduzione di una nuova moneta nazionale e il perseguimento di una politica monetaria miravano a mantenere la stabilità dei prezzi facilitando la transizione verso un’economia di mercato. La rigida politica monetaria aiutò a ridurre l’inflazione dal 951% del 1992 al 2,3% del 2003.

Le funzioni della Banca di Lettonia sono definite nella legge “Sulla Banca di Lettonia” del 19 maggio 1992. Gli obiettivi più importanti della banca centrale sono i seguenti:

  • attuare la politica monetaria controllando il quantitativo di moneta in circolazione allo scopo di mantenere la stabilità dei prezzi nello Stato;
  • emettere la valuta nazionale, le banconote e le monete, nonché fissare il tasso ufficiale di cambio dell’unità monetaria nazionale contro le valute estere;
  • mantenere le riserve di valuta estera convertibile, oro e titoli per garantire la stabilità della moneta nazionale;
  • consigliare la Saeima e il Consiglio dei Ministri sulla politica monetaria e altre questioni riguardanti lo svolgimento dei propri compiti;
  • rappresentare la Repubblica di Lettonia presso le banche centrali estere e le istituzioni monetarie internazionali e collaborare con altri istituti finanziari e di credito internazionali;
  • promuovere un agile funzionamento dei sistemi di pagamento nella Repubblica di Lettonia.

Ai sensi degli articoli 12 e 14 della Legge Sulla Banca di Lettonia, la Banca non può partecipare ad alcuna iniziativa commerciale ed è «autorizzata ad aprire conti solo per il Governo di Lettonia, le banche straniere, gli istituti monetari, finanziari e di credito internazionali, le banche lettoni e altri istituti di credito».

La Banca di Lettonia finanzia le sue attività con le entrate provenienti dal cambio estero e dalle operazioni di credito effettuate nell’ambito dei propri obiettivi. La legge Sulla Banca di Lettonia fissa il capitale nominale autorizzato della Banca a 25 milioni di lati.

Politica monetaria della Banca di Lettonia

La politica monetaria è stata orientata verso il mantenimento del valore esterno del lats, che è agganciato al paniere di valute Diritti Speciali di Prelievo (SDR) del Fondo monetario internazionale. Sebbene la Lettonia non abbia un regime di currency board, la Banca garantisce che vi siano sufficienti riserve per coprire la base monetaria. Il tasso di cambio fisso è utilizzato per mantenere sotto controllo l’inflazione e la crescita del credito interno. La Banca ha dimostrato di volere e di essere capace di difendere il valore del lats aumentando il costo del denaro ogni qualvolta la moneta è sotto pressione.

L’ancoraggio del lats all’Euro il 1 ° gennaio 2005 è stato il primo significativo adeguamento monetario dopo l’adesione della Lettonia all’Unione europea, adeguamento che sarà seguito dall’adesione al meccanismo di cambio II (ERM II) il 2 maggio dello stesso anno. ERM II consiste in un accordo per l’ancoraggio del tasso di cambio e, al contempo, una procedura per testare la maturità di uno Stato membro ai fini dell’adozione della moneta unica. La partecipazione della Lettonia all’ERM II è rilevante per il rispetto dei criteri di convergenza di Maastricht e allo scopo del raggiungimento dello status di membro a pieno titolo dell’Unione economica e monetaria.

Il governo lettone ha così compiuto un passo significativo ai fini dell’attuazione del piano per l’introduzione dell’euro. In futuro, lo sforzo congiunto del governo e la banca centrale sarà diretto alla riduzione dell’inflazione e a garantire il rispetto dei criteri di Maastricht. Ilmars Rimsevics, governatore della Banca di Lettonia, sottolinea che la lotta all’inflazione è necessaria non solo per soddisfare i criteri di Maastricht, ma anche per promuovere lo sviluppo del paese, come ribadito anche nella ricerca da parte del Fondo monetario internazionale sul legame tra bassa inflazione e rapida crescita economica (www.bank.lv).

In coerenza con il programma di convergenza della Lettonia per il periodo 2009-2012, che sviluppa delle proiezioni a medio termine sulla maturità della Lettonia per soddisfare i criteri di Maastricht nel 2012, il governo lettone ha fissato nel 1 gennaio 2014 la data per l’adozione dell’euro. Il fallimento nel tentativo del governo baltico di introdurre l’euro già nel 2008 è avvenuto a causa della forte inflazione. L’introduzione della moneta unica in Lettonia sarà tema di discussione nell’ambito delle relazioni multilaterali dell’UE come un argomento di interesse comuni a tutti i paesi dell’UE.

Richard Charles Mole (2008)