Brandt, Willy

B. (Lubecca 1913-Unkel 1992) nasce nell’anno in cui cessa di vivere August Bebel, la grande figura del socialismo tedesco che sarà un punto di riferimento per la sua intera esistenza. All’ombra di Ernst Reuter, mitico sindaco di una Berlino che è una enclave per tre quarti libera nel buio oceano comunista, B. mostra nell’immediato dopoguerra più assonanze con la politica di Konrad Adenauer che con quella del suo partito: è contrario alla Comunità europea di difesa ma è fautore dell’adesione alla Alleanza atlantica. Sindaco dal 1956, nella crisi del 1958 avviata dall’ultimatum di Chruščёv assume una posizione di netto rifiuto del ricatto sovietico: da quel momento è il simbolo di una socialdemocrazia giovane, dinamica. Nel novembre 1959 è fra i sostenitori, nel programma di Godesberg, di un socialismo democratico e non dogmatico, le cui radici sono nel cristianesimo, nell’umanesimo, nella filosofia classica, nel primato del mercato e della concorrenza. Nelle elezioni dell’autunno 1960 B. è il candidato del Sozialdemokratische Partei Deutschlands (SPD). Manifesta una vocazione chiaramente occidentale ma con accenti più nazionali di quelli del vecchio cancelliere. Raccoglie il 36,2% dei suffragi, contro il 45,3% dell’Unione.

B. cerca invano la solidarietà occidentale, che si limita ad una protesta verbale. Incerta ed ambigua anche la risposta del presidente John Fitzgerald Kennedy: essa «alza solo il sipario e rivela che la scena è vuota»: da lì egli comincia a pensare quella che chiama «la politica dei piccoli passi». Il 10 giugno 1963 Kennedy inaugura in un discorso alla American University di Washington una politica che, nelle parole di Arthur Schlesinger, avrebbe ridefinito l’intero atteggiamento americano verso la Guerra fredda. A B. questo appare come “un dono del cielo”. La svolta culmina nella visita a Berlino del presidente americano. Il Muro e la striscia di morte che lo completa rappresentano la continuazione della politica con altri mezzi, un tentativo disperato di guadagnar tempo, nella speranza di costringere o convincere gli abitanti dell’Est a restare. Berlino occidentale è in qualche modo una propaggine di Washington e i cittadini festeggiano i due loro sindaci, Kennedy e B. Kennedy, nel ricordare la Roma antica ed il civis romanus, sta dicendo ai berlinesi di essere cittadini americani e di aver diritto a una pari protezione.

A un convegno nella cittadina di Tutzing, tre settimane dopo, B. così sintetizza la sua futura strategia: il mutamento dello status quo passa attraverso il suo riconoscimento; la riunificazione non sarà un singolo atto, bensì un processo. Potrà realizzarsi solo con il consenso dell’Unione Sovietica. Il “cambiamento attraverso il riavvicinamento” è la proposta del suo addetto stampa Egon Bahr fatta propria da B. Una formula ancora piena di ambiguità delfiche più che di concretezza programmatica. La parità nucleare, l’esistenza del Muro, l’interesse del Cremlino di veder riconosciuto in Occidente, in particolare da americani e tedeschi, il proprio impero esterno delimitano il quadro internazionale.

Nel dicembre 1966 nasce la grande coalizione tra cristianodemocratici, CDU-CSU (Christlich-soziale Unione) e socialisti (SPD, Sozialdemokratische Partei Deutschlands), con Georg Kiesinger cancelliere, B. ministro degli Esteri. La SPD torna al potere per la prima volta dal 1930. B. è il primo ministro degli Esteri socialdemocratico della Seconda repubblica, dopo che Hermann Müller, nel 1920, era stato l’ultimo della prima. Riceve in dono dal partito un orologio che era appartenuto a Bebel e che egli terrà con sé fino alla fine dei suoi giorni. All’assunzione dell’incarico dichiara: «chi ha un senso anche minimo della storia non può non cogliere il cambiamento intervenuto allorché una persona delle mie origini e delle mie convinzioni diviene ministro degli Esteri tedesco» (v. Merseburger, 2002, p. 493). I suoi modelli sono Walther Rathenau e Gustav Stresemann, i due ministri degli Esteri della riconciliazione, rispettivamente con l’Est e con l’Ovest, della Repubblica di Weimar. Non facile è il rapporto con Kiesinger, che indulge in Consiglio dei ministri a dispute anche letterarie e filosofiche con Carlo Schmid, agli antipodi di un B. asciutto ed essenziale. Gli Stati Uniti sono immersi in quel momento nella guerra del Vietnam, cercano la distensione con l’Unione Sovietica ed il sostegno della economia tedesca ad un dollaro debole. B. è uno dei simboli della resistenza nella Guerra fredda. Ma si sottrae ad ogni tentativo di coinvolgimento nel conflitto nel Sudest asiatico: si limita ad offrire una nave ospedale.

La sfida maggiore nasce dalla recessione economica. Incoraggiata anche dal discorso di congedo di Adenauer («l’Unione Sovietica ha raggiunto le file dei popoli che vogliono la pace»), la coalizione pone accenti nuovi soprattutto nella politica estera. Un invito rivolto a Cecoslovacchia e Polonia, al loro «desiderio di vivere entro frontiere sicure, che oggi comprendiamo meglio di ieri»; l’allargamento dei «legami umani, culturali ed economici» con l’altra Germania sono i punti salienti del messaggio iniziale. Nel gennaio 1967 si stabiliscono relazioni diplomatiche con la Romania. Nel febbraio successivo il Patto di Varsavia pone limiti ad un ravvicinamento su basi puramente bilaterali e selettive. Mosca, su sollecitazione di Berlino, condiziona la normalizzazione al previo riconoscimento della Deutsche Demokratische Republik (DDR), una dottrina Ulbricht (v. Ulbricht, Walter) speculare e contraria alla dottrina Hallstein (v. Hallstein, Walter) (Karlsbad, aprile 1967). Si pretende altresì l’accettazione della frontiera Oder-Neisse; la rinuncia alle armi nucleari; la considerazione di Berlino occidentale come entità politica separata; la nullità ex tunc degli accordi di Monaco. Solo con la Iugoslavia vengono riprese normali relazioni.

La coalizione va comunque più avanti nell’assumere quella che i sovietici chiamano “la realtà di Yalta”. Mosca a sua volta risponde positivamente. Si sente più sicura dopo la repressione della primavera di Praga e dopo il fallimento delle riforme interne identificate con il Presidente del Consiglio Kossighin punta a una iniezione di modernità dall’Occidente. Nel contempo è preoccupata per l’ascesa e l’indipendenza della Cina ed una sua possibile intesa con gli Stati Uniti.

Nel dicembre 1966 la Germania entra a far parte del sistema di concertazione nucleare, nel contesto della nuova dottrina della risposta flessibile. Il 14 dicembre 1967 l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) aggiorna la sua dottrina strategica, ricondotta al doppio imperativo dell’equilibrio militare e della riduzione dei rispettivi armamenti (Rapporto Harmel) (v. Harmel, Pierre). B. è uno dei promotori del segnale di Reykyavik, giugno 1968, per una riduzione bilanciata delle forze convenzionali a partire dal luogo di massima contrapposizione, l’Europa centrale.

Al Congresso della SPD a Norimberga (marzo 1968) B. invoca il riconoscimento delle frontiere orientali della Germania e dell’Europa, la loro immodificabilità con la forza. Ancora nel Congresso di Karlsruhe, quattro anni prima, il suo partito aveva reclamato le frontiere del 1937. La novità segna lo spartiacque verso una diversa Ostpolitik e verso la rottura con la CDU. L’elezione a Presidente della Repubblica di Gustav Heinemann, il 5 marzo 1969, anticipa il cambio di coalizione. Heinemann, un uomo dai profondi sentimenti religiosi e dalle forti convinzioni pacifiste, era approdato all’SPD dopo aver militato tra le file della CDU ed essere transitato per un partito proprio. È particolarmente vicino ad una gioventù inquieta. All’inizio del 1969 aumentano i segnali di divaricazione nella coalizione. Nelle elezioni del settembre 1969 la CDU conserva la maggioranza relativa ma l’SPD raggiunge il livello più alto di consensi nella sua storia, il 42,7%.

Il 21 ottobre 1969 B., che giudica il voto come il «segno della definitiva sconfitta di Hitler», diviene il cancelliere di una coalizione social-liberale. Si richiama ai fondatori, al manifesto di Bebel per una «patria della compassione e della giustizia». Il messaggio centrale del suo programma: «osare più democrazia». È avvertibile la sensazione di una “nuova frontiera” secondo un modello kennediano che ha sempre affascinato l’ex sindaco di Berlino. Nel primo rapporto sullo stato della nazione egli afferma che l’onor di patria obbliga «a riconoscere la realtà». E la realtà è quella di due Stati tedeschi, peraltro non estranei l’uno all’altro. L’unità è vista come il recupero di una comune identità prebismarckiana, piuttosto che come ricostruzione della statualità del Secondo Reich.

Alla guerra era seguito in Germania un lento ma sicuro moto di espiazione, imposto dalle potenze occupanti, ma che i tedeschi dell’Est interiorizzano grazie alla tenacia di intellettuali come Heinrich Böll e di politici come Kurt Schumacher e B. I primi passi di Adenauer, invece, erano stati esitanti anche per agevolare la ricostruzione nazionale. Il cammino verso una coscienza di sé e delle proprie colpe non è agevole, la svolta avviene appunto con B. che invoca sin dall’inizio una esplicita assunzione di responsabilità. Sarà, assieme ai movimenti studenteschi del 1968, la premessa di una svolta radicale della Repubblica federale.

Uno dei primi atti di governo è la adesione al trattato di non-proliferazione. Bonn aveva rinunciato al nucleare già nel 1954, ma preferirebbe tenere aperta l’ipotesi di un possesso collettivo europeo e per questo vorrebbe inserire nel negoziato una riserva a futura memoria. B. considera tuttavia la adesione come il passaporto della Ostpolitik, laddove Adenauer aveva definito il Trattato a suo tempo una riedizione del Piano Morgenthau e Strauss lo giudica ora una Versailles di dimensioni planetarie. Il Trattato inaugura una sorta di cartello dei possessori di armamenti nucleari e vuole evitare il trasferimento di segreti e materiali ai non possessori. La partecipazione tedesca al nucleare aveva conosciuto una dura smentita allorché gli americani, dopo la crisi di Cuba, avevano rinunciato ad installare in Germania sistemi missilistici a medio raggio. Successivamente, l’amministrazione guidata da Lyndon Baines Johnson aveva proposto una flotta di sommergibili con a bordo un equipaggio misto dei paesi NATO. Progetto peraltro abbandonato anche per le riserve francesi e britanniche sulla inclusione della Repubblica federale.

La Ostpolitik diviene l’asse costitutivo del governo di B. e del suo ministro degli Esteri, Walter Scheel. La politica di Adenauer, a differenza di quella di Bismarck, non si era retta su una forza autonoma, bensì sulla disponibilità occidentale ad accettare come proprio il conflitto di Bonn con l’Unione Sovietica e a subordinare la strategia della distensione all’unità nazionale. Per B., dopo le crisi di Berlino e di Cuba, l’incubo dell’isolamento non è meno angoscioso di quello delle coalizioni. Nei tre anni del suo governo la Repubblica federale esce dalle trincee della Guerra fredda per divenire l’interlocutore privilegiato dell’URSS in Europa. I trattati con l’Unione Sovietica, la Repubblica Democratica Tedesca, la Polonia saranno l’equivalente di trattati di pace a conclusione della Seconda guerra mondiale.

B. recupera una lezione di Bismarck: mai tagliare i legami con San Pietroburgo. Decide di rendere legittime le conquiste sovietiche della Seconda guerra mondiale, anche perché si rende conto, secondo un’espressione del capogruppo dell’SPD in Parlamento, Herbert Wehner, che si può anche stare su una gamba sola, in questo caso l’ancoraggio occidentale, ma su una gamba sola non si può camminare. L’obiettivo della distensione non è il rovesciamento bensì la lenta trasformazione della condizione che i trattati sanzionano: “revisione attraverso la rassicurazione”. Respinto il bipolarismo ai margini dell’Europa, il centro sarà più libero di convenire, se non un destino comune, almeno una diversa convivenza. Ma per realizzarla sono necessari, all’interno dei due schieramenti, una disciplina meno rigida ed una fiducia reciproca più alta, perché la potenza egemone non sia costretta ogni volta a riaffermare il proprio imperio. Il peso della Repubblica federale deriva dalla collocazione strategica, dalla integrazione con l’Occidente, dalla sua dimensione economica: Bonn impara a salvaguardare il suo peso a Ovest per sfruttarlo a Est. La “primavera di Praga” non modifica il quadro negoziale della distensione: ne ribadisce piuttosto la necessità, evidenziandone nel contempo i limiti.

Le componenti della nuova politica sono: il legame con l’Occidente e in particolare con gli Stati Uniti; il consenso sovietico; la cooperazione economica e commerciale; una stabilità tale da rassicurare i detentori del potere nell’altra Europa; il rinvio degli obiettivi di lungo periodo in favore di modesti più immediati miglioramenti quotidiani. L’Europa di B. è quella che può essere immaginata da Berlino, come quella di Bismarck era stata pensata a partire dalla Prussia e quella di Adenauer muovendo da Colonia. Così, preliminarmente, B. opera tre concessioni. Conferma anche verso Mosca l’impegno alla non proliferazione nucleare che Adenauer aveva assunto solo nei confronti dei partner occidentali; asseconda i negoziati per la convocazione, a partire dal 1972, di una Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE), che avrebbe sanzionato i risultati di Yalta; si rende disponibile a maggiori scambi economici e tecnologici. Nel breve cancellierato di B. i tre interlocutori principali sono Richard Nixon, Georges Pompidou e Leonid Brežnev.

La prima metà degli anni Settanta è caratterizzata dal proposito di Richard Nixon e di Henry Alfred Kissinger di perseguire una Realpolitik su scala globale. L’equilibrio avrebbe potuto essere modificato dalla sola Germania, se avesse deciso di subordinare tutto alla riunificazione. Nixon preferisce assecondarne la Ostpolitik piuttosto che rischiarne un distacco dalla NATO o dall’Unione europea. A Washington non mancano sospetti e incomprensioni. B. non ama Kissinger, che ritiene ragioni secondo le categorie concettuali di Bismarck e di Metternich. Mentre Kissinger diffida delle radici socialiste di B. e della sua volontà di andare troppo in fretta. Nelle memorie il segretario di Stato apprezza «il lungo viaggio del cancelliere dalla resistenza alla conciliazione» ma gli nega la capacità di «dominare quelle stesse forze che egli aveva scatenato»: ha cambiato il corso della storia ma, ad un certo punto di essa, «si è reso irrilevante» (v. Kissinger, 1982, p. 144).

Nei rapporti con la Francia già il ministro degli Esteri della “grande coalizione” aveva potuto confrontarsi con Charles de Gaulle. Questi aveva sempre mostrato considerazione per B., uomo della distensione e quindi vicino alla sua idea di un’Europa dall’Atlantico agli Urali e anche simbolo della resistenza al nazismo. De Gaulle ragiona secondo categorie storiche, usa ad esempio chiamare la DDR “Prussia”. Georges Pompidou ne raccoglie l’eredità: la forza nucleare; l’alleanza franco-tedesca; la non partecipazione al Comando integrato della NATO. Non ne condivide invece l’animosità verso gli Stati Uniti, la immagine di una Francia come egualmente minacciata dalle due superpotenze. B. e Pompidou non sono particolarmente vicini. Pompidou è un banchiere orgoglioso delle sue origini contadine, più antitedesco che antibritannico, esente dalla diffidenza gollista verso la “congiura” anglosassone. Per di più teme una eccessiva crescita della Germania attraverso la Ostpolitik. È una delle ragioni per le quali lascia cadere l’opposizione all’adesione del Regno Unito alla Comunità economica europea, e tuttavia trova in B. un alleato. B. giudica Danimarca e Norvegia, le loro socialdemocrazie a forte vocazione sociale, come pure la tradizione democratica britannica, altrettanti elementi suscettibili di arricchire il progetto dell’unificazione europea. Il primo ministro britannico Edward Heath è a sua volta alla ricerca di nuove vie della pace, attraverso l’integrazione continentale e la distensione con l’Unione Sovietica. Heath aveva viaggiato nella Germania nazista, assistito al processo di Norimberga. In un discorso ai Comuni nel primo dopoguerra aveva invocato una «Germania europea e non di un’Europa tedesca». È consapevole dei limiti dello Stato nazionale: «La sovranità non è qualcosa da depositare nei sotterranei come le riserve di oro per scendervi una volta la settimana a verificare che essa sia ancora lì» (v. Young, 1999 p. 246). B. e Heath rifiutano di seguire le piste battute per molti anni, monotonamente, dai loro predecessori.

Il mandato di B. coincide quasi perfettamente con quelli di Nixon e Pompidou, ma il rapporto personale più cordiale è con Brežnev. Bonn mette da parte le divergenze inconciliabili in favore di un nuovo modus vivendi riassunto nei concetti di distensione, cooperazione e normalizzazione, senza pregiudizio della diversa visione su questioni fondamentali, inclusa quella nazionale. Riconosce la Repubblica Democratica Tedesca e la sua giurisdizione sovrana sul suo territorio, l’autonomia e l’indipendenza dei due Stati negli affari interni ed esterni. Già nella dichiarazione programmatica nell’ottobre 1969 afferma di voler muovere da un geregeltes Nebeneinander a un Miteinander. Il 19 marzo 1970 si reca a Erfurt, nel cuore di quelli che erano stati i luoghi storici della socialdemocrazia, delle sue ricorrenti elaborazioni programmatiche (Eisenach; Gotha; Erfurt) per incontrarvi Willi Stoph, primo ministro della DDR. L’occasione nella quale riceve, sotto le finestre del suo albergo, una spontanea e improvvisata manifestazione di affetto dai cittadini dell’altra Germania è, nelle parole del cancelliere, «l’evento più carico di emozione della mia vita».

Il trattato con l’Unione Sovietica, cinque articoli ed un preambolo, firmato il 12 agosto 1970, crea il quadro di riferimento generale. La concessione più importante è nel riconoscimento della “situazione realmente esistente in Europa” e nel solenne impegno a rispettare l’inviolabilità delle frontiere di tutti gli Stati europei, inclusa quella con la Polonia. I sovietici avrebbero voluto definire le frontiere “immutabili” e non “inviolabili”, aggettivo quest’ultimo che lascia aperta una pacifica riunificazione. Un nuovo scambio di lettere, che richiama quello tra Adenauer e Bulganin nel settembre 1956, impegna la Repubblica federale a lavorare per la pace in un’Europa nella quale «la Germania possa recuperare la propria unità attraverso il libero esercizio della autodeterminazione». Una Risoluzione del Bundestag del maggio 1972 precisa, con il concorso dell’opposizione, che i trattati di Mosca e Varsavia non sostituiscono il trattato di pace. Alla firma del trattato, B. dichiara che venticinque anni dopo la capitolazione del Reich e quindici anni dopo la ripresa delle relazioni diplomatiche è giunto il tempo di dare un nuovo fondamento ai rapporti con i vicini dell’Est: «niente è perduto che non sia già andato perduto a causa del criminale sistema nazionalsocialista»; è giunto il momento di «accettare i risultati della storia».

Il successivo Trattato di Varsavia, il 7 dicembre 1970, altrettanto breve, riconosce in primo luogo la frontiera dal Baltico, a Ovest di Swinemünde, lungo l’Oder e il Neisse, fino al confine con la Cecoslovacchia. Se ne conferma la inviolabilità, come si ribadisce il rispetto della integrità territoriale, presupposto per la normalizzazione delle relazioni bilaterali. La Repubblica federale non avanzerà, neanche in futuro, alcuna rivendicazione. Ma una Germania riunificata sarà chiamata a sottoscrivere un nuovo trattato. Grande è il seguito che accompagna B. a Varsavia, per un evento che segna l’abbandono definitivo della Slesia, della Pomerania della Prussia orientale. B. si inginocchia dinanzi al monumento dei caduti del ghetto, uno dei grandi gesti di riconciliazione del dopoguerra, come la Messa di de Gaulle e Adenauer nella cattedrale di Reims. Dirà poi di aver fatto «sotto il peso della storia più recente ciò che gli uomini fanno allorché vengono meno le parole». Il “Time” lo proclama l’uomo dell’anno, per la terza volta un tedesco, dopo Hitler (1938) e Adenauer (1953). B. riceve anche il Premio Nobel per la pace, dopo Stresemann (1926); Ludwig Quidde (1927), un fautore del disarmo, Karl von Ossietzky (1935), un oppositore del nazismo.

L’accordo su Berlino delle quattro potenze è del 3 settembre 1971, un compromesso non privo di ambiguità, oggetto di controversia negli anni a venire, disciplina l’accesso tra le due Germanie secondo certe condizioni e procedure. Continua il controllo alleato sulla Germania, ma Bonn non è più sola di fronte all’Unione Sovietica e gli abitanti della città sono sottratti al permanente stato di assedio. La ex capitale diviene oggetto di una politica di sicurezza più che di riunificazione, la Repubblica federale rinuncia a eleggervi il proprio Parlamento ed a tenervi sedute del Bundestag e del Bundesrat. Per superare le resistenze dei tedeschi della propria parte, i sovietici sostituiscono nel maggio 1971 Walter Ulbricht con Erich Honecker ai vertici della DDR. Il dibattito nel Bundestag sui Trattati dell’Est, nel marzo 1972, è uno dei momenti più alti della storia parlamentare tedesca, paragonabile al grande confronto oratorio del 1848-49 nella Paulskirche di Francoforte.

Il Trattato fra le due Germanie, invece, è concluso l’8 novembre 1972. Bonn non riconosce il secondo Stato tedesco come straniero e non lo rivendica tuttavia come parte integrante del proprio territorio. La Repubblica federale aiuta l’altra Germania a sopravvivere, nel contempo ne mina la legittimità e tiene aperta la questione nazionale. Abbandona la pretesa di parlare a nome dell’intera Germania, rimane peraltro la posizione giuridica secondo la quale esiste una sola cittadinanza. Quella della DDR è dunque una sovranità ambigua e dimezzata. Tra le due Germanie solo nell’estate del 1974 si procede allo scambio di “Rappresentanze permanenti” presso quelle che vengono definite le «realtà dei rispettivi governi».

Le elezioni del 1972 si svolgono sotto il segno dei trattati ed il governo le trasforma in un plebiscito a proprio favore sulla distensione e sulla pace. L’insieme degli accordi, legati reciprocamente e politicamente, rafforza la posizione di B. A Ovest i tedeschi acquistano maggior peso, a Est più ampio margine di manovra. Il quadro è completo con lo stabilimento di relazioni diplomatiche con Ungheria e Romania e la difficile conclusione di un trattato con la Cecoslovacchia. Il negoziato, dopo la “normalizzazione” imposta da Gustav Husak, è reso più difficile dalla disputa sulla invalidità ex tunc oppure ex nunc degli Accordi di Monaco.

La Ostpolitik si inserisce nel quadro più vasto del processo di Helsinki, che coinvolge le due Europe, le due Germanie, Stati Uniti e Canada. Un piccolo triangolo Bonn-Mosca-Berlino all’interno di un triangolo più grande, Stati Uniti-Unione Sovietica-Repubblica federale, sullo sfondo della fine del sistema finanziario di Bretton Woods. Il processo è conforme alla nuova cultura tedesca del consenso, del negoziato, del multilateralismo. Se il Rapporto Harmel ne è in qualche modo la Bibbia, l’Atto finale di Helsinki ne costituisce il Libro delle preghiere e gli atti successivi una sorta di corpus juris canonico. Kissinger vi aderisce in cambio del negoziato per una riduzione delle forze convenzionali, con una singolare inversione dei ruoli: il segretario di Stato segue i vecchi schemi degli equilibri continentali; gli europei piuttosto lo spirito messianico di Woodrow Wilson e la sua fiducia nella democrazia e nella autodeterminazione.

Per i sovietici Helsinki significa l’unificazione economica dell’Europa attraverso la sua divisione politica. Il compromesso è tra riconoscimento delle frontiere e vantaggi materiali da un lato, diritti umani dall’altro, secondo un nuovo concetto di interdipendenza, anche se le rimostranze sulla libertà sono più spesso respinte da Mosca come interferenze negli affari interni. Da un lato il campo orientale, forte del vantaggio dell’uti possidetis, assiso sulle sue conquiste del 1945, 1956, 1968, come il drago Fafner sul tesoro nibelungico: Ich sitze und besitze. Dall’altro gli europei occidentali che si giovano di una generica protezione americana, come Enea dello scudo di Venere, e combattono con le armi leggere ed appuntite che da secoli sono le loro, restaurando la diplomazia del movimento contro l’immobilismo e il tentativo di fermare la storia, contro i muri visibili e invisibili eretti per impedire il dialogo tra gli uomini. Diviene così possibile lavorare anche sul fronte di un’Europa più larga, che includa i neutrali e crei le condizioni per collaborare meglio con l’Europa comunista e in primo luogo con quella tedesca.

Predicare l’interdipendenza per raggiungere l’indipendenza. La logica è dialettica, riconoscere lo status quo per superarlo. Gli stessi termini per riconciliazione (Ver– oppure Aussöhnung) si caricano di significato emotivo e quasi religioso e in essi l’espiazione (Sühne) ne è parte integrante. L’approccio tedesco nell’altra Europa è più accetto ai leader che non ai dissidenti della loro società civile. Se infatti la prima parte della formula centrale della Ostpolitik (“mutamento attraverso il ravvicinamento”) si dimostra giusta; la seconda, “liberalizzazione attraverso la stabilizzazione”, si rivela illusoria. Le tensioni sociali nei regimi dell’Est derivano dai loro squilibri interni e non dalle pressioni esterne. Se anche la Repubblica federale avesse cessato di concedere automaticamente la propria cittadinanza ai sudditi dell’altra Germania, questo non la avrebbe resa più accettabile. Alla stabilizzazione non seguirà la liberalizzazione. Per di più in alcuni momenti la strategia della Repubblica federale è sembrata come una rinuncia alla libertà: lo dirà Václav Havel alla Fiera del libro di Francoforte del 1989. Il realismo di cui B. parla ripetutamente è apparso in qualche caso vicino al cinismo. Certo B. sa che le rivoluzioni del 1953, del 1956, del 1968 non hanno portato a nulla. Non è, la sua politica, il riflesso del giudizio sui tedeschi nella Montagna incantata di Thomas Mann («amate l’ordine più della libertà, tutta l’Europa lo sa»). Se già Adenauer, nel lasciare il potere nel 1966, aveva detto che «la pazienza è l’arma più forte dei popoli sconfitti», B. ama definirsi un «patriota con responsabilità europee».

La socialdemocrazia tedesca sarà nondimeno posta sul banco degli imputati per la tendenza che avrebbe avuto a condiscendere al di là del necessario, una volta seppellita la lucida intransigenza di Schumacher, per gli sforzi compiuti al fine di assottigliare anche ideologicamente la discordia con i comunisti orientali, per le molte compromissioni cui l’SPD consente al pari di altri socialismi europei. Secondo l’accusa, i compromessi minano sottilmente nei paesi occidentali la attitudine non solo ad appoggiare le resistenze antitotalitarie, ma anche a comprenderle, seguirne l’evoluzione, valutarne le potenzialità. Simili cedimenti avrebbero avuto effetti perversi, non si sarebbero limitati a svalutare le aspirazioni dei popoli in cattività: avrebbero ristretto la libertà stessa nelle acque spesso stagnanti della distensione (v. Ash, 1993, pp. 279-298).

Nel momento del massimo trionfo comincia per B. il declino, percepibile anche nel suo distacco dagli altri due più autorevoli membri dell’SPD, Helmut Schmidt, il superministro dell’Economia, Herbert Wehner, capogruppo al Bundestag. Aumenta la distanza del cancelliere dagli affari interni. Emergono ostacoli nella politica verso l’Est, a cominciare dalla interpretazione dei trattati. Non mancano i contrasti con la sinistra del proprio partito, per le sue reticenze sul Vietnam. Il ravvicinamento con l’Unione Sovietica, culminato del viaggio a Bonn di Brežnev, nel maggio 1973, mostra i suoi limiti. Anche massicce importazioni di tecnologia restano senza effetto in un sistema rigido sino all’immobilismo. Brežnev, inoltre, insiste sui legami bilaterali, mentre B. vorrebbe parlare a nome dell’Europa.

Fuori dall’Europa, B. prosegue la politica di Adenauer per la riconciliazione con Israele. Golda Meir, in occasione della prima visita di un cancelliere, nel giugno 1973, ne esalta il comportamento «nell’ora più buia dell’umanità». Incontra Ben Gurion, che si è ritirato a vivere nel deserto del Negev, profeta più che politico e riscopre, visitando un kibbutz, alcune delle radici del socialismo europeo.

Anche nei confronti degli Stati Uniti B. invoca un ruolo maggiore di quello che Kissinger vorrebbe assegnarli, rivendica “un partenariato emancipato”, una “corresponsabilità globale”. Tensioni affiorano anche perché la Francia, a seguito del boicottaggio arabo, cerca una posizione comune europea che infastidisce Washington. L’ultimo incontro con Nixon, nel settembre 1973, è tra due leader che si apprestano a lasciare la scena. Nel gennaio 1974 la Francia esce dal Serpente monetario della Comunità economica europea perché non in grado di rispettarne le parità, un meccanismo che nel marzo 1972 era stato proposto dai due ministri delle Finanze Schiller e Valéry Giscard d’Estaing.

Lo scandalo Guillaume pone fine al cancellierato di B. Uno dei suoi più stretti collaboratori si rivela una spia della DDR, pericolosa non tanto per i documenti trafugati quanto per la capacità, grazie alla vicinanza personale con il cancelliere, di rivelarne i più segreti giudizi. B. lascia il 5 maggio 1974, in un modo quasi distaccato e con una dignità che fra l’altro colpisce favorevolmente nel confronto con il diverso, quasi contemporaneo abbandono di Nixon.

B., che resta presidente della SPD, diviene anche, a partire dal 1976, presidente della Internazionale socialista di François Mitterrand, Wilson, Olof Palme, Bettino Craxi e Felipe Màrquez González. È orgoglioso dell’appoggio fornito alla nascente democrazia portoghese come aveva fatto con quella spagnola sin dalla stagione della clandestinità. Nel dicembre 1977 assume la Presidenza della Commissione delle Nazioni Unite sui rapporti Nord-Sud, che conclude i lavori nel febbraio 1980. Ma resta senza seguiti la sua principale raccomandazione, vertici periodici ed informali dei principali leader politici dei due emisferi.

La decisione della Repubblica federale, nel quadro dell’Alleanza atlantica, di accettare nel dicembre 1979 lo schieramento degli euromissili sul proprio territorio per riequilibrare la minaccia sovietica degli SS-20, accompagnata da un invito a negoziarne lo smantellamento reciproco, divide B. da Helmut Schmidt, che gli è succeduto come cancelliere. B. inoltre, a differenza di Schmidt, è fautore di un partito che privilegi il rapporto con i giovani e sia sensibile alle istanze dei pacifisti, degli ambientalisti, degli avversari dell’energia nucleare. A partire dal 1987 mantiene solo la Presidenza onoraria della SPD ed in questa veste è partecipe della caduta del muro e della riunificazione, spinge i socialisti a superare le loro molte esitazioni e cautele in un’ora decisiva. Celebra l’evento con le parole di Lincoln: «A house divided in itself cannot stand».

Nonostante la sua immensa popolarità e la sua straordinaria comunicativa, B. resta fino in fondo un uomo segreto, afflitto da ricorrenti, insondabili malinconie, riflesso forse delle tante drammatiche prove racchiuse nella sua vicenda personale e politica. Alla sua morte gli viene riservato un funerale di Stato, come era successo soltanto a Rathenau e a Stresemann, due predecessori ai quali aveva voluto ispirarsi. Il Presidente della Repubblica Richard von Weizsäcker ricorda il gesto di Varsavia che «nessuno si aspettava. Nessuno ha dimenticato. Ha mutato la realtà. Ha indicato ai popoli nuove vie». Il cancelliere Kohl (Kohl, Helmut) definisce B. «l’uomo della riconciliazione sia tra l’Est e l’Ovest che tra il Nord e il Sud». Felipe González porta il saluto del socialismo europeo. Rudolf Augstein scrive su “Der Spiegel” che in precedenza soltanto la morte dell’imperatore Federico III e di Adenauer aveva avuto sui tedeschi un impatto altrettanto grande. Richiesto al momento di lasciare la presidenza del partito, nel 1987, quale fosse stato il motivo ispiratore della sua politica, B. aveva risposto senza esitazione «la libertà». Era stato fedele al testamento di Bebel in favore di una Germania patria della solidarietà e della giustizia. Aveva attraversato per intero il secolo breve dei due massimi totalitarismi e li aveva combattuti entrambi.

Silvio Fagiolo (2010)




Brazauskas, Algirdas Mykolas

B. (Rokiškis 1932) dopo essersi diplomato nel 1951 alla scuola superiore Kaišiadorys, fu ammesso al Politecnico di Kaunas, dove si laureò nel 1956 come ingegnere civile specializzato in opere idro-tecniche.

Ministro dal 1965 al 1967, fu nominato nel 1967 vicepresidente della Commissione di pianificazione statale. Nel 1974 B. conseguì il dottorato in Scienze economiche. Dal 1977 al 1987 fu segretario degli affari economici del Comitato centrale del partito comunista della Lituania.

Nel 1988, in occasione della profonda crisi interna al partito, B. fu eletto primo segretario del Comitato centrale del partito comunista della Lituania. La sua candidatura per quella carica fu sostenuta dal movimento nazionale lituano di liberazione, Sąjūdis. Sotto la sua guida, nel 1989 il Partito comunista della Lituania si staccò dal Partito comunista dell’Unione Sovietica.

Eletto al Parlamento della Lituania, B. fu firmatario dell’Atto di proclamazione dell’indipendenza della Lituania, approvato dal Seimas appena costituitosi l’11 marzo 1990. Nel periodo 1990-1991 fu vice primo ministro nel primo governo della Repubblica di Lituania.

Al Congresso costituente del Partito democratico laburista lituano (Lietuvos demokratinë darbo partija, LDDP) nel dicembre 1990, B. fu eletto segretario del partito e divenne il leader del maggiore partito politico in Lituania. Dal gennaio 2001 è segretario del partito socialdemocratico lituano.

Dopo che l’LDDP vinse le elezioni parlamentari dell’ottobre 1992, B. fu eletto presidente del Seimas della Lituania e divenne vicepresidente del paese. Durante le elezioni presidenziali, che ebbero luogo il 14 febbraio 1993, ricevette il 60% dei voti e fu eletto Presidente della Repubblica di Lituania per cinque anni.

In veste di presidente della Lituania (1993-1997), B. ha partecipato attivamente al processo di Adesione della Lituania all’Unione europea. La maggior parte dei documenti chiave riguardanti l’integrazione del paese nell’UE, quali l’Accordo per il libero mercato (1994), l’Accordo europeo (1995) (v. Accordi europei), la candidatura per l’adesione da parte del governo lituano (1995), furono firmati durante il suo mandato (v. anche Paesi candidati all’adesione).

In un discorso al corpo diplomatico dell’UE, il 19 aprile 1997, egli pose l’accento sulla determinazione della Lituania a indirizzare i propri sforzi verso l’integrazione europea: «La Lituania aspira alla democrazia, alla pace e alla prosperità, i valori di cui in passato siamo stati illecitamente privati per molti decenni. La Lituania vede il suo futuro nella famiglia di Stati uniti, sicuri e prosperi dell’Europa. L’integrazione piena e indivisibile nell’Unione europea costituisce uno dei nostri più importanti obiettivi di politica estera. Crediamo che l’ammissione di nuovi Stati membri sia il primo passo verso l’eliminazione delle principali conseguenze della Seconda guerra mondiale e della Guerra fredda, le quali divisero l’Europa. Si potrebbe affermare che questa sarebbe una cartina di tornasole del vero progresso compiuto dall’Europa rispetto all’unificazione e del primato del pensiero fondato sui valori di una vera civiltà occidentale anziché del puro pragmatismo. Siamo pienamente consapevoli del fatto che la creazione dell’Europa del 21° secolo non sia né una questione di beneficenza né di altruismo. È molto positivo che il Consiglio europeo di Copenaghen abbia stabilito dei criteri precisi in base ai quali ogni Stato sarà valutato. Perfino se ci volessimo distanziare dai problemi legati all’adesione all’UE, quei requisiti sarebbero importanti poiché ci danno la possibilità di giudicare noi stessi in termini di prospettive future» (v. Agenda 2000, 1997, p. 8).

B. fu nominato il 3 luglio 2001 primo ministro della Lituania. Dopo la sua nomina ha dichiarato che «l’obiettivo principale del nuovo Gabinetto sarà quello di continuare sulla via delle riforme fondamentali. Aderire alla NATO e all’Unione europea saranno gli impegni primari di questo governo» (v. Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico).

Come primo ministro, B. supervisionò il lavoro della Commissione governativa per l’integrazione europea (v. anche Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), un organismo di alto livello che coordinava l’adesione della Lituania all’Unione europea.

Durante il periodo di pre-adesione, B. ha rappresentato attivamente la Lituania nelle Istituzioni comunitarie, incontrandosi con i funzionari di Bruxelles per discutere il processo di integrazione e in particolare la chiusura della centrale nucleare di Ignalina chiesta dall’UE. B. compì notevoli sforzi per negoziare le condizioni favorevoli per l’aiuto economico da parte dell’UE a questo processo. Secondo una dichiarazione rilasciata alla stampa, B, ritiene che l’UE «dovrebbe coprire tutti i costi, attingendo da varie fonti e inserendoli sia nel bilancio fino al 2006, sia in quello successivo al 2006. Questo è un problema europeo, non un problema della Lituania» V. (www.ministraspirmininkas.lt).

Fu B. a firmare il Trattato di adesione della Lituania all’UE il 16 aprile 2003 durante il summit di Atene.

In varie occasioni B. ha difeso gli interessi della Lituania nell’Unione europea: ad esempio, affermò che gli altri Stati europei avrebbero dovuto condividere l’onere finanziario affrontato dalla Lituania nel controllo delle nuove frontiere orientali dell’Europa allargata, fornendo inoltre diversi suggerimenti riguardo alla Costituzione europea.

Dopo il referendum del maggio 2003 sull’adesione della Lituania all’Unione europea B., in accordo con i primi ministri della Lettonia e dell’Estonia firmò una dichiarazione in cui invitò i cittadini di quei due paesi a seguire l’esempio della Lituania.

In conclusione, si potrebbe dire che B. abbia svolto un ruolo cruciale nell’assicurare la continuità della politica estera lituana, perseguendo uno degli obiettivi strategici principali del paese, ossia quello di diventare un membro a pieno titolo dell’Unione europea.

Jolanta Stankevičiūtė (2005)




Brentano, Heinrich von

B. (Offenbach 1904-Bonn 1964) nacque da una famiglia di diplomatici, accademici, banchieri e scrittori originaria di Tremezzo, sul Lago di Como e trasferitasi in Germania nel Settecento. L’amore per l’Italia sarà uno dei tratti salienti del ministro degli Esteri di Konrad Adenauer, come il suo carattere cosmopolita, aristocratico, ipersensibile e anche mutevole.

Nella Germania in rovina del dopoguerra la politica riprende dal livello locale. Anche B. inizia tra le file della Christlich-demokratische Union Deutschlands (CDU) nel Parlamento dell’Assia, e sarà uno dei padri della nuova Costituzione tedesca. Eletto al Bundestag nel settembre del 1949, diventa capogruppo della CDU. Adenauer non ha una particolare inclinazione a coinvolgere il Parlamento nelle sue scelte, soprattutto quelle di politica estera, ma è proprio la politica estera il principale campo di interessi di B., che farà parte degli organi parlamentari delle nascenti. Istituzioni comunitarie: della Assemblea del Consiglio d’Europa, al quale la Repubblica federale aderisce nel giugno 1950 e, dal 1952 al 1955, della Assemblea della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA).

Nella scala di valori di B. è profondamente radicato il concetto dell’Occidente cristiano. Una concezione riassunta compiutamente in un discorso tenuto ad Augusta, il 10 luglio 1955, per la celebrazione dei mille anni dalla battaglia di Lechfeld. Il confronto con l’Oriente è tra libertà e dispotismo, sulla base di una identità europea che non si limita al perimetro carolingio. La concomitanza tra minaccia esterna e coscienza europea non è fenomeno occasionale: allorché Ottone I sconfigge gli Ungari, appunto a Lechfeld, l’Europa è assediata, incalzata da nemici pericolosi dal punto di vista militare e totalmente diversi per cultura e religione. L’idea d’Occidente, quindi, come baluardo a difesa di una civiltà a rischio, la Germania come marca di frontiera, le comunità atlantica ed europea come elementi di un unico sistema di valori che ha oggi il suo centro nell’Atlantico, come nel mondo antico lo aveva nel Mediterraneo. B. propugna un liberalismo temperato dal dovere verso il prossimo e dal rifiuto di un materialismo smodato, che pure è un aspetto del trionfante neocapitalismo tedesco. La ispirazione cattolica è visibile nel rilievo conferito alla sussidiarietà (v. anche Principio di sussidiarietà), che entra a far parte della nascente cultura della integrazione (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), anche come risposta alla caduta del mito dello Stato e come prevenzione delle sue ricorrenti tentazioni antiliberali. L’Europa è «saggezza e bellezza greca, rigore romano, forza e fede cristiana» (v. Koch, 2004, p. 43). I maestri di B. sono Joseph de Maistre, Friedrich Carl von Savigny, Paul Claudel, Jacques Maritain.

B. si adopera per l’ingresso della Germania nel Consiglio d’Europa. A Strasburgo è tra coloro che auspicano il salto verso una struttura federale (v. Federalismo) piuttosto che il modello funzionalista (v. Funzionalismo) dell’integrazione per settori. Egli vede nella CECA il passaggio verso traguardi più ambiziosi. Nel dibattito al Bundestag per la ratifica del Trattato, nel gennaio 1952, B. ne esalta i contenuti innovativi, il recupero di sovranità che esso rappresenta per la Repubblica federale.

Nel negoziato per una Comunità politica europea che affianchi la Comunità europea di difesa (CED), B. ha modo di dispiegare tutta la sua vocazione europeista, la sua cultura giuridica, la sua capacità di mediazione: la integrazione europea è per lui, come si esprime in una lettera al cancelliere del 21 ottobre 1961, «l’ossatura della politica estera tedesca». Come capogruppo della CDU contribuisce anche a convincere il Bundestag che la CED non significa il riarmo nel senso tradizionale; tanto meno un ritorno ad ambizioni nazionali finite tragicamente. Nonostante le diffidenze verso la Germania che il Piano Pleven (v. anche Pleven, René) non dissimula, nella struttura delle forze e dei comandi, B. lo considera un ulteriore avanzamento sulla via del recupero della parità con gli altri partner europei. Ma è soprattutto il progetto italiano di una Comunità politica ad impegnarlo particolarmente, dando seguito alla convergenza tra Alcide De Gasperi e Adenauer contenuta in quello che sarà l’articolo 38 della versione finale del Trattato. La Comunità non è preordinata, come vorrebbe B., al coordinamento delle politiche estere dei paesi membri, ma piuttosto alla gestione della cooperazione militare.

B. guida il comitato di redazione dello Statuto. Esso è sottoposto ai ministri a Strasburgo il 10 marzo 1953, dopo un negoziato semestrale. Prevede un Parlamento bicamerale, la prima Camera eletta direttamente, la seconda dai parlamenti nazionali. Un Consiglio esecutivo è affiancato da un Consiglio dei ministri nazionali, che deve rendere compatibili le decisioni dell’organo comunitario con gli interessi dei singoli Stati membri. Il progetto, tuttavia, si rivela troppo ambizioso; una ipotesi federale a meno di dieci anni dalla fine della guerra si spinge troppo avanti per il Parlamento francese, che lo respinge il 30 agosto 1954. Adenauer definisce l’insuccesso la peggiore sconfitta della sua vita politica. B. è tanto più deluso in quanto aveva sperato che lo Statuto della Comunità sarebbe cresciuto fino a divenire una vera e propria Costituzione europea. Mentre per parte francese il ministro degli Esteri Georges Bidault) teme nella nuova costruzione “il mostro tentacolare” che potrebbe imbrigliare la libertà di manovra del suo paese.

Con il recupero della piena sovranità da parte della Repubblica federale, a seguito dei Trattati di Parigi, e con il suo ingresso nell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) e nell’Unione dell’Europa occidentale, Adenauer lascia a B., nel giugno 1955, il ministero degli Esteri. Anche se, in una lettera a lui diretta, ricorda che spetta al cancelliere l’ultima parola nei settori più sensibili della politica estera, le questioni europee, le conferenze internazionali, i rapporti con gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Temi sui quali piena è la consonanza di vedute con il cancelliere nel senso di una priorità dell’integrazione occidentale, della sicurezza euro-atlantica, delle relazioni intertedesche. Ciò non impedisce attriti, incomprensioni, bruschi richiami del vecchio cancelliere che feriscono il più giovane e sensibile ministro.

Gli anni di B. agli Esteri sono quelli della dottrina Hallstein (v. Hallstein, Walter), della crisi di Suez, dei Trattati di Roma, dell’ultimatum di Nikita Chruščëv su Berlino, del ritorno di Charles de Gaulle, del consolidamento della contrapposizione Est-Ovest, della costruzione del muro. L’ordine di priorità del nuovo ministro ricomprende il ravvicinamento franco-tedesco, l’unificazione europea, la leadership americana, il recupero dell’unità nazionale.

La riunificazione, ripete B., non è solo un problema tedesco bensì un interesse paneuropeo: non esiste contraddizione tra essa e l’ancoraggio occidentale. La politica dell’altalena tra Est e Ovest, la tentazione della neutralità, vanno decisamente respinte. La dottrina che porta il nome di Walter Hallstein considera il riconoscimento della Repubblica Democratica Tedesca (RDT) come un “atto inamichevole” che comporta la rottura delle relazioni diplomatiche, corollario di una unica rappresentanza del popolo tedesco, che compete alla sola Repubblica federale e prevede una unica eccezione, l’Unione Sovietica. B. accompagna fra l’altro il cancelliere nel suo primo viaggio a Mosca, nel giugno 1955, che segna anche la ripresa delle relazioni diplomatiche. B. è verso il Cremlino più diffidente del suo cancelliere, è più vicino ai popoli dell’Europa sottomessa, dei quali sente in modo particolare la comune cultura. In nome della dottrina Hallstein, nel 1957 la Repubblica federale rompe le relazioni diplomatiche con la Iugoslavia. Una concezione così rigida verrà abbandonata dai successori. Ma non c’è dubbio che essa, negli anni del potere di Adenauer, abbia impedito ogni riconoscimento della RDT da parte degli altri paesi, ad eccezione di Cuba nel 1963. Quanto alla rinuncia ai territori orientali, essa è ora improponibile, anche se la irreversibilità dello spostamento ad Occidente dei confini della Polonia è sempre più evidente. Ma la rinuncia potrà avvenire, eventualmente, soltanto attraverso concessioni reciproche nel contesto di un assetto definitivo della Germania dopo la riunificazione.

Gli anni di Dwight Eisenhower, 1952-1960, sono anche il periodo, nelle relazioni tra la Germania e gli Stati Uniti, della massima rilevanza strategica del paese. B. appartiene al gruppo dei politici, come Georg Kiesinger, Gerhard Schröder, Eugen Gerstenmaier, Franz Josef Strauß, che si adoperano in favore di una forte comunità euro-atlantica. Allorché cade la CED, sono gli Stati Uniti a far pressione sulla Francia e ad ottenerne il consenso all’ingresso della Germania nella NATO, minacciando un agonizing reappraisal della loro politica europea. B. osserva che «gli Stati europei non sono in grado di resistere alle pressioni sovietiche se non hanno alle loro spalle gli Stati Uniti con tutto il loro peso morale, politico, economico» (v. Baring, 1974, p. 177).

Nella crisi di Suez gli Stati Uniti si schierano contro la Francia e il Regno Unito, condannano un neocolonialismo ormai screditato, ne vedono gli svantaggi nei confronti del mondo arabo ed il pretesto che esso offre per distrarre l’opinione pubblica internazionale dalla repressione sovietica in Ungheria. B. è tra coloro che consigliano al cancelliere, all’inizio di novembre, di non recarsi a Parigi per incontrarvi, come da tempo convenuto, il primo ministro Guy Alcide Mollet, poiché questo potrebbe essere visto come un sostegno alla politica anglofrancese. Nel contrasto fra “atlantici” e “gollisti” che si delinea già in questa crisi e che raggiungerà il suo culmine in occasione del Trattato dell’Eliseo, B. assume una posizione intermedia tra la riconciliazione franco-tedesca e la solidarietà con gli Stati Uniti. Adenauer invece non ha remore a scegliere di volta in volta l’uno o l’altro campo. Si reca comunque a Parigi ed apre una nuova fase delle relazioni bilaterali, ma anche dell’integrazione europea. È in quella circostanza che si manifestano i limiti delle vecchie potenze continentali di fronte ai nuovi equilibri nel mondo. Adenauer lo fa rilevare e indica agli ospiti francesi, come unica, l’alternativa comunitaria.

Lo status della Saar divide Bonn da Parigi. Adenauer crede, come con il riarmo e l’ancoraggio occidentale, di poter accettare compromessi anche indipendentemente dalle preferenze dei suoi cittadini. I quali peraltro respingono, in una consultazione popolare nell’ottobre 1954, una soluzione europea che affida la rappresentanza degli interessi del territorio a una Commissione ad hoc. La maggioranza degli abitanti della Saar si esprime invece, l’anno successivo, in favore del pieno ritorno alla Germania, sanzionato poi in un accordo che B. firma a Lussemburgo il 27 ottobre 1956.

L’integrazione europea, a partire dalla Conferenza di Messina del giugno 1955, conosce un improvviso rilancio. B. è un convinto sostenitore del progetto sovranazionale in materia di mercato comune ed energia nucleare. Il giudizio è tutt’altro che unanime all’interno del governo tedesco. Il ministro dell’Economia Ludwig Erhard (v. Erhard, Ludwig Wilhelm) è piuttosto favorevole a una zona di libero scambio ed invoca la partecipazione inglese. Se alla fine il cancelliere segue la linea di una maggiore integrazione e dell’avvicinamento alla Francia, il merito va anche, in parte, all’opera di persuasione di B. Al Bundestag egli presenta i Trattati di Roma come uno strumento dinamico, premessa di ulteriori avanzamenti sulla via di una sovranità condivisa e di un pieno ritorno della Germania tra le potenze europee. Coglie la straordinaria ricchezza dell’incipit della Comunità economica europea come prima cellula comunitaria in quella sfera che è stata all’origine di tanti conflitti, anche se considera il risultato come “insoddisfacente”, se raffrontato al traguardo, mancato, di una comunità europea di difesa. Al momento di lasciare gli Esteri, nel novembre 1961, dirà che «la grande opera dell’unificazione europea non è ancora completa, ma esistono le fondamenta sulle quali è possibile continuare a costruire» (v. Brentano, 1962, p. 40). La graduale instaurazione di un mercato comune risponde al vero problema del secolo, alla difficoltà della vecchia Europa di reagire alla internazionalizzazione dell’economia se non in chiave nazionalista, allo scarto tra le prerogative dello Stato e la interdipendenza crescente della società globale. Nella politica europea B. torna più volte sulla grande consonanza con l’Italia, il suo paese preferito. Di Alcide De Gasperi aveva già detto, in una allocuzione alla radio italiana il 4 aprile 1951, che «attraverso la sua politica saggia, coerente, affidabile, l’Italia ha recuperato il posto che le spetta nella comunità delle nazioni»; l’Italia e la Germania «si rivelano compagni di viaggio sul nuovo cammino verso l’Europa». Gli scambi di visite di Stato del 1956, 1957, 1958 ne sono la riprova. Nell’ultima occasione il presidente Theodor Heuss e B. si recano alle Fosse Ardeatine, un gesto che rimuove ogni possibile residua ombra nel giudizio sulla storia più recente. Nello stesso spirito, quarantacinque anni dopo, i presidenti dei due paesi, Carlo Azeglio Ciampi e Johannes Rau, visiteranno insieme, per la prima volta, Marzabotto. B. si preoccupa sempre di inserire il dialogo franco-tedesco nel più vasto quadro europeo: lo ribadisce, in modo eloquente, in un discorso a Roma il 23 gennaio 1960, dove viene al seguito del cancelliere.

Nel novembre 1958 Chruščëv minaccia di fare di Berlino una città libera e di lasciare alla RDT il controllo dell’accesso alla ex capitale. Si apre una crisi che durerà sino alla costruzione del Muro. Eisenhower sembra voler mettere da parte le esigenze di Bonn che intralciano il ravvicinamento tra le due superpotenze. Le ragioni del disarmo, sostenute anche dalla Gran Bretagna di Harold Macmillan, rischiano di far passare in secondo piano la questione tedesca. In Adenauer c’è sempre, a differenza di B., anche per la diversità di generazione, una residua diffidenza circa la volontà degli americani di impegnarsi in Europa, anche se il suo rapporto con il segretario di Stato John Foster Dulles è di grande, reciproca fiducia. Ma in occasione della crisi di Berlino è lo stesso Foster Dulles a raccomandare un atteggiamento pragmatico e flessibile, subito ripreso dal suo successore, Christian Herter. Di qui nasce un certo estraniamento del cancelliere nei confronti degli Stati Uniti, che coincide con il ritorno sulla scena di de Gaulle. A B. la diffidenza di Adenauer sembra eccessiva, fuori posto i dubbi sulla solidità dell’alleanza transatlantica. A Camp David, nel settembre 1959, Chruščëv e Eisenhower decidono tuttavia che occorre continuare il dialogo e la crisi di Berlino supera la fase più acuta.

Anche verso John F. Kennedy, al potere dal gennaio 1961, Adenauer nutre una forte diffidenza iniziale. Adenauer e B. si recano in visita a Washington, nel gennaio del 1961, e ne tornano rassicurati. Il cancelliere afferma pubblicamente che secondo il nuovo presidente la Germania rimane una potenza alla quale spetta di essere partecipe di tutte le decisioni essenziali in campo internazionale. Alla costruzione del Muro, il 13 agosto 1961, gli Stati Uniti reagiscono con una cautela che B. giudica un errore. Sono i suoi ultimi mesi nell’Auswärtiges Amt ed egli invoca misure forti, ad esempio sanzioni contro la RDT. È chiaro che gli Stati Uniti intendono garantire l’accesso a Berlino Ovest, ma non possono far nulla per la libertà dell’altra parte della città. È improbabile che una diversa politica, che B. continuerà a sostenere fino alla fine dei suoi giorni, avrebbe dato risultati migliori: «a wall is a hell a lot better than a war» afferma il presidente americano (v. Dallek, 2003). Ciò non può non indurre la leadership tedesca alla riflessione su una diversa strategia, che sarà portata avanti da una diversa coalizione.

Alle elezioni del settembre 1961 la CDU-CSU (Christlich-soziale Union) perde la maggioranza assoluta. È necessaria una alleanza con i liberali, che invocano una alternativa al potere autoritario del cancelliere. I socialdemocratici, a loro volta, dal 1959 hanno adeguato a Godesberg le loro linee programmatiche e proclamato il loro ancoraggio occidentale a partire da un famoso discorso di Herbert Wehner al Bundestag, nel giugno 1960. B. molto dignitosamente rimette il suo mandato e torna ad essere capogruppo della CDU al Bundestag. In questa veste partecipa al confronto sul Trattato dell’Eliseo, del gennaio 1963. Esso segna per il vecchio cancelliere ormai al tramonto quel ravvicinamento alla Francia, a detrimento del rapporto con gli Stati Uniti, che era venuto maturando con la crisi di Berlino. Agli americani il trattato franco-tedesco sembra porre una alternativa tra le solidarietà europea e transatlantica. De Gaulle, qualche giorno prima della sua conclusione, aveva respinto l’adesione della Gran Bretagna alla Comunità economica europea; aveva insistito per la creazione di una forza nucleare propria, rifiutando altresì la partecipazione ad un progetto di forza multilaterale. È in questa circostanza che si manifesta la spaccatura tra atlantici e gollisti. B. afferma che «occorre fare di tutto per dissipare la falsa impressione che si crei una alleanza franco-tedesca in antitesi ad una politica europea comune e a una politica transatlantica» (v. Garnieri, 2003, p. 167) È B. uno dei redattori del preambolo del Trattato che ne consente infine l’approvazione al Bundestag, il 16 maggio 1963. Soltanto molti anni dopo, in occasione della caduta del Muro, sarebbe stato possibile cogliere per intero il peso insostituibile della solidarietà americana nella riunificazione del paese.

Silvio Fagiolo (2010)




Brittan, Leon

B. (Londra 1939), proveniente da una famiglia lituana di origine ebraica, dopo aver frequentato la Haberdashers’ Aske’s Boys’ School, Leon Brittan si iscrisse al Trinity College dell’Università di Cambridge, dove divenne presidente della Cambridge union society nel 1960, e dove ottenne un master nel 1961.

Il periodo universitario non fu importante solo per la sua crescita culturale e per la sua formazione professionale, ma anche per la definizione di un suo specifico profilo politico e ideologico. In particolare, durante questa fase, B. cominciò a maturare una spiccata propensione verso gli ambienti, i temi e le posizioni della corrente di destra del Partito conservatore e, parallelamente, una prudente ma effettiva e originale attenzione verso gli argomenti e le argomentazioni dell’europeismo britannico.

Pur senza sviluppare una riflessione organica sui rapporti tra crisi britannica e processo di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), tra mutamenti delle gerarchie internazionali e fenomeni di regionalismo continentale, tra cultura conservatrice e politiche comunitarie, B. iniziò a percepire come la Comunità economica europea stesse diventando un fondamentale strumento per gli interessi economici della Gran Bretagna (v. Regno Unito), salvaguardando nel contempo le concezioni politiche del Partito conservatore. In definitiva, nonostante i sovvenzionamenti alla Politica agricola comune e i protezionismi della Tariffa esterna comune, la Comunità economica europea poteva rappresentare un efficace baluardo anticomunista e una grande Unione doganale, in cui le libertà di impresa e di commercio sarebbero state costituzionalmente promosse e assicurate, e in cui la centralità del rapporto britannico con gli Stati Uniti avrebbe potuto essere pienamente tutelata.

Con questo spirito, B. contribuì alla creazione della Alcuin Society, una associazione mirata a stimolare incontri, dibattiti e convegni su questioni europee e, in particolare, a sostenere la partecipazione britannica alle Comunità europee.

Nel 1962, dopo aver completato il proprio percorso formativo come Henry Fellow presso l’Università di Yale negli Stati Uniti, B. chiese e ottenne di essere ammesso all’esercizio della professione legale all’Inner Temple.

L’attività forense non spense però le sue ambizioni e i suoi interessi politici. Dopo aver inutilmente tentato di conquistare un seggio parlamentare nella circoscrizione elettorale di North Kensington per ben due tornate elettorali consecutive, nel 1966 e nel 1970, B. riuscì infine a accedere alla Camera dei Comuni grazie alla vittoria nella circoscrizione di Cleveland e Whitby in occasione delle elezioni del 1974.

Durante la sua prima legislatura, B. si orientò prevalentemente verso i problemi del mercato del lavoro e degli assetti istituzionali britannici.

Tuttavia, non cessò di prendere parte attiva al dibattito pubblico sull’opportunità, sulle modalità e sugli obiettivi della presenza britannica nelle Comunità europee. Nella visione di Leon B., la scelta europea, seppure subordinata alla speciale relazione con gli Stati Uniti, rappresentava una delle principali opzioni strategiche per rafforzare il grado di influenza politica, stabilità economica e penetrazione commerciale e finanziaria della Gran Bretagna. In linea con questa convinzione, dopo aver costantemente sostenuto la necessità per la Gran Bretagna di aderire alle Comunità europee, scelse di schierarsi su posizioni moderatamente filoeuropeiste sia durante la campagna referendaria sulla prosecuzione della partecipazione britannica alle Comunità europee condotta nel corso del 1975, sia durante le discussioni sull’eventuale adesione della sterlina britannica al Sistema monetario europeo sorte nel corso del 1978.

In questa fase, pur rimanendo sostanzialmente ai margini della ristretta élite del Partito conservatore, ebbe per la prima volta l’opportunità di ricoprire importanti incarichi parlamentari. Oltre a ricevere il titolo onorifico di Queen’s Counsel, svolse infatti i compiti di vicepresidente della commissione parlamentare per l’occupazione tra il 1974 e il 1976, di portavoce dell’opposizione per il decentramento e le questioni della Camera dei Comuni tra il 1976 e il 1978, e di portavoce dell’opposizione per il decentramento e l’occupazione nel 1978.

La vera svolta nella carriera politica di B. coincise però con il ritorno al governo del Partito conservatore guidato da Margaret Thatcher. In seguito alla vittoria dei conservatori alle elezioni generali del 1979, B. sperimentò infatti una rapida, travolgente e, per certi aspetti imprevedibile, ascesa.

Improvvisamente, la sua lunga militanza nella corrente di destra del Partito conservatore, e la sua profonda vicinanza alle idee e alla personalità politica del primo ministro, fecero di B. una delle figure chiave della rivoluzione conservatrice voluta dalla Thatcher.

Tra il 1979 e il 1981 ottenne e svolse il ruolo di ministro di Stato presso il ministero degli Interni. Nel 1981 venne nominato membro del Consiglio privato della regina. Tra il 1981 e il 1983 entrò infine nel gabinetto britannico in veste di primo segretario al Tesoro, beneficiando in questo modo del primo rimpasto governativo con cui la Thatcher cominciò a promuovere alle massime cariche dell’esecutivo britannico giovani e promettenti esponenti della corrente ultraconservatrice del partito.

Pur senza stravolgere la pluralità ideologica e gli equilibri politici interni al Partito conservatore, la nomina di B., insieme alla nomina di John Nott, preannunciava la volontà di ridefinire in senso maggiormente conservatore il profilo della composizione e dell’azione del governo britannico.

La strategia della Thatcher si consolidò ulteriormente dopo la vittoria del Partito conservatore alle elezioni generali del 1983. I fedelissimi del primo ministro, tra cui spiccavano Nigel Lawson, Norman Tebbit e lo stesso B., assunsero infatti la responsabilità dei principali dicasteri. In questo modo, la Thatcher si assicurava una compagine governativa ideologicamente omogenea, e politicamente riconoscente. Gli uomini nuovi del nuovo corso conservatore erano pronti a accompagnare con disciplina e lealtà le posizioni e le iniziative del primo ministro.

Nel quadro di questa operazione, B., dopo aver conquistato un seggio parlamentare nella circoscrizione di Richmond, venne chiamato a ricoprire le importanti cariche di segretario agli Interni, tra il 1983 e il 1985, e di segretario al Commercio e all’Industria, tra il 1985 e il 1986.

Tuttavia, la sua carriera politica conobbe a questo punto una brusca, seppure temporanea, battuta d’arresto. Nel 1986 B. venne infatti coinvolto nello scandalo seguito al maldestro tentativo di salvataggio della compagnia britannica Westland Helicopters compiuto dal governo della Thatcher. La contrapposizione tra il segretario alla Difesa Michael Heseltine, che propendeva per un rapporto con un consorzio europeo, e lo stesso segretario al Commercio e all’Industria B. che, con il tacito sostegno del primo ministro, parteggiava per una compagnia statunitense, portò alle dimissioni di entrambi i ministri e, soprattutto, all’emersione di una profonda linea di frattura all’interno del Partito conservatore.

Oltre all’insofferenza verso i presunti metodi autoritari della Thatcher, la presa di posizione di Heseltine palesava infatti un duro confronto tra una visione genuinamente filoeuropeista e una visione tradizionalmente filostatunitense che convivevano sia nel governo sia nella maggioranza conservatrice. In particolare, nonostante il proprio parziale smarcamento rispetto alle posizioni più euroscettiche (v. Euroscetticismo) del primo ministro e dei suoi principali collaboratori, B. continuava a vedere la scelta comunitaria della Gran Bretagna come necessaria ma secondaria rispetto ai rapporti preferenziali con gli Stati Uniti.

La quarantena politica di B. fu però breve. I suoi stretti rapporti con il primo ministro, la sua provata fede nei principi del libero mercato e del libero commercio e il suo costante impegno sui temi europei disegnarono una nuova fase della sua carriera.

Dopo un periodo in cui si era dedicato prevalentemente all’attività accademica, nel 1989 B. venne prescelto dal governo conservatore come uno dei due rappresentati britannici nella Commissione europea presieduta da Jacques Delors. Nonostante il suo moderato europeismo, dal punto di vista di Margaret Thatcher, B. offriva più garanzie, sia in termini di fedeltà politica e personale sia in termini di attenzione agli interessi britannici, rispetto al predecessore Lord Francis Arthur Cockfield. Per questo motivo Cockfield venne rimosso e B., dopo aver lasciato il proprio seggio parlamentare, venne chiamato a prenderne il posto in qualità di vicepresidente della Commissione europea.

La sua prima esperienza comunitaria, durata dal 1989 al 1993, coincise con l’attribuzione della delega alla concorrenza e alle istituzioni finanziarie.

In questo ruolo, B. si attirò le critiche dei principali governi europei, che lo accusarono di voler avvantaggiare gli ambienti finanziari britannici attraverso l’adozione di apposite riforme bancarie e assicurative, ma seppe anche guadagnarsi rispetto e stima nei circoli comunitari per l’intransigenza con cui si oppose ai comportamenti oligopolistici e monopolistici di imprese private e, soprattutto, ai sussidi che gli Stati membri continuavano a concedere ai propri campioni nazionali. Se da una parte fece approvare un importante regolamento sulle fusioni di impresa, e una nuova task force incaricata di vigilare sulla sua adozione, dall’altra bloccò l’acquisizione della compagnia canadese De Havilland da parte di due compagnie aerospaziali europee. Se da una parte avviò un intenso processo di liberalizzazioni in settori chiave dell’economia europea, dall’altra colpì duramente gli aiuti garantiti dal governo tedesco alla propria industria carbonifera e le sovvenzioni offerte dal governo francese alla compagnia automobilistica Renault.

Il suo attivismo e la sua determinazione contribuirono a far crescere il suo prestigio e la sua influenza mentre, in modo apparentemente paradossale, la definitiva uscita della Thatcher dalla scena politica britannica rafforzava la sua posizione, accentuando la percezione e i margini della sua autonomia.

Nel 1993, B. venne nuovamente nominato membro dell’ultima Commissione europea presieduta da Delors, perdendone temporaneamente la vicepresidenza, ma assumendovi la responsabilità chiave degli affari economici esterni e della politica commerciale.

Nel 1995, dopo che il suo nome era circolato persino come possibile candidato alla successione di Delors, B. venne infine confermato nella Commissione europea presieduta da Jacques Santer. Oltre a mantenere la delega alle relazioni esterne, alla Politica commerciale comune e alle relazioni con l’Organizzazione europea per la cooperazione economica e l’Organizzazione mondiale del commercio, recuperò in questa fase anche la carica di vicepresidente, insieme al socialista spagnolo Manuel Marin (Manuel Marin, Gonzalez).

Durante la sua seconda esperienza comunitaria, B. si impose come uno dei più autorevoli e controversi personaggi nella storia della Commissione europea. Criticato sia dagli ambienti conservatori e euroscettici britannici sia dai settori progressisti e filoeuropeisti continentali, B. fu semplicemente l’interprete più originale e più autentico di un nuovo thatcherismo che guardava con interesse e favore ai nuovi sviluppi comunitari, che rompeva con l’ortodossia euroscettica ma non con lo spirito profondo del conservatorismo thatcheriano.

La realizzazione di una Comunità economica europea, le liberalizzazioni dei settori e delle industrie di Stato, i processi di Allargamento, l’apertura al liberismo negli scambi commerciali internazionali, la creazione di una moneta unica (v. Unione economica e monetaria) e i conseguenti vincoli sui bilanci nazionali costituivano i segnali di una Unione europea sempre più compatibile rispetto alla visione politica dei conservatori britannici. Secondo B. la dimensione comunitaria non rappresentava un ostacolo, quanto piuttosto un terreno privilegiato e una nuova necessaria fase di espansione della rivoluzione conservatrice. Il thatcherismo in un paese solo avrebbe fallito così come aveva fallito il comunismo russo in Unione Sovietica, e il socialismo di François Mitterrand in Francia. Allo stesso tempo, una Unione europea incapace di garantire piena libertà alle proprie imprese e ai propri mercati avrebbe perso la sfida globale e, in definitiva, la propria stessa possibilità e ragione di esistere. La Gran Bretagna non doveva frenare ma guidare il processo di integrazione europea, così come l’Unione europea non doveva frenare ma accelerare sulla strada delle riforme thatcheriane della politica, della società e dell’economia.

Coerentemente con questa impostazione, B. mise in atto una serie di iniziative che divise le opinioni pubbliche, e gli stessi governi europei. Tra il 1993 e il 1994 riuscì a chiudere con successo la fase finale dei negoziati dell’Uruguay Round lanciati a Punta del Este nel 1986. Successivamente, si impegnò a chiudere il cerchio delle liberalizzazioni commerciali, affrontando i capitoli rimasti fuori dai primi accordi.

In particolare, se tra il 1995 e il 1997 riuscì a far approvare un primo Accordo generale sul commercio dei servizi nel quadro dell’Organizzazione mondiale del commercio, tra il 1996 e il 1998 tentò di inserire all’interno dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico un Accordo multilaterale sugli investimenti. Dovette cedere solo di fronte alle proteste delle organizzazioni non governative e, soprattutto, davanti alla contrarietà del governo di Parigi, preoccupato dai riflessi sui diritti sociali dei lavoratori francesi e sulle politiche culturali nazionali.

Il fallimento di questo esperimento non portò B. a desistere dal suo disegno. Abbandonata la via dei negoziati settoriali, e accantonato il quadro dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, puntò infatti con decisione sul più promettente strumento dei negoziati generali condotti all’interno dell’Organizzazione mondiale del commercio. In linea con questa scelta, B. si fece promotore di un nuovo Millennium Round che avrebbe dovuto liberalizzare in un solo colpo le regole e gli scambi internazionali in tema di prodotti agricoli e industriali, di servizi, di appalti pubblici, di proprietà industriale e intellettuale e di investimenti. Ancora una volta, le proteste di un nuovo movimento sorto in contrapposizione ai disequilibri e alle iniquità della nuova globalizzazione, le critiche di gruppi consistenti di paesi in via di sviluppo e gli stessi contrasti emersi tra Stati Uniti e Unione europea fecero registrare una sostanziale sconfitta delle tesi e degli obiettivi di B. Con la conferenza di Seattle del 1999 sembrava infatti interrompersi il lungo ciclo di liberalizzazioni economiche, commerciali e finanziarie propugnate dai principali gruppi economici europei, e appoggiate dallo stesso commissario.

Parallelamente ai negoziati multilaterali, nel 1998 B. promosse infine il tentativo di realizzare un accordo commerciale bilaterale con gli Stati Uniti. Recuperando un progetto di Area transatlantica di libero scambio lanciato nel 1995 dal ministro degli Affari esteri tedesco Klaus Kinkel e dal segretario agli Affari esteri britannico Malcolm Rifkind, B. propose infatti un Nuovo mercato transatlantico che avrebbe dovuto rafforzare sia i legami economici sia i legami politici tra le due sponde dell’Oceano Atlantico. La proposta cadde sotto il peso di divergenti interessi commerciali e dei timori per un annacquamento dell’Unione europea in una zona di libero scambio con gli Stati Uniti.

Le dimissioni collettive a cui fu costretta la Commissione europea presieduta da Jacques Santer nel 1999 ebbero come conseguenza la definitiva uscita di B. dalla scena politica comunitaria. Nonostante i parziali fallimenti della sua azione, B. lasciava come eredità un orientamento complessivamente più favorevole alle liberalizzazioni dei settori pubblici europei e degli scambi internazionali, e una maggiore sensibilità delle burocrazie comunitarie rispetto alle istanze e alle esigenze dei grandi poteri economici e finanziari.

Le competenze che aveva acquisito, e i rapporti che aveva saputo costruire, gli permisero di essere presto nominato vicepresidente della banca per gli investimenti USB Walburg, consulente sui temi dell’Organizzazione mondiale per il commercio presso lo studio legale Herbert Smith, consigliere d’amministrazione della Unilever e, infine, presidente del Comitato dei servizi finanziari internazionali Lotis. In queste vesti, si trasformò presto da commissario europeo a rappresentante degli interessi economici e finanziari privati presso la Commissione europea. L’assunzione di queste cariche attirò su B. il sospetto di un’eccessiva contiguità rispetto ai gruppi di interesse, e gettarono un’ombra sull’effettiva indipendenza della sua stessa attività come commissario europeo.

Dopo essere stato nominato cavaliere nel 1989, B. venne insignito del titolo di barone, come Lord B. di Spennithorne della contea del North Yorkshire, nel 2000.

Simone Paoli (2008)




Bronisław Geremek




Brown, George

B. (Londra 1914-Truro 1985), uomo politico britannico, vice leader del Partito laburista (1960-1970) vice primo ministro (1964-1968) e ministro degli Esteri (1966-1968) svolse un ruolo importante negli anni Cinquanta e Sessanta nel determinare l’orientamento del Regno Unito e soprattutto del Partito laburista verso l’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, Metodo della) e la Comunità economica europea. Il suo impegno a favore della partecipazione britannica si sviluppò originariamente quando era delegato all’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa. In seguito avrebbe sostenuto la causa dell’ingresso britannico nella CE principalmente per motivi politici. Sarebbe corretto descriverlo come un federalista (v. Federalismo), sebbene lui stesso non si sarebbe definito tale.

B. divenne vice leader del Partito laburista in un momento in cui all’interno del partito vi erano profonde divisioni tra fazioni di sinistra e di destra. Hugh Gaitskell, leader a partire dal 1955, era ampiamente sostenuto dai maggiori sindacati, ma duramente contestato dalla sinistra, in particolare riguardo alla proprietà pubblica e alle armi nucleari. A partire dal 1960, Gaitskell aveva vinto su entrambe le questioni e il partito attendeva con impazienza le elezioni successive sperando di porre fine a un decennio di governo conservatore. La questione dell’ingresso britannico nella Comunità economica europea fece temere un’ulteriore divisione, soprattutto dopo la decisione del governo di perseguire tale obiettivo. Nel 1962, prima della conferenza annuale del Partito laburista, il Comitato esecutivo nazionale presentò un documento equilibrato che illustrava gli argomenti pro e contro l’ingresso. Gaitskell aprì il dibattito con un discorso convincente, nel quale sottolineava le implicazioni negative dell’Adesione. Egli prevedeva un’Europa federale, la fine della Gran Bretagna come Stato indipendente e del Commonwealth britannico e, cosa ancora più toccante, di un millennio di storia.

Il suo discorso venne accolto calorosamente da una platea focalizzata sull’unità del partito. Toccò a B. chiudere il dibattito, presentare formalmente il documento del Comitato esecutivo per la sua approvazione e soprattutto cercare di far retrocedere il partito da qualsiasi posizione dichiaratamente antieuropeista. Molto più tardi egli avrebbe scritto che quel discorso preparato in modo affrettato «deve essere stato uno dei peggiori [che egli] avesse mai fatto». Tuttavia, per coloro che lo ascoltarono e che conoscevano i retroscena, fu uno dei discorsi politici più coraggiosi. Pur riconoscendo i problemi, B. sottolineò che la Gran Bretagna era ed era sempre stata parte del continente e che l’adesione alla CEE era un obiettivo logico per «un partito internazionalista di vedute internazionali».

Dopo la morte di Gaitskell, Harold Wilson divenne dapprima leader e dopo le elezioni del 1964 primo ministro. Nelle vesti di suo vice, B. cercò costantemente di spingere sia il primo ministro che l’intero governo verso una direzione europeista. Già nel 1967, Wilson e B. visitarono le capitali dei sei Stati membri della CEE per valutare il possibile sostegno a una nuova candidatura britannica all’adesione. Ancor prima di quell’appuntamento, B. ebbe un incontro privato con il presidente Charles de Gaulle per tastare il terreno e trovare il modo di aggirare la sua opposizione all’adesione britannica.

Dopo aver abbandonato l’incarico governativo, B. venne coinvolto in un’altra importante iniziativa britannica conseguente a una riunione di Federal Trust, per la quale John Pinder aveva preparato un importante documento in cui auspicava una politica europea più radicale. Il piano era di aggirare l’opposizione di de Gaulle attraverso la proposta di una Comunità politica europea che a tempo debito si sarebbe fusa con la Comunità europea. B. si recò in visita nelle capitali europee insieme a federalisti britannici di spicco per esplorare le varie possibilità. Ci furono riunioni molto importanti a Roma (un vero e proprio incontro di grandi personalità) con Altiero Spinelli e Pietro Nenni, che di lì a poco sarebbe diventato ministro degli Esteri.

Dopo questo viaggio B. avanzò formalmente la proposta durante una riunione della Camera dei Comuni. Secondo il progetto, la Comunità politica avrebbe avuto poteri consistenti, il Parlamento europeo avrebbe avuto un controllo effettivo sul policy-making, il veto nazionale sarebbe stato eliminato e Consiglio dei ministri e Parlamento avrebbero congiuntamente controllato una Commissione esecutiva (v. anche Commissione europea). Fu senza dubbio la proposta più federale mai avanzata da una figura politica britannica di alto profilo, che non aveva più incarichi governativi, ma una serie di contatti importanti nell’ambiente politico e governativo. Dietro le quinte, i negoziati aprirono la strada a una dichiarazione congiunta anglo-italiana che sarebbe stata rilasciata durante la visita a Londra del presidente italiano Saragat e del suo ministro degli Esteri Nenni. La dichiarazione non si concretizzò; contemporaneamente alla sua preparazione giunse la notizia delle dimissioni di de Gaulle; la strada era quindi sgombra per una riapertura più ortodossa dei formali negoziati per l’adesione britannica alla CEE. B. rimane nella storia come il più impegnato a favore dell’integrazione europea tra tutti i ministri degli Esteri britannici del dopoguerra e forse l’unico vero federalista.

Stanley Henig (2010)




Brown, Gordon

B. (Glasgow 1951) figlio di un sacerdote della Chiesa di Scozia, tra il 1961 e il 1967 frequentò con notevole profitto la Kirkcaldy High School, una antica e prestigiosa scuola scozzese in cui aveva studiato anche l’economista britannico Adam Smith.

B. cominciò presto a maturare le proprie preferenze ideologiche e a riconoscere la propria vocazione politica. In particolare, la difficile realtà economica e sociale della sua città e le forti venature socialiste presenti nella coscienza religiosa del padre lo orientarono decisamente verso le posizioni del Partito laburista scozzese. Nel 1962 fondò, insieme al fratello John, un piccolissimo giornale, “The Gazette”, i cui articoli erano ispirati ai sermoni del padre e i cui proventi erano destinati ai rifugiati africani. Nel 1964 partecipò attivamente all’organizzazione della sfortunata competizione elettorale tra il candidato locale del Partito laburista e il candidato del Partito conservatore, Alec Douglas-Home.

Successivamente, si iscrisse all’Università di Edimburgo, dove ottenne una laurea in storia nel 1972. Gli anni universitari, tragicamente segnati dalla perdita della vista all’occhio sinistro durante una partita di rugby, furono densi di iniziative e riconoscimenti che lo imposero all’attenzione degli ambienti accademici nazionali e dei vertici dello stesso Partito laburista.

Da una parte, B. diresse la rivista universitaria “The Student”, distinguendosi per una incisiva e documentata denuncia contro gli investimenti effettuati in Sudafrica dall’Università di Edimburgo. Dall’altra parte, intraprese un’intensa attività di propaganda che culminò con la redazione di The Red Paper on Scotland, un documento-manifesto in cui esponeva la miscela di indipendentismo scozzese e radicalismo socialista di cui era allora composto il suo pensiero politico.

Forte del proprio carisma personale, e del fascino rivoluzionario delle proprie idee, B. partecipò alle elezioni universitarie del 1972, che si conclusero con la sua nomina a rettore dell’Università di Edimburgo e a presidente della University Court (consiglio d’amministrazione).

B. diventava in questo modo il più giovane rettore nella storia britannica e il secondo studente che fosse mai riuscito a occupare questa prestigiosa carica. L’evento gli procurò una certa notorietà non solo nei ristretti circoli accademici scozzesi, ma anche nell’opinione pubblica britannica.

B. rimase ai vertici delle istituzioni universitarie della capitale scozzese fino al 1975, quando decise di dedicarsi a tempo pieno all’attività di insegnamento, prima come docente presso l’Università di Edimburgo, poi come docente presso il Glasgow College of Technology. La parentesi accademica si chiuse però in maniera definitiva nel 1980.

Dopo aver tentato senza successo di contendere il seggio elettorale di Edimburgh South allo sfidante conservatore Michael Ancram in occasione delle elezioni generali del 1979, B. accettò infatti un posto come giornalista televisivo. Durante i tre anni trascorsi alla televisione scozzese, ebbe il tempo di portare a termine un corso di dottorato di ricerca presso l’Università di Edimburgo con una tesi sul movimento laburista scozzese e, soprattutto, ebbe modo di mettere in mostra le proprie capacità comunicative e accrescere la propria popolarità.

La carriera politica rimaneva però al centro delle sue ambizioni, dei suoi interessi e delle sue passioni. Al secondo tentativo, in coincidenza con le elezioni generali del 1983, B. riuscì infine a essere eletto alla Camera dei Comuni come rappresentante del Partito laburista per la circoscrizione elettorale di Dunferline East. Iniziava in questo modo la sua lunga e fortunata vicenda politico-istituzionale.

La prima legislatura fu sufficiente a imporre B. come una delle figure di spicco della nuova generazione di laburisti britannici, insieme all’amico Tony Blair.

Abbandonati rapidamente gli accenti radicaleggianti delle origini, seppe immediatamente proporsi come un convinto modernizzatore, attento a solleticare gli umori della base operaia con la sua retorica presbiteriana, ma soprattutto pronto a rimettere in discussione i presupposti ideologici, l’immagine pubblica, i riferimenti sociali e simbolici e l’offerta programmatica del Partito laburista.

A fronte della vittoriosa offensiva conservatrice portata avanti dal primo ministro Margaret Thatcher, e a fronte dei difficili tentativi di riforma interna avviati dal segretario laburista Neil Kinnock, B. scelse di accreditarsi come giovane esponente degli ultrariformisti sul piano politico interno al partito e di assumere un profilo moderato e rassicurante sul piano politico generale.

Con la prima elezione alla Camera dei Comuni arrivarono anche i primi incarichi politici e istituzionali. Tra il 1983 e il 1984 svolse il ruolo di presidente del Consiglio del Partito laburista scozzese. Tra il 1985 e il 1987 ricoprì invece la carica di portavoce dell’opposizione per il Commercio e l’industria.

La prima vera affermazione politica e istituzionale coincise però con la successiva legislatura che prese avvio con le elezioni generali del 1987, assumendo la carica di segretario di Stato ombra per il Commercio e l’industria. Con l’ingresso nel governo ombra, B. si assicurava una maggiore visibilità pubblica e, soprattutto, si candidava a ricoprire incarichi di livello ministeriale una volta che il Partito laburista fosse tornato alla guida del paese.

La consacrazione avvenne durante la sua terza e ultima legislatura di opposizione, cominciata con le elezioni generali del 1992. B. venne infatti nominato cancelliere ombra dello Scacchiere e, in questa veste, si poterono meglio definire i tratti della sua personalità pubblica e i margini della sua ascesa politica.

In qualità di cancelliere ombra dello Scacchiere, B. si impegnò soprattutto a offrire di sé un’immagine di competenza, rigore e serietà e a proporre una strategia politica che faceva perno sul contenimento della spesa pubblica e dell’inflazione, in sostanziale continuità con la linea adottata dai governi della Thatcher e di John Major. In questo modo, B. puntava a presentarsi come interlocutore affidabile dei poteri economici e come garante degli interessi dei cosiddetti ceti medi, a rassicurare gli ambienti bancari, finanziari e imprenditoriali e a sottrarre consensi al blocco sociale conservatore.

Parallelamente, B. lavorò alla riscrittura delle basi ideologiche e programmatiche del Partito laburista, contribuendo da protagonista all’elaborazione di un nuovo Workfare State come alternativa al tradizionale Welfare State. Secondo questa nuova concezione politica, il tradizionale sistema di tutele dei lavoratori doveva essere rimodulato in maniera da garantire più opportunità di impiego e più libertà per le imprese, mentre la garanzia dei diritti universalistici e l’erogazione dei servizi sociali storicamente affidate allo Stato doveva essere ripensata in modo da lasciare maggiore spazio all’iniziativa dei soggetti privati.

Infine, B. cominciò a delineare una propria visione internazionale, prendendo soprattutto posizione rispetto ai nodi della presenza britannica nell’Unione europea. In particolare, trovandosi a dover esprimere un’opinione sul processo di Unione economica e monetaria, privilegiò una linea che tendeva a tenerne fuori il Regno Unito. Le ragioni erano principalmente economiche. Secondo B., la sterlina avrebbe difeso meglio di una eventuale valuta comune il ruolo, i legami e gli interessi monetari, finanziari e commerciali della Gran Bretagna.

La sua ampia popolarità, puntualmente rilevata dai sondaggi d’opinione, la rete delle sue conoscenze nei principali ambienti economici del paese e il prestigio acquisito all’interno del Partito laburista erano tali che B. divenne un candidato naturale alla carica di segretario del partito dopo la morte improvvisa del successore di Kinnock, John Smith, nel 1994.

Tuttavia, posto di fronte alla scelta, B. decise di rinunciare alla competizione. Temendo una possibile sconfitta, e avendo ricevuto precise rassicurazioni sul suo futuro politico, preferì non avanzare la propria candidatura e sostenere invece quella di Blair. La rinuncia di B., e l’elezione di Blair a segretario del Partito laburista, segnavano la nascita del lungo e travagliato sodalizio umano e politico tra i due uomini e, soprattutto, l’inizio della riscossa elettorale del nuovo laburismo britannico che su quel sodalizio si sarebbe costruita e che culminò con la vittoria elettorale dei laburisti tre anni dopo. Grazie a questo successo, il 2 maggio 1997 Blair divenne primo ministro e B. assunse il ruolo chiave di cancelliere dello Scacchiere, mantenendo ininterrottamente la carica per dieci anni. In questo modo, B. si imponeva come la personalità politica capace di tenere più a lungo nelle proprie mani, senza soluzione di continuità, le redini dell’economia britannica.

Coerente con le posizioni che aveva espresso da cancelliere ombra dello Scacchiere, e che aveva esplicitato nel documento-manifesto Financing Infrastructure Investment scritto a sei mani con i colleghi di partito Robin Cook e John Prescott, B. si mosse in sostanziale discontinuità rispetto alla tradizione laburista. Grazie alla consulenza di giovani economisti di stampo neoliberale come Ed Balls, e al sostegno di discusse personalità del nuovo laburismo britannico come Geoffrey Robinson, perseguì infatti una strategia politica che mirava a stabilizzare il quadro macroeconomico disegnato dal governo conservatore, pur tendendo a rafforzare maggiormente le condizioni di coesione e mobilità sociale, e a temperare gli effetti più socialmente devastanti della globalizzazione.

Come primo atto, stabilì l’indipendenza della Banca d’Inghilterra, concedendole il potere di controllo sulla politica monetaria e la responsabilità di definizione dei tassi di interesse. La decisione era destinata a avere un forte impatto sulle scelte economiche britanniche ma, contrariamente alle preoccupate previsioni dei conservatori, non si tradusse in una premessa all’adesione della Gran Bretagna all’Unione economica e monetaria. Fedele alle proprie convinzioni, sostenuto dalla maggioranza dell’opinione pubblica, e confortato dalle indicazioni tecniche provenienti dal ministero del Tesoro, Gordon B. si persuase di poter meglio difendere gli interessi dell’economia britannica e la tenuta del governo laburista conservando la sterlina come moneta nazionale. Nonostante i pareri contrari espressi dai membri più europeisti del gabinetto di Blair, come Peter Hain e Jack Straw, Gordon B. riuscì a far passare la propria linea e a opporre un netto rifiuto verso la partecipazione della Gran Bretagna ai processi di unificazione economica e monetaria culminati nell’adozione dell’Euro.

Successivamente, dopo aver mantenuto la promessa di rispettare i piani di spesa dei conservatori per i primi due anni di governo, B. mise in atto una pervasiva riforma del sistema di tassazione e di assistenza pubblica. Gli esiti furono complessivamente positivi ma controversi e, per certi aspetti, contraddittori rispetto agli stessi obiettivi enunciati. La Gran Bretagna riuscì a raggiungere un tasso di crescita e un livello di occupazione sensibilmente più elevati rispetto alla media degli altri paesi dell’Unione europea. Contemporaneamente, sia il sistema sanitario sia il settore scolastico e universitario si poterono avvantaggiare di un rilevante aumento di attenzione politica e di risorse finanziarie. Tuttavia, questi risultati furono conseguiti a prezzo di un generale allentamento nel grado di tutela dei diritti dei lavoratori, di un percepito peggioramento nell’erogazione di importanti servizi pubblici e, soprattutto, di una forte crescita nei livelli di sperequazione sociale, reddituale e fiscale.

Ciononostante, B. rimaneva un personaggio molto popolare, sia all’interno del partito sia, soprattutto, all’interno dell’opinione pubblica britannica. Da una parte, i suoi risultati economici, il suo rigore finanziario e le sue scelte in materia fiscale gli procurarono il consenso dei settori moderati. Dall’altra parte, il suo atteggiamento defilato rispetto alla scelta del governo di impegnarsi militarmente in Iraq e le sue battaglie terzomondiste, dalla riduzione del debito ai paesi in via di sviluppo alla richiesta di un aiuto internazionale ai paesi colpiti dallo tsunami in Asia, gli attirarono simpatie persino tra i settori della sinistra.

In seguito alla risicata vittoria conquistata dal Partito laburista nelle elezioni generali del 2005, si fecero insistenti le voci su una sua prossima successione alla guida del partito e del governo. In effetti, dopo aver a lungo esitato, il 7 settembre 1996 Blair annunciò ufficialmente la sua decisione di volersi dimettere da segretario del Partito laburista e da primo ministro del governo britannico entro un anno. Forte del favore dei sondaggi, del sostegno dei principali ambienti economici nazionali e internazionali, della rinuncia da parte dei suoi più temibili avversari interni e dell’appoggio dello stesso Blair, B. si apprestò a prenderne il posto.

Tra il 2006 e il 2007, oltre a cercare di rendere più accattivante e più spigliata la propria immagine pubblica, B. cercò soprattutto di rendere espliciti i contenuti politici e programmatici della sua successione, i tratti di originalità della sua proposta di governo. Pur dichiarando la volontà di proseguire sulla linea tracciata dai governi Blair, decise infatti di caratterizzarsi per una serie di nuovi obiettivi.

In primo luogo, annunciò l’intenzione di voler potenziare il servizio sanitario nazionale, investire ulteriormente sul sistema formativo e rilanciare un organico piano per la casa, seppure all’interno del rigido ambito delle compatibilità di bilancio e della prosecuzione della riforma dei servizi pubblici. In secondo luogo, si spese sulla necessità di rafforzare le politiche ambientaliste, pur riaffermando la volontà di rilanciare l’energia nucleare. In terzo luogo, ripropose l’idea di una nuova costituzione nazionale in grado di restituire reale sovranità ai rappresentanti del popolo e, soprattutto, in grado di proteggere il sistema normativo britannico dalla supremazia del Diritto comunitario. In quarto luogo, contro i rischi di pulsioni centrifughe a livello di territori e nazionalità, contro le minacce connesse al radicalismo identitario di gruppi di immigrati e contro il presunto pericolo di un Superstato europeo, mise un particolare accento sulla necessità di consolidare il senso di orgoglio, di dignità e di unità nazionale attraverso la cosiddetta Britishness.

Infine, B. rielaborò in modo parziale e prudente i contenuti della politica estera britannica.

La guerra contro il terrorismo rimaneva una priorità, nonostante un esplicito riconoscimento degli errori anche gravi commessi dai governi Blair prima e durante le operazioni belliche in Iraq.

Il rapporto preferenziale con gli Stati Uniti avrebbe continuato a rappresentare un asse centrale del sistema di relazioni internazionali della Gran Bretagna, nonostante una velata critica alla filosofia unilateralista seguita dall’amministrazione statunitense presieduta da George Bush.

La globalizzazione veniva vista come un processo inevitabile e positivo che andava governato, possibilmente attraverso un sistema di regole e principi da stabilire in comune tra paesi ricchi e paesi poveri, e da codificare in un nuovo manifesto globale.

La scelta europea della Gran Bretagna veniva naturalmente confermata, ma si sarebbero ulteriormente ridotti gli spazi per una concezione più sovranazionale dell’Unione europea. Secondo B., l’Unione europea aveva un ruolo fondamentale da giocare nel mantenimento della pace e nella promozione degli scambi commerciali, ma non poteva continuare a erodere la sovranità economica e politica degli Stati nazionali. La Gran Bretagna avrebbe continuato a non partecipare all’Unione economica e monetaria e si sarebbe opposta a soluzioni più avanzate sul piano dell’integrazione (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) delle politiche e delle Istituzioni comunitarie.

B. è divenuto ufficialmente segretario del Partito laburista, e primo ministro del governo britannico, il 27 giugno 2007.

Simone Paoli (2009)




Brugmans, Hendrik

Intellettuale olandese, deputato socialista, federalista della prima ora e rettore del Collegio d’Europa di Bruges, B. (Amsterdam 1906-Bruges 1997) era figlio dello storico Hajo Brugmans, docente all’Università di Amsterdam, e di Maria Kiezer. L’ambiente familiare, di origini cristiano-protestanti e di alta levatura intellettuale, fu un fecondo bacino di coltura per la maturazione politico-culturale del giovane B. Dal padre, in particolare, oltre ad aver ereditato la passione per le materie umanistiche, mutuò la concezione del carattere artificiale delle frontiere nazionali, la quale avrebbe in gran parte veicolato la sua apertura al Federalismo europeo.

La predilezione per le lettere, in special modo per la lingua e la letteratura francese, spinse il sedicenne B., ancora studente di liceo, ad approfondire lo studio della materia recandosi a Parigi, presso un collegio cattolico, il Lycée la Fontaine, dal 1922 al 1923. Diplomatosi ad Amsterdam, nel 1925, si iscrisse alla facoltà di lingua e letteratura francese della Gemeentelijke Universiteit, sempre nella capitale olandese, non trascurando altresì l’esperienza accademica alla Sorbona, negli anni 1929-1930. Laureatosi cum laude nel 1931, nel 1934 conseguiva il dottorato in filologia romanza, presentando una tesi sul teatro francese di Georges de Porto-Riche, pubblicata a Parigi nello stesso anno.

L’esperienza alla Sorbona, oltre che fertile sotto il profilo accademico, accompagnò il processo di formazione politica di B. sulla via del pieno consolidamento attorno alle concezioni socialdemocratiche di Jean Jaurès, improntate al pacifismo e a una visione fortemente critica dei contenuti rivoluzionari dell’ideologia marxista. Divenuto frequentatore assiduo dei circoli intellettuali socialisti, B. entrò in contatto con Hyacinthe Dubreuil, sindacalista e operaio, assertore della necessaria ristrutturazione del sistema produttivo delle imprese. Il giovane studente di lingue rimase presto affascinato dalla progettualità politica – mirante alla creazione di stabilimenti industriali autonomi, dotati di risorse proprie e con un’organizzazione interna tale da consentire la crescita economica, morale e intellettuale degli operai – non meno che dalla retorica di Dubreuil, ai cui insegnamenti si sarebbe ispirato, di lì a qualche anno, nell’ambito delle sue attività a sostegno della classe lavoratrice (v. Fridenson, 1986, pp. 223-227). L’avventura parigina favorì inoltre l’avvicinamento dello studioso olandese alle teorie di Pierre-Joseph Proudhon e al suo Principe fédératif (1863), apprezzato in special modo per l’idea dello “smembramento della sovranità” e della molteplicità dei gruppi naturali quale fondamento dell’organizzazione del potere politico.

Il soggiorno nella capitale francese, in sintesi, offrì a B. un ampio e variegato quadro di riferimenti politico-intellettuali, i quali, all’indomani del secondo conflitto mondiale, avrebbero significativamente agevolato la sua adesione al federalismo militante (v. Hick, 1991, pp. 28-34).

Al ritorno da Parigi, ancora giovanissimo, B. aderì al Sociaal-Democratische Arbeiderspartij (SDAP), all’interno del quale l’originalità della sua visione politica non faticò ad emergere. Designato membro della commissione per la programmazione, tentò di sollecitare i vertici del partito a intraprendere un indirizzo più moderato, promuovendo una limitazione degli eccessi antireligiosi e del radicalismo (v. Groeneveld, 997).

La militanza nello SDAP, inoltre, offrì a B. l’opportunità di familiarizzare con le nuove correnti di pensiero che rimandavano all’idea di una pace stabile e duratura nel vecchio continente, diplomaticamente sancite dal patto Briand-Kellog e variamente inneggianti – per voce di pensatori del calibro di Richard Coudenhove-Kalergi, Edouard Herriot, Gustave Stresemann e Aristide Briand – alla costruzione dell’unità europea. Seguendo il flusso della riflessione coeva sull’Europa, B. giungeva a Roma, nel novembre del 1932, convitato illustre tra la selezionatissima rosa di studiosi e pensatori chiamati a partecipare ai lavori del “Convegno Volta”, dedicato all’Europa e promosso dalla “classe delle scienze morali e accademiche” della Reale accademia d’Italia. Si trattava, in effetti, di una tavola rotonda di altissimo profilo, convocata, alla presenza dello stesso Benito Mussolini, per commemorare il decennale del regime fascista. Anche di fronte ad una platea tanto prestigiosa, il venticinquenne B. non mancò di prendere posizioni affatto distanti dalle tesi dei fiancheggiatori del fascismo, diversamente orientate a sostenere l’intento propagandistico e celebrativo della romanità come possibile modello continentale. In particolare, il giovane intellettuale dei Paesi Bassi, levando la sua critica nell’ambito del coro sparuto delle posizioni dissonanti, entrò in contraddizione con Alfred Rosenberg e con la sua proposta di un’Europa guidata dalle “quattro grandi nazionalità”, la tedesca, l’italiana, la francese e l’inglese. L’intervento di B., peraltro, si caratterizzò per il forte accento sull’importanza “spirituale e materiale” dei piccoli paesi in un contesto continentale unitario. Oltre a rimarcare la necessità di superare le divisioni interne, generatrici di tensioni e conflitti, il socialdemocratico olandese promuoveva la creazione di «un’organizzazione europea» capace di rimuovere «la differenza materiale fra grandi e piccoli Stati» e di fondarsi su una sostanziale parità tra i singoli membri. Premessa essenziale, a suo giudizio, per «mantenere la pace tra i confederati». (v. Brugmans, 1933, pp. 113-116).

La partecipazione di B. al dibattito sull’unificazione europea, benché significativa nel lungo periodo, rimase circoscritta all’assise capitolina. In effetti, negli anni tra le due guerre, con la crisi economico-finanziaria che imperversava in Europa, gravando soprattutto sui ceti più deboli, egli ritenne di doversi impegnare con maggiore sistematicità in una serie di iniziative a sfondo sociale, piuttosto che lasciarsi assorbire dalle pur stimolanti speculazioni teoriche sull’unità continentale.

Gli anni Trenta, in particolare, rappresentarono per l’intellettuale olandese un passaggio fondamentale, l’occasione per impiantare le proprie convinzioni politiche nel concreto della realtà umana. Nella sua prospettiva, fortemente influenzata dalla visione di Dubreuil, per riemergere dalla “grande depressione” l’Olanda avrebbe dovuto intraprendere, innanzitutto, un percorso di profonda riforma culturale, centrata sull’obiettivo dell’emancipazione intellettuale delle masse, nonché volta a rafforzare la classe operaia, elemento imprescindibile per il funzionamento della macchina produttiva olandese (v. Groeneveld, cit.).

Animato da tale convinzione, già agli inizi del 1932 B. aveva cominciato a insegnare letteratura francese alla scuola serale di Terneuzen, piccolo centro portuale dell’Olanda sudoccidentale. Nel 1935, in qualità di presidente, offrì un importante contributo alle attività del Nederlandse instituut voor Arbeidersontwikkeling, un ente dedito espressamente all’istruzione dei lavoratori. Sulla scia dell’entusiasmo, accresciutosi anche in base agli esiti positivi registrati nel campo d’azione che si era ritagliato, iniziò persino a immaginare la creazione di una sorta di “Internazionale dell’istruzione”, che agisse nei terreni di pertinenza della politica e dei sindacati, ma che mantenesse una sostanziale autonomia rispetto ad essi. Idea che, ad ogni modo, non ebbe mai occasione di tradurre nel concreto.

Giunto nel 1939, appena trentaduenne, all’elezione alla Camera, B. intraprese una battaglia a viso aperto contro la diffusione del nazionalsocialismo, in Olanda non meno che in Europa, e in difesa dei valori democratici, della pace e della solidarietà, in una commistione di tradizione cristiana e lezione socialista. E anche nella primavera del 1940, mentre le truppe tedesche invadevano il territorio nazionale, non perse lo spirito combattivo e la determinazione a opporsi alla “folle ideologia hitleriana”, affossatrice di una civiltà secolare. Nell’estate dello stesso anno, B. si unì infatti al discusso movimento politico Nederlandse Unie – il solo tollerato dalle autorità occupanti –, fondato da Jan De Quay, Louis Einthoven e Johannes Linthorst Homan, il quale mirava alla ricostruzione della società olandese secondo i principi della solidarietà civile, della convivenza armoniosa e della giustizia sociale.

Arrestato nel maggio del 1942 e deportato a Sint-Michielsgestel, nel Brabante settentrionale, il campo di prigionia che accoglieva l’élite politico-intellettuale olandese ostaggio del Reich, B. vi trascorse due anni. Nonostante le angosce e le incertezze della detenzione, B. Allora visse il più alto momento della sua riflessione politica, portando di fatto a piena maturazione la sua coscienza europeista. Entrò infatti a far parte della cerchia dei cosiddetti Heren Zeventien (il nome, ampiamente evocativo, apparteneva in origine al corpo direttivo della Compagnia delle Indie orientali, l’impresa nazionale dal glorioso passato), un gruppo di diciassette intellettuali, di diverso colore politico, che si riuniva in segreto per discutere sul futuro dei Paesi Bassi. Pur nella sostanziale difformità dei retroterra ideologico-culturali dei componenti, Heren Zeventien si presentava compatto nel denunciare la crisi irreversibile dello Stato nazione e nel promuovere un nuovo assetto europeo, basato sui principi della collaborazione fra gli Stati e del diritto internazionale. In tale contesto, il carismatico B. assunse un ruolo guida, non solo in virtù del suo solido retroterra culturale, al quale sistematicamente attingeva per nutrire i suoi interventi, ma anche e soprattutto per la sua capacità di coinvolgere ed entusiasmare gli interlocutori, appassionandoli alle concezioni di Jean Jaurès, non meno che al personalismo di Emmanuel Mounier, indicato come via intermedia tra capitalismo e comunismo.

E lo stesso intellettuale socialista lasciava Sint-Michielsgestel, il 20 aprile del 1944, dopo la liberazione del Brabante settentrionale, arricchito di una coscienza europeista sensibilmente più solida e precisata nei contenuti, frutto dei frequenti dialoghi con coloro che, di lì a poco, avrebbero costituito il nucleo duro dell’europeismo dei Paesi Bassi, da Max Kohnstamm, a Johannes Linthorst Homan, a Willem Schermerhorn, a Marinus van der Goes van Naters, per citare solo i nomi più noti.

Ancora in corso le ostilità, forte delle nuove convinzioni, B. entrò a far parte del gruppo di editori dell’opuscolo clandestino “Je Maintiendrai”, fondato già nel 1943, polo di raccolta dei pionieri del federalismo olandese e sostanzialmente orientato a sostenere l’azione politica del governo in esilio, con particolare riferimento all’avvio della cooperazione regionale con il Belgio e il Lussemburgo. Dalla collaborazione col “Je Maintiendrai” al federalismo militante il passaggio fu relativamente breve. Con Willem Verkade, coeditore del “Je Maintiendrai”, e Hans Dieter Salinger, economista prussiano emigrato in Olanda nel 1936, B. fondò, nel gennaio del 1945, l’associazione intereuropea Europeesche Actie – meglio nota come Europese Actie – costituita con l’obiettivo di progettare con metodo la costruzione del quadro federale dell’Europa postbellica (v. Lipgens, 1985, vol. 1, p. 594).

Il movimento andò progressivamente infoltendosi di nuovi adepti a partire dal maggio del 1945, allorché la liberazione dell’Olanda fu completata e il governo tornò dal Regno Unito. Tale ampliamento, tuttavia, anziché arricchire la piattaforma progettuale di Europese Actie di nuove proposte per la “rinascita dell’Europa”, coincise con un sostanziale rallentamento delle attività. L’opinione pubblica nazionale, infatti, a diversi livelli, piuttosto che alla campagna europeista, rivolgeva interamente l’attenzione alle questioni interne, dal necessario ripristino della funzionalità politica, alla ripresa delle attività economico-produttive del paese, seriamente compromesse da cinque anni di occupazione. Il dibattito sulla “soluzione europea” alle problematiche del dopoguerra rimaneva pertanto circoscritto a una stretta cerchia di giovani intellettuali ed economisti (v. Heinen, vol. 3, p. 349).

In tale contesto, i leader dei gruppi europeisti sorti durante la Resistenza si mossero in una duplice direzione. Da un lato, continuarono a riflettere sulle tematiche dell’unificazione europea, cercando il più possibile di trovare una linea comune a livello nazionale, nell’intento di evitare una sterile frammentazione delle iniziative. Tale sforzo di omogeneizzazione sarebbe culminato nella nascita di quello che, a partire dal 1947, divenne noto come Beweging van europese federalisten (BEF). Dall’altro lato, B., Salinger e Verkade nella pattuglia di testa, nonché il politico socialdemocratico Willem Schermerhorn, decisero di intraprendere un’azione di penetrazione più capillare nel tessuto sociale del paese attraverso la fondazione di un movimento, il quale, lungi dal volersi proporre come partito politico propriamente detto, fosse capace di farsi interprete della forte esigenza di rinnovamento socio-politico-culturale emersa in Olanda all’indomani del conflitto. Si organizzarono, pertanto, attorno al Nederlandse Volksbeweging (NVB), istituito nel maggio del 1945 e promotore della riforma della democrazia secondo il dettato di Mounier, nonché dello smantellamento della rigida compartimentazione della società (verzuiling). Quanto agli aspetti di politica estera, che pure stavano a cuore a tutti i membri del NVB, il manifesto programmatico si limitava a richiamare la necessità di un rafforzamento del ruolo internazionale della legge, escludendo qualsiasi menzione al tema dell’unità europea. Dopo un iniziale consenso, il nuovo gruppo scomparve rapidamente dalla scena olandese, progressivamente marginalizzato dai partiti di ben più lunga e consolidata tradizione politica. (ivi, pp. 359-361).

A fronte della deludente riuscita del NVB, il periodo compreso tra il maggio del 1945 e l’aprile del 1946 fu comunque denso di riflessi significativi per la vita pubblica di B., sia nell’ambito del policy-making nazionale, sia sul piano del coinvolgimento nella causa dell’unificazione europea. In particolare, in patria, egli fu nominato dapprima segretario di Stato e poi commissario dell’Aia per la stampa e l’informazione nel governo di unità nazionale guidato da Schermerhon. Una formazione alquanto singolare, giacché il primo ministro, anch’egli deportato a Sint-Michielsgestel e pertanto non indifferente al richiamo del federalismo, aveva proceduto ad attribuire alcuni tra gli incarichi più rilevanti a personalità di sicura fede europeista. In tale contesto, B. contribuì alla fondazione, nel febbraio del 1946, del Partij van Arbeid (PvdA), erede diretto dello SDAP, ma orientato al personalismo piuttosto che alla fedeltà al dettato marxista, nonché forte promotore dell’unificazione continentale. Ancor di più, a livello europeo, dall’immediato dopoguerra il leader di Heren Zeventien cominciò a riscrivere progressivamente la propria vicenda politico-intellettuale attorno all’aspirazione al riavvicinamento dei popoli europei e all’unità del vecchio continente, inaugurando di fatto la stagione più vivace, nonché la più fertile di apporti essenziali della sua vita pubblica.

La consapevolezza di aver intrapreso un nuovo ciclo maturò nel settembre 1946, nella cittadina elvetica di Hertenstein, ove si riunì la prima conferenza dei federalisti europei. In tale contesto, il carisma dell’europeista olandese si affermò senza difficoltà al centro della scena e le sue concezioni informarono in larghissima misura il cosiddetto “Programma di Hertenstein”, il documento in dodici punti che della conferenza fu il prodotto più significativo. Non sorprese, pertanto, che già nel dicembre dello stesso anno, a Parigi, allorché venne istituita l’Unione europea dei federalisti (UEF), il nome di B. si imponesse quasi d’ufficio per la nomina alla presidenza dell’organizzazione.

Non che si trattasse di un incarico puramente onorifico. Le profonde divergenze interne all’UEF – sia di carattere dottrinale, tra sostenitori della federazione mondiale e promotori di una struttura spiccatamente europea, sia di natura metodologica, tra l’ala “possibilista e gradualista” di B., i “massimalisti” di Altiero Spinelli e i federalisti integrali di Alexandre Marc – obbligavano infatti il presidente ad un faticosissimo lavoro di mediazione, esponendolo, peraltro, alle critiche feroci degli oppositori (v. Hick, cit., vol. 4, p. 11).

Ciononostante, nel corso del suo mandato, B. non mancò di intraprendere iniziative di ampio respiro, principalmente indirizzate a conferire maggiore visibilità e pregnanza politica all’azione dell’UEF. Già nel gennaio del 1947, infatti, a fronte del progressivo acuirsi delle tensioni Est-Ovest, l’intellettuale olandese si impegnava in una personale campagna per la costruzione della “terza forza europea”, alternativa ai due blocchi, nonché generatrice e garante della pace universale. Nel 1948, altresì, il presidente dell’UEF era tra i più vivaci sostenitori della partecipazione attiva del movimento alla fase preparatoria e ai lavori del Congresso dell’Aia, nel quale ravvisava un’opportunità irrinunciabile per sensibilizzare l’opinione pubblica, non meno che i governi europei, sui grandi temi del federalismo, primo fra tutti la sovranazionalità. Aspettative ampiamente condivise dai militanti europeisti, ma presto disattese dall’esito del Congresso, il quale, come è noto, piuttosto che accogliere la proposta federalista e dar vita ad un’Assemblea costituente eletta a suffragio universale, istituiva il Consiglio d’Europa, sancendo in tal modo l’affermazione del modello confederale caro agli unionisti, a Winston Churchill e, più in generale, all’establishment londinese.

La sconfitta subita all’Aia ebbe un impatto immediato, e altamente destabilizzante, sull’UEF. Vecchie e nuove tensioni interne ripresero improvviso vigore, alimentandosi progressivamente e giungendo a esplodere nel novembre del 1948, a Roma, durante il secondo congresso annuale dell’organizzazione. Occasione in cui, peraltro, si consumò il definitivo tramonto della leadership di B. nell’ambito del movimento federalista (v. anche Movimento federalista europeo), preannunciato dalla crescente affermazione della linea costituzionalista e rivoluzionaria di Spinelli ed Ernesto Rossi e consacrato dalla designazione di un nuovo presidente, Henri Frenay.

All’indomani del congresso, di conseguenza, la permanenza nell’UEF dell’ardente europeista olandese, che pure era stato preposto al vertice del Bureau exécutif, divenne tutt’altro che scontata. E, difatti, già nel 1950, B. si congedava definitivamente dall’organizzazione, nonché dalla Rijksuniversiteit di Utrecht, presso la quale, dal 1948, insegnava letteratura francese. Si trasferiva in Belgio, a Bruges per la precisione, chiamato – anche e soprattutto in virtù delle sue eccellenti qualità comunicative, della sua cultura e della sua approfondita conoscenza delle lingue straniere – a ricoprire la funzione di rettore del Collegio d’Europa, l’istituto indipendente di formazione europea postuniversitaria fondato l’anno precedente da un gruppo di cittadini guidati da padre Karel Verleye.

Sentendosi di fatto investito della responsabilità di concorrere alla formazione della futura società europea, B. concepì il nuovo incarico come una missione. Ininterrottamente, fino al 1972, profuse il suo impegno e la sua assoluta dedizione sia nella ricerca e nella produzione intellettuale – pubblicando, fra gli altri, saggi del livello di Le federalisme contemporain: criteres, institutions, perspectives (1963), Vingt ans d’Europe (1966), L’Europe des nations (1970) e L’Idée Européenne 1920-1970 (1970) – sia nella promozione di quei principi – dalla valorizzazione della persona umana, alla complementarietà tra popoli e Stati, al rispetto per la diversità politico-religioso-culturale – in nome dei quali aveva condotto le sue battaglie più aspre all’interno dell’UEF, oltre che negli anni della Resistenza.

Nel 1972, lasciate le aule del Collegio, B., personalità ampiamente accreditata in ambito accademico, veniva nominato docente onorario di letteratura e cultura francese all’Università cattolica di Louvain, incarico che avrebbe abbandonato all’età di 73 anni.

Giulia Vassallo (2010)




Bruno Bottai




Bruno Kreisky