Bech, Joseph

Politico lussemburghese ed europeista, copromotore, insieme ai partner belga e olandese, Paul-Henri Charles Spaak e Johan Willem Beyen, della nascita del Benelux, nonché del cosiddetto “rilancio europeo”, B. (Dierkirch 1887-Lussemburgo 1975) proveniva da una famiglia di notabili, e fin dalla primissima infanzia respirò l’atmosfera del dibattito di alto livello su tematiche di carattere politico ed economico.

Dopo aver studiato diritto a Friburgo, in Svizzera, e a Parigi, B. tornò a Lussemburgo per esercitare la professione di avvocato. Nel giugno del 1914, tuttavia, appena ventisettenne, interruppe la carriera legale a seguito della sopraggiunta elezione alla Camera, ove entrò – il più giovane tra i deputati – a rilevare l’incarico di rappresentante del distretto di Grevenmacher. Come da tradizione familiare, militò nelle fila del Partito cristiano-sociale, espressione della destra conservatrice, allora relegato all’opposizione dalla coalizione liberal-socialista.

Gli eventi drammatici della prima metà del Novecento, compresi i profondi rivolgimenti politico-sociali succedutisi nel Granducato negli anni tra le due guerre, influenzarono sensibilmente la vita pubblica di B. Il primo giro di boa si compì già nel 1919, allorché l’elettorato lussemburghese, ampliato a seguito dell’introduzione del suffragio universale, sancì la caduta della maggioranza liberalsocialista e la contestuale affermazione di un governo conservatore. Tale avvicendamento ai vertici del sistema politico nazionale fu presumibilmente alla base della rapida ascesa di B. nell’establishment governativo: nel 1921 fu nominato ministro dell’Interno e dell’istruzione pubblica e giunse, nel 1926, alla premiership, nonché alla nomina di ministro degli Esteri.

Ad ogni modo, l’affermazione di B. al centro della scena politica lussemburghese fu segnata da momenti di eccezionale tensione, per lo più ascrivibili al contesto storico-politico dell’epoca, contraddistinto da profonde lacerazioni nel tessuto sociale del paese, non meno che da un costante confronto, più o meno acceso, tra le componenti partitiche rappresentate in Parlamento. La difficile congiuntura economico-finanziaria degli anni Trenta, in particolare, aveva favorito il consolidamento del partito comunista nazionale, attorno al quale andava convergendo un bacino elettorale fortemente strutturato e per lo più costituito dalla classe operaia impiegata nelle miniere, particolarmente sensibile ai contenuti rivoluzionari del marxismo. Di fronte alla prospettiva di un progressivo rafforzamento delle correnti estremiste, la dirigenza conservatrice non mancò di manifestare una crescente apprensione, la quale si tradusse in vero e proprio allarme allorché la consultazione elettorale del 1934 decretò l’elezione alla Camera del segretario del partito comunista, Zénon Bernard.

Immediate si levarono le rimostranze all’interno del Parlamento, cui il primo ministro B. cercò di porre un freno varando due provvedimenti eccezionali. Il primo invalidava, col pretesto dell’incostituzionalità, l’elezione di Bernard; il secondo consisteva in un progetto di legge «per la difesa dell’ordine politico e sociale», volto a censurare tutti i gruppi politici la cui attività fosse «tesa ad abolire o a cambiare con la violenza o in altri modi illeciti la Costituzione»: esplicito il riferimento ai comunisti. Nell’aprile del 1937, tale progetto di legge veniva approvato da un’ampia maggioranza parlamentare. Un successo istituzionale che tuttavia non risparmiò a B. una violenta ondata di critiche da parte dell’opinione pubblica nazionale. Di fatto, la “legge dell’ordine”, ribattezzata loi muselière (legge museruola) dagli oppositori, e passata alla storia con tale denominazione, scatenò le proteste di gruppi extraparlamentari e sindacati, variamente impegnati a organizzare mobilitazioni di massa contro il governo liberticida.

Sotto pressione, B. decise di rimettere la questione a un referendum popolare, indetto per il 6 giugno del 1937. Contro qualsiasi previsione della compagine governativa, la maggioranza dei votanti si espresse in senso contrario all’applicazione del progetto di legge. B. si trovò quindi costretto a rassegnare le dimissioni da primo ministro – pur conservando il portafoglio degli Esteri – e a lasciare nelle mani Pierre Dupong, rappresentante dell’ala progressista del Partito cristiano-sociale, la guida politica del paese.

L’ordine ristabilito ebbe però vita breve. Il 10 maggio del 1940, infatti, le truppe naziste irruppero sul territorio lussemburghese costringendo il governo e la granduchessa Charlotte a rifugiarsi a Londra, insieme con gli omologhi del Belgio e dei Paesi Bassi, tra i quali il ministro degli Esteri Spaak e il consulente finanziario del governo olandese, Beyen. Il periodo londinese, pur con l’inedita esplosione della violenza che si consumava nel continente, fu un fecondo susseguirsi di passaggi fondamentali per la definizione del futuro indirizzo politico del Lussemburgo, in cui B. fu un protagonista indiscusso delle grandi trasformazioni. La convivenza forzata con i vicini belgi e olandesi favorì infatti l’intensificazione dei rapporti tra i tre governi, nonché una riflessione congiunta sulla configurazione dell’assetto internazionale da costruire al termine delle ostilità. Frutto di tali discussioni fu, nel 1944, la sottoscrizione, attraverso accordi successivi, del trattato istitutivo del Benelux, espressione della volontà dei paesi firmatari di avviare forme sistematiche di cooperazione regionale. B., Beyen e Spaak, peraltro, intrapresero nella circostanza un dialogo serrato e costruttivo sulla necessità di elaborare una linea di condotta politica convergente, volta a rafforzare le posizioni dei rispettivi paesi su uno scacchiere internazionale postbellico di dimensioni verosimilmente planetarie.

Rientrato in patria nel 1945, il ministro degli Esteri B. continuò a improntare fedelmente la sua azione politica alle progettualità definite a Londra. Si preoccupò, in primo luogo, di chiudere definitivamente il capitolo della neutralità lussemburghese e di sostenere contestualmente l’ingresso del Granducato nel contesto atlantico, ivi compresa l’adesione al Piano Marshall e all’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE). In secondo luogo, perseguendo l’obiettivo di estendere a livello continentale la cooperazione regionale, sul modello del Benelux, e con l’intento di promuovere la riconciliazione franco-tedesca – presupposto indispensabile, non solo nell’ottica di B., per il superamento degli antagonismi fra gli Stati europei – impresse alla politica estera nazionale una caratterizzazione fortemente europeista, favorendo l’attiva partecipazione del Lussemburgo al processo integrativo comunitario.

Persuasosi progressivamente che la via sovranazionale fosse l’unica alternativa praticabile per porre fine alle lotte intestine e ricostruire l’Europa sulle fondamenta della collaborazione e della solidarietà interstatale, B. offrì un contributo decisivo, conseguendo altresì successi importanti, nel primo ventennio della storia dell’integrazione europea (v. anche Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Nella notte tra il 24 e il 25 luglio del 1952, in particolare, al termine di una lunga maratona negoziale tra i ministri degli Esteri dei “Sei”, il rappresentante lussemburghese riuscì a ottenere che la capitale del Lussemburgo fosse designata quale sede dell’Alta autorità della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). Un riconoscimento non certo irrilevante per il piccolo Stato, a rischio costante di marginalizzazione nelle assise decisionali multilaterali. E non senza riflessi, peraltro, sulla carriera politica di B., il quale già nel 1953 veniva riabilitato nella funzione di primo ministro.

Nondimeno, l’apporto di maggiore spessore politico-teorico del ministro degli Esteri del Granducato, che gli valse inoltre la definitiva consacrazione a “padre dell’Europa”, si registrò nel delicatissimo biennio 1954-1955.

Pur avendo inizialmente manifestato più di qualche reticenza – per il timore di una progressiva attrazione degli Stati più piccoli nell’orbita decisionale delle grandi realtà nazionali – nei confronti della proposta, formulata nell’agosto del 1954 dall’allora Presidente del Consiglio italiano, Alcide De Gasperi, di istituire una Comunità politica europea (CPE) contestualmente alla creazione di un esercito europeo, B. reagì con forte disappunto alla notizia del rifiuto francese della ratifica del trattato per la Comunità europea di difesa (CED). (v. AA.VV., 1996, pp. 122-123). Pertanto, accolse con entusiasmo l’invito, presentatogli dal collega olandese Beyen, a unire le forze del Benelux per ridare slancio al progetto comunitario. È vero altresì che B., incline a privilegiare le forme di cooperazione regionale, meglio predisposte, nella sua ottica, a garantire gli equilibri tra le forze, sulle prime non aveva guardato con estremo favore alle iniziative dell’omologo dei Paesi Bassi, in ordine all’integrazione economica generale e alla formazione di un mercato comune europeo (v. Comunità economica europea). Tuttavia, le ragioni dell’unità europea finirono col prevalere sull’interesse del primo ministro lussemburghese a tutelare l’autonomia decisionale dei piccoli Stati. Di conseguenza, già dal novembre del 1954, B. prese a collaborare attivamente alla fase progettuale, non meno che alla stesura definitiva del cosiddetto “Memorandum del Benelux”. Testo riassuntivo delle proposte di Jean Monnet, patrocinate dal belga Spaak, per l’integrazione nel campo dell’energia e dei trasporti, e di Johan Willem Beyen, per la nascita di un mercato comune europeo, il Memorandum fu di fatto il germe dal quale prese corpo il rilancio europeo del 1955. (v. Bossaert, Vanhoonacker, 2000).

Dal 1° al 3 giugno del 1955, B. significativamente presiedeva i lavori della Conferenza di Messina, preludio essenziale per la nascita della Comunità economica europea (CEE) e della Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom), formalmente istituite dai trattati firmati a Roma il 25 marzo del 1957 (v. Trattati di Roma). Lucido interprete della realtà politica del suo tempo, il coautore del “Memorandum” realizzò fin dalle primissime battute che attorno all’esito del consesso ruotavano le sorti dell’unità europea. In qualità di presidente, pertanto, si impegnò a fungere da collante tra le pur confliggenti posizioni assunte dai rappresentanti dei Sei in merito alla strategia del rilancio propugnata dal Benelux, facendo leva sia sulle straordinarie capacità personali di combinare tatto e pragmatismo, sia sulla volontà comune dei partner della CECA di raggiungere obiettivi specifici. (cfr. Messina als neuer Start?, in “Luxemburger Wort”, n. 157, anno CVI, 6 giugno 1955, p. 1).

Il rientro del Primo ministro a Lussemburgo fu accompagnato da un coro unanime di apprezzamenti, anche a livello internazionale, per il contributo determinante al successo dell’incontro di Messina.

Convinto di aver consolidato irreversibilmente la vocazione europeista della politica estera nazionale, dal 1958 B. iniziò progressivamente ad allontanarsi dal proscenio politico, dapprima dimettendosi dall’incarico di capo del governo e congedandosi, nel 1959, dal ministero degli Esteri. Dopo aver svolto per alcuni anni, a partire dallo stesso 1959, la funzione di presidente della Camera, giunto all’età di settantasette anni, B. decideva di ritirarsi definitivamente a vita privata.

Giulia Vassallo (2010)




Behrendt, Walter

B. (Dortmund, Vestfalia 1914-ivi 1997), figlio di un minatore, compie studi da commercialista e completa la sua formazione come contabile. Nel 1939 viene chiamato alle armi e parte per il fronte dal quale farà ritorno solo nel 1945 dopo un anno di prigionia. Dopo la guerra riprende ad esercitare la sua professione di contabile e commercialista e dal 1954 è redattore dell’ufficio stampa presso la Hoesch AG Westfalenhütte, a Dortmund.

Il suo impegno politico comincia già nel 1932 tra le fila della SPD (Sozialdemokratische Partei Deutschlands). Dopo la guerra, dal 1945 al 1947 è presidente dei giovani socialisti e dal 1952 ricopre per due anni la carica di presidente circoscrizionale del partito a Dortmund-Derne. Nello stesso anno è membro del consiglio della città di Dortmund del quale fa parte fino al 1957, anno in cui è eletto al Bundestag come rappresentante della circoscrizione Dortmund III.

A partire dal 1967, è membro del Parlamento europeo e si occupa delle questioni inerenti il diritto e la tutela del lavoro. Dal gennaio del 1971 è già vicepresidente del Parlamento europeo e solo qualche mese più tardi è eletto alla sua presidenza. B. è il primo socialdemocratico a ricoprire la carica.

Nel suo discorso di insediamento B. si esprime criticamente nei confronti del cammino fatto dall’Unione europea. Il percorso di integrazione procede infatti, a suo parere, troppo lentamente e tale lentezza rischia di creare disaffezione da parte cittadini nei confronti dell’istituzione Europa (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Essi infatti sono continuamente delusi dagli impegni presi e puntualmente disattesi dai politici. Questa mancata corrispondenza tra parole e fatti non farebbe altro che incrementare nei cittadini una grande preoccupazione circa la possibilità di realizzazione dell’Europa unita. B. critica inoltre l’attività del Consiglio dei ministri della Comunità economica europea: la frequenza delle sue sedute concluse senza deliberazioni efficaci ha reso quest’organo comunitario un elemento conservatore che, fin dalla sua costituzione, non è stato in grado di far prevalere l’interesse comunitario su quello dei singoli stati nazionali.

B. svolge un ruolo fondamentale nella preparazione della Comunità europea all’allargamento da 6 a 9 Stati membri con l’ingresso, nel 1973, di Danimarca, Gran Bretagna (v. Regno Unito) e Irlanda, e l’aumento del numero di deputati parlamentari che passano da 142 a 198.

Nel marzo del 1972 B. è confermato nel suo incarico di presidente del Parlamento europeo; sarà sostituito nel 1973 dal liberale olandese Cornelis Berkhouwer.

La carriera di B. in Europa continua tra i vicepresidenti dell’istituzione europea (v. anche Istituzioni comunitarie) di cui fa parte fino al 1977. Alla conclusione del suo percorso politico europeo si occupa dei rapporti tra Est e Ovest, tra Repubblica Federale Tedesca (v. Germania) e Unione Sovietica, come Presidente della “comunità del lavoro”. Obiettivo del suo lavoro, silenzioso e lontano dalle luci della ribalta, è fare in modo che il filo di comunicazione tra il mondo occidentale e quello al di là cortina di ferro non si spezzi. B. continua a essere parte importante e attiva della SPD per tutta la sua vita.

Agata Marchetti (2010)




BEI

Banca Europea per gli Investimenti (BEI)




Belgio

«La pace non sarà garantita se il problema tedesco non troverà soluzione in un quadro generale», dichiara Paul-Henri Spaak, ministro degli Esteri belga, il 6 dicembre 1944 davanti alla Camera dei deputati. «Per assicurare la pace», continua Spaak in questo celebre discorso, «bisogna costruire l’edificio che la manterrà». Questo comporta tre livelli: «Quello che domina e comprende gli altri due si chiama sicurezza collettiva. Il livello intermedio potrebbe essere definito alleanza europea, l’altro intese regionali» (v. Spaak, 1980, p. 59).

A qualunque livello ci si ponga, gli Stati devono capire che «non può esserci un’organizzazione efficace se non viene corretto il principio di sovranità nazionale assoluta e integrale». Ma, essendo impossibile chiedere «a ogni paese di sottoscrivere gli stessi obblighi in ogni angolo del mondo», è indispensabile che «le intese regionali siano una sorta di organo esecutivo della politica di sicurezza collettiva». Infine, parlando specificamente del Belgio, Spaak sottolinea «che il tempo in cui era possibile separare gli interessi politici del paese dai suoi interessi economici è completamente superato». Sicurezza politica e prosperità economica devono coincidere e, in quest’ottica, «o il Belgio vedrà accrescersi il suo spazio economico, o conoscerà ore difficili».

Questo discorso, che è anche un programma, è il frutto dell’esperienza accumulata in una trentina d’anni che hanno coinciso, dall’inizio della Prima guerra mondiale alla fine della Seconda, con un mutamento profondo dello scenario internazionale e hanno costretto i paesi piccoli, in particolare, a rivedere radicalmente le proprie posizioni e a elaborare una nuova “dottrina”.

Precisando che è necessario tener conto dell’evento fondamentale, rappresentato dall’indipendenza del Congo belga nel 1960, in termini di immagine ma soprattutto di perdita di una carta vincente sulla scena internazionale, questa “dottrina” può essere delineata come segue.

Il Belgio ritiene che il suo ruolo sia tutt’altro che trascurabile, a patto che vengano soddisfatte quattro condizioni: partecipare a intese fondate su regole di cooperazione e non di dominio; «esercitare all’interno di questi organismi una diplomazia della relazione e della concertazione, che dia ai rappresentanti belgi una posizione relativamente forte grazie alla continuità delle funzioni nel capo di questi rappresentanti, alle relazioni e alla capacità di farsi ascoltare che possono acquisire, alla conoscenza che hanno di possibilità di intraprendere iniziative realistiche»; identificarsi all’interno delle istituzioni con le finalità di queste ultime, piuttosto che adottare «una posizione di richiesta costante di tutela di interessi particolari di ordine economico o finanziario, o ancora di sollecitazione di appoggi diplomatici»; «intervenire con proposte ragionevoli […] senza dissipare il proprio credito moltiplicando le iniziative su qualsiasi argomento» (v. Dossiers du CRISP, 1975, p. 3).

In altre parole, il Belgio che insiste sulla necessità di rispettare le regole e i meccanismi istituzionali vigenti, dà prova di una certa volontà di potere tipica dei piccoli Stati che trovano nella Comunità un mezzo per costringere i Grandi al compromesso.

La traduzione, assolutamente pacifica (v. anche Neutralità), di questa volontà di potere è la capacità d’influenza, che presuppone che il Belgio sia riconosciuto come un membro leale dell’organizzazione di cui fa parte. Sul piano europeo, dove la sua influenza è da lungo tempo superiore alle sue dimensioni e al suo peso reale, il Belgio non ha alcuna difficoltà a “partecipare al gioco”, dato che i suoi interessi economici vanno spesso in direzione dell’integrazione (v. Integrazione, metodo della).

Questa valutazione generale richiede, tuttavia, una qualche rettifica per quanto riguarda il periodo precedente ai Trattati di Roma. In effetti, se il Belgio, con il Lussemburgo, ha costituito quel “laboratorio dell’Europa” che è il Benelux, ricavandone importanti dividendi, e inoltre, dal patto di Bruxelles del 1948 in poi, ha svolto un ruolo trainante in termini di alleanze regionali, bisogna tuttavia sottolineare il fatto che il suo contributo alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) e alle iniziative successive non sarà esente da difficoltà.

Il Piano Schuman solleva forti resistenze negli ambienti industriali belgi, a causa della solidarietà esistente fra l’industria carbonifera e la siderurgia per il tipo di controllo finanziario esercitato su entrambi i settori dalle due grandi holding finanziarie – Société générale de Belgique e Société de Bruxelles pour la finance et l’industrie (Brufina). La vivace opposizione dell’industria carbonifera è legata, in particolare, alle gigantesche operazioni di modernizzazione richieste dagli impianti minerari valloni. Il fatto è che, come scrive il segretario generale del ministero degli Affari economici, Jean-Charles Snoy et d’Oppuers, nel giugno 1950: «Con o senza il Piano Schuman, il problema carbonifero belga dev’essere risolto!» (v. Dumoulin, 1988, p. 273).

Ma le resistenze non provengono solo dagli ambienti carboniferi, che trascinano anche quelli siderurgici. Nel 1950, il Belgio risolve la dolorosa questione della monarchia, con il passaggio dei poteri reali da Leopoldo III al figlio Baldovino, che salirà al trono l’anno seguente. Sul piano costituzionale, cioè l’ambito che al centro del dramma tra il 1940 e il 1950, non è previsto, come nella costituzione di altri paesi che saranno ben presto membri della CECA, una rinuncia alla sovranità nazionale a beneficio di istanze inter o sovranazionali. Questa situazione induce il ministro belga degli Esteri Paul van Zeeland a ottenere l’inserimento, nel Trattato di Parigi del 18 aprile 1951, della clausola per cui la CECA si costituisce per una durata di 50 anni.

Quest’iniziativa, che rappresenta una garanzia agli occhi del Belgio, è anche il segno di una estrema prudenza, addirittura di una certa diffidenza, nei confronti di qualsiasi attentato alla sovranità nazionale. Fra il 1951 e il 1957 numerosi elementi denotano le difficoltà dell’ingresso del Belgio in Europa, malgrado le maggioranze parlamentari incoraggianti raggiunte in occasione delle votazioni relative ai progetti di legge che approvano i trattati.

Assai reticente nei riguardi della sovranazionalità della CECA, van Zeeland fino all’aprile 1954 avanza numerose difficoltà in merito alla Comunità europea di difesa (CED), in un primo tempo, e al progetto di statuto della Comunità politica europea (CPE), in seguito, a tal punto che i federalisti (v. Federalismo) l’accuseranno di essere stato «il sottomarino responsabile del siluramento della CPE» (v. Dumoulin, Dujardin, 1997, p. 197). Ma il ministro degli Esteri, che da un lato è fautore di una cooperazione europea limitata all’applicazione dei principi del libero scambio e dall’altro teme per ragioni attinenti alla politica interna che una revisione della costituzione riapra la questione reale, non è il solo a manifestare diffidenza. Il giovane Baldovino I, nell’agosto 1954, esprime la sua opposizione all’organizzazione, a Bruxelles, della conferenza che rappresenta l’ultima chance per la CED, annunciando che sarà in vacanza e quindi non potrà ricevere i partecipanti alla riunione, come impone la più elementare cortesia. Ancora nel febbraio 1957 il re minaccia di non firmare i Trattati di Roma.

Dal 1954 al 1957 il portafoglio degli Esteri cambia di mano; lo detiene Paul-Henri Spaak, in un governo composto da socialisti e da liberali che succede al governo dei cristiano-sociali al potere dal 1949.

Il ritorno di Spaak agli Esteri segna un cambiamento di rotta, anche se rimangono delle difficoltà. Dopo il fallimento definitivo della CED e, sulla sua scia, della CPE, Spaak, di concerto con i partner del Belgio all’interno del Benelux e in collaborazione con personalità come Jean Monnet, elabora uno scenario per uscire dalla crisi, il cui approdo, attraverso il memorandum Benelux, è la Conferenza di Messina alla fine di maggio del 1955.

Dalla creazione del Comité Spaak nell’estate del 1955 alla firma dei Trattati di Roma nella primavera del 1957, il ruolo del Belgio è trainante e illustra perfettamente il concretizzarsi della “dottrina” esposta in precedenza. Esperto di negoziati internazionali, adeguatamente affiancato e assecondato, una volta guadagnata la fiducia dei partner, Spaak fa entrare definitivamente il Belgio in Europa, non senza aver definito una linea di condotta che sarà ormai quella della diplomazia europea del paese. I suoi immediati successori – Victor Larock, poi Pierre Wigny – nel periodo in cui Spaak svolge le funzioni di segretario generale della Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), in seguito i successori più lontani nel tempo – come Pierre Harmel –, dopo il suo ritorno agli Esteri dal 1961 al 1965, assicurano la continuità indiscutibile di una politica che ha conosciuto crisi importanti, fra cui quella delle relazioni con la Francia del generale Charles de Gaulle.

I momenti cruciali di questo conflitto sono noti. Da un lato, la crisi aperta dalla sospensione sine die dei negoziati relativi all’ingresso del Regno Unito nella CEE (29 gennaio 1963), dall’altro, la cosiddetta “crisi della sedia vuota”.

In seguito alla conferenza stampa del generale de Gaulle del 14 gennaio 1963, che annuncia la fine dei negoziati con il Regno Unito, Spaak denuncia energicamente «il metodo diplomatico adottato», giudicandolo «assolutamente inammissibile».

Attaccando la visione gollista di un’Europa «autarchica, egoista e insensibile ai problemi posti dalla sua stessa esistenza», Spaak si attira una bordata di critiche, non solo in Francia – “Candide” lo qualifica il 31 gennaio 1963 come l’“anti-gollista n. 1 d’Europa” – ma anche in Belgio. Il potente “Libre Belgique”, quotidiano della borghesia cattolica, come pure gli ambienti dei nazionalisti valloni francofoni, accusano Spaak di atteggiarsi a “campione dell’antigollismo, se non dell’anti Francia, e di lasciarsi trascinare verso la politica del peggio con il pretesto di sanzionare un procedimento ritenuto scorretto, rischiando così di provocare il crollo del Mercato comune e facendo il gioco delle forze tendenti a indebolire l’Europa”, a cominciare dagli Stati Uniti (v. “Courrier Hebdomadaire du CRISP”, 1965, p. 2).

Dopo la decisione del generale de Gaulle di mettere in atto la politica detta “della sedia vuota” – a Bruxelles e a Lussemburgo – in seguito al fallimento, il 30 giugno 1965, del Consiglio dei ministri della CEE sul regolamento finanziario della politica agricola comune, il meccanismo comunitario si blocca. Spaak allora si presenta come un uomo desideroso di trovare un compromesso con la Francia. Respingendo qualsiasi idea di rappresaglie, suggerisce alcune formule per riprendere i contatti a Sei, arrivando a suscitare nei suoi confronti riserve appena dissimulate negli ambienti comunitari europei e anche nei gruppi militanti del Movimento europeo, con cui era solito apparire profondamente solidale. Tuttavia, l’atteggiamento belga beneficia, fra gli altri, dell’appoggio di “La Libre Belgique”, mentre in Francia “Le Monde” del 3 luglio 1965 afferma che «in definitiva, è in Belgio, e più precisamente in M. Spaak, che si trova il migliore avvocato delle tesi francesi!».

Non può che sorprendere la diversità d’atteggiamento fra il 1963 e il 1965, non solo da parte del ministro degli Esteri, ma anche del governo e della maggioranza parlamentare socialista e cristiano-sociale. Tuttavia la contraddizione è solo apparente, perché, dopo le dichiarazioni di Spaak del gennaio 1963, in cui si parlava di «diktat» e di «umiliazione» a proposito del comportamento gollista, è innegabile che l’atteggiamento del 1965 mira alla riconciliazione e al ritorno della Francia al tavolo dei negoziati, in altre parole è un’iniziativa conforme alla “dottrina”.

In questa prospettiva, il rilancio europeo all’Aia nel 1969 è l’occasione per illustrare le opinioni di Pierre Harmel, secondo il quale i paesi delle dimensioni del Belgio «non sono efficaci sul piano diplomatico, se non per il valore delle idee di cui [si fanno] veicolo» (v. Dossiers du CRISP, 1975, p. 5). In effetti, nell’aprile 1970, si costituisce il Comitato Davignon (v. Davignon, Étienne), che riunisce i direttori degli affari politici dei Sei. L’ambizione non è quella di creare un’Europa politica di tipo federale, o anche confederale, ma di assicurare una concertazione a sei sui problemi politici d’interesse comune: conferenza sulla sicurezza, Medio Oriente, relazioni con l’Est, badando al tempo stesso – in particolare da parte belga – di non spingersi troppo lontano prima che l’adesione britannica divenga effettiva. Questo comitato di alti funzionari si organizza, in un primo tempo, nel quadro dei Sei, senz’altro fondamento che la volontà degli Stati, e prepara le riunioni dette di armonizzazione a livello di ministri degli Esteri. L’originalità del sistema consiste nel dare alla consultazione tra paesi un carattere vincolante e permanente su tutte le questioni importanti di politica estera.

Questo tipo di comitato non pone problemi di dottrina: non è neppure il segretariato politico di una qualsivoglia confederazione di futura creazione. Per alcune materie coperte dai Trattati di Parigi e di Roma, si assicura la cooperazione della Commissione europea, sollecita il parere della Commissione quando i suoi lavori comportano conseguenze sulla CEE e i suoi servizi. È una formula d’attesa che, pur preoccupando i fautori di un’Europa sovranazionale, consente di scongiurare il pericolo di vederli provocare una crisi, come era accaduto in occasione del Piano Fouchet.

Durante questo periodo il Belgio si prefigge diversi obiettivi: l’Unione economica e monetaria, l’Allargamento delle comunità, il passaggio al periodo definitivo per la CEE, la cooperazione pragmatica nell’ambito politico per portare l’Europa comunitaria a esprimersi con una sola voce in materie come la conferenza sulla sicurezza o la crisi in Medio Oriente. Infatti, per citare Étienne Davignon, che spesso paragona l’Europa a Tarzan, bisognava constatare che era dotata di «una morfologia abbastanza sviluppata, ma ancora piuttosto sommaria dal punto di vista dell’eloquio» (v. Dossiers du CRISP, 1975, p. 6).

La cooperazione procede attraverso “conferenze al vertice”, con momenti forti e momenti deboli. Quello di Copenaghen, nel 1973, è giudicato severamente dalla Commissione senatoriale belga competente. A Parigi, nel dicembre 1974, vede la luce la formula nuova del Consiglio europeo, che devono consentire di globalizzare e politicizzare ulteriormente i dossier sottoposti alle decisioni del Consiglio dei ministri della CEE. Ma il Belgio accoglie in modo tiepido la formula dei “Vertici”, in quanto a suo avviso spesso si collocano al di fuori del quadro istituzionale dei trattati, rischiando di costituire delle sovrastrutture, con pratiche e meccanismi di decisione paralleli, che anche sotto l’apparenza degli obiettivi comuni indeboliscono il dinamismo dell’integrazione, erodono palesemente le istituzioni comunitarie, già fortemente logorate, minacciano dall’esterno e intaccano dall’interno l’Acquis comunitario.

All’incirca nello stesso periodo, la Costituzione belga è finalmente adattata alle realtà scaturite dall’interdipendenza e dalla costruzione europea. L’articolo 25 bis introdotto nel 1970-1971 recita: «L’esercizio di determinati poteri può essere attribuito da un trattato o da una legge a istituzioni di diritto internazionale pubblico».

Al tempo stesso, questa revisione assicura il trasferimento di importanti competenze nazionali alle regioni e alle comunità culturali. Questo significativo riassetto dei poteri e delle istituzioni del Belgio non è che il primo di una serie che trasformano il paese in Stato federale e, di conseguenza, attribuiscono alle entità federate competenze definite in materia europea (v. Kerremans, 2000).

È nell’ottica della ricerca di un equilibrio fra le posizioni rispettive di comunità e regioni, il cosiddetto “consenso alla belga”, che bisogna inquadrare le posizioni del Belgio nel settore delle politiche comuni. La crisi degli anni Settanta, attraverso l’inflazione, la minaccia che pesa sull’occupazione, la crisi energetica e le conseguenze del primo allargamento, ha dimostrato che il punto di non ritorno non era poi garantito così saldamente come si era creduto e che l’Europa doveva compiere una scelta politica fra la salvezza collettiva e le formule nazionali protezionistiche, o ancora che l’opzione riguardava un’unione europea profonda e «una perdita marcata di indipendenza, perfino di autodeterminazione»(v. Dossiers du CRISP, 1975, p. 11).

In questo contesto il primo ministro belga Léo Tindemans è incaricato di elaborare un rapporto sull’Unione europea (29 dicembre 1975) (v. Rapporto Tindemans). In esso propone che questa sia costruita sulla duplice base delle istituzioni comunitarie, d’ispirazione sovrannazionale o federale, e della cooperazione politica, d’ispirazione intergovernativa o confederale, a condizione che esistano fra i due apparati legami sufficienti per «definire una visione politica comune, globale e coerente”. Criticato sia dai federalisti, che ritengono che il rapporto si allontani dallo schema Monnet, sia dai fautori della rigida separazione fra sfera economica e politica, il rapporto offre «una concezione d’insieme dell’Unione europea […] che ha prevalso nel corso del tempo» (v. de Schoutheete, 1986, p. 528).

Durante i tre decenni successivi al rapporto Tindemans, «la continuità del ruolo integrazionista assicurato dal Belgio nell’Europa del dopoguerra» (v. Kerremans, Beyers, 1998), inaugurato da Spaak, non viene smentita. Lo testimoniano i “successi” collezionati, in genere, nel corso delle presidenze del Consiglio dei ministri (11 volte fra il 1958 e il 2001).

Mentre il Belgio, come Stato, diviene federale nel 1980 e lo spazio europeo, agli occhi di alcuni, diventa ciò che consentirebbe alle regioni – che aspirano a un’autonomia sempre maggiore – di sbarazzarsi del livello nazionale, la politica europea mantiene tutto sommato una notevole coerenza nella continuità. Servita da validi diplomatici e funzionari della Banca nazionale o del ministero delle Finanze e degli affari economici, è seguita con estrema attenzione, talvolta perfino incentivata, anche dal primo ministro. I governi guidati dai cristiano-sociali fiamminghi di Wilfried Martens, negli anni Ottanta, e di Jean-Luc Dehaene, dal 1992 al 1999, poi dal liberale fiammingo Guy Verhofstadt dal 1999 al 2007, sembrano seguire la stessa linea europea. Una linea che è quella di un “eccellente allievo della classe europea”, sebbene per molto tempo questa valutazione non sia stata valida nell’ambito della trasposizione del diritto comunitario in diritto nazionale. Ed è proprio il caso di parlare, da questo punto di vista, di berretto d’asino.

Nell’Unione europea a Quindici il Belgio appare come uno degli Stati più favorevoli alla prosecuzione dell’integrazione, come dimostrano, per esempio, le prese di posizione a sostegno della cooperazione rafforzata, dell’Europa della sicurezza e della difesa (v. anche Politica europea di sicurezza e difesa), o ancora gli sforzi per ottemperare ai criteri di convergenza ed entrare nell’unione monetaria nel 1999. Agli occhi dei dirigenti belgi, l’allargamento a Est, preparato dall’adozione dei criteri di adesione da parte del Consiglio di Copenaghen del 1993, non dovrà attuarsi a scapito dell’“approfondimento”, cioè dello sviluppo di politiche comuni e del rafforzamento delle istituzioni comunitarie. Quest’orientamento federalista talvolta li mette in contrasto con altri governi, in particolare quelli dei paesi più grandi, che sono decisi a salvaguardare i loro margini di manovra. Così, nel 1994, la candidatura del primo ministro Jean-Luc Dehaene a presidente della Commissione europea, sostenuta dalla Francia e dalla Germania, fallisce a causa del veto del governo conservatore di Londra. Dieci anni dopo, Guy Verhofstadt andrà incontro alla stessa sorte. Il governo britannico sembra serbargli rancore per le sue prese di posizione all’epoca della crisi irachena, durante la quale si era mostrato reticente nei confronti della politica americana e della sua iniziativa di riunire a Bruxelles, il 29 aprile 2003, un vertice della “vecchia Europa”, per cercare di rilanciare la politica europea di difesa. Nel 2004 il primo ministro belga è di nuovo ostacolato dal fatto di non appartenere al Partito popolare europeo, che si conferma il gruppo più importante del Parlamento europeo dopo le elezioni di giugno (v. anche Gruppi politici al Parlamento europeo).

Per tutto il periodo che ha inizio a Maastricht (v. Trattato di Maastricht), la diplomazia belga è in prima linea nella battaglia per la riforma delle istituzioni comunitarie che precede le Conferenze intergovernative (CIG). È così nel 1996-1997, prima del Trattato di Amsterdam, nel 2000 prima del Trattato di Nizza e di nuovo nel 2003. Si tratta di pianificare il processo decisionale nella UE per renderlo più efficace e democratico, nella prospettiva dell’allargamento a venticinque, o anche a più paesi. Il governo belga si mostrato mostra favorevole a un accrescimento dei poteri del Parlamento europeo, che in effetti acquisisce nuove competenze a ogni Revisione dei Trattati. Auspica anche un rafforzamento della Commissione, che deve restare, a suo parere, «il motore della meccanica comunitaria», ma sembra avere qualche esitazione sul numero ottimale dei commissari. È favorevole anche all’estensione del voto a maggioranza qualificata, al Consiglio, che rappresenta una garanzia di sovranazionalità e passa attraverso una ponderazione dei voti nel Consiglio attribuiti a ciascuno Stato membro.

Nel 1997, prima ancora della firma del Trattato appena concluso, è il Belgio a prendere l’iniziativa di chiedere la riunione di una nuova CIG, per regolare i “punti irrisolti” di Amsterdam, cioè per trovare una soluzione alle questioni istituzionali rimaste in sospeso. Sostenuto dalla Francia e dall’Italia, ottiene una risposta positiva. Ma Nizza non riesce a regolare realmente i problemi. Per il Belgio, questo vertice rappresenta una doppia delusione. Da una parte, si scontra con i Paesi Bassi per la questione della ponderazione dei voti nel Consiglio, dove ne ottiene solo 12 contro i 13 del suo vicino (e 29 per ciascun paese “grande”), mentre in precedenza entrambi disponevano di 5 voti. Dall’altra, soprattutto, le decisioni prese dopo aspre contrattazioni non sembrano idonee a migliorare il funzionamento delle istituzioni, né il clima delle relazioni fra Belgio e Paesi Bassi, che nel 2005 sono turbate da una serie di incidenti, in seguito alle dichiarazioni del ministro degli Esteri e del vice primo ministro a proposito della “inconsistenza” del primo ministro olandese.

In questo contesto, il governo belga figura tra quelli che spingono per l’adozione di un nuovo metodo per riformare l’Unione europea. Assicurandosi il turno di presidenza dell’Unione europea nel secondo semestre del 2001, svolge un ruolo decisivo nella convocazione di una Convenzione europea incaricata di elaborare una costituzione. È il Consiglio europeo di Laeken, sotto la presidenza di Guy Verhofstadt, a decidere di mettere in cantiere la “Convenzione sul futuro dell’Unione europea”, che lavora a Bruxelles all’elaborazione del progetto di trattato costituzionale presentato nel 2004. Fra le tre personalità politiche a capo della Convenzione vi è l’ex primo ministro belga Jean-Luc Dehaene.

I voti negativi dei francesi e degli olandesi in occasione dei referendum organizzati nel 2005, in vista della ratifica del progetto di trattato costituzionale, sono per il Belgio un fulmine a ciel sereno. E nel momento in cui quella che non si configura come una crisi passeggera sollecita a trovare una soluzione, il primo ministro belga, in un manifesto politico presentato all’inizio di dicembre 2005, andando controcorrente, perora la causa degli Stati Uniti d’Europa. Così facendo, non si allontana dalla linea classica difesa dal Belgio. In occasione della sua presentazione, spiega che il manifesto costituisce una «sorta di protesta contro il fatto che nessuno sembra più orgoglioso di parlare d’Europa». E aggiunge: «è necessario far uscire l’Europa da questa spirale negativa degli ultimi mesi», offrire «un’alternativa al cinismo», tentare «un approccio più entusiasta, soprattutto tra i giovani che hanno votato “no” al trattato costituzionale». Perché oggi, continua il primo ministro, «gli uomini politici cercano di minimizzare l’integrazione europea», considerata talvolta come “un incubo”, “un insulto”, perché «tutto quello che va storto è colpa dell’Europa».

Denunciando il pericolo di perdere la direzione indicata dalla storia, il primo ministro belga ricorda che la direzione è quella della federazione, perché «tutti i paesi europei sono piccoli paesi». Quindi, «se l’Europa vuole avere un ruolo da svolgere, bisognerà integrarsi, come dimostra la storia americana».

In concreto, Verhofstadt propone la creazione di due cerchi concentrici di paesi. Da una parte, «un’organizzazione di Stati europei che vuole la pace e la stabilità» e, dall’altra, «un centro politico di paesi che condividano una politica socio-economica più coerente». Questo centro, questo nucleo, iniziatore degli Stati Uniti d’Europa, sarà composto dai paesi dell’“eurozona”, che fonderanno un governo socio-economico, investiranno nel progresso tecnologico, svilupperanno uno spazio di libertà, sicurezza e di giustizia e un esercito europeo.

Bisogna attribuire all’impegno europeo e all’attivismo del primo ministro Verhofstadt e del ministro degli Esteri Louis Michel, prima che questi diventi membro della Commissione Barroso (v. Barroso, José), quel che rappresenta una sorta di svolta in rapporto alla marcata prudenza dei loro predecessori, perché le “posizioni audaci”, perfino “poco diplomatiche”, dei due ministri li portano ad «impegnarsi in dibattiti senza concessioni» (v. De Winter, Türsan, 2001, p. 2).

In questo contesto, l’idea di un’Europa a due velocità non è affatto nuova. Il suo rilancio non suscita entusiasmo, se non, in una certa misura, nel Presidente della Repubblica francese Jacques Chirac, che vi ritrova un’eco delle sue posizioni per la realizzazione di alcuni aspetti del Trattato. Per il resto, le reazioni sono negative o attendiste. Il 9 gennaio 2006, a Vienna, il cancelliere austriaco Wolfgang Schüssel dichiara: «La Costituzione europea non è morta, ma non è in vigore» (“Die Presse”, 10 gennaio 2006). In altri termini, la questione posta alla presidenza austriaca mirava a verificare se questa avrebbe potuto rilanciare il processo di ratifica del trattato o ne avrebbe preparato l’atto di morte. Ma si può inquadrare la situazione anche in un’ottica più ottimistica, considerando che tutte le opzioni sono aperte: dall’organizzazione di un nuovo voto in Francia e nei Paesi Bassi alla rinegoziazione. In questo contesto, Schüssel ritiene “inopportuna” l’idea di un nucleo in un’Europa a due velocità, perché i paesi dell’Unione devono riflettere insieme sul suo avvenire. O, come sostiene il ministro degli Esteri austriaco, Ursula Plassnik, l’Europa deve passare dall’“autoanalisi” all’“autoterapia”.

È evidente che questo atteggiamento permette di guadagnare tempo, in attesa delle elezioni francesi e olandesi del 2007, in quanto le posizioni degli uni e degli altri appaiono contrastanti. I punti di vista di Chirac e Verhofstadt si scontrano con quelli del cancelliere tedesco Angela Merkel, per la quale far entrare in vigore alcune delle disposizioni della Costituzione tralasciando le altre, senza sapere che cosa ne sarà, metterebbe in pericolo l’equilibrio globale.

Se questa posizione attendista sia accompagnata da una riflessione, o addirittura da un lavoro in profondità, sul contesto generale è un interrogativo d’importanza capitale. Ora, a detta del primo ministro lussemburghese Jean-Claude Juncker, che non ama a priori l’idea di un’Europa “a geometria variabile” o di un’Europa nocciolo duro, l’Europa è «in una fase di pausa piuttosto che di riflessione».

Quindi attendismo e anche deficit di quello che Jean-Claude Juncker denuncia come assenza del desiderio d’Europa. Nel giugno 2005, alla vigilia del referendum in Lussemburgo sul progetto di trattato – che rivela anch’esso un certo malessere – il primo ministro di questo piccolo paese, unito al Belgio da tanti legami, segnala che la sua generazione, l’ultima a conservare la memoria collettiva della Seconda guerra mondiale, è anche l’ultima per la quale la costruzione europea è un processo irreversibile destinato ad assicurare la pace. E, a proposito delle generazioni più giovani, per le quali questa memoria collettiva non esiste o ha acquisito lo status di storia museificata, si tratta di sapere quale Europa vogliamo a partire dal momento in cui sappiamo quello che non vogliamo più (v. Dumoulin, 2005, p. 31).

Quanto detto permette ora di trattare l’atteggiamento dell’opinione pubblica belga nei riguardi della costruzione europea. Se è ammissione generale che il Belgio è “un buon allievo dell’Europa”, in particolare per l’eccellente qualità del personale diplomatico incaricato delle questioni europee, un’altra costante è il relativo disinteresse dell’opinione pubblica per questi temi, addirittura l’assenza di considerazione per l’impatto della presenza delle istituzioni a Bruxelles.

Se pure, come si è già sottolineato, il voto sui trattati europei indica con chiarezza che nel Parlamento belga si è sempre trovata una maggioranza sostanziale a favore della costruzione comunitaria e che l’opposizione effettiva è stata in genere limitata, dai sondaggi d’opinione emerge mancanza di interesse, di informazione e di impegno. Nel 1973 i belgi considerati nel loro complesso sono, fra tutti i popoli europei, quelli meno interessati ai problemi della Comunità europea, meno informati di danesi, lussemburghesi o tedeschi, e si collocano in fondo alla lista dei sei paesi fondatori della Comunità circa l’atteggiamento favorevole. Una constatazione che non richiede rettifiche sostanziali nel corso del tempo (v. Bursens, 1999).

Come spiegava ai suoi tempi Jacques-René Rabier, inventore dell’Eurobarometro, i belgi non manifestano né ostilità, né una resistenza radicale al movimento di unificazione europea. La mancanza di informazione non può essere attribuita alle carenze dei media in materia. Si può tentare una spiegazione che mette in risalto quattro fattori: l’invecchiamento della popolazione, che comporta un allontanamento dalla vita socio-politica; la proporzione di lavoratori indipendenti, il cui comportamento politico risponde spesso a caratteristiche peculiari; l’allontanamento generalizzato del cittadino dalla res publica in un paese in cui, in generale, si ritiene che gli abitanti si preoccupino assai più delle realtà concrete e immediate che dei progetti di una certa ampiezza; il ruolo di polarizzazione dell’attenzione dell’opinione pubblica svolto dai problemi legati alla coabitazione di due grandi comunità linguistiche e culturali, fiamminga e francese, che compongono il Belgio.

A fronte dell’atteggiamento dell’opinione pubblica, l’importanza della presenza dell’Europa in Belgio può apparire paradossale, perché laddove i belgi la percepiscono in generale come una fonte di fastidio per la circolazione automobilistica, soprattutto in occasione dei Consigli, di rincaro dei prezzi degli immobili e di scontento per i vantaggi reali o presunti di cui beneficia la funzione pubblica europea, sia i media che gli ambienti politici, sociali ed economici interessati hanno fatto di “Bruxelles” il sinonimo del luogo in cui vengono prese le decisioni europee.

L’equazione che nel vocabolario assimila Bruxelles all’Europa, e viceversa, ha una storia, che inizia con un fiasco spettacolare. In quella che appare come una «cacofonia totale» (v. Spierenburg, Poidevin, p. 46), il 23 luglio 1952, si apre a Parigi la conferenza dei Sei destinata a decidere definitivamente sulla questione della sede della CECA. Il Belgio ha già proposto e ripropone la candidatura di Liegi, luogo simbolico sul piano del carbone e dell’acciaio, in seguito a una energica azione di Lobbying da parte delle forze vive della Cité ardente. A tal punto energica che il governo e il Parlamento belga si schierano ufficialmente a favore di questa candidatura. Quindi Paul van Zeeland, ministro degli Esteri, è costretto a rifiutare la proposta olandese, appoggiata dalla Germania e dal Lussemburgo, di scegliere Bruxelles.

La Conferenza di Parigi, alla fine, decide di non decidere e di adottare l’abile proposta del lussemburghese Joseph Bech di cominciare i lavori a Lussemburgo, lasciando la questione della sede provvisoriamente aperta.

Non sembra che a Bruxelles la delusione sia particolarmente cocente, dato che sul piano nazionale la questione è stata risolta a favore di Liegi, ma è opportuno precisare che tre anni dopo, quando le circostanze la faranno di nuovo salire alla ribalta dell’attualità, affermerà con più forza le sue ambizioni.

All’epoca della Conferenza di Messina, poi dell’apertura dei lavori del Comitato Spaak, Bruxelles, come le capita regolarmente, ha avviato imponenti lavori pubblici. Questa volta, l’obiettivo di questo cantiere perpetuo che è la capitale belga è la preparazione dell’Esposizione universale del 1958 e, al tempo stesso, la risposta alla pressione del traffico automobilistico che, come accade dappertutto, conosce un notevole incremento.

Le conseguenze immediate della Conferenza di Messina, insieme alla prospettiva dell’Expo ’58, hanno avuto senz’altro un ruolo determinante nella volontà di Bruxelles di svolgere ormai una funzione più definita nel contesto della piccola Europa.

La prima riunione dei capi delle delegazioni che compongono il comitato uscito dalla Conferenza di Messina, meglio conosciuto con il nome di Comitato Spaak, ha luogo il 9 luglio 1955 nella sede del ministero degli Esteri belga a Bruxelles. L’organizzazione del lavoro adottata esclude fin dall’inizio che le riunioni in seguito continuino a svolgersi nel ministero. Infatti le commissioni che vengono istituite dovrebbero lavorare dal martedì al venerdì di ogni settimana, a partire dal 22 luglio. Per questo motivo due immobili sono destinati ai lavori del comitato, prima che quelli della conferenza preparatoria dei Trattati di Roma si tengano al castello di Val Duchesse dal giugno 1956 al marzo 1957. Sempre a Val Duchesse, nel 1957, si svolgono le riunioni del comitato provvisorio istituito a Roma in occasione della firma dei trattati.

Per quanto riguarda la sede, la decisione è rinviata fino all’ultimo, come nel 1952. A Parigi, il 6 e 7 gennaio 1958, viene affrontata la questione. E si decide di non decidere. L’assemblea si riunirà a Strasburgo, la Commissione a Bruxelles o a Lussemburgo. Quindi i Sei, contrariamente all’intenzione di insediare le istituzioni in un unico luogo, si ritrovano con tre “capitali”.

Il governo belga, e senz’altro parte dell’opinione pubblica, sono molto delusi dall’atteggiamento francese. Quindi la questione del comportamento francese in merito al problema della sede sarà spesso argomento di conversazione fra i diplomatici belgi attivi a Parigi e i responsabili francesi, sia prima che dopo il ritorno al potere del generale de Gaulle. Sotto questo aspetto, l’ambasciatore del Belgio a Parigi ritiene che l’importante sia guadagnare tempo.

Nei mesi successivi, l’ambasciatore o i suoi collaboratori incoraggiano Bruxelles a trarre vantaggio dalla situazione esistente che tende a diventare ogni settimana che passa sempre più permanente. Così, in previsione dei colloqui franco-belgi del 12 settembre 1958, l’ambasciatore raccomanda di non affrontare la questione, in modo da non provocare un’opposizione formale. In compenso, giudica auspicabile compiere un passo con Bonn, affinché il cancelliere non faccia promesse contrarie ai desideri del Belgio all’interno di un accordo generale franco-tedesco. Il ministro degli Esteri, Pierre Wigny, al corrente del punto di vista di Konrad Adenauer, che non intende cedere a nuove rivendicazioni di de Gaulle, in particolare per quanto concerne la capitale dell’Europa, non tiene conto di questi consigli. L’11 settembre, prima con Maurice Couve de Murville e poi con de Gaulle, affronta la questione della sede ed espone i suoi argomenti, alcuni dei quali avrebbero potuto provocare la collera dei fiamminghi. Oltre agli argomenti noti, infatti – Parigi è la capitale di una grande potenza, è già sede della NATO, dell’UNESCO, dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) – Wigny afferma che Bruxelles, come sede delle istituzioni, avrebbe potuto rendere alla Francia il servizio supplementare di francesizzare in qualche modo queste organizzazioni.

Al tempo stesso, Wigny cerca di convincere i lussemburghesi. Il 4 settembre 1958 ha un lungo incontro con Bech e gli comunica che se il Lussemburgo “cedesse” la CECA, il Belgio lo appoggerebbe nelle compensazioni, come per esempio l’Università europea. Mettendo in guardia il suo interlocutore dall’adottare una politica attendista, di cui altri partner, a cominciare dall’Italia, si avvantaggerebbero in materia di compensazioni che invece si potrebbero far prevalere in favore del Lussemburgo, Wigny subisce un rifiuto che Bech rinnova nel 1960.

Le considerazioni esposte finora consentono di sottolineare un punto essenziale. L’assenza di decisione fra i Sei in merito alla questione della sede, a partire dal 1958, permette di capire meglio che Bruxelles, per il suo status provvisorio, non è stata oggetto di piani a lungo termine per quanto riguarda l’insediamento dell’amministrazione europea, la quale si è installata in maniera disordinata fino al progetto di creazione di un quartiere europeo.

Nel 1958 la dispersione dei servizi amministrativi delle Commissioni CEE ed Euratom pone un problema facilmente comprensibile. Si impone quindi una centralizzazione. Nel 1961 inizia la costruzione di un enorme edificio noto con il nome di Berlaymont, che è concluso nel 1969. Fra queste due date, è stato firmato il Trattato di fusione. D’altronde, l’annuncio del ritiro della Francia dall’organizzazione militare dell’Alleanza atlantica da parte di de Gaulle, nel marzo 1966, spinge il governo belga a muoversi nella prospettiva di accogliere lo SHAPE in Belgio e poi il Consiglio atlantico a Bruxelles.

Dal principio degli anni Settanta, e parallelamente agli allargamenti successivi, l’aumento del numero degli impiegati legati al ruolo europeo e internazionale di Bruxelles non ha subito flessioni. Terza città di congressi nel mondo, sede di 419 missioni diplomatiche nel 2003, Bruxelles offrirà, due anni dopo, 100.000 impieghi, su un totale di 62.500, legati più o meno direttamente alle istituzioni europee, ossia 25.050 funzionari permanenti e temporanei, 8500 persone occupate in settori vicini (missioni diplomatiche, rappresentanze di città e regioni, giornalisti) e 67.000 impieghi indiretti.

A causa delle esigenze sempre nuove e indubbiamente anche per il fatto di non aver beneficiato per molto tempo dell’autonomia necessaria, essendo oggetto degli interessi fiamminghi e francofoni, Bruxelles, se si dà credito ad un numero consistente di osservatori, è stata letteralmente lasciata in balia dei promotori immobiliari e dell’assenza di una visione d’insieme circa il suo sviluppo.

Certo, l’Atelier de Recherche et d’Action Urbaine (ARAU) nasce nel 1968, seguito nel 1974 da Inter-Environnement Bruxelles, per rivendicare una prospettiva che sia oggetto di concertazione e di scelte democraticamente condivise in materia di urbanistica e di piani di sviluppo del territorio. Ma purtroppo sembra legittimo affermare che la “bruxellizzazione”, termine che designa uno smembramento urbano intenso a favore delle attività economiche, è proseguita. Alcune delle voci più critiche parlano di una “colonizzazione di Bruxelles da parte dell’Unione europea”.

Così, mentre l’“eurosfera” si sviluppa, veicolando immagini e pregiudizi generalmente poco favorevoli nella popolazione di Bruxelles, che critica lo status e la fiscalità privilegiati di cui beneficiano gli eurocrati, come pure le rivendicazioni che costoro formulano in materia di scuole, asili, ecc., la pressione sulle autorità locali, e perfino nazionali, è molto pronunciata.

A questo proposito, sono importanti gli anni che seguono le prime elezioni dirette del Parlamento europeo a suffragio universale nel 1979.

Il 20 novembre 1980, il Parlamento invita gli Stati membri a definire finalmente la sede delle istituzioni comunitarie. Il 7 luglio dell’anno seguente, decide di tenere le sue sedute plenarie a Lussemburgo e le riunioni delle Commissioni a Bruxelles. Una decisione che il governo lussemburghese impugna di fronte alla Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea), avendo causa vinta e ottenendo l’accordo dei governi dei Dieci sul congelamento dell’insediamento delle istituzioni europee.

Di fatto è all’opera un lavoro sotterraneo: in particolare, i conservatori britannici ne sarebbero i principali artefici. Nell’ottobre 1985 uno di loro, il deputato Peter Price, presenta un nuovo progetto di risoluzione che viene adottato dal Parlamento.

Nel 1988, il deputato conservatore britannico Derek Prag prepara un rapporto dedicato al Parlamento, che la sua commissione politica adotta il 1° dicembre. Il 18 gennaio 1989, dato che quasi tutti i gruppi politici dell’assemblea hanno lasciato libertà di voto ai loro membri, i deputati adottano il rapporto in cui si chiede che, oltre alle sessioni ordinarie a Strasburgo, il Parlamento possa tenere delle sessioni speciali a Bruxelles.

Nello stesso anno Bruxelles diventa la Région de Bruxelles-Capitale. Il 18 ottobre, l’esecutivo regionale annuncia la sua volontà di realizzare un piano regionale di sviluppo, che sarà portato a termine tra il giugno 1992 e il marzo 1995.

Mentre il governo belga mantiene un silenzio assoluto, vengono messe in atto contemporaneamente “manovre politiche provenienti da Strasburgo per presentare Bruxelles come una città infernale”. Nel marzo 1990, l’annuncio dell’intenzione di costruire un nuovo emiciclo a Strasburgo, e le minacce di Roland Dumas di bloccare qualsiasi decisione sulle sedi di future istituzioni se non viene riaffermata solennemente la vocazione di Strasburgo come sede del Parlamento, avvelenano il clima. Queste manovre inducono l’ufficio del Parlamento, il 14 marzo, a pronunciarsi per il mantenimento di dodici sessioni ordinarie a Strasburgo.

Nel 1991, la questione della sede del Parlamento sembra mescolarsi a manovre che coinvolgono il problema della sede della Commissione. Nel gennaio 1991, durante la guerra del Golfo, il Parlamento tiene una seduta plenaria a Bruxelles che i francesi decidono di boicottare. In febbraio, il Bureau allargato decide di tenere d’ora in poi una “seduta di lavoro”, aperta a tutti i deputati, ogni mercoledì a Bruxelles.

A Maastricht si decide ancora una volta di non prendere decisioni, perché fallisce il tentativo di mediazione di Giulio Andreotti, orientato a inserire nel nuovo trattato un protocollo relativo alla sede definitiva del Parlamento, del Consiglio e della Commissione. Nel 1992, a Edimburgo, Bruxelles è confermata nel suo status di sede della Commissione e del Consiglio, mentre Strasburgo resta la sede del Parlamento dove si terranno dodici sessioni plenarie all’anno; le sessioni supplementari avranno luogo a Bruxelles.

Michel Dumoulin (2009)




Benelux

L’acronimo Benelux (Belgique, Nederland e Luxembourg) contrassegna la stretta integrazione esistente fra questi tre paesi. All’interno dell’Unione europea, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo costituiscono infatti un’unione regionale fondata su una serie di accordi di cooperazione politica, commerciale e amministrativa e dotata di uno specifico sistema istituzionale.

Dopo un infelice tentativo di unione doganale risalente agli anni Trenta, nel corso della guerra si giunse a un’intesa fra i governi dei tre paesi, costretti all’esilio in Inghilterra a causa dell’occupazione nazista. I primi risultati concreti vennero raggiunti il 21 ottobre 1943 con la firma di un accordo di cooperazione monetaria che istituiva un regime di cambi fissi tra il franco belga-lussemburghese e il fiorino olandese. Il 5 settembre 1944, i tre Stati stipulavano una convenzione doganale che aveva come obiettivo l’introduzione, entro il 1° gennaio 1948, di una Tariffa esterna comune, nonché l’eliminazione delle barriere doganali interne. Nello stesso documento si dichiarava l’intenzione di giungere, nell’arco di sei anni e in tre fasi successive, al completamento dell’unione economica.

Tali accordi preliminari dall’impostazione liberistica e di carattere intergovernativo, poi precisati con il protocollo dell’Aia del 14 marzo 1947, nascevano dall’esigenza di tutelare i principali interessi nazionali, congiungendo le forze anche in vista del riassetto postbellico. In particolare, il tramonto dell’eurocentrismo e il profilarsi del nuovo sistema bipolare esponevano i tre piccoli Stati al rischio di una soggezione alle grandi potenze mondiali (all’Unione Sovietica in primo luogo). Il Benelux avrebbe potuto agire da elemento riequilibratore, affermando le posizioni comuni ed esercitando un ruolo di mediazione nelle sedi internazionali. Inoltre, di fronte all’eclissi di un partner commerciale come la Germania, che penalizzava soprattutto il sistema produttivo olandese, e con l’impellente necessità di avviare la ricostruzione, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo individuarono nella logica cooperativa un approccio obbligato per superare l’impasse.

La nascita del Benelux, a far data dalla formalizzazione definitiva, il 29 ottobre 1947, delle intese del 1944, segnava una svolta decisiva nei rapporti fra i tre paesi. Il 1° gennaio 1948 l’unione doganale entrava in vigore, nella prospettiva dell’unione economica, fissata per il 1950.

Tuttavia, l’armonizzazione di apparati produttivi strutturalmente differenti e la definizione di una politica economico-commerciale comune richiesero un allungamento dei tempi, al fine di concordare una serie di protocolli aggiuntivi. In particolare: Politica commerciale comune, 1950; liberalizzazione dei movimenti di capitali, 1954; libera circolazione dei lavoratori, 1956.

Sul piano istituzionale, la Convenzione del 5 novembre 1955, sottoscritta dai tre plenipotenziari, Paul Henri Charles Spaak per il Belgio, Lambert Schaus per il Lussemburgo e il barone Philip Van Harinxma thoe Slooten per i Paesi Bassi, istituiva il Consiglio consultivo interparlamentare, comunemente denominato “Consiglio”, o “Parlamento del Benelux”. Composto da 49 membri, 21 per il Belgio, 21 per l’Olanda e 7 per il Lussemburgo, il Consiglio era incaricato di formulare raccomandazioni per favorire la realizzazione dell’unione economica, l’armonizzazione legislativa, nonché la collaborazione in materie di politica estera. Con la creazione del Consiglio, in altre parole, si gettavano le fondamenta dell’architettura istituzionale del Benelux.

Il 3 febbraio 1958, il primo ministro Achille van Acker e il ministro degli Affari esteri Victor Larock per il Belgio, gli omologhi Willem Drees e Joseph Luns per i Paesi Bassi, nonché il presidente del governo e ministro degli Esteri Joseph Bech per il Lussemburgo, firmarono all’Aia il Trattato istitutivo dell’Unione economica del Benelux, entrato in vigore il 1° gennaio 1960.

Con tale atto, intervenuto subito dopo la nascita della Comunità economica europea (CEE), i tre paesi si impegnavano a proseguire nel cammino dell’armonizzazione delle politiche economiche, finanziarie e sociali, dando vita al tempo stesso a un apparato istituzionale solido e articolato. In pratica, oltre al sopra citato “Parlamento”, venivano istituiti i seguenti organismi, ancora oggi in funzione:

– un Comitato dei Ministri, dotato di potere decisionale vincolante per i governi nazionali, preposto a vigilare sull’applicazione del trattato e a deliberare, secondo il criterio dell’unanimità, in tema di approfondimento della cooperazione. La presidenza viene esercitata secondo una rotazione semestrale;

– un Consiglio dell’Unione economica, corpo amministrativo con competenze consultive e incaricato di coadiuvare il Comitato dei ministri nella fase di decision-making, i cui membri, designati dai rispettivi governi, esercitano a turno la presidenza;

– Commissioni e Commissioni speciali, composte da rappresentanti dei diversi ministeri e assistite da un delegato del Segretariato generale, con il compito di coadiuvare il Comitato dei ministri nella preparazione delle deliberazioni, vigilando sull’esecuzione delle stesse da parte delle amministrazioni nazionali;

– un Segretariato generale, con sede a Bruxelles, formato da membri permanenti, con funzioni di raccordo tra i governi dei tre paesi e il Parlamento del Benelux, nonché di gestione amministrativa; a presiedere il Segretariato è sempre un segretario generale di nazionalità olandese, assistito da due segretari generali aggiunti, uno per il Belgio e uno per il Lussemburgo, nominati dal Comitato dei ministri;

– i Servizi comuni, incaricati di migliorare il funzionamento dell’Unione secondo le attribuzioni conferite dal Comitato dei ministri;

– un Collegio arbitrale (trasformato, nel 1974, in Corte di giustizia) con il compito di dirimere le controversie sorte tra i tre paesi in merito all’applicazione del trattato: costituito in sezioni differenti, a seconda dell’argomento, il Collegio arbitrale è composto da un arbitro nazionale per ciascuna delle parti in causa, nonché da un arbitro scelto dal Comitato dei ministri;

– un Consiglio economico e sociale, a carattere consultivo, formato da un massimo di 27 membri.

L’istituzione del Benelux, con la libera circolazione delle persone, dei beni, dei servizi e dei capitali, nonché con l’impegno a perseguire politiche comuni in campo economico, finanziario e sociale, ha accompagnato la costruzione dell’Europa comunitaria, influenzandola profondamente e rappresentando un elemento di spinta nel processo di integrazione (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). A tutt’oggi, l’organizzazione dei tre “piccoli paesi” agisce da traino in materie importanti, tra cui la gestione del territorio, alcuni aspetti della politica europea dei trasporti, nonché la politica dei visti e la collaborazione nei settori della giustizia, della polizia e dell’immigrazione. Peraltro il Benelux ha sempre mantenuto fermo il proprio carattere intergovernativo, con una sostanziale autonomia dei singoli ordinamenti nazionali e un meccanismo decisionale vincolato al criterio dell’unanimità.

Giulia Vassallo (2008)




Beniamino Andreatta




Benvenuti, Lodovico

B. (Verona 1899-Casorate Sempione, Varese 1966) ebbe a sperimentare, sul Piave, gli orrori della Prima guerra mondiale, le conseguenze dell’anarchia internazionale che caratterizzò il declino del sistema europeo degli Stati, e maturò già da questa esperienza l’intima vocazione europeistica. Cattolico convinto, membro dal 1919 del Partito popolare di quel don Luigi Sturzo di cui sono note le prospettive internazionalistiche e federalistiche (v. Federalismo), aderì, nel periodo tra le due guerre, al Piano Briand.

Il fattore decisivo della scelta europeista e federalista di B. è però da cercare, durante il secondo conflitto mondiale, nella sua partecipazione alla Resistenza, che affinò in lui la coscienza di un destino comune dei popoli europei, nel momento in cui la lotta contro la tirannide non conosceva barriere. «“Italia libera nel mondo liberato”, stava scritto sul masso del Grappa; Italia libera in un’Europa unita e liberata da tutte le tirannidi: ecco la meta cui dobbiamo tendere come italiani, come democratici e come cristiani», scriveva B. su un giornale cremasco nel dicembre del 1946. Tra i fondatori del Comitato di liberazione nazionale (CLN) nel cremasco, membro del CLN lombardo per la Democrazia cristiana (cui aderì dal momento della sua fondazione in clandestinità), B. fu collaboratore del “Ribelle” di Teresio Olivelli, per il quale scrisse con lo pseudonimo di “Renzo”.

B. era mosso da forti ideali libertari, che appaiono ben evidenti già nella sua azione per la Costituente, dove fu eletto deputato, nel 1946, per il collegio di Mantova e Cremona. Avvalendosi della sua vasta preparazione in campo giuridico, partecipò attivamente all’elaborazione del testo costituzionale. Convinto giusnaturalista, «un fanatico», «un romantico dei diritti dell’uomo», come egli stesso ebbe a definirsi, si batté a favore degli inalienabili diritti di libertà, propugnando, da cattolico liberale, la creazione di uno Stato di diritto capace di garantirli contro ogni minaccia totalitaria.

B. ebbe un ruolo fondamentale anche nell’elaborazione della Dichiarazione europea dei diritti dell’uomo e del cittadino (v. Convenzione europea dei diritti dell’uomo), ultimata nel 1950, impegnandosi a fondo nelle discussioni preparatorie alla Convenzione di Roma che avrebbe costituito la Corte europea dei diritti dell’uomo, nella convinzione che la difesa dei diritti originari, intangibili, dell’uomo non potesse più essere demandata ai parlamenti nazionali.

Nell’immediato dopoguerra, B. si accostò con naturalezza all’europeismo e al federalismo. Entrò a far parte del gruppo parlamentare italiano per l’Unione europea – cui si dovette l’affermazione nel Parlamento italiano di una linea favorevole all’unificazione europea su base federale – dapprima all’interno della Costituente, poi, dopo le elezioni del 1948, alla Camera. Nel settembre del 1947 fu un rappresentante attivo della delegazione italiana al primo congresso organizzato, a Gstaad, dall’Unione parlamentare europea (UPE), nella quale occupò ruoli direttivi.

Dopo un primo colloquio con Altiero Spinelli, a casa di Ernesto Rossi nel giugno del 1948, B. aderì al Movimento federalista europeo (MFE), assumendovi presto cariche di rilievo. Eletto nel Comitato centrale del Movimento e poi nella Direzione nazionale, membro nel contempo dell’Union européenne des fédéralistes (UEF) (v. Unione europea dei federalisti), partecipò direttamente alla formazione della politica federalista. Entrò a far parte anche del Consiglio italiano del Movimento europeo, dal momento della sua costituzione nel dicembre del 1948, e delle Nouvelles équipes internationales (NEI), l’organizzazione internazionale democratico-cristiana che rappresentò una tribuna europea per i grandi leader del centro cattolico.

Rappresentante dell’Italia all’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa sin dalla sua prima sessione (fu eletto presidente della Commissione speciale Agricoltura nel novembre del 1950) B, riaffermò in tale consesso l’ideale di Stato federale europeo che sempre più andava precisando nel contatto quasi quotidiano con gli europeisti più impegnati. Durante la seconda sessione, presentò assieme ad alcuni colleghi una proposta di risoluzione che mirava alla creazione di una Commissione speciale incaricata di elaborare una Costituzione europea. Si batté costantemente a favore della convocazione di un’Assemblea costituente europea, affiancando Richard Nicolaus Coudenhove-Kalergi, prima, e Spinelli, poi, in tutte le loro battaglie.

Convinto anticomunista e attivo sostenitore del pieno inserimento dell’Italia nel contesto delle democrazie occidentali, B. combatté la battaglia per l’adesione all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), mantenendo ferma la distinzione fra atlantismo ed europeismo. Fece parte del gruppo ristretto di forte ortodossia degasperiana, affiancando Alcide De Gasperi nella svolta federalistica che questi impresse alla politica estera del governo italiano all’inizio degli anni Cinquanta.

Dal giugno del 1951 al luglio del 1953, nel settimo gabinetto De Gasperi, B. fu sottosegretario di Stato al Commercio con l’estero. Alla nascita dell’Europa comunitaria, divenne membro dell’Assemblea comune della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), facendosi interprete in quell’aula degli annosi problemi italiani relativi all’eccedenza di mano d’opera. Fu favorevole alla creazione di Autorità specializzate a patto che fosse ben chiaro l’obiettivo finale: la federazione. Egli riteneva che il Piano Schuman fosse di interesse per l’Italia «sul piano politico», in quanto significava la pace tra gli Stati del continente e il primo passo verso l’unità politica dell’Europa.

Sostenne attivamente la Comunità europea di difesa (CED), vivendo da protagonista il primo tentativo di creare, a partire dall’esercito europeo, uno Stato federale europeo. Nel marzo del 1952 entrò a far parte del Comitato di studi per la Costituzione europea (CECE), creato da Paul Henri Charles Spaak (che ne sarà il presidente) e Spinelli. In settembre, avviati i lavori dell’Assemblea ad hoc – l’Assemblea allargata della CECA cui era stato affidato un compito costituente – B. fu eletto vicepresidente della Commissione costituzionale dell’Assemblea (presidente era Heinrich von Brentano) cui era affidato il compito di preparare un progetto di Statuto della Comunità politica europea da sottoporre all’Assemblea plenaria. Fece parte, in quel frangente, anche del “Groupe de travail”, un gruppo ristretto che preparò l’attività della Commissione, ma soprattutto venne designato relatore di una delle più importanti sottocommissioni, quella delle Attribuzioni, alla quale portò il prezioso contributo degli studi fatti nel CECE.

Dal 1953 al 1955, nei governi De Gasperi, Giuseppe Pella, Amintore Fanfani, Mario Scelba, B. fu sottosegretario agli Affari esteri. L’affossamento della CED a opera dell’Assemblea nazionale francese, il 30 agosto 1954, e l’archiviazione del progetto di Comunità politica, in cui tanto aveva creduto, lo delusero profondamente. Accettò tuttavia di esercitare le funzioni di vicepresidente dell’Assemblea dell’Unione europea occidentale (UEO), l’organismo nato sulle ceneri della CED.

Collaborò attivamente al rilancio dell’Europa comunitaria, venendo chiamato a dirigere la delegazione italiana alla Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) di Bruxelles per il Mercato comune (v. Comunità economica europea) e la Comunità europea dell’energia atomica (Euratom), convocata in base alle decisioni della Conferenza di Messina del 1955.

Dopo l’elezione di Giovanni Gronchi alla presidenza della Repubblica e i cambiamenti interni alla DC che essa contribuì a evidenziare, mentre la crisi del quadripartito si faceva sempre più profonda e si profilava sempre più insistentemente, soprattutto dopo l’avvio della politica di distensione, la possibilità di schieramenti alternativi, Lodovico B., entrato ormai in contrasto con i nuovi orientamenti di governo, lasciò la politica italiana. Fu eletto nel 1957 segretario generale del Consiglio d’Europa. Nel 1963 motivi di salute e circostanze familiari lo indussero a rimettere il proprio mandato e dal 1964 si ritirò nell’amata Ombriano, mantenendo la sola carica di direttore dell’Istituto per gli Studi europei presso l’Università Pro Deo.

«Cavaliere dell’ideale», lo definì Lodovico Montini. Ma forse, la definizione che più si attaglia e che maggiormente fa onore a B. è quella con cui volle ricordarlo Pierre Pflimlin: «costruttore dell’Europa comunitaria».

Daniela Preda (2010)




Berlinguer, Enrico

B. (Sassari 1922-Padova 1984), cresciuto in una famiglia di piccola nobiltà agraria e professionale (il nonno, Enrico, avvocato repubblicano legato a Garibaldi, era stato il fondatore del giornale “La Nuova Sardegna”; il padre, Mario, anch’egli avvocato, era stato eletto deputato dell’Unione amendoliana nel 1924, aveva poi svolto attività antifascista e ricoperto nuovamente incarichi istituzionali dopo la caduta di Mussolini), si giova, nella sua formazione intellettuale, della vivacità culturale e delle frequentazioni politiche che caratterizzano il suo ambiente familiare. Dopo la maturità classica aderisce al Partito comunista (1943) ed è tra i protagonisti dei moti popolari “contro la fame” promossi a Sassari nel gennaio 1944, in seguito ai quali verrà arrestato e incarcerato per tre mesi. Dopo la scarcerazione conosce, a Salerno, attraverso il padre (trasferitosi con la famiglia nella città essendo stato nominato da Badoglio alto commissario aggiunto per la punizione dei delitti fascisti) Palmiro Togliatti. A Salerno è anche lo zio di Enrico, Stefano Siglienti, personalità di spicco del Partito d’azione nominato ministro delle Finanze. Togliatti accoglierà con grande favore il giovane B. nel “partito nuovo”, così come altri figli di famiglie di tradizioni liberali da Giorgio Amendola ad Antonio Giolitti, da Luca Tavolini a Lucio Lombardo Radice. Alla fine dell’anno è chiamato a Roma ed entra nella segreteria nazionale del movimento giovanile comunista.

Al V congresso del PCI (1945-1946) viene ammesso a sorpresa a far parte del Comitato centrale (CC) e dopo il VI congresso (1948), cooptato giovanissimo nella direzione. Sul finire del 1946 è segretario nazionale del Fronte della gioventù e, dopo la ricostituzione della Federazione giovanile comunista italiana (FGCI) nel 1949, ne diviene segretario, carica che mantiene sino al 1956 quando gli succede Renzo Trivelli dopo una fase di acceso scontro interno alla Federazione con Giuseppe D’Alema. In quello stesso periodo, per un triennio, è presidente della Federazione mondiale della gioventù democratica, organizzazione giovanile fondata a Londra nel 1945. Nel 1957, non più confermato nella direzione, viene destinato a un incarico in ombra: dirigere la scuola di partito alle Frattocchie; quindi è nominato vicesegretario regionale della Sardegna. Circa un anno dopo lascia questi incarichi periferici perché chiamato a Roma e cooptato nella segreteria nazionale, il vertice ristretto del partito; qui collabora strettamente con Luigi Longo all’Ufficio di segreteria e frequenta quotidianamente Togliatti. La sua formazione si approfondisce e il suo lavoro è apprezzato, anche pubblicamente, dal segretario comunista.

Al IX congresso (1960) viene nominato responsabile dell’organizzazione, ruolo di grande importanza nella struttura del PCI ricoperto in precedenza da Giorgio Amendola. Nel 1962, a quarant’anni, è incaricato di dirigere l’Ufficio di segreteria e rientra nella direzione. Dopo la morte di Togliatti e in una fase di confronto fra Amendola e Pietro Ingrao sulla linea del partito, B. viene penalizzato dai rinnovati assetti del PCI e inviato a svolgere l’incarico minore di segretario regionale del Lazio.

Ma alle elezioni politiche del 1968, per la prima volta candidato (suo malgrado preferendo l’attività nel partito al lavoro parlamentare), è eletto deputato con una straordinaria affermazione personale (verrà poi eletto, ininterrottamente, per quattro legislature). La scelta di candidarlo era venuta direttamente dal nuovo segretario del PCI, Longo, che in una riunione della direzione aveva inaspettatamente sottolineato la necessità di garantire l’elezione alla Camera dei tre più probabili candidati alla sua successione: B. appunto, Alessandro Natta e Giorgio Napolitano (su cui Longo sembrava puntare: v. Lajolo, 1976, p. 38). Nel novembre del 1968 guida la delegazione del PCI a Mosca e ribadisce, da quella difficile e impegnativa tribuna, le posizioni ufficiali del partito di grave dissenso sull’occupazione della Cecoslovacchia a opera delle truppe del Patto di Varsavia.

Al XII congresso del PCI (1969) viene eletto vicesegretario; quindi, al congresso successivo (1972) è chiamato alla guida del partito, realizzando il disegno dell’ex segretario di compiere un salto generazionale nella massima responsabilità di direzione del PCI, con il sacrificio delle due personalità più autorevoli (ma anche contrapposte): Ingrao e Amendola.

Nella corsa alla segreteria, accantonata la candidatura di Natta, B. viene preferito a Giorgio Napolitano per la sua maggior caratura internazionale: il neosegretario si è, infatti, formato nelle organizzazioni giovanili internazionali comuniste, dirigendo importanti e delicati viaggi all’estero del partito, soprattutto in URSS e nei paesi socialisti.

La capacità di tradurre l’esperienza maturata a livello internazionale in atti politici che incidono sugli equilibri del movimento mondiale comunista sarà un tratto significativo del suo “fare politica”. Così, il tentativo di orientare il comunismo italiano lontano dalle tradizionali posizioni filosovietiche alla ricerca di una terza via tra il socialismo dei regimi dell’Est e le socialdemocrazie occidentali, lo condurrà all’Eurocomunismo, stagione che vede principali protagonisti i partiti comunisti italiano, spagnolo e francese, ma che investe anche altri PC come quelli britannico, belga e greco. A rendere possibile l’emergere dell’eurocomunismo sono una serie di fattori concomitanti: lo sviluppo economico e culturale europeo innescato dalle Comunità (v. Comunità europea del carbone e dell’acciaio; Comunità economica europea; Comunità europea dell’energia atomica); la distensione nei rapporti tra USA e URSS; la crisi generale del leninismo e l’appannamento dell’immagine di Mosca e del suo modello di socialismo; le difficoltà e la crisi in politica estera dell’altra superpotenza, ancora molto scossa dalla sconfitta nel Vietnam.

Nel 1973 d’altro canto, sempre con riferimento al quadro europeo, B. aveva coniato una parola d’ordine straordinariamente innovativa: «un’Europa autonoma e democratica, né antisovietica né antiamericana». Questa nuova formula, destinata a grande fama e oggetto di tensioni dentro e fuori il partito, sarà sostenuta principalmente nella direzione da Longo e Napolitano (v. Ferrari, 2007, p. 116).

Se sul piano internazionale il PCI di B. va ricercando nuovi rapporti, similmente sul piano nazionale il segretario ricerca una collaborazione inedita con il principale partito di governo, la Democrazia cristiana (DC), nella prospettiva di realizzare riforme d’ordine sociale ed economico.

Proprio in virtù di questa duplice ricerca di confronto, interno e internazionale, tutti gli anni Settanta sono attraversati dalla politica di B.: sia sotto l’aspetto umano sia per il disegno strategico che persegue, egli – meglio e più di altri – esprime il significato profondo di quella fase storica e può essere considerato la personalità centrale dell’epoca. Per la sua “visione dinamica” delle relazioni internazionali, in grado di immaginare scenari inediti per l’Italia e per il mondo; per la moralità e l’etica in lui connaturate; per il disagio profondo patito nei confronti di una modernità, figlia del neocapitalismo, di cui intravede la carica dirompente di problematiche – sociali, culturali, economiche, ambientali, civili – in gran parte ancora da riconoscere e decifrare; per la riservatezza, la dignità, la correttezza, la trasparenza e l’onestà intellettuale in una società in cui tali valori sembrano star perdendo di significato. E, infine, per l’attenzione all’Europa, un soggetto tutt’altro che minore del suo “fare politica”; sarà l’assunzione convinta e conseguente delle tematiche europeistiche da parte di B. a sancire il ricollocamento del PCI sul piano europeo, oltre che la ricerca di una nuova identità nazionale e internazionale.

In ragione di questo quadro complessivo, negli anni Settanta, il PCI posto il principio ideal-strategico-politico dell’autonomia a guida delle proprie scelte, opera per riformare i propri riferimenti culturali, dando così vita a una delle stagioni più originali nella storia del partito. Tra i più significativi episodi che vedono protagonista B. nella prima parte del decennio si possono ricordare: i tre articoli pubblicata su “Rinascita” nel 1973 (Riflessioni sull’Italia dopo i fatti del Cile) nei quali – dopo il colpo di Stato militare che spazza via il governo di sinistra di Salvador Allende – formula la proposta di un «nuovo grande compromesso storico» tra le forze che raccolgono e rappresentano la maggior parte del popolo italiano contro possibili derive antidemocratiche; l’intervento svolto nella primavera del 1976 al V congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica (PCUS) in cui ribadisce l’autonomia e l’indipendenza del PCI e il nesso inscindibile tra democrazia e libertà; l’intervista al “Corriere della Sera” del giugno 1976 in cui annuncia che i comunisti italiani considerano l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO) più sicura del Patto di Varsavia.

Anche in virtù del “movimento” innescato dalle posizioni di B., il PCI fa registrare, alle elezioni di quell’anno (1976) un forte avanzamento, toccando il 34,4% dei consensi, che costituirà il picco massimo di tutta la sua storia elettorale. In quegli stessi anni, come scelta conseguente alla ricerca di una maggiore autonomia dall’URSS, B. assume anche la delicata determinazione di porre fine ai finanziamenti “esterni” al partito. Si tratta di una decisione non facile (anche perché condivisa tra pochissimi e fidati collaboratori), ma che sottolinea ancora una volta la volontà del segretario comunista di recidere il legame con i sovietici (per un approfondimento v. Cervetti, 1993).

Sul finire del decennio B. si fa sostenitore dell’esigenza della “solidarietà nazionale” per far fronte all’emergenza economica e alla stagione terroristica (continui attentati di cui sono principalmente protagoniste le Brigate rosse, BR); dopo il rapimento di Aldo Moro (1978) si schiera per una linea di massima fermezza contro il terrorismo, giudicando qualsiasi ipotesi di trattativa con le BR, avanzata da alcuni esponenti politici, come una forma di cedimento da parte dello Stato.

La morte di Moro e, l’anno successivo, del repubblicano Ugo La Malfa chiude la stagione di dialogo tra il PCI e le forze moderate laiche e cattoliche; le tensioni dell’ultima parte del decennio hanno prodotto nel PCI un forte calo elettorale: alle elezioni del 1979 il PCI perde oltre quattro punti percentuali, corrispondenti a quasi un milione e mezzo di elettori, in prevalenza giovani.

A livello internazionale, nel gennaio 1980, B. condanna duramente – a nome del partito – l’intervento sovietico in Afghanistan e, per la prima volta, qualifica la politica dell’URSS come “politica di potenza” dalla quale possono provenire atti contrari alla causa della distensione e della pace. Alla fine di quello stesso anno – sancita la fine della politica di “solidarietà nazionale” – lancia la parola d’ordine della “alternativa democratica” e pone – con straordinario e lungimirante anticipo – la “questione morale” (vale a dire il nesso irrinunciabile tra etica e politica) al centro del dibattito.

Intervistato da Eugenio Scalfari (“la Repubblica” del 28 luglio 1981) afferma: «I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società, della gente; idee, ideali, programmi pochi o vaghi; sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli senza perseguire il bene comune. […] La questione morale, nell’Italia di oggi, secondo noi comunisti, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati».

Qualche mese più tardi, nel corso di una tribuna televisiva, in seguito ai fatti di Polonia e alla messa al bando del sindacato autonomo Solidarność, denuncia l’esaurimento della «spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre», presa di posizione che viene interpretata come il definitivo “strappo” del PCI da Mosca.

Sul piano europeo è indubbio che B., in un quindicennio, può vantare di avere portato a compimento, con forte coerenza, la definitiva scelta europeista del PCI. Saranno gli stessi grandi “padri” dell’Unione europea (da Altiero Spinelli a Giorgio Napolitano) a riconoscere in lui il principale artefice di questo traguardo. B. fa il suo primo ingresso al Parlamento europeo nel 1979, anno in cui il PCI porta a Strasburgo 24 parlamentari; durante l’intera legislatura il gruppo comunista si distingue per la competenza e la serietà nel segno della centralità attribuita all’impegno europeo già posta da B. nelle tesi del XV congresso del partito: nel suo rapporto introduttivo aveva infatti ribadito la scelta occidentale del PCI e aggiunto: «I comunisti italiani, respingendo ogni visione acritica e retorica dell’Europa, hanno colto tutta l’importanza che assume oggi la Comunità europea. I singoli Stati nazionali europei, presi separatamente, sono entità troppo esigue per poter far fronte con successo a quei problemi nuovi. Agendo isolatamente, questi paesi, particolarmente i più deboli, sono destinati inevitabilmente ad assumere una posizione subalterna rispetto alle grandi potenze e aree economiche. È per questo che oggi lo sviluppo del processo di integrazione deve essere visto come una condizione per l’indipendenza reale dei paesi che fanno parte della Comunità, e per il loro stesso sviluppo economico interno».

Ha scritto, al riguardo, Giorgio Napolitano che la scelta europeistica «rimane una delle scelte più innovative e conseguenti di Enrico B. […] un fondamentale punto di arrivo che si collocò oltre le contraddizioni e la crisi dell’eurocomunismo e nel quale si sciolsero le ambiguità di formule come quelle della “terza via” e del “nuovo internazionalismo”» (v. Napolitano, 2005, p. 201).

B. muore a Padova l’11 giugno 1984 in conseguenza di un ictus che lo aveva colpito quattro giorni prima durante un comizio per le elezioni europee (v. anche Elezioni dirette del Parlamento europeo). Il PCI, oltre che il leader indiscusso di un quindicennio, perde anche il politico più sensibile alle grandi questioni europee e internazionali; le conquiste di B. sul terreno europeo restano innegabili, nonostante non si sia compiutamente realizzato l’incontro con le socialdemocrazie: premessa fondamentale all’europeismo dei Democratici di sinistra (DS) e al loro approdo – che infine si concretizza – nella famiglia del socialismo europeo. A B. va soprattutto il merito di aver saputo sanare la frattura, prodottasi negli anni Cinquanta, tra proletariato e prospettiva europea; un risultato notevole che, d’altra parte, è figlio dei profondi mutamenti avvenuti, nel corso dei decenni, nel panorama delle relazioni internazionali, nella natura dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) e all’interno della società italiana.

Ai suoi funerali, che si svolsero a Roma il 13 giugno 1984, parteciparono oltre un milione di italiani.

Mauro Maggiorani (2010)




Berlusconi, Silvio

B. nasce a Milano il 29 settembre 1936. Imprenditore di successo soprattutto nel settore delle comunicazioni, immobiliare e delle assicurazioni, il “Cavaliere” – così chiamato in virtù dell’onorificenza di Cavaliere del Lavoro ricevuta nel 1977 – entra sulla scena della politica italiana all’età di cinquantotto anni, fondando nel gennaio 1994 una nuova formazione politica, Forza Italia, che vincerà le elezioni politiche nel marzo dello stesso anno. Da allora fino ai giorni nostri B. è rimasto alla ribalta senza soluzione di continuità, come leader della principale formazione politica del paese, oggi confluita nel partito Il Popolo della libertà (Pdl), e come Presidente del Consiglio, nella XII legislatura (1994), due volte consecutive nella XIV (20012005 e 20052006) e infine nell’attuale, la XVI (2008). Per periodi più o meno lunghi ha ricoperto ad interim anche gli incarichi di ministro degli Esteri, dell’Economia, della Salute e della Funzione pubblica e delle Attività produttive. Egli è senza dubbio il personaggio che più di ogni altro ha dato un’impronta omogenea e determinante alla vita politica italiana negli ultimi venti anni, rappresentando lo strumento offerto all’Italia che ha reso possibile la transizione verso un sistema basato sul meccanismo dell’alternanza al potere e, più precisamente, verso un bipolarismo, sia pure imperfetto e a tutt’oggi fluido, con due “partiti-coalizione” egemoni – il Pd a sinistra e il Pdl a destra – un partito territoriale – la Lega – e due poli minori, uno di centro e l’altro di sinistra radicale. Complessivamente B. detiene il record di durata in carica come Presidente del Consiglio dell’Italia repubblicana e ha presieduto il gabinetto di governo più longevo della Repubblica italiana (Berlusconi II). La rilevanza del fenomeno berlusconiano (o “berlusconismo”) è dimostrata anche dall’attenzione crescente che esso ha suscitato a livello internazionale, soprattutto in Europa, a livello di dibattito pubblico, ma anche più recentemente nel campo della ricerca storica e politologica.

Le ragioni dell’ingresso in politica di B. sono strettamente connesse alla più grave crisi del sistema politico italiano dalla fine della Seconda guerra mondiale dopo la fine della Guerra fredda, al quale quel terremoto passato alla storia con il nome di “Mani pulite” avrebbe voluto far assumere le sembianze di rivoluzione politico-giudiziario. Una classe dirigente fino a quel tempo incredibilmente longeva fu colpita da improvvisa moria; tanti onorevoli furono ospitati dalle patrie galere, alcuni di essi si suicidarono, altri giunsero a morte prematura. Lo scioglimento della Democrazia cristiana e la sua ricollocazione sul versante di centrosinistra furono la premessa perché nel sistema della rappresentanza italiana si creasse nel campo dei moderati un enorme potenziale politico-elettorale. Tale vuoto venne appunto riempito da B. Il suo approdo alla presidenza del Consiglio, nel maggio 1994, avvenne in un momento in cui l’Italia non aveva mai contato così poco in Europa e nel mondo: sia per le enormi difficoltà politiche, economiche e sociali connesse al crollo della Prima repubblica, ma soprattutto per il venir meno, con la fine della Guerra fredda, del ruolo strategico dell’Italia di paese di frontiera tra i due blocchi. Anche per questo all’estero la «discesa in campo» dell’imprenditore milanese – storicamente vicino al Partito socialista italiano di Bettino Craxi, ma di fatto esterno al ceto dei professionisti della politica – fu accolta con sentimenti contrastanti. All’epoca del suo primo mandato di governo B. non possedeva ancora un profilo definito in politica estera; aveva però come partner due forze politiche, che per impedire la vittoria scontata delle sinistre, era riuscito a mettere in contatto tra loro: Alleanza nazionale e Lega Nord, che, per le loro posizioni euroscettiche (v. Euroscetticismo), sollevarono più di un’apprensione negli ambienti internazionali, abituati alle morbidezze del periodo democristiano. La Lega, le cui posizioni autonomiste venivano percepite come venate di sentimenti xenofobi, aveva manifestato a più riprese il suo malcontento per i vincoli e i sacrifici chiesti dall’Europa per far quadrare i conti della finanza pubblica, laddove l’Msi, dal cui seno sarebbe nata Alleanza nazionale, non aveva votato la ratifica del Trattato di Maastricht.

Dopo la vittoria elettorale del 1994, per contrastare l’immagine negativa che aveva accompagnato la nascita della nuova coalizione di centrodestra, B. decise di affidare ad Antonio Martino – figlio dell’esponente liberale artefice dei Trattati di Roma (v. Martino, Gaetano) –, il dicastero degli Esteri e, successivamente, di designare Mario Monti ed Emma Bonino – il primo, un esperto di prestigio internazionale, notoriamente favorevole al processo di integrazione (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della); la seconda, una rappresentante di spicco di un movimento le cui posizioni europeiste erano altrettanto note – quali nuovi rappresentanti italiani nella Commissione europea guidata da Jean Jaques Santer. La nomina di Martino agli Esteri fu, sotto altri aspetti, anche espressione della volontà del nuovo governo di imprimere una svolta all’europeismo tradizionale verso una visione meno idealistica dell’Europa, verso un’impostazione più assertiva nella esplicitazione e nella difesa dei propri interessi nazionali, che non avrebbe tardato a manifestarsi. Già prima di diventare ministro, Antonio Martino si era reso noto, nelle vesti di studioso, per alcune valutazioni molto critiche espresse nei riguardi delle ultime obbligazioni contratte dall’Italia con l’adesione al Trattato di Maastricht e, in particolare, nei confronti della moneta unica. D’altro canto, la rinazionalizzazione della politica europea, altra conseguenza diretta della fine della Guerra fredda, fu un fenomeno che all’epoca non rimase circoscritto al caso italiano. Particolarmente significativo per l’impatto negativo che esso avrebbe potuto avere per la penisola italiana fu il documento “Lamers-Schäuble” reso noto dal gruppo parlamentare della democrazia cristiana tedesca nel settembre 1994 (v. Lamers, Karl; Schäuble, Wolfgang), nel quale si individuava in maniera esplicita la possibilità che in futuro all’interno dell’Unione europea (UE) si formasse un’Europa a due velocità (v. Europa “a più velocità”), dal cui gruppo di testa l’Italia, per i suoi problemi economici, sarebbe rimasta esclusa. La proposta non andò in porto; nell’immediato contribuì tuttavia ad alimentare in Italia un più ampio dibattito sulla necessità di adeguare la propria politica estera ed europea a uno scenario internazionale ed europeo che appariva in rapida evoluzione. E in questo contesto si colloca la decisione di Forza Italia di costituire nel corso del 1994 un suo raggruppamento al Parlamento europeo, Forza Europa. La prima esperienza di B. al potere durò, tuttavia, solo pochi mesi. Nel dicembre 1994 il premier fu infatti costretto alle dimissioni per il venir meno del sostegno della Lega. Tornato all’opposizione, lo schieramento di centrodestra nel suo atteggiamento verso l’Europa fu mosso da considerazioni e pressioni contrastanti che, se da un lato indussero soprattutto la Lega a cavalcare i sentimenti antieuropeisti diffusi nel paese, dall’altro lato portarono Forza Italia a ricercare quella legittimazione negli ambienti comunitari e internazionali che la breve esperienza di governo non aveva permesso di acquisire. Dopo aver accarezzato l’idea di costituire insieme ai gollisti francesi e ai conservatori irlandesi un nuovo gruppo politico all’Assemblea di Strasburgo (v. Gruppi politici al Parlamento europeo), B. intravide nell’entrata nel Partito popolare europeo (PPE) l’opportunità di trasformare il suo partito in un moderno partito di centrodestra ideologicamente moderato. L’obiettivo venne raggiunto alla vigilia delle elezioni europee del 1999, superando non poche difficoltà poste da alcuni altri partiti membri del PPE. Si trattò a tutti gli effetti di un importante risultato anche sul piano della politica interna, in quanto ostacolò il tentativo del centrosinistra di Romano Prodi e Beniamino Andreatta di accreditarsi come il principale punto di riferimento dell’europeismo in Italia. L’ingresso di Forza Italia nel PPE venne approvato con 95 voti a favore, 35 contrari ed alcune astensioni e condusse alla fuoriuscita di Prodi dal PPE per protesta.

Con il suo ingresso nel PPE, Forza Italia portò in dote un numero elevato di europarlamentari. Forse anche per questo a Bruxelles, tra gli avversari dei popolari, continuarono a permanere forti le prevenzioni nei confronti del Cavaliere e dei suoi alleati. Tali prevenzioni, puntualmente, si manifestarono al momento del varo del secondo governo B., nel 2001. Già nel corso della campagna elettorale, le valutazioni di alcuni influenti organi di stampa europei erano state nel complesso negative (si ricordano, ad esempio, le prese di posizione critiche nei confronti di B. di organi di stampa quali “The Economist”1): al leader di Forza Italia veniva contestato un conflitto di interessi tra il suo ruolo di imprenditore e quello di politico, le molte inchieste giudiziarie apertesi dopo la sua discesa in politica, la presenza nella sua coalizione di forze quali la Lega, ritenuta influenzata da atteggiamenti xenofobi, o come AN che continuava a essere definita come partito neofascista o, tutt’al più, postfascista. Tali opinioni negative furono ampiamente utilizzate dalle forze del centrosinistra e dalla stampa a queste vicina per sostenere che un governo guidato da B. avrebbe “allontanato” l’Italia dall’Europa. La situazione appariva ancor più complicata a causa della presenza alla guida della Commissione di Romano Prodi, che era già stato leader del centrosinistra e che, nel volgere di breve tempo, sarebbe stato considerato come possibile candidato leader dell’opposizione. Anche a lui i più influenti giornali stranieri non riservarono certo una buona stampa. Ma, a differenza di B., le critiche nei confronti di Prodi non vennero amplificate all’interno dei confini nazionali. Si verificò, a questo punto, una singolare scissione. Mentre B. aumentava la sua influenza all’interno del PPE e i partner comunitari ritennero di accettare il nuovo governo italiano come un ovvio interlocutore, in influenti ambienti comunitari, in particolare nel Parlamento europeo, nonché in quei settori dei media europei più sensibili al processo d’integrazione, si cominciò a considerare l’Italia come una sorta di “sorvegliato speciale”. Fu probabilmente anche in considerazione di tale legittimazione “a geometria variabile” (v. Europa “a geometria variabile”) che nel secondo governo B. alla guida del ministero degli Affari esteri venne indicato l’indipendente Renato Ruggiero, esperto di questioni comunitarie, uomo vicino a influenti ambienti economici torinesi, noto e stimato a Bruxelles fin dai primi anni ’70 quando era stato capo di gabinetto dell’allora presidente della Commissione europea, Franco Maria Malfatti. Nel giro di pochi mesi, tuttavia, nel governo si manifestarono linee contrastanti e contrarie al ministro degli Esteri e proprio sulla politica europea vennero prese decisioni che resero evidente la volontà di alcuni ministri del secondo governo B. di far valere in Europa, con maggiore assertività di quanto fosse stato fatto in passato, gli interessi nazionali dell’Italia. In particolare, su iniziativa dell’allora ministro della Difesa Antonio Martino e con la manifesta contrarietà di Ruggiero, l’Italia uscì dal consorzio Airbus per la costruzione di un unico aereo militare da trasporto per tutte le forze armate dell’Unione. Poco dopo, invece, l’Italia si oppose all’istituzione del cosiddetto “mandato d’arresto europeo”, un’iniziativa da molti considerata come funzionale alla creazione di uno spazio giuridico europeo ma che, d’altro canto, metteva a repentaglio garanzie di rango costituzionale in un ambito quanto mai sensibile, rischiando di affievolire tutele tradizionalmente connesse alla nozione di “Stato di diritto”.

Le divergenze sulla politica europea e le tensioni emerse in seno alla maggioranza indussero Ruggiero a rassegnare le dimissioni nel gennaio 2002. B., che in tutta la vicenda aveva cercato di svolgere un ruolo di mediazione, decise allora di assumere l’interim della Farnesina che sarebbe durato 11 mesi, per dare nuovo impulso alla politica estera italiana in un momento di certo non facile della politica internazionale.

Solo quattro mesi prima c’era stato l’11 settembre, un evento destinato a cambiare la storia della politica internazionale e la sua percezione nel mondo. Con gli attacchi terroristici contro le Torri gemelle e il Pentagono, si infransero nello spazio di un mattino gran parte delle illusioni del decennio precedente circa l’instaurazione di un più equo e pacifico ordine internazionale; si aprì invece una nuova fase caratterizzata dalla cosiddetta “Guerra del terrore” e dai timori di un possibile “scontro di civiltà”. L’attacco subito spinse l’amministrazione Bush jr. a sviluppare una politica estera imperniata sulla lotta al terrorismo e ai cosiddetti “Stati canaglia”, che rivalutava la nozione dell’interesse nazionale, eventualmente anche a fronte delle determinazioni assunte da organismi sovranazionali. Di questa nuova fase la prima espressione fu la guerra contro l’Afghanistan la quale, in ogni caso, trovò l’iniziale sostegno di quasi tutti gli Stati occidentali e dell’Onu. Il governo B. si schierò immediatamente e senza esitazioni a fianco degli Stati Uniti, garantendo l’appoggio politico e militare e aderendo con convinzione alle posizioni dell’amministrazione americana. In questo frangente, B. fu inoltre testimone e propiziatore della nuova intesa strategica Nato-Russia contro il terrorismo internazionale, siglata il 28 maggio 2002 a Pratica di Mare. Sia con George W. Bush che con Vladimir Putin il premier riuscì a instaurare rapporti di collaborazione e di amicizia personale, che gli consentirono di acquisire peso e visibilità in ambito internazionale.

Se in una prima fase il filoatlantismo, che comunque rispondeva alla tradizione della politica estera italiana, non parve creare eccessive difficoltà, perché in apparenza condiviso dai maggiori partner europei, esso si rivelò ben presto, tra il 2002 e il 2003, foriero di significative divergenze, in particolare con la Francia di Jacques Chirac e la Germania di Gerhard Schröder, che si rifiutarono di condividere la strategia del governo americano mirante all’attuazione di una “guerra preventiva” contro l’Iraq di Saddam Hussein. Una volta scoppiata la guerra, Francia e Germania si fecero infatti promotrici di un documento di protesta contro l’intervento militare in Iraq, che ebbe l’effetto di portare in superficie le divisioni interne all’Unione europea, suscitando la reazione di otto paesi, tra cui l’Italia, che, in dissenso, ritennero opportuno esprimere una posizione filoamericana. Divenne chiaro allora – e lo si sarebbe compreso ancora meglio dopo la campagna elettorale congiunta di Chirac e Schröder nel referendum francese per la ratifica della nuova Costituzione europea – che l’asse franco-tedesco, storico motore dell’integrazione, non avrebbe avuto nell’Europa allargata la legittimazione a governare che aveva avuto in passato. L’Italia di B. giocò allora un ruolo determinante nel favorire il tramonto dell’asse franco-tedesco e, per questo, pagò senza dubbio lo scotto di un peggioramento nei rapporti con l’Europa, soprattutto con quella delle istituzioni comunitarie, come emerse con evidenza all’inizio del semestre italiano di presidenza della Unione europea, che si svolse tra il luglio e il dicembre 2003. Incalzato nel giugno 2003, durante il discorso inaugurale del semestre italiano, dagli attacchi e dalle accuse di alcuni membri del Parlamento europeo, il Presidente del Consiglio reagì indirizzando al vicepresidente del gruppo parlamentare socialista Martin Schulz una frase rimasta memorabile:

“Signor Schulz, so che in Italia c’è un produttore che sta montando un film sui campi di concentramento nazisti. La suggerirò per il ruolo di kapò. Lei è perfetto”.

Ancor più emblematico per il clima di tensioni venutasi a creare tra l’Italia di B. e le istituzioni europee fu l’affare Buttiglione, la cui candidatura a commissario alla Giustizia, libertà e sicurezza venne bocciata dal voto della Commissione, dopo che lo stesso Buttiglione, a ciò sollecitato, aveva espresso le sue opinioni etico-religiose sul tema della omosessualità.

Sullo sfondo, intanto, sembrava delinearsi un direttorio a tre con Francia, Germania e Regno Unito attivo sia su temi di politica estera (Iran) che su questioni comunitarie (vertice anglo-franco-tedesco di Gand dell’ottobre 2001 sulla situazione internazionale e il futuro militare dell’Europa, incontro dei tre a Berlino nel febbraio 2004 su vari temi riguardanti l’UE): un direttorio che tuttavia alla fine non riuscì a decollare, come emerse anche durante le trattative per il progetto di trattato costituzionale, evidenziando come un nuovo assetto europeo non potesse nascere attraverso una “revisione” del vecchio asse franco-tedesco che, per di più, declassasse l’Italia.

Dal luglio al dicembre 2003, l’Italia di B. si trovò così a guidare la vita dell’Unione europea in un momento oggettivamente delicatissimo: il primo semestre dopo il conflitto iracheno, quello dell’apertura della conferenza intergovernativa sui risultati della Convenzione europea, l’ultimo prima del nuovo passaggio per il Parlamento europeo che avrebbe allargato il club dell’Unione a dieci nuovi membri (v. Allargamento). Fu questa l’occasione che consentì a B. di rinnovare il tradizionale impegno europeista dell’Italia. In realtà, già in precedenza, grazie agli sforzi profusi durante i lavori della Convenzione europea, l’Italia e i suoi rappresentanti erano riusciti a dare un contributo significativo all’interno di un progetto di trattato costituzionale che, quanto meno nelle intenzioni iniziali annunciate nel Consiglio Europeo di Laeken del dicembre 2001, ambiva a: definire con chiarezza competenze e responsabilità delle istituzioni europee, semplificare l’Europa, renderla più trasparente e democratica, e più coesa, autorevole e incisiva sulla scena internazionale. Se alla fine non fu possibile trovare un accordo entro la fine del semestre di presidenza italiana ciò fu principalmente dovuto alle crescenti difficoltà di coordinamento all’interno dell’Europa a venticinque, ai dissapori tra le cosiddette “vecchia” e “nuova” Europa e all’indisponibilità di alcuni partner europei, tra cui in particolare Germania e Francia, da un lato, e Spagna e Polonia, dall’altro, a rivedere le proprie posizioni al ribasso. Alla fine del semestre B. poté comunque ritenersi soddisfatto per essere riuscito a ridimensionare i tanti giudizi negativi che avevano accompagnato fino a quel momento l’analisi della politica europea italiana e soprattutto per aver ottenuto la concessione da parte degli altri paesi membri affinché il trattato istituivo della Costituzione europea, sia pure in un momento successivo a quello inizialmente previsto, venisse firmato a Roma, in Campidoglio, cosa che puntualmente avvenne il 29 ottobre 2004. Le bocciature referendarie di Francia e Paesi Bassi ne avrebbero d’altra parte interdetto l’entrata in vigore, rivelando peraltro l’importanza della mancanza di una qualche convergenza sul concetto di identità europea nonché sulle origini, le finalità e i principi di riferimento. In particolare, mentre alcuni Stati, tra cui anche l’Italia di B., insieme alla Germania di Angela Merkel e alla Spagna di José María Aznar avevano cercato, invano, di valorizzare anche solo simbolicamente il debito di civiltà che il patrimonio storico e culturale aveva contratto con la tradizione cristiana, altri, e specialmente la Francia, sostennero l’esclusione di riferimenti alle radici cristiane. L’esito di quel dibattito come è noto fu una formula molto generica, in cui non compariva nessun richiamo alle radici giudaico-cristiane d’Europa. Dopo la bocciatura referendaria di Francia e Olanda del 2005 ci sarebbero voluti ancora due anni prima che i 27 riuscissero a raggiungere un compromesso, meno ambizioso ma ragionevolmente ispirato da un notevole grado di realismo politico.

Da questa fase convulsa, B. uscì con una linea di politica estera che segnava una contenuta rottura con il passato rivendicando, per questo, una inedita coerenza che il Presidente del Consiglio espresse con queste parole: «L’Italia non è più il Paese degli opportunismi, della volatilità in politica estera e di difesa, il Paese delle retromarce precipitose» (S. Berlusconi, Iraq, la mia linea, in «Il Foglio», 17 marzo 2005, p. 1). La tragedia di Nassiriya e la reazione che il Paese ebbe in quella tragica occasione giunsero a suggellare un nuovo modo dell’Italia d’esser presente sulla scena internazionale e di assumersi tutte le sue responsabilità.

Il 14 aprile 2008 la coalizione formata da Popolo della libertà, Lega Nord e Movimento per l’autonomia a sostegno della candidatura di B. a Presidente del Consiglio vinceva le elezioni politiche con circa il 47% dei voti, ottenendo un’ampia maggioranza in entrambi i rami del Parlamento. Il successivo 8 maggio, con il giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, B. inaugurava il suo quarto governo.

Il primo consiglio dei Ministri del quarto governo B. si tenne a Napoli dove l’esecutivo si trovò a dover affrontare una nuova emergenza spazzatura nella regione Campania. Una crisi che peraltro aveva caratterizzato buona parte della campagna elettorale e per la soluzione della quale B. si era personalmente impegnato. In quell’occasione il governo varò la costruzione di quattro nuovi inceneritori e l’apertura di dieci nuovi discariche, avviando in questo modo la fine di uno stato di emergenza che si protraeva dal 1994.

Ma le capacità pragmatiche e operative del capo del Governo dovevano ancora essere messe alla prova, cosa che avvenne in modo drammatico con il terremoto dell’Aquila del 6 aprile 2009 che fece più di 300 morti, migliaia di feriti e oltre circa 65.000 sfollati.

L’impegno di B. sul fronte del dopo terremoto fu molto visibile e costante, con numerose visite sui luoghi maggiormente colpiti e l’avvio di una rapida fase di costruzione di new town per accogliere i moltissimi abruzzesi rimasti senza casa, prima dell’arrivo del successivo inverno. Il culmine dell’impegno del governo sul fonte della ricostruzione fu certamente la decisione di spostare il vertice del G8, inizialmente previsto all’Isola della Maddalena, proprio nella città dell’Aquila, dove dall’8 al 10 luglio 2009 convennero le delegazioni degli 8 Grandi, oltre a molti altri leader internazionali a cui il governo italiano aveva esteso l’invito.

Il G8 dell’Aquila era stato preceduto da molte polemiche in particolare per la gestione italiana del vertice, ritenuta improvvisata e poco coerente, al punto che il quotidiano inglese “The Guardian” si spinse ad ipotizzare un accordo per espellere l’Italia dal G8 (http://www.guardian.co.uk/world/2009/jul/06/g8-considers-expelling-italy).

Furono le parole che il neoeletto Barack Obama pronunciò, incontrando nei giorni del vertice il Presidente della Repubblica italiana Giorgio Napolitano, a spazzar via la gran parte delle polemiche: «L’Italia ha mostrato per il G8 una straordinaria leadership», nella preparazione del vertice in Abruzzo.

In realtà la politica estera italiana, con il ritorno di B. al governo, era tornata sotto attenta osservazione sia in USA che in Europa. In particolare, lo speciale rapporto tra B. e Vladimir Putin, da un lato, e quello con il leader libico Muhammar Gheddafi, dall’altro, era guardato con sospetto da molte cancellerie occidentali.

Inquietarono in particolare gli accordi in materia di approvvigionamento energetico che l’Italia stipulava sia con la Russia che con la Libia. Nel primo caso il governo B. decise di sostenere il gasdotto russo Southstream, in cui l’ENI entrava come partner, contro la soluzione europea sponsorizzata dagli USA del gasdotto Nabucco; nel secondo siglava un importante trattato con la Libia che, tra l’altro, avrebbe dovuto garantire e stabilizzare le forniture di gas naturale da quel paese verso l’Italia. Come spiegarono a più riprese sia B. che l’Ad di ENI, Paolo Scaroni, l’Italia era stata ammaestrata dalla crisi energetica dell’inverno 2006, quando i contrasti tra Russia e Ucraina avevano messo a rischio le forniture di gas verso molta parte dei paesi europei, Italia compresa. In questo senso la diversificazione, attraverso Southstream – che serve a bypassare l’Ucraina – e attraverso gli accordi con la Libia, doveva essere letta come coerentemente iscritta nell’interesse nazionale di un paese che, pur essendo la settima potenza industriale del mondo, è quasi interamente dipendente dalle importazioni per il suo fabbisogno energetico. E nello stesso senso, dunque, andava letto anche il rilancio da parte del quarto governo B. di un piano di sviluppo per nuove centrali nucleari in Italia.

A riportare in primo piano le presunte divergenze tra Italia e USA sui rapporti con la Russia e con la Libia furono anche i “cablogrammi” diplomatici rivelati da Wikileaks nell’inverno 2010. In molti di questi dispacci segreti veniva infatti evidenziata la preoccupazione di funzionari e diplomatici americani riguardo agli interessi italiani in quei paesi e alla particolare amicizia di B. con i loro leader. Una lettera dell’ex ambasciatore USA in Italia, Ronald Spogli, al “Corriere della Sera” del 25 febbraio 2010 avrebbe tuttavia contribuito a stemperare le molte polemiche che erano state alimentate da certi giornali vicini al centrosinistra:

«Ci sono state divergenze di opinione su alcune questioni, per lo più riguardanti la Russia, ma non solo. Nel corso degli anni, tuttavia, queste differenze sono state in gran parte superate o sono diventate irrilevanti. Ma nulla di tutto ciò – e tanto meno l’attenzione morbosa dei media su alcuni commenti espliciti contenuti nei cosiddetti cablogrammi segreti – potrà mai mettere in dubbio la stretta alleanza che accomuna l’America e l’Italia, unite nello sforzo di trovare soluzione ai più spinosi problemi del mondo. Per il suo spirito collaborativo, l’America ha un debito di gratitudine nei confronti del premier Silvio Berlusconi» (http://www.corriere.it/esteri/11_febbraio_25/spogli-lettera-grati-all-italia_4545108a-40d6-11e0-a0e9-e3433e14003f.shtml).

Anche durante il suo quarto governo, B. sembra peraltro confermare e rafforzare una tendenza fondamentale delle sue scelte in politica estera: l’aperto sostegno nei confronti di Israele in cui è incluso il diritto dello stato ebraico a garantire la sua propria sicurezza, rispetto alle linee tradizionali della politica mediorientale italiana che mirava ad un ruolo più di mediazione con i paesi arabi. Tale sostegno aveva indotto già in passato l’allora primo ministro Ariel Sharon a definire l’Italia «il miglior alleato di Israele in Europa». Significativo in questo quadro è stato il discorso di B. alla Knesset nel febbraio del 2010 – la prima volta che un Presidente del Consiglio italiano parlava davanti al parlamento israeliano – quando il premier definì «giusta» la reazione israeliana in risposta ai missili di Hamas partiti da Gaza verso Israele e rilanciò l’idea di un ingresso di Israele nell’Unione europea. In quell’occasione il presidente israeliano Shimon Peres rivolse parole di grande apprezzamento a B.: «Non è importante quello che i giornali scrivono, ma quello che gli italiani votano. E votandola, gli italiani hanno dimostrato di avere buon gusto».

Il fatto è che, se si continua a considerare le categorie politiche del Novecento, la politica estera seguita da B. – e in questo quadro la sua posizione nei confronti dell’Europa – appare difficilmente classificabile. Dal 1948 fino alla fine dei partiti storici avvenuta nel 1992, infatti, nel contesto di una sostanziale continuità atlantica, è possibile evidenziare due sensibilità: la prima, che ha come capostipite Alcide De Gasperi, la si potrebbe definire “dell’atlantismo filologico”; e l’altra, che s’inaugura proprio quando lo statista trentino esce di scena, “del revisionismo moderato”, comportando invece una maggiore disponibilità al dialogo diretto con Mosca, una particolare attenzione al mondo arabo al fine di valorizzare la vocazione mediterranea dell’Italia, la sottolineatura delle distanze culturali e geopolitiche tra l’ambito continentale e quello anglosassone. Queste sensibilità, però, hanno smarrito gran parte del loro senso con la fine dell’equilibrio bipolare: basti considerare a proposito come molte delle politiche di apertura nei confronti di Mosca e del mondo arabo perseguite da uomini quali Amintore Fanfani, Giovanni Gronchi, Enrico Mattei, considerate al limite della legittimità in vigenza di Guerra fredda, avrebbero acquisito nel mondo di oggi un differente significato. E lo stesso riferimento all’Europa, dopo gli allargamenti successivi, non può più essere declinato con la coerenza del passato.

In questo mutato contesto, la politica estera di B. appare come una sintesi inedita delle linee che hanno attraversato il periodo repubblicano dal 1948 al 1992: sul tronco di un indiscusso atlantismo, si sono innestate alcune “aperture” revisionistiche verso la Russia e il mondo arabo, coerenti con l’interesse nazionale e in grado di qualificare in modo peculiare la posizione dell’Italia in un ambito europeo ormai privo dei vecchi assi d’orientamento. Questa inedita prospettiva impedisce allo storico giudizi scontati, al di là del segno che ad essi si vorrebbe assegnare. E impone d’attendere che il tempo faccia il suo corso, per far sedimentare il senso effettivo di scelte innovative in un equilibrio mondiale che continua a modificarsi.

Gaetano Quagliariello (2010)


1. Why Berlusconi is unfit to run Italy era stato il titolo di una velenosa copertina dell’Economist alla vigilia delle elezioni politiche del 2001.




Bernard Clappier