Cockfield, Francis Arthur

C. (Horsham, Sussex, 1916-Oxford 2007), alto funzionario dell’amministrazione pubblica del Regno Unito e presidente di un’importante società privata del settore farmaceutico, fu un esponente di primo piano della politica britannica ed europea tra gli anni Settanta e Ottanta. Ricoprì incarichi ministeriali per il proprio paese e svolse un ruolo fondamentale a livello europeo, impegnandosi accanto a Jacques Delors nella realizzazione del Mercato unico europeo. Nonostante la sua affiliazione politica al partito conservatore britannico, tradizionalmente euroscettico e incline a una politica di salvaguardia degli interessi nazionali (v. Euroscetticismo), C. si dimostrò un politico aperto e lungimirante con una visione integrazionista ed europeista. Fiducioso nelle Istituzioni comunitarie e propenso alla collaborazione tra i paesi membri della Comunità economica europea (CEE), egli contravvenne spesso alle aspettative e alle direttive del proprio partito, allora al governo in Gran Bretagna e guidato da Margaret Thatcher.

Dopo aver studiato alla Dover grammar school, C. si iscrisse alla london school of economics and political science (LSE), dove nel 1938 conseguì la laurea in giurisprudenza ed economia. Nello stesso anno entrò nell’amministrazione pubblica e cominciò la carriera da funzionario presso l’Ufficio tributario del governo britannico, passando in breve tempo da assistente alla Segreteria a direttore dell’Ufficio statistico nel 1945, per essere infine nominato commissario nel 1951. Nel 1942 venne chiamato in qualità di avvocato alla Inner temple, prestigiosa associazione professionale londinese, gravitante intorno alla Corte di giustizia. Dal settore dell’amministrazione pubblica passò a quello privato nel 1952, ottenendo la nomina a direttore finanziario della Boots company di Londra, colosso della distribuzione farmaceutica del Regno Unito, di cui fu presidente dal 1961 al 1967.

Fin dal 1962, C. aveva iniziato a collaborare con il National economic development council (NEDC), strumento di pianificazione economica voluto da John Selwyn Lloyd, allora leader della Camera dei Comuni e importante esponente del partito conservatore. Nel corso di questa esperienza di consulenza e cooperazione all’interno del NEDC, durata fino al 1964, C. maturò progressivamente le proprie convinzioni politiche, finendo per legarsi al partito conservatore britannico. In seguito a questa collaborazione, grazie ai contatti stretti con gli ambienti tory e a una ormai consolidata esperienza professionale e organizzativa, C. decise di intraprendere la carriera politica alla fine degli anni Sessanta. Lasciata la Boots company, ricoprì dapprima la presidenza della Royal statistical society (1968-69), importante istituzione per la statistica britannica e mondiale, poi, nel 1970 divenne consulente in questioni di materia fiscale ed economica del ministro delle Finanze Iain Macleod e del suo successore Anthony Barber fino al 1973. Durante questa fase lavorò all’ideazione di un nuovo sistema fiscale basato su una imposta sul reddito con la quale intendeva sostituire le precedenti forme di tassazione sui capitali. Benché il progetto venisse bocciato dall’opposizione, le idee in esso contenute costituirono le linee guida della politica fiscale del governo di Edward Heath, finendo per influenzare direttamente le decisioni del ministro delle Finanze e la stesura del rapporto finale del bilancio 1972-1973. Da principio, il governo conservatore aveva puntato a una politica monetaria espansiva e a una riduzione dell’imposizione fiscale, generando il boom economico, da una parte, e l’aumento dell’inflazione, dall’altra. Nel 1973 però, con l’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità economica europea (CEE), il primo ministro Heath decise di avviare una politica di controllo e contenimento dell’inflazione – divenuta nel frattempo elevatissima anche a causa della crisi petrolifera innescata dalla guerra dello Yom Kippur –, creando a tal proposito, con il Counter-inflation act, la Price commission, la cui presidenza fu affidata a C. (1973-77), il quale si era rivelato un valido e competente collaboratore. Quando i conservatori persero le elezioni nel 1974, i laburisti che erano saliti al potere decisero di mantenere le misure antinflazionistiche prese dal precedente governo su indicazione di C.: ciò anche in conseguenza della stima che gli avversari politici nutrivano nei confronti del presidente della Price commission e delle sue innegabili capacità professionali. Nel 1973, proprio grazie a tali meriti, C. venne insignito del titolo di cavaliere, a cui seguì, nel 1978, quello di Lord.

Durante la seconda metà degli anni Settanta, C. continuò a collaborare con il Gruppo per la ricostruzione economica del partito conservatore, elaborando una nuova strategia economico-finanziaria. Quando nel 1979 i conservatori tornarono al potere con l’elezione di Margaret Thatcher, C. venne nominato ministro del Tesoro, incarico che ricoprì fino al 1982, anno in cui divenne membro del Privy council (collegio ristretto di consiglieri del capo dello Stato). Sempre nel 1982 fu nominato segretario di Stato per il Commercio e dopo le elezioni politiche del 1983, in cui vennero riconfermati al potere i conservatori, C. divenne uno dei più stretti collaboratori del primo ministro inglese in materia di politica economica.

Nel 1984, con il rinnovo della Commissione europea, il primo ministro inglese decise di inviare C. a Bruxelles, con il chiaro intento limitare e frenare il potere d’iniziativa dell’istituzione europea e in particolar modo del suo presidente, Jacques Delors; la Gran Bretagna aveva, infatti, già posto il veto sul primo candidato francese alla Commissione, Claude Cheysson. La Thatcher pensava che C., in qualità di rappresentante del partito conservatore e di fidato collaboratore del suo governo, avrebbe consolidato e rafforzato all’interno della Commissione la posizione conservatrice del governo britannico in merito all’integrazione europea, difendendo con il consueto euroscetticismo gli interessi politici ed economici nazionali (v. anche Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). C. rivelò al contrario una vena europeista, dimostrandosi un convinto sostenitore di un libero mercato europeo e il più prezioso collaboratore di Delors durante il suo primo mandato (1985-89).

C. fu nominato vicepresidente della Commissione europea nel gennaio 1985 e fin dal suo insediamento si occupò delle politiche inerenti al mercato interno e al diritto tributario e doganale: era stata, infatti, la Thatcher a insistere affinché la competenza del Mercato interno venisse attribuita a C. Fin da subito, la Commissione Delors si mostrò vivace e propositiva, impostando le basi per una radicale riforma economica e monetaria della Comunità europea, finalizzata alla realizzazione dell’unificazione del mercato interno e all’introduzione di un solo sistema monetario.

Dopo pochi mesi dal suo insediamento alla Commissione europea, C., benché conservatore e munito di una prospettiva della politica europea strettamente nazionale, si rese presto conto dei vantaggi che l’unità e la libertà del mercato tra i paesi della Comunità europea avrebbero potuto portare alla Gran Bretagna. Convintosi della necessità di una stretta collaborazione tra i membri della Commissione e della funzione unicamente “europea” della stessa, si impegnò senza riserve ideologiche al compimento di questo obiettivo. C., ricordava Delors nelle sue memorie, «fu la grande rivelazione della Commissione»: riuscì a superare ogni condizionamento politico esterno, ponendosi spesso anche in contrapposizione rispetto alla linea adottata dal governo britannico. Il neocommissario si dedicò fin da subito alla redazione di un poderoso documento, intitolato Completing the internal market (1985), nel quale venivano elencati e definiti i passaggi ritenuti essenziali alla concretizzazione del mercato unico europeo, da conseguirsi entro il 1992. Il Libro bianco (v. Libri bianchi) preparato da C., si articolava in 222 punti ed era orientato da tre direttive fondamentali: 1) l’attuazione delle transazioni commerciali fra gli Stati membri con gli stessi criteri delle transazioni effettuate all’interno di ogni Stato; 2) l’Armonizzazione della fiscalità indiretta; 3) l’eliminazione di distorsioni nel regime di concorrenza e lotta alle frodi fiscali (v. anche Politica europea di concorrenza). Il documento si concludeva con un’agenda dettagliata delle misure e delle tappe funzionali al processo unitario, le quali miravano alla graduale rimozione delle barriere fisiche, tecniche e fiscali tra gli Stati membri della Comunità economica europea (CEE).

C. è oggi considerato il principale artefice del documento programmatico che contribuì a rilanciare il processo d’integrazione economica europea negli anni Ottanta; lo stesso Delors, nelle sue memorie, riferendosi al vicecommissario inglese, ricordava come egli fosse stato il vero «architetto del Libro bianco» Il “progetto C.”, infatti, presentato dalla Commissione Delors al Consiglio europeo di Milano del 28-29 giugno 1985, faceva parte di una strategia destinata al rilancio del processo d’integrazione europea che si era arenato negli anni Settanta a causa di vari fattori interni (l’ingresso di nuovi paesi nella CEE, l’aumento delle Competenze della Comunità e il Deficit democratico delle sue istituzioni) ed esterni (la crisi economica mondiale, la concorrenza degli Stati Uniti d’America e del Giappone e l’aumento del costo delle materie prime). Il documento venne approvato da parte dei capi di Stato e di governo dei paesi membri, i quali, nonostante l’opposizione di Regno Unito, Danimarca e Grecia, decisero di istituire una Conferenza intergovernativa (CIG) (v. Conferenze intergovernative) incaricata non solo di instaurare un effettivo mercato interno, ma anche di esaminare l’ipotesi di una riforma politica e istituzionale della Comunità europea sulla base dei rapporti stilati dai comitati Dooge (v. Dooge, James) e Adonnino. Parte dei principi e dei contenuti del Libro bianco realizzato da C. confluirono nell’Atto unico europeo (1987) che consentì il passaggio dal mercato comune al mercato unico (entrato in vigore nel gennaio 1993). Gli stessi vennero successivamente ripresi e applicati dal Trattato di Maastricht (1992) che istituiva l’Unione europea (UE) e, sciolti gli ultimi nodi sull’Unione economica e monetaria (UEM), avviò il mercato interno, preparando l’introduzione della moneta unica (1999).

Paradossalmente, l’iniziativa che portò al progressivo compimento del mercato interno e alla successiva realizzazione dell’unione monetaria, partì da un esponente della classe dirigente conservatrice di quel paese che si mostrò sempre, tradizionalmente, più restio a ogni significativo avanzamento sul piano dell’integrazione europea. Fu anche per questa ragione che C., alla fine del suo mandato (1988) non venne riconfermato alla Commissione europea dal governo britannico perché troppo “assimilato” a Bruxelles; la Thatcher, infatti, preferì sostituirlo con il più euroscettico e meno imprevedibile Leon Brittan. Delors rammentava come le sue posizioni troppo “europee” lo avessero portato a confliggere con le direttive stabilite a Londra in fatto di politica economica, portandolo a incontrare non poche difficoltà anche nel rapporto con Margaret Thatcher, alla quale era legato da un’amicizia personale.

Dopo aver lasciato la Commissione ed essersi allontanato definitivamente dalla politica europea, C. divenne consulente della Klynveld Peat Marwick Goerdeler (KPMG), una società multinazionale specializzata nella revisione di bilancio e nella consulenza alle imprese in materia fiscale, contabile e legale. Negli anni Novanta, per i meriti conseguiti nel corso della sua lunga carriera professionale e politica, fu insignito della Gran croce dell’Ordine di Leopoldo II del Belgio e ottenne la laurea ad honorem da parte di alcune prestigiose Università inglesi e americane.

Filippo Maria Giordano (2012)




Codecisione

La codecisione è diventata, con il Trattato di Nizza (“Gazzetta ufficiale delle Comunità europee” C80 del 10/03/2001), la procedura più importante per l’approvazione delle leggi (direttive e regolamenti) dell’Unione europea. Essa fu introdotta nel sistema comunitario (che fino ad allora non attribuiva poteri decisionali al Parlamento europeo, salvo in materia di bilancio) dal Trattato di Maastricht (ibid., C191 del 29/07/1992) e cominciò a essere operativa dal 1° novembre 2003.

La procedura

La Procedura di codecisione nella sua forma attuale, consacrata dal Trattato di Amsterdam (GUCE C340 del 10/11/1997), permette di adottare le norme comunitarie (v. Diritto comunitario) solo con il consenso su un medesimo testo del Parlamento europeo e del Consiglio europeo dell’Unione (colegislatori), attraverso un sistema complesso di “navette”. Schematicamente, la procedura si articola su due letture da parte di ciascuno dei colegislatori e, in caso di disaccordo, su una procedura di conciliazione (v. anche Comitato di conciliazione). La Commissione europea presenta una proposta legislativa (mantiene dunque il suo potere d’iniziativa) al Parlamento europeo e al Consiglio. Il Parlamento europeo approva in seguito un “parere” che, in realtà, si compone di un progetto emendato della proposta della Commissione e di una risoluzione legislativa, approvati entrambi a maggioranza semplice dal Parlamento europeo. Il Consiglio approva poi una “posizione” comune che, in realtà, è anch’essa la proposta della Commissione emendata. Se gli emendamenti del Parlamento europeo e del Consiglio coincidono, la decisione è approvata. Se, invece, vi è divergenza, visto un parere della Commissione, il Parlamento europeo ha di nuovo la parola; entro tre mesi può approvare la posizione comune (o tacere, e il silenzio vale assenso), respingerla a maggioranza dei membri dell’assemblea o, alla stessa maggioranza, proporre emendamenti.

Il Parlamento europeo ha deciso di restringere la propria possibilità di presentare emendamenti diversi da quelli che ha approvato in prima lettura o che servono ad attuare un compromesso con il Consiglio o, ancora, che rispecchiano una situazione di fatto nuova. Il Consiglio può, ancora una volta, accogliere o respingere gli emendamenti del Parlamento europeo. Nel primo caso il testo è approvato, mentre, nel secondo caso, il Presidente del Consiglio (v. Presidenza dell’Unione europea), d’accordo con quello del Parlamento europeo, deve convocare un comitato di conciliazione. Durante le due letture, la Commissione dispone del potere di accogliere o meno gli emendamenti del Parlamento europeo: se li accoglie, il Consiglio può votarli a maggioranza qualificata, altrimenti deve votarli all’unanimità (v. Voto all’unanimità).

Benché la grande maggioranza dei progetti sia adottata già in prima o in seconda lettura, la procedura di conciliazione è necessaria per le leggi più complesse. Il Consiglio invia una delegazione presieduta dal rappresentante dello Stato che ha la presidenza e composta da un rappresentante per ogni Stato membro. Il Parlamento europeo nomina una delegazione composta da un egual numero di deputati. La Commissione non fa parte del comitato, ma partecipa ai lavori per cercare di avvicinare le posizioni delle altre due istituzioni.

È interessante esaminare brevemente la composizione della delegazione parlamentare. Alla sua testa c’è sempre un vicepresidente del Parlamento europeo, scelto fra tre designati a ogni metà della legislatura parlamentare. Questo garantisce al Parlamento europeo una coerenza di comportamento nelle diverse procedure. Inoltre, fanno parte della delegazione il presidente della commissione parlamentare competente, il relatore della commissione e altri deputati, in maniera da rispettare l’equilibrio fra i Gruppi politici al Parlamento europeo. La delegazione prende le sue decisioni interne a maggioranza. Conviene ancora segnalare che il comitato di conciliazione lavora sulla posizione comune e sugli emendamenti proposti dal Parlamento europeo. Quando, nei termini stabiliti dal Trattato (sei settimane, eventualmente prorogabili di due) le due delegazioni si accordano su un testo preciso, quest’ultimo viene trasmesso al Parlamento europeo e al Consiglio per l’approvazione finale, che avviene con la maggioranza dei voti in Parlamento e con la maggioranza qualificata al Consiglio. Se il testo è approvato, i presidenti del Parlamento europeo e del Consiglio lo firmano prima della pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale.

La codecisione e la democrazia del sistema istituzionale

Il sistema della codecisione è conosciuto, con modalità diverse, in tutti i sistemi bicamerali negli Stati federali o con forte decentralizzazione. Nel quadro delle Istituzioni comunitarie, esso fu preconizzato dal Rapporto Vedel (“Bollettino CE”, supplemento 4/1972) e poi dal Rapporto Tindemans (“Bollettino CE”, supplemento 9/75), entrambi inviati ai capi di Stato e di governo, ma è stato codificato con precisione nel Progetto di trattato sull’Unione europea (Progetto Spinelli) (v. anche Altiero Spinelli; Club del Coccodrillo) adottato dal Parlamento europeo il 14 febbraio 1984 (GUCE C077 del 19/03/1984, p. 53). A partire da quel modello, i Trattati comunitari, dall’Atto unico europeo (ibid., L169 del 29/06/1987) in poi, hanno rafforzato la presenza del Parlamento nel Processo decisionale, fino alla versione odierna della procedura di codecisione. La codecisione rafforza certamente la democrazia e la trasparenza del sistema decisionale. Quanto alla democrazia, è evidente che l’ingresso del Parlamento direttamente eletto nel processo decisionale con un ruolo determinante e non subordinato a quello dei ministri garantisce il rispetto della regola tipica della democrazia, secondo la quale le leggi sono adottate sempre da un organo eletto.

Quanto alla trasparenza, bisogna sottolineare che tutti i dibattiti e i voti parlamentari, in commissione e in seduta plenaria, sono pubblici, mentre la maggior parte dei dibattiti in seno al Consiglio – compresi tutti quelli preparatori nel Comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER) o nei Comitati e gruppi di lavoro – non è pubblica. L’introduzione della codecisione permette dunque, almeno teoricamente, al cittadino di rendersi conto degli interessi che si contrappongono e dei differenti punti di vista durante il dibattito legislativo.

La procedura di codecisione presenta, dal punto di vista della democrazia e della trasparenza, due limiti. Il primo riguarda il campo d’applicazione: per il momento, la procedura lascia fuori alcune materie per le quali il ruolo del Consiglio resta determinante, ma si tratta di casi particolari e, spesso, di casi nei quali la decisione si situa alla frontiera fra legislativo ed esecutivo. Il secondo limite riguarda il fatto che nel momento chiave della seconda lettura, il Parlamento europeo deve votare con una maggioranza che, in ragione della composizione e della dinamica politica del Parlamento stesso, comporta quasi sempre l’accordo dei due principali gruppi – e spesso anche del gruppo Alleanza dei liberali e dei democratici europei (ALDE) (v. Liberaldemocratici europei) –, Partito popolare europeo (PPE) e Partito socialista europeo (PSE), le cui componenti, salvo eccezioni, negli Stati membri si trovano in formale contrapposizione. Questo comporta una considerevole difficoltà di spiegare il dibattito ai cittadini e, per ciò stesso, un certo grado d’opacità. La soluzione di questo problema non è facile, perché l’accordo fra i due grandi gruppi è da sempre alla base del sistema e rispecchia anche il fatto che, in seno al Consiglio, sono presenti governi con diverse maggioranze e la decisione in quella sede esige, essa stessa, un compromesso. Il progetto di costituzione approvato nel 2004 (GUCE C310 del 16/12/ 2004) e non ancora ratificato non prevede modifiche alla procedura, ma amplia il suo campo di applicazione (v. Costituzione europea).

Andrea Pierucci (2006)




Codificazione dei testi legislativi

La codificazione del Diritto comunitario – più precisamente del diritto comunitario secondario, o derivato, cioè quello creato dalla Comunità attraverso le sue istituzioni (v. Istituzioni comunitarie) – consiste nell’integrare, in un solo atto giuridico e in tutte le lingue ufficiali, un atto di base e tutte le sue modifiche successive; l’atto di base e gli atti modificativi vengono abrogati e sostituiti dal nuovo atto. La codificazione del diritto comunitario è particolarmente utile, visto il numero elevato di modifiche che quest’ultimo subisce, più di quanto avvenga nelle normative nazionali. Ogni atto comunitario è modificato in media 10 volte (nel campo agricolo si raggiunge una media di 30, e ci sono casi in cui le modifiche sono più di 70).

Il nuovo testo non opera nessun cambiamento di sostanza, ma, quando è necessario, sopprime disposizioni obsolete, armonizza termini e definizioni e corregge taluni errori minori. Quindi la codificazione non solo crea un unico testo vincolante, ma rende anche il diritto comunitario più chiaro e semplice: fornisce testi giuridicamente sicuri molto più comprensibili per gli utenti. Inoltre, riduce sensibilmente il volume del diritto comunitario secondario, mantenendone inalterata la sostanza. Gli atti codificati vanno evidentemente adottati dalla stessa autorità legislativa che ha emanato l’atto di base e le sue modifiche: così, la codificazione di atti del Consiglio europeo o, in caso di Codecisione, del Consiglio e del Parlamento europeo va adottata, su proposta della Commissione europea, da queste stesse istituzioni.

Nei primi decenni di vita della Comunità (v. Comunità economica europea), le istituzioni hanno proceduto alla codificazione progressiva, in funzione delle necessità, di varie famiglie di atti, ma, a parte le difficoltà tecniche inerenti alla preparazione della codificazione, è emersa ben presto una serie di problemi. In seno al Consiglio e al Parlamento si è talvolta cercato, durante l’esame di una proposta di codificazione, di introdurre modifiche sostanziali, prolungando così sensibilmente i lavori. Va detto anche che la materia da codificare, in una Unione in continuo sviluppo, non è mai statica e la Commissione stessa si trova talvolta a dover proporre nuove modifiche di atti già in corso di codificazione, che va quindi ricominciata.

Si sono cercati vari rimedi a queste difficoltà. In primo luogo, il 20 dicembre 1994 è stato stipulato un accordo interistituzionale tra Parlamento, Consiglio e Commissione su un metodo di lavoro accelerato per la codificazione dei testi legislativi. Tra le varie disposizioni figura l’istituzione di un gruppo consultivo incaricato di garantire che la proposta di codificazione non contenga modificazioni sostanziali. È previsto anche l’impegno del Parlamento e del Consiglio a non chiedere nessuna modificazione sostanziale e a trattare la proposta con una procedura accelerata. I risultati dell’accordo non sono stati però interamente soddisfacenti: ad esempio, non c’è stata sempre l’accelerazione voluta nei lavori nell’ambito del Consiglio. Inoltre, se una normativa in corso di codificazione viene modificata, la procedura s’interrompe e va riavviata: l’accordo interistituzionale non protegge contro questo rischio (v. Accordi interistituzionali).

In secondo luogo, si è cercato di sviluppare la “rifusione” del diritto secondario. La rifusione è una codificazione che interviene in occasione d’una modifica legislativa: in altri termini, invece di proporre una semplice modifica a un testo, la Commissione propone un nuovo testo, che riprende il testo di base modificato, e che integra egualmente le modifiche precedenti, sono qualora ve ne siano. La rifusione evita così di dover ricorrere a una codificazione ulteriore. Inoltre, qualora l’atto da modificare sia stato già codificato, la rifusione evita il rischio di perdere rapidamente i benefici della codificazione.

Infine, se la modesta accelerazione dovuta all’accordo interistituzionale rende la codificazione un po’ meno lenta e se il ricorso alla rifusione riduce il numero dei casi in cui è indispensabile, resta il fatto che si tratta di uno strumento tecnicamente complesso richiedente il ricorso alla procedura legislativa. Ci si è perciò dovuti accontentare, in molti casi, di un semplice consolidamento. Questo consiste, come la codificazione, nell’integrare in un solo testo l’atto di base e le sue modifiche successive. Il testo consolidato non ha però valore giuridico e non conduce all’abrogazione dell’atto giuridico di base e delle sue modifiche. Il consolidamento ha una funzione informativa, e svolge a tal titolo un ruolo prezioso per gli utenti del diritto comunitario. Può essere realizzato rapidamente, non dovendo rispettare la procedura legislativa. Inoltre, serve di base per la codificazione vera e propria.

Nella prospettiva dell’ampliamento del 2004, la Commissione aveva lanciato, nel novembre 2001, un’importante iniziativa volta a codificare, entro la fine del 2005, l’intero Acquis comunitario. Quest’operazione, accolta favorevolmente dalle altre istituzioni, rispondeva all’obiettivo più ampio di aggiornare e semplificare l’acquis comunitario, illustrato in una comunicazione della Commissione del febbraio 2003. Dalla fondazione delle Comunità europee, la normativa comunitaria non era infatti mai stata sottoposta a un esame esauriente della sua riorganizzazione, struttura e presentazione. Come la Commissione ricordava nella sua comunicazione del 2003, «questo corpo normativo occupava, alla fine del 2002, 97.000 pagine della “Gazzetta ufficiale”».

Coordinata con le azioni di rifusione e consolidamento, e con l’enorme sforzo di traduzione necessario per passare da 11 a 23 lingue ufficiali, l’operazione di codificazione dell’intero acquis ha segnato reali progressi, anche se i tempi sono più lunghi del previsto. Quando l’operazione sarà realizzata, ci sarà una riduzione sensibile (di varie decine di migliaia di pagine) del volume del diritto comunitario secondario. L’utilità di questo obiettivo è apparsa con evidenza quando prima 10, poi 2 nuovi Stati membri, hanno dovuto assorbire un acquis comunitario a dir poco monumentale.

Giuseppe Ciavarini Azzi (2008)




Cohn-Bendit, Daniel

C.-B. (Montauban, 1945), dal gennaio del 2002 copresidente con Monica Frassoni della frazione dei Verdi (Grünen/Freie europäische Allianz) (v. anche Partito verde europeo) nel Parlamento europeo, proviene da una famiglia franco-ebrea, emigrata nel 1933 dalla Germania. Il padre, Erich Cohn-Bendit, era un famoso avvocato, conosciuto già all’inizio della carriera sia perché collaborava alla Rote Hilfe, un’organizzazione tedesca per assistere giudizialmente i membri del partito comunista, sia per aver assunto la difesa processuale di Hans Litten, un giovane coraggioso avvocato che aveva obbligato Hilter a comparire in un’aula giudiziaria.

La vita giovanile di C.-B. è caratterizzata dai frequenti trasferimenti. Nel 1948 i Cohn-Bendit traslocano a Parigi. Il fratello di C.-B., Gaby, maggiore di nove anni, lo socializza all’attività politica: Gaby è infatti membro del gruppo anarco-libertario “Socialisme ou barbarie” e conduce per la prima volta Daniel ad una dimostrazione quando questi ha solo undici anni. Nel 1958 la famiglia si sposta nuovamente in Germania, dove C.-B. frequenta la Odenwaldschule, un istituto scolastico alternativo, dove si applicano nuovi metodi educativi antiautoritari. Consegue la maturità presso la Odenwaldschule nel 1965.

Successivamente, C.-B. torna in Francia, dove studia grazie a una borsa riservata ai tedeschi emigrati. Si iscrive all’università di Nanterra presso la facoltà di Sociologia. Durante la rivolta studentesca degli anni Sessanta, C.-B diviene famoso come leader e rappresentante degli studenti parigini in rivolta. Il movimento studentesco francese si radicalizza rapidamente a partire dall’uccisione nel 1967 da parte della polizia dello studente Benno Ohnesorg a Berlino, durante una manifestazione contro lo scià di Persia e contro la tortura.

C.-B. è una delle figure più note nella rivolta: è uno dei fondatori del gruppo politico “Bewegung 22. März”, che riunisce la sinistra giovanile indipendente, maoisti, anarchici, trockijsti, tutti antagonisti al partito comunista francese (PCF) e all’organizzazione sindacale di sinistra Confédération générale du travail (CGT). Il 29 marzo 1968 il Bewegung 22. März annuncia l’occupazione dell’università di Nanterra: il decano, temendo i possibili scontri fra i gruppi studenteschi politici di sinistra e di destra, blocca le attività di insegnamento e sbarra l’università.

All’inizio di maggio del 1968 alcuni giovani attivisti – fra questi C.-B., famoso ormai come Dany le rouge – manifestano all’università della Sorbonne di Parigi: è l’inizio della rivolta studentesca che provocherà una grave crisi del governo presieduto da Charles de Gaulle. Dopo i gravi scontri dell’11 maggio fra la polizia e i dimostranti e il ferimento di numerosi studenti, le confederazioni sindacali proclamano uno sciopero di solidarietà e la manifestazione del 13 maggio, nel corso della quale gli studenti occupano la Sorbonne. Il governo de Gaulle viene sfiduciato dai socialisti e dai comunisti, ma il generale riesce a riottenere poco dopo la fiducia in parlamento e nel paese.

C.-B. lascia la Francia, e viene successivamente espulso dal governo francese nel 1968, dopo i disordini in seguito al movimento studentesco e allo sciopero generale. Si trasferisce a Francoforte sul Meno, dove frequenta la facoltà di sociologia presso la Johann-Wolfgang-Goethe-Universität, in cui insegnano i più illustri esponenti della Scuola di Francoforte, fra cui Theodor W. Adorno e Jürgen Habermas. Nel 1968 anche l’università di Francoforte viene messa sotto accusa dalla APO Außerparlamentarische Opposition (APO) e occupata dagli studenti, che protestano contro il tentativo da parte del governo di approvare la legislazione di emergenza, applicabile in casi di necessità.

Nel 1970 C.-B. vive insieme con altri studenti, fra cui Joschka Fischer. Insieme con questi fonda il gruppo di sinistra “Revolutionärer Kampf” (Battaglia rivoluzionaria), che nasce da una frazione antiautoritaria della Sozialistische deutsche Studentenbund (Lega studentesca socialista) dopo la serie degli scioperi del 1969. Il movimento Revolutionärer Kampf (RK) è costituito da una trentina di giovani, quasi tutti studenti, i quali si oppongono al dogmatismo e alla struttura gerarchica dei gruppi comunisti K-Gruppen, mirando a stimolare la protesta politica spontanea delle masse. Con documenti falsi alcuni di essi – fra di essi Joschka Fischer – entrano alla fabbrica automobilistica Opel di Rüsselheim, presso Francoforte, al fine di preparare gli operai alla rivolta. Anche se è impossibile per C.-B. partecipare a questa attività politica, a causa della sua notorietà, egli esegue un lavoro di organizzazione e ha contatti con il movimento italiano Lotta continua.

Nel 1970 il gruppo RK inizia a collaborare con un movimento di cittadini che protesta contro l’abbattimento delle case storiche del Westend di Francoforte: nell’autunno viene occupata la prima casa e nel 1971 C.-B. occupa insieme con i suoi amici e compagni politici una villa. A marzo del 1973, dopo uno scontro con le forze dell’ordine, gli occupanti indicono una dimostrazione, a cui partecipano fra le 5000 e le 8000 persone; gli scontri riprendono e finiscono con l’evacuazione e l’abbattimento della villa, occupata e barricata dai protestanti, sede del movimento di occupazione.

All’inizio degli anni Settanta C.-B. lavora presso alcuni asili alternativi e fa parte della Kinderladen-Bewegung (un movimento in favore di asili alternativi, autonomi e antiautoritari). Il racconto autobiografico della sua esperienza negli asili nel suo libro del 1975, Der Große Basar, sarà oggetto di uno scandalo provocato dalla giornalista Bettina Röhl nel 2001: alcune pagine manifestano, secondo la giornalista, la tendenza pedofila del politico franco-tedesco. Dopo la breve esperienza negli asili, C.-B. lavora nella libreria Karl-Marx di Francoforte, un luogo tradizionale di incontro dei gruppi di sinistra.

Nella turbolenta scena politica degli anni Settanta, il gruppo RK, di cui fa parte C.-B., prende ufficialmente posizione contro l’impiego della violenza da parte del terrorismo della Rote Armee Fraktion (RAF). C.-B. dichiara apertamente dopo l’assassinio del giudice Drenkmann la sua distanza dai metodi del terrorismo nel suo libro Der Große Basar del 1975.

In questo periodo, dopo aver constatato la sconfitta della strategia di avviare la rivoluzione nell’ambito delle fabbriche, il movimento di sinistra si trasforma e nascono gli Spontis, un gruppo che si oppone a qualsiasi forma strutturata di partito e di organizzazione e che mira a favorire lo sviluppo spontaneo di modi di vita alternativi. Tale movimento, al contrario dei K-Gruppen, originati dalla stessa matrice, sottolinea il carattere spontaneo della rivoluzione e, pertanto, avvia azioni politiche organizzate dal basso, come le occupazioni di case, le lotte di strada e le agitazioni nelle imprese.

L’organo di stampa di questo ambiente di estrema sinistra è il “Pflasterstrand” (Spiagga del lastrico). Il titolo, come afferma C.-B., redattore ed editore della rivista dal 1978, nasce da un’espressione usata nel corso della protesta studentesca del maggio francese, secondo la quale “sotto il lastrico vi è la spiaggia”. C.-B. vi lavora fino al 1989, quando il “Pflasterstrand” viene venduto.

Dopo la cessazione del divieto di entrata in Francia, decisa dal presidente Valéry Giscard d’Estaing nel 1978, C.-B. sceglie di restare in Germania.

Alla fine degli anni Settanta si forma il movimento dei Verdi sulla base di movimenti civili centrati su varie rivendicazioni – su temi ecologisti e di femminismo – e sul rifiuto delle ideologie politiche tradizionali. I fondatori del movimento, e cioè il gruppo attorno a Jutta Ditfurth, rifiutano di collaborare con i gruppi comunisti. Gli Spontis assumono, invece, fin dall’inizio una posizione di dialogo con i Verdi: fra di essi C.-B. è uno degli animatori del dibattito e si dichiara favorevole alla possibile collaborazione, divenendo membro del partito dei verdi, però, solo nel 1984.

È il “Pflasterstrand” che conia le denominazioni per le due principali correnti interne ai Verdi: i fondamentalisti, fedeli ai principi originari del movimento, e i “Realos” (realisti), che tentano di seguire i cambiamenti sociali pur mantenendo fermi alcuni assiomi dei verdi. Dei realisti fanno parte Joschka Fischer e C.-B. Quest’ultimo appoggia l’idea di una coalizione con il partito socialdemocratico (Sozialdemokratische Partei Deutschlands, SPD).

Nel 1983 i Verdi entrano in Parlamento col 5,6%. I realisti – e in particolare Fischer e C.-B. – riescono a ottenere la supremazia nel partito, mettendo i fondamentalisti in minoranza.

Nel 1987 C.-B. si candida per i Verdi nelle elezioni per il nuovo sindaco di Francoforte, senza successo. È determinante per la carriera politica di C.-B. il passaggio di potere nel governo di Francoforte, a marzo del 1989, alla coalizione costituita dai Verdi e dai socialdemocratici, presieduta dal sindaco Volker Hauff. Questi nomina come collaboratori tre rappresentanti dei Verdi, fra cui C.-B. all’Ufficio per gli Affari multiculturali (Amt für multikulturelle Angelegenheiten), ideato e voluto da questi. Tale nuova istituzione mira a promuovere l’incontro e la mediazione fra i tedeschi e gli immigrati, stimolando le iniziative che trasformano la città in senso multiculturale.

Nel corso di questo incarico C.-B. guadagna popolarità e, insieme, provoca frizioni all’interno del partito sia per la sua intenzione di dialogare con gli esponenti della destra radicale, sia per la sua opposizione alla linea ufficiale del partito per quanto concerne l’immigrazione. Mentre i Verdi auspicano l’apertura completa delle frontiere, senza limiti di entrata, egli si dichiara in accordo con una possibile limitazione, decisa dalla nazione di accoglienza e, al contempo, per istituire comuni regole europee per il diritto d’asilo. Un progetto innovativo di C.-B., rimasto però senza seguito, è l’istituzione di un parlamento per gli immigranti (Kommunale Ausländervertretung), che li rappresenta in mancanza del diritto di voto per le elezioni comunali.

Nel 1993 viene fondato il partito Bündnis 90/die Grünen (Alleanza 90/i Verdi) dalla fusione del partito dei Verdi della Germania occidentale e del Bündnis 90, partito nato dei movimenti civili Neues Forum, Demokratie jetzt (Democrazia ora) e Initiative für Frieden und Menschenrechte (Iniziativa per la pace e i diritti umani), originati nella Germania orientale in occasione delle prime elezioni dopo la caduta del Muro di Berlino. Il partito verde unito raggiunge nelle elezioni per il Parlamento tedesco del 1993 il significativo risultato del 7,3%.

Il congresso del partito del Bündins90/die Grünen nomina C.-B. nel novembre del 1993 candidato per le elezioni per il Parlamento europeo (v. anche Elezioni dirette del Parlamento europeo), che si svolgono il 12 giugno 1994. C.-B. è uno dei due verdi eletti al Parlamento europeo con il 10,1% dei voti. Insieme con il mandato europeo, continua però a mantenere il ruolo di consigliere comunale onorario a Francoforte.

La carriera di C.-B. si sviluppa a partire dal 1993 nell’ambito dell’Unione europea: a giugno del 1993 si presenta con successo come candidato dei Verdi tedeschi alle elezioni europee. La sua concezione europeista è molto originale e non allineata con quella del partito. Ad esempio, egli appoggia l’intervento militare europeo in Bosnia fin dal 1991 e rimane pertanto isolato nel suo partito: una delle priorità politiche europee è, nella sua concezione politica, la lotta al totalitarismo, che implica la difesa di tutti gli Stati contro forme di governo autoritarie, sia di destra che di sinistra. Nel 1998 si allea con Fischer nella richiesta di inviare le truppe tedesche in Kosovo, anche prescindendo dall’autorizzazione dell’ONU, impossibilitata ad intervenire per il meccanismo del veto. Inoltre appoggia senza esitare l’intervento in Afghanistan dopo l’attentato terrorista islamico all’America del 2001.

Le decisioni politiche di C.-B. riguardanti gli interventi militari devono essere inquadrate nella sua idea di creare e potenziare il potenziale militare comune europeo: trasformare l’Organizzazione del trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO) in un’alleanza per assicurare la democrazia o creare un esercito professionale comune europeo sono i due strumenti che C.-B. individua per assicurare il rispetto dei Diritti dell’uomo dentro e fuori dall’Europa. L’Europa ha, in questa visione, una «sovranità etica» (v. Stammer, 2001, p. 220), che le permette, o meglio, la obbliga a proteggere i diritti umani nel mondo. Tale sovranità è basata sul rispetto degli ideali che sono a fondamento dell’unità europea: l’impegno per valori di solidarietà sociale, per la lotta al totalitarismo e per la coscienza ecologica. Inoltre, il neoliberalismo non è l’unico modo per raggiungere lo sviluppo, in questa visione che privilegia la solidarietà sociale e la protezione dei ceti più deboli: l’Europa ha il compito di promuovere la solidarietà sociale, che è inscritta nella tradizione politica europea.

All’inizio degli anni Novanta, quando C.-B. viene eletto al Parlamento europeo, una significativa parte dei Verdi si dichiara euroscettica (v. Euroscetticismo), in quanto avversa sia il processo di globalizzazione, sia il centralismo amministrativo dell’UE. Al contrario, C.-B. considera l’Europa unita come la prospettiva politica futura inevitabile e auspicabile e crede alla possibilità di dirigere positivamente il processo di globalizzazione. L’Europa è per C.-B. l’unica potenza in grado di controbilanciare il peso geopolitico e militare dell’America. L’Europa delle nazioni deve essere sostituita da un’Europa unita che implementi le regioni e i comuni e che sia difesa da una propria armata.

Nel suo seminario “Quo vadis Europa?” (v. Cohn-Bendit, 2000) C.-B. esplicita le sue idee fondamentali riguardo all’Europa. Questa è più di uno spazio per il libro commercio: essa rappresenta una coalizione di popoli contro ogni forma di totalitarismo e per il superamento degli interessi nazionali. La costituzione, per C.-B. che s’ispira al patriottismo costituzionale di Habermas, è un mezzo per rafforzare la dimensione politica dell’Europa assicurando il riconoscimento dei cittadini nell’UE e cementando l’idea della “sovranità etica” europea. Per consolidare l’UE è però necessaria una riforma delle Istituzioni comunitarie, in particolare per quanto riguarda l’elezione del presidente, che deve scaturire dalla diretta volontà diretta del popolo europeo.

Inoltre, C.-B. è molto attento agli sviluppi della società tecnologica: nel 2001 ha un ruolo determinante nella discussione a livello di politica europea sulla società di informazione, e in particolare per la questione della patente per i software, e si dichiara contrario alla regolamentazione di internet.

Nel 1999 C.-B. si candida per il partito dei Verdi in Francia (Les Verts) nelle elezioni al Parlamento europeo. I Verdi ricevono inaspettatamente un risultato molto incoraggiante nelle elezioni: il 9,72% dei voti. Nel 2004 C.-B. si candida nuovamente per il partito tedesco dei Verdi e come capolista per il Partito verde europeo, fondato a Roma il 22 febbraio del 2004. Questo partito, che si contraddistingue per la sua organizzazione unica e per la comunanza del programma a livello europeo, nasce dalla coalizione di 32 partiti verdi di 25 paesi. I Verdi ottengono un successo senza precedenti nelle elezioni europee del 2004, raggiungendo l’11,94% dei voti.

Nel suo manifesto, il partito europeo dei Verdi, oltre ad opporsi all’uso dell’energia nucleare e alla produzione di armi di distruzione di masse, si dichiara favorevole a potenziare una politica estera e di pace europea (v. anche Politica estera e di sicurezza comune), a sviluppare una Politica sociale comune, per compensare le sperequazioni provocate dal libero mercato e dalla globalizzazione, a superare le concezioni nazionalistiche per formare un’Europa multiculturale e, infine, a implementare l’applicazione dell’Accordo di Kyoto sulla limitazione dell’inquinamento. La posizione politica di C.-B. è in linea con questo programma, ed è caratterizzata dal forte appoggio all’elaborazione attuale della Costituzione europea e alla creazione di una forza militare comune europea. La sua opinione favorevole all’entrata della Turchia è invece oggetto di dibattito nell’ambito del partito: C.-B. considera l’integrazione europea della Turchia necessaria per collaborare con i settori moderati dell’Islam e per evitare uno scontro di civiltà. L’accesso della Turchia nell’UE deve dipendere dal rispetto della democrazia e dei diritti umani nel territorio turco e non da una posizione prestabilita da parte dei paesi europei. Il “miracolo del Bosforo”, e cioè l’integrazione della Turchia in Europa, sarà, nelle parole di C.-B., la prosecuzione del “miracolo del Reno”, che ha sancito la fine dell’inimicizia tra la Francia e la Germania, e del “miracolo dell’Oder”, e cioè dell’apertura dell’UE a Est (v. Cohn-Bendit, 2004). Al contrario, l’integrazione della Russia è considerata come impropria, perché essa ha caratteristiche geopolitiche e un potere militare che sbilancerebbero l’equilibrio raggiunto all’interno dell’UE.

C.-B. è attualmente copresidente del gruppo Verdi-Alleanza libera, membro della Commissione per gli affari costituzionali, della Commissione per i problemi economici e monetari, della Sottocommissione per la sicurezza e la difesa, e della Delegazione alla commissione parlamentare mista UE-Turchia.

Dal 1994 al 2003 C.-B. ha lavorato come moderatore del programma televisivo “Literaturclub” per l’emittente svizzera DRS.

Tra le sue numerose pubblicazioni ricordiamo Le gauchisme, reméde à la maladie senile du communisme (1969), in collaborazione con il fratello, Gabriel Cohn-Bendit, Agitationsmodell für eine Revolution (1968), Reden über das eigene Land: Deutschland (1987), Wir haben sie so geliebt, die Revolution (1987), Heimat Babylon: das Wagnis der multikulturellen Demokratie (1992, in collaborazione con Thomas Schmid), Petit Dictionaire de l’Euro (1998, in collaborazione con Olivier Duhamel), Xénophobies (1998, in collaborazione con Thomas Schmid), Quand tu seras président (2004, in collaborazione con Bernard Kouchner).

Patricia Chiantera-Stutte ()




Collegio d’Europa

Il Collegio d’Europa è il più antico istituto universitario al mondo di studi postuniversitari e di formazione in affari europei ed è forse la più “europea” delle università di studi europei, poiché attira un corpo docente pan-europeo altamente qualificato e accoglie studenti provenienti da tutto il continente e oltre. Il Collegio offre l’opportunità ai suoi studenti di lavorare e immergersi in un ambiente veramente internazionale.

Il Collegio fu fondato nel 1949 a Bruges, in Belgio, da leader europei quali Salvador de Madariaga, Winston Churchill, Paul-Henri Charles Spaak e Alcide de Gasperi, con l’obiettivo di creare un istituto dove laureati provenienti da differenti paesi potessero studiare e vivere insieme. Un gruppo di cittadini di Bruges guidati dal reverendo Karl Verleye riuscì con successo a proporre Bruges come sede dell’istituto e Hendrik Brugmans, uno dei leader intellettuali del Movimento europeo dell’epoca, ne divenne il primo rettore (1950-1972). Nel 1994, a seguito della caduta del comunismo e sulla scia dei cambiamenti avvenuti nell’Europa centrale e orientale, venne fondato un secondo campus a Natolin (Varsavia), con il sostegno della Commissione europea e del governo polacco (v. Polonia).

Il Collegio opera secondo la formula “una università-due campus” e ciò che un tempo veniva definito come l’esprit de Bruges oggi è meglio noto come l’esprit du College.

Il rettore gestisce e coordina tutte le attività del College di entrambi i campus. Attualmente il rettore è Paul Demaret. Il consiglio d’amministrazione, che è responsabile della realizzazione degli obiettivi dell’istituto, include rappresentanti di molti governi europei, compresi dei due paesi che ospitano il Collegio. L’attuale presidente è Jean-Luc Dehaene, ministro di Stato e membro del Parlamento europeo ed ex primo ministro del Belgio.

In entrambi i campus, gli studenti provengono da più di 47 paesi differenti e generalmente parlano dalle tre alle quattro lingue. Essi hanno tutti conseguito una laurea universitaria in un campo adeguato alla partecipazione al programma di studi postlaurea del Collegio e molti di loro sono anche in possesso di una laurea specialistica. L’età media è di 25 anni. I requisiti di ammissione sono rigidi. Alla maggior parte degli studenti accettati viene assegnata una borsa di studio piena oppure parziale.

Il programma annuale inizia a settembre e termina alla fine di giugno con corsi nelle due lingue di lavoro del Collegio, vale a dire l’inglese e il francese. Il lato residenziale della vita del campus costituisce una componente fondamentale dell’esperienza degli studenti, poiché essi imparano a vivere e a lavorare assieme e soprattutto scoprono come operare in un ambiente internazionale.

Il Collegio d’Europa offre corsi postuniversitari in Diritto, Politica e amministrazione, Relazioni internazionali e diplomazia UE, Economia e Studi interdisciplinari europei (campus di Natolin, Varsavia). I suoi programmi accademici forniscono agli studenti una preparazione specialistica nella dimensione europea del loro settore di studio nonché una comprensione approfondita dell’Europa con tutte le sue complessità. Considerando che i docenti del Collegio provengono da più di venti paesi europei e anche da più lontano, i metodi d’insegnamento utilizzati sono svariati.

Durante l’anno accademico, molti leader politici, diplomatici e dell’imprenditoria fanno visita ai Collegi di Bruges e di Natolin per parlare agli studenti. Negli anni precedenti sono intervenuti personaggi quali Josep Borrell, presidente del Parlamento europeo, José Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, Jean-Claude Trichet, presidente della Banca centrale europea, Bill Gates, Presidente e capo progettista di software della Microsoft. Inoltre, gli studenti possono partecipare a dibattiti e conferenze con esperti di primo piano del mondo accademico e professionale e a viaggi studio formativi.

Attraverso il suo Ufficio sviluppo, il Collegio d’Europa organizza anche diversi corsi di formazione e corsi estivi, fornisce contratti di servizio soprattutto per la Commissione europea e stabilisce joint-venture con partner accademici in Europa e in altre parti del mondo.

Nel 2004, il Collegio d’Europa ha creato il Global competition law centre e collabora con istituzioni di fama internazionale quali il Comitato internazionale della Croce rossa e direttamente o indirettamente con università di spicco, nonché con il Centrum Europejskie Natolin, con l’Associazione degli ex alunni del Collegio d’Europa, con la Fondazione europea Madariaga e con l’United Nations University–Comparative regional integration studies (UNU-CRIS).

Gli ex alunni del Collegio d’Europa occupano cariche di responsabilità in Europa e nel mondo e molti di loro ritornano al Collegio per condividere le loro esperienze con gli studenti. Il 25% degli ex alunni lavora presso le istituzioni europee, circa il 40% nel settore privato (cioè industrie, banche, società di consulenza e studi legali) e il 10% è impiegato in settori quali servizio diplomatico, amministrazioni nazionali e mondo accademico.

P. Demaret, A. O’Neill, M. Widenhorn (2008)




Colombo, Emilio

C. (Potenza 1920) dopo la laurea in giurisprudenza iniziò l’attività politica nell’ambito dell’Azione cattolica, ove giunse a ricoprire l’incarico di vicepresidente nazionale della Gioventù italiana. Il forte radicamento nell’associazionismo cattolico consentì a C. di affermarsi gradualmente come uno degli esponenti più in vista del potere democristiano, con una forte base di consensi nel Mezzogiorno e segnatamente nella sua regione di origine. A 26 anni fu eletto alla Costituente nella circoscrizione di Potenza-Matera per la Democrazia cristiana (DC) ed assunse l’incarico di segretario della Commissione agricoltura. Nell’aprile 1948 venne eletto deputato al Parlamento nella circoscrizione di Potenza. In seguito fu confermato alla Camera, sempre nella stessa circoscrizione, in tutte le elezioni successive fino a quelle del 1987.

Le esperienze di governo di C. cominciarono come sottosegretario all’Agricoltura nel V e VI ministero di Alcide De Gasperi, tra il 1948 e il 1951. In questa veste C. fu il più stretto collaboratore del ministro Antonio Segni nella formulazione della riforma agraria del 1950 e prese parte alla nascita del programma decennale di sviluppo per il Mezzogiorno. In questi frangenti si mise in luce come interlocutore dell’amministrazione statunitense per la gestione degli aiuti del Piano Marshall in funzione dello sviluppo e della stabilizzazione politica del Meridione. Tra l’agosto 1953 e il luglio 1955, C. tornò a ricoprire la carica di sottosegretario, stavolta ai Lavori pubblici. Per quanto riguarda la vita di partito, a partire dal Congresso di Roma del 1952, C. si avvicinò alle posizioni raccolte intorno alla neonata corrente Iniziativa democratica, espressione di personalità come Amintore Fanfani, Paolo Emilio Taviani, Mariano Rumor, Aldo Moro, Luigi Gui e altri. Al V congresso della DC, celebrato a Napoli nel 1954, C. fu eletto, terzo per numero di voti dopo De Gasperi e Scelba (v. Scelba, Mario), membro del consiglio nazionale.

Nel luglio 1955, C. fu nominato per la prima volta ministro, al dicastero dell’Agricoltura e Foreste, nel I ministero Segni, mantenendo l’incarico nel successivo ministero Zoli. In questa veste C. entrò in contatto per la prima volta in modo concreto con le tematiche dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), partecipando alle, rare, riunioni interministeriali ristrette dedicate ai negoziati in corso per la costituzione della Comunità economica europea (CEE). Nel luglio 1958, col varo del II governo Fanfani, C. divenne ministro del Commercio con l’estero. In questo ruolo subentrò a Guido Carli, che, nel corso delle trattative che si andavano svolgendo nell’ambito della Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE), si era dimostrato a favore della creazione di una Zona di libero scambio, come propugnato dal Regno Unito, onde evitare che il costituendo mercato comune potesse tradursi in un’area commerciale “autarchica”, chiusa all’esterno. L’avvicendamento con C., che si attestò sulla tradizionale posizione italiana favorevole all’integrazione nell’ambito della “piccola Europa” dei Sei, assumeva un significato di rilievo: chiaro segnale in direzione di una politica che privilegiasse la messa in opera dei Trattati di Roma e la creazione di un grande mercato continentale.

Alla fine degli anni Cinquanta, con altri esponenti di primo piano della DC come Segni, Rumor, Taviani, C. si distaccò dalla corrente Iniziativa democratica, in polemica con le aperture verso il PSI (Partito socialista italiano) operate da Fanfani, e partecipò alla creazione della nuova corrente dei “dorotei”.

A partire dalla formazione del II governo Segni, nel febbraio 1959, C. ricoprì fino al maggio 1963 l’incarico di ministro dell’Industria e commercio. Successivamente, a partire dal I ministero Leone (1963), assunse l’incarico di ministro del Tesoro che mantenne in vari governi successivi, in pratica restando alla guida del dicastero ininterrottamente fino alla fine del decennio. In questa veste C. si trovò a dover affrontare i primi segni di “surriscaldamento” dell’economia susseguenti al boom economico, evidenziati dall’impennata inflazionistica interna e dalle difficoltà della lira sui mercati internazionali. In questi frangenti, il ministro del Tesoro fu il fautore di una politica di rigore monetario e contenimento della spesa pubblica, in accordo col governatore della Banca d’Italia Guido Carli. A questa linea si contrappose quella seguita dal ministro del Bilancio, il socialista Antonio Giolitti, che si rifaceva al keynesismo e ai principi della programmazione. Dallo scontro uscì vincitrice la linea Carli-C., imponendo così un ridimensionamento degli intenti riformatori del centrosinistra. Secondo il giornalista Giuseppe Tamburrano, che cita un’inchiesta del settimanale “Il Punto”, in vista dello scontro sui metodi per risolvere la crisi inflazionista del 1963, C. avrebbe fatto in via riservata appello agli organi della CEE perché raccomandassero al governo italiano di applicare più risolute misure anticongiunturali, in una sorta di applicazione ante litteram della pratica del “vincolo esterno”. In effetti, il 14 aprile 1964 la Commissione europea invitò Roma a inasprire la politica monetaria. Poco dopo, il 20 maggio, il presidente della Commissione, Walter Hallstein, scriveva al Presidente del Consiglio Moro, specificando le misure restrittive che l’Italia avrebbe dovuto adottare. Il 18-19 giugno il vicepresidente della Commissione Robert Marjolin si recò a Roma per una serie di incontri con le autorità italiane, mentre sul piano interno divenne di pubblico dominio una lettera riservata di C. a Moro nella quale il ministro del Tesoro chiedeva di accantonare la politica di riforme e procedere con severità alla stabilizzazione finanziaria.

In ambito comunitario, in questo periodo C. fu il principale rappresentante dell’Italia. In particolare svolse un ruolo di rilievo nel corso dei negoziati sull’adesione britannica alla CEE, tra l’autunno 1961 e la fine del 1962, durante i quali l’Italia cercò di mediare tra le posizioni britanniche e quelle della Francia gollista. Dal punto di vista italiano l’ingresso del Regno Unito nella CEE era auspicabile per evitare la creazione di un asse franco-tedesco e contrastare i disegni gollisti di egemonia all’interno della “piccola Europa”. D’altra parte, la tutela del nascente MEC, con tutti i vantaggi che esso comportava per le esportazioni industriali della penisola, rappresentava una priorità inderogabile. Stretto tra queste due esigenze, C., in collaborazione con Fanfani, Presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, riuscì in effetti a giocare un ruolo di mediazione, apprezzato dalle diverse parti in causa, soprattutto dai britannici che sembrarono vedere in C. un interlocutore valido per istituire un dialogo fruttuoso. Ma, come ha messo in evidenza la storiografia più recente, l’azione italiana era minata alle fondamenta dalla sottovalutazione dell’importanza per il Regno Unito degli aspetti economici dell’adesione e dal persistere di una valutazione sfavorevole riguardo alla coerenza e all’efficacia della politica estera della penisola, fattori che portarono al fallimento finale dell’opera di mediazione dell’Italia. Ciò nonostante, il prestigio personale di C. uscì senz’altro rafforzato dalla vicenda.

Tra il dicembre 1961 e il gennaio 1962 C., in collaborazione col ministro dell’Agricoltura Rumor, partecipò all’elaborazione della Politica agricola comune (PAC). I difficili negoziati portarono ad un risultato poco soddisfacente per l’agricoltura italiana, i cui interessi vennero sacrificati in nome dell’esigenza di raggiungere un accordo con la Francia che evitasse un prematuro collasso della costruzione comunitaria, ritenuta indispensabile al proseguimento e consolidamento del boom economico. Consci di questo vizio di origine, negli anni seguenti i responsabili politici italiani, in particolare C. col nuovo ministro dell’agricoltura Mario Ferrari Aggradi, concentreranno i loro sforzi sul tentativo di ottenere delle compensazioni e una riduzione del contributo italiano al Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia (FEOGA). L’azione italiana ottenne un parziale successo nella “maratona” agricola di fine 1964, ma il persistere del contrasto con la Francia relativamente alle spese agricole fu, insieme all’analogo atteggiamento di tedeschi e olandesi, tra i fattori scatenanti della cosiddetta “crisi della sedia vuota”, scoppiata nel luglio 1965, proprio all’inizio del semestre italiano di presidenza (v. anche Presidenza dell’Unione europea). Su C. ricadde ancora una volta l’onere di rappresentare l’Italia in questo frangente, mentre il ministro degli Esteri Fanfani e il Presidente del Consiglio Moro erano impegnati in un contrasto su temi di politica extraeuropea che portò in dicembre alle dimissioni di Fanfani. Il ministro del Tesoro dette ancora una volta prova delle sue qualità di mediatore, operando per ricucire lo strappo e nel dicembre 1965 un incontro C.-Couve de Murville (v. Couve de Murville, Maurice) pose le basi per le riunioni dei ministri degli Esteri dei Sei che il mese seguente avrebbero dato vita al Compromesso di Lussemburgo.

Inoltre, occorre ricordare che alla fine del 1962, quale Presidente del Consiglio dei ministri della CEE, C. condusse il negoziato per l’Associazione alla Comunità dei paesi africani che portò alla firma, il 20 luglio 1963, delle Convenzioni di Yaoundé.

Il 25 luglio 1970 C., che dopo la divisione del gruppo dei dorotei si era avvicinato a Giulio Andreotti, ricevette l’incarico di formare il governo. Nacque così, il 6 agosto, un governo quadripartito di centrosinistra destinato a durare, tra crescenti difficoltà dovute all’aggravarsi della situazione economica e sociale interna, per un anno e mezzo. Sul piano dell’integrazione europea, il governo C. si caratterizzò soprattutto per il tentativo di rilanciare, attraverso la presentazione nel giugno 1971 di un memorandum intitolato La politica dell’impiego nella Comunità, il tema della politica sociale comunitaria, nel tentativo di trovare una “soluzione europea” al problema della disoccupazione che gravava in particolare sul Mezzogiorno del paese. Le proposte di Roma furono oggetto di discussione a Bruxelles e, se esse vennero esaminate con interesse da parte della Commissione, non sollevarono gli entusiasmi della maggioranza dei partner dell’Italia, i quali, in quel periodo, nel campo della manodopera, soffrivano di problemi del tutto opposti a quelli italiani. È inoltre probabile che il carattere discontinuo della politica estera italiana, che nei periodi di maggiore instabilità del quadro politico interno non è mai riuscita a dare un seguito concreto alle iniziative prese, abbia finito per segnare la sorte della proposta italiana.

Riapertisi i negoziati per l’adesione britannica alla CEE, il governo italiano ribadì la sua posizione favorevole all’ingresso britannico attraverso dichiarazioni dello stesso C. che nel gennaio 1972 firmò, insieme al ministro degli Esteri Moro, il Trattato di adesione.

Dopo le dimissioni del febbraio 1972, C. fu ministro delle Finanze o del Tesoro in vari governi che si succedettero fino alle elezioni politiche del 1976. In questa occasione, che vide in difficoltà molti dei capi storici della DC, C. perse circa 30.000 preferenze rispetto alle precedenti elezioni. C. non entrò quindi nel governo della “non fiducia” formato da Andreotti. L’8 marzo 1977 fu eletto presidente del Parlamento europeo nel momento in cui l’Assemblea si avviava verso le prime Elezioni dirette del Parlamento europeo, a seguito della quale egli stesso venne chiamato di nuovo a farne parte nel marzo 1979. In seguito rivestì la carica di presidente della Commissione politica del Parlamento europeo. Nella disputa sull’ingresso nel Sistema monetario europeo (SME), C. intervenne nell’estate del 1978 per sostenere la causa dell’adesione immediata dell’Italia. A riconoscimento del suo impegno in ambito europeo, il 24 maggio 1979 ricevette ad Aquisgrana, terzo italiano dopo Alcide De Gasperi e Antonio Segni, il premio “Carlo Magno”.

Il 14 aprile 1980 C. si dimise da parlamentare europeo per assumere l’incarico di ministro degli Affari esteri nel II governo Cossiga, confermato successivamente nel governo Forlani (v. Forlani, Arnaldo), in quelli di Giovanni Spadolini e nel V Fanfani, rimanendo così in carica fino all’agosto 1983. In questa veste C. si trovò coinvolto nella nuova fase del rapporto Est-Ovest e nelle iniziative che caratterizzarono i nuovi scenari internazionali, concorrendo alla ripresa dei colloqui in ambito Commissione sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE) a Madrid. In questo periodo si registrò una ripresa dell’attenzione italiana verso l’area mediorientale di cui la dichiarazione di Venezia sulla politica europea per il Medio Oriente, adottata dal Consiglio europeo del 13 giugno 1980 sotto la presidenza italiana, fu una delle maggiori dimostrazioni. Sul piano comunitario l’azione del nuovo ministro degli Esteri si mosse lungo due direttrici. Da un lato, appena entrato in carica, C. si trovò ad affrontare il problema del contributo inglese al bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea), posto con forza dal governo guidato da Margareth Thatcher. Nel corso del Consiglio dei ministri del 29-30 maggio, condotto sotto la presidenza italiana, dopo una maratona negoziale di 20 ore, si arrivò ad una formula di compromesso che risolveva, almeno pro tempore, il problema del contributo britannico e, al contempo, attraverso il cosiddetto “mandato del 30 maggio”, attribuiva alla Commissione l’incarico di riesaminare il problema del bilancio da un punto di vista “globale” e di formulare possibili soluzioni entro un anno, ponendo le basi per un riesame generale delle politiche comunitarie, in particolare della PAC. D’altro canto, avviata a soluzione la questione di bilancio, l’opera del ministro degli Esteri si indirizzò al tentativo di riconquistare un ruolo di rilievo per l’Italia sulla scena europea, dopo la parziale eclissi dovuta alla crisi degli anni Settanta. In questa prospettiva l’azione italiana si concentrò sul ristabilimento di un’intesa forte con Francia e Germania. Mentre per quanto riguarda la prima i contatti bilaterali non diedero luogo a sviluppi significativi, con la seconda si registrò un’intesa sui temi dell’integrazione europea che portò alla redazione dell’Atto Colombo-Genscher (v. Piano Genscher-Colombo), presentato al Consiglio europeo del 26 e 27 novembre 1981. In estrema sintesi, l’Atto, figlio di un’iniziativa del ministro degli Esteri tedesco cui si era affiancata l’Italia, prevedeva un rafforzamento della cooperazione politica europea, in vista della messa in opera di una vera e propria politica comune, e l’estensione della competenza comunitaria in campo culturale e giuridico. Il documento non ebbe vita facile, criticato da un lato per la sua genericità e dall’altro visto con sospetto dai governi meno disponibili verso un’espansione degli ambiti sovranazionali. Dopo un lungo negoziato, la proposta italo-tedesca venne tradotta nella Dichiarazione solenne sull’Unione europea adottata nel corso del Consiglio europeo di Stoccarda (v. Dichiarazione di Stoccarda), del 19 giugno 1983, un atto non vincolante di indirizzo politico che ridimensionava di molto le ambizioni originarie dell’Atto. La Dichiarazione di Stoccarda ebbe comunque il non trascurabile merito di inserire all’ordine del giorno del dibattito politico europeo il tema dell’adeguamento “costituzionale” della Comunità, mentre al contempo indicava il «completamento del mercato interno» come l’area più praticabile dell’azione comunitaria nell’immediato futuro.

Successivamente C. fu, tra il 1987 e il 1988, ministro del Bilancio e della Programmazione economica nel governo Goria e ministro delle Finanze nel governo De Mita. Nel 1985 fu eletto presidente dell’Unione europea democratico-cristiana. Nel 1989 venne rieletto al Parlamento europeo e nominato relatore del progetto di costituzione europea in prosecuzione dell’iniziativa Spinelli (v. Spinelli, Altiero). Fu, inoltre, presidente della Commissione costituita dal Parlamento europeo per l’esame delle cosiddette “proposte dette Delors 2” (v. Delors, Jacques; Rapporto Delors) per l’attuazione degli obiettivi indicati nel Trattato di Maastricht. La risoluzione sulle basi costituzionali dell’UE presentata da C., che fondava l’unione politica sui principi della democrazia, del federalismo e sul Principio di sussidiarietà, fu approvata dal Parlamento europeo il 12 dicembre 1990.

Il 1° agosto 1992 C. fu di nuovo chiamato a ricoprire l’incarico di ministro degli Esteri nel governo di Giuliano Amato, in sostituzione del dimissionario Vincenzo Scotti, fino all’aprile 1993. In questa veste, C. sottolineò l’importanza di accompagnare la ratifica del Trattato di Maastricht con provvedimenti, soprattutto in materia di risanamento economico, volti a renderla più credibile e non l’espressione di un europeismo di maniera.

Il 2 marzo 1993 divenne presidente dell’Internazionale democratico-cristiana, incarico dal quale si dimise nel giugno 1995. Dopo la scomparsa della DC, aderì al Partito popolare italiano. Il 14 gennaio 2003 venne nominato senatore a vita dal Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi.

Francesco Petrini (2009)




Colonna di Paliano, Guido

Laureato in giurisprudenza all’Università di Napoli, nel 1933 C. di P. (Napoli 1908-Milano 1982) intraprende la carriera diplomatica, che negli anni successivi lo porterà a trasferirsi a New York, Toronto, Il Cairo, Stoccolma e, nell’immediato dopoguerra, a Londra.

Nel 1947-1948 è membro della delegazione italiana alla conferenza di Parigi sul Piano Marshall, dove si occupa soprattutto di problemi industriali e in modo particolare di siderurgia, settore che rimarrà al centro della sua attenzione anche quando, qualche anno dopo, assumerà la carica di segretario generale aggiunto dell’Organizzazione europea di cooperazione economica (OECE). In tale veste egli cercherà infatti di consolidare i legami fra la stessa Organizzazione e la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), riuscendo a favorire una serie di accordi di mutua informazione fra i due organismi. Nel corso degli anni Cinquanta contribuirà a stabilire relazioni analoghe con il Bureau international du travail (BIT), che sopravvivranno anche alla riforma dell’OECE e alla sua trasformazione, nel 1960, in Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE).

Intanto, nel 1956 C. di P. diviene vicedirettore per gli Affari politici del ministero degli Affari esteri, e nell’ottobre 1957 ottiene la carica di inviato straordinario e ministro plenipotenziario di seconda classe. Nel dicembre 1958 abbandona l’OECE per trasferirsi a Oslo con credenziali di ambasciatore della Repubblica italiana (v. Italia), carica che mantiene fino al 1962, quando torna a Parigi per assumere il ruolo di segretario generale aggiunto dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO). Presiede il Consiglio atlantico durante la crisi dei missili di Cuba dell’ottobre 1962.

Fra il 1964 e il 1970 è membro della Commissione europea della Comunità economica europea (CEE), prima con la responsabilità del mercato interno e dell’Unione doganale, in seguito degli Affari industriali. A partire dall’entrata in vigore, il 1° gennaio 1967, del Trattato di fusione degli esecutivi, sarà anche presidente del Consiglio di amministrazione del servizio comune di stampa e d’informazione delle Comunità europee.

Da commissario europeo, l’attenzione di C. di P. è rivolta innanzitutto agli effetti del mercato comune sull’economia comunitaria, e in particolar modo sul settore agricolo. Egli condivide con gli altri commissari una valutazione sostanzialmente negativa dei meccanismi della Politica agricola comune (PAC), che non sembra apportare particolari miglioramenti al poco concorrenziale settore primario dei paesi CEE. Per questo C. di P. è favorevole a una riforma della PAC che stimoli cambiamenti strutturali, favorendo innanzitutto la nascita di imprese di grandi dimensioni, che possano sfruttare i rendimenti di scala e raggiungere livelli più elevati di competitività sul mercato interno e mondiale. Nonostante gli sforzi dei membri della Commissione, tali concezioni non trovano però accoglienza positiva presso gran parte degli ambienti politici dei paesi membri.

Ma il lavoro più importante di C. di P. in veste di commissario europeo riguarda le questioni industriali. Il suo nome è infatti legato a un importante documento, intitolato La politica industriale della Comunità (ma più noto come “memorandum Colonna”), che la Commissione presenta al Consiglio dei ministri nel marzo del 1970, e che contiene una serie di proposte miranti a consolidare la struttura industriale europea. Concepito innanzitutto per rispondere ai profondi mutamenti subiti dall’economia comunitaria nell’ultimo decennio, il documento non nasconde comunque una visione strategica più ampia, che cerca di inserirsi nei progetti di “approfondimento” del processo d’integrazione (v. Approfondimento; Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) appena varati dai capi di Stato e di governo alla Conferenza dell’Aia del dicembre precedente. L’estensione delle Competenze comunitarie al settore monetario e l’avvio della cooperazione in materia di politica estera (v. Cooperazione politica europea (CPE) sembrano infatti prefigurare per la Comunità una “identità” politica fino a quel momento sconosciuta, della quale un settore industriale solido e competitivo rappresenterebbe l’indispensabile spina dorsale.

Non a caso, fin dalle prime pagine dell’introduzione, nel memorandum si parla della necessità di favorire la costituzione di un vero e proprio «tessuto industriale europeo», che assicuri contemporaneamente «le basi irreversibili dell’unità economica, e presto politica, dell’Europa occidentale, il proseguimento dell’espansione economica e un grado ragionevole di autonomia tecnologica rispetto ai grandi partner esterni» (Commissione delle Comunità europee, 1970).

Sul piano più strettamente economico, la Commissione cerca di rispondere alla sfida posta dalle multinazionali statunitensi, avvantaggiate non solo dalle loro grandi dimensioni o da quelle del loro principale mercato di riferimento, ma anche da una dotazione tecnologica mediamente superiore a quella europea. Il memorandum propone quindi alcune linee d’azione volte a colmare gli svantaggi dell’industria del vecchio continente rispetto a quella d’oltreatlantico. La prima consiste nel completamento del Mercato unico europeo, che richiederà l’eliminazione delle numerose barriere al commercio intracomunitario rimaste anche dopo la realizzazione, il 1° luglio 1968, dell’unione doganale. La seconda è un’Armonizzazione del quadro giuridico e fiscale, per eliminare possibili discriminazioni fra le merci e i fattori di produzione dovute alle differenze fra i sistemi nazionali (v. anche Principio di non discriminazione). Analogamente, sarà necessario unificare il quadro finanziario per realizzare la Libera circolazione dei capitali, elemento costitutivo essenziale del mercato comune (v. anche Comunità economica europea).

Il “cuore” della proposta della Commissione è però nella terza linea d’azione, che punta da una parte a favorire un processo di concentrazione industriale tale da conferire alle imprese europee dimensioni più adeguate alla competizione internazionale, dall’altra a stimolare lo sviluppo delle tecnologie di punta utilizzando, ad esempio, fondi comunitari per finanziare programmi di ricerca europei (v. anche Programmi comunitari). Inoltre, per affrontare adeguatamente le conseguenze sociali della ristrutturazione industriale, la quarta linea d’azione del memorandum Colonna prevede l’avvio di una vera e propria politica regionale (v. Politica di coesione) e una riforma del Fondo sociale europeo che ne adatti i meccanismi alle nuove esigenze.

Corollari fondamentali dell’intero disegno sono poi individuati nell’avvio di un dialogo fra le Parti sociali a livello europeo e nella realizzazione di una vera Politica dell’istruzione comunitaria, considerato che «le necessità dello sviluppo economico non richiedono, come spesso si crede, un insegnamento sempre più pratico e specializzato, ma al contrario una formazione di base concepita per permettere gli adattamenti e le riconversioni, vale a dire i cambiamenti di mestiere nell’età adulta» (Commissione delle Comunità Europee, 1970).

Infine il memorandum individua una “dimensione esterna” della politica industriale comunitaria, consistente nella promozione di un sistema di scambi più liberi su scala mondiale e in un’azione volta a favorire lo sviluppo dei paesi più poveri attraverso vasti programmi di cooperazione tecnologica e di discriminazione commerciale positiva verso i loro prodotti.

Il memorandum non trova l’appoggio sperato da parte dei governi degli Stati membri e, anche a causa dei problemi economici e valutari che di lì a poco investiranno l’Europa, finirà sostanzialmente dimenticato nel corso degli anni Settanta. Esso ha comunque il pregio di raccogliere in un disegno unitario e coerente alcune delle tematiche chiave della vita economica comunitaria, parte delle quali guideranno gli sviluppi del processo d’integrazione nei decenni successivi. Per questo rappresenta probabilmente l’eredità più importante dell’esperienza europea di C. di P., che l’8 maggio del 1970, appena due mesi dopo la pubblicazione del memorandum, presenta le proprie dimissioni da commissario.

Abbandonata contemporaneamente anche la carriera diplomatica, C. di P. usa la lunga esperienza in campo internazionale per ottenere incarichi importanti nel settore dell’industria privata, divenendo membro dei consigli di amministrazione della FIAT, della Compagnia generale di elettricità (CGE) e del Gruppo Solvay, presidente della Rinascente, e assumendo anche responsabilità di rilievo in seno a Confindustria. Il tutto gli varrà la nomina a Cavaliere del lavoro.

Nel 1973 C. di P. è inoltre uno dei fondatori della Commissione trilaterale, organismo promosso da David Rockefeller e composto di personalità del mondo politico ed economico nordamericano, europeo e giapponese, fra le quali Zbignew Brzezinski, George Bush senior, Giovanni Agnelli e l’ex ministro degli esteri Kichi Miyazawa. Scopo dell’organizzazione è combattere contro ogni forma di nazionalismo economico e favorire un’apertura generale dei mercati mondiali, cercando al contempo di smorzarne le conseguenze sociali meno accettabili. In tale contesto C. di P. partecipa al gruppo di lavoro sulle questioni commerciali, collaborando alla stesura del rapporto Directions for world trade in the nineteen-seventies che, pubblicato nel 1974, individua in una forte riduzione delle barriere tariffarie la via migliore per affrontare i problemi posti dalla crisi petrolifera e valutaria e per creare l’atmosfera di collaborazione necessaria a tale scopo.

Lorenzo Mechi (2010)




Colorni, Eugenio

C. (Milano 1909-Roma 1944), originario da una famiglia ebraica, dopo aver abbandonato le prime convinzioni sionistiche, trasmessegli in età adolescenziale dai cugini Enzo ed Emilio Sereni, e compiuti gli studi al Liceo Manzoni, si iscrive nel 1926 alla facoltà di Lettere e filosofia di Milano. Quivi frequenta le lezioni di Giuseppe Antonio Borgese e di Piero Martinetti, i maestri ai quali si sente più legato. Proprio con Martinetti (uno degli undici professori universitari a non giurare fedeltà al fascismo nel 1931) si laurea nel 1930 con una tesi su Sviluppo e significato dell’individualismo leibniziano. L’appassionato interesse di C. per la filosofia, testimoniato dai suoi molteplici contributi apparsi su varie riviste, si snoda in un tormentato e complesso itinerario. Il quale, partendo da Benedetto Croce, e attraverso una progressiva presa di distanza dall’idealismo e dallo stesso Croce, perverrà in ultimo, grazie fra l’altro a una personale recezione critica di Leibniz e Kant, oltre che dei più innovativi indirizzi scientifici, a un originale abbozzo di filosofia della scienza.

L’impegno politico di C. si svilupperà parallelamente ai suoi studi filosofici, tanto che nel 1930 subisce già un primo fermo di polizia per aver lanciato grida ostili contro il fascismo durante una lezione di Borgese. Non è esente da ciò l’influenza del gruppo che si riunisce attorno alla rivista di Lelio Basso “Pietre”, nata a Genova nel 1926 ma diventata milanese nel 1927, e alla quale lo stesso C. collaborerà. Il passaggio a una vera e propria militanza politica si avrà con l’avvicinamento agli ambienti milanesi di Giustizia e libertà, mantenendo egli i contatti con il nucleo giellista di Torino, che faceva capo prima a Leone Ginzburg e poi a Vittorio Foa, nonché collaborando alla diffusione dei “Quaderni di Giustizia e libertà”. Nel frattempo, dopo un breve periodo fra il 1932 e il 1933 trascorso come lettore di italiano all’Università di Marburgo, vince il concorso per l’insegnamento di storia e filosofia nei licei. Dopo una prima assegnazione al Liceo Grattoni di Voghera, nel 1934 passa all’Istituto magistrale Carducci di Trieste, città dove conosce Umberto Saba, Eugenio Curiel, Bruno Pincherle e Pier Antonio Quarantotto Gambini. Nel 1935 sposa a Milano Ursula Hirschmann, conosciuta nel 1931 a Berlino, dalla quale avrà tre figlie: Silvia, Renata ed Eva.

In seguito agli arresti torinesi del 1935, che infliggono un duro colpo al movimento giellista, C. si mette in contatto con il Centro interno socialista, sorto a Milano nel 1934 per iniziativa di Rodolfo Morandi, Lucio Luzzato, Lelio Basso e altri. La linea politica del Centro, come dichiarato nella Presentazione della redazione italiana di “Politica socialista” (la più importante rivista del socialismo italiano durante il periodo del fuoruscitismo) era quella della ricostruzione del partito e della lotta antifascista. C., negli articoli che andava pubblicando su “Politica socialista” e sul “Nuovo Avanti!”, pur aderendo a questa linea, introdurrà alcuni elementi di discussione. In particolare sulla necessaria attenzione all’apporto positivo che alcuni settori delle classi medie avrebbero potuto portare nella lotta al fascismo; ma anche, contestualmente, alla vera e propria rivoluzione socialista. In tal senso egli mostrava la sua fiducia nello spontaneismo dell’azione delle masse, considerato già esso una forma di organizzazione. Nell’intento inoltre di creare un fronte comune nella lotta al fascismo, e quindi nell’ipotesi di una possibile alleanza fra comunisti e socialisti, C. mostrerà in più occasioni il suo dissenso nei confronti della concezione leninista del partito, intravedendo le difficoltà derivanti dall’organizzazione troppo gerarchica e piramidale del partito comunista. Pur nel contesto quindi di una collaborazione possibile con esso, egli considererà assai discutibile, anche per garantire l’autonomia dei socialisti, una vera e propria unità organica fra i due partiti.

Dopo gli arresti di Morandi e Luzzato nell’aprile 1937, spetta a C. la direzione del Centro fino al settembre 1938, data del suo arresto a Trieste. Dopo un breve periodo nel carcere di Varese, viene assegnato al confino a Ventotene, dove giunge nel gennaio 1939. Qui stringe subito amicizia con Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Manlio Rossi Doria, i quali divengono compagni di studio e di intense discussioni che porteranno alla maturazione del programma federalista (v. Federalismo). Spinelli e C., pur nella condivisione dell’obiettivo, cioè la federazione europea, lo rivestiranno però di valenze e motivi diversi. C. prese parte alla fase di elaborazione che precedette la stesura del Manifesto di Ventotene nel 1941, senza però sottoscriverlo; e questo per una serie di probabili ragioni. La prima era l’ambito a suo avviso poco soddisfacente della base politica e ideologica da cui traeva ispirazione il documento; e cioè sostanzialmente il tronco giellista, le dottrine liberal-democratiche e il federalismo anglossassone degli anni Trenta, supportato dalla lettura di economisti quali Wicksteed, Robbins (v. Robbins, Lionel), e Pigou. La seconda risiedeva nel problema dei rapporti diplomatici con i comunisti, che l’adesione di un socialista al Manifesto avrebbe comportato. Ma quella sicuramente decisiva, e comprovata anche dalla corrispondenza successiva tra Spinelli e C., era la scelta di campo in senso occidentale operata dagli autori. Spinelli riteneva che la federazione europea si doveva compiere con l’appoggio e l’aiuto delle democrazie occidentali, altrimenti non sarebbe mai nata. Questo per C., il quale considerava l’apporto della Russia sovietica una fondamentale forza rivoluzionaria per l’Europa, era inaccettabile. Tali divergenze non gli impediranno comunque di proseguire la sua collaborazione al progetto federalista, anche con l’intenzione di sensibilizzare l’area socialista in tale direzione.

Nell’ottobre 1941, grazie all’intervento di Giovanni Gentile, C. fu trasferito a Melfi, ove riuscì a evadere dal confino nel maggio 1943. Recatosi a Roma in clandestinità, insieme a Guglielmo Usellini e Cerilo Spinelli (fratello di Altiero), fa pubblicare il primo numero di “L’Unità europea”, destinato a diventare la voce ufficiale del Movimento federalista europeo (MFE). Dopo la liberazione dal confino di Spinelli il 18 agosto 1943, C. cercò di convincerlo a entrare nel partito socialista, facendolo incontrare con Pietro Nenni, senza tuttavia riuscire a spingere Nenni verso l’europeismo federalista, e Spinelli verso l’adesione al partito. Avendo egli comunque abbracciato oramai in pieno la causa federalista, parteciperà alla riunione di fondazione del MFE a Milano a casa di Mario Alberto Rollier il 27 e 28 agosto 1943.

A Roma C. aveva ripreso contatto con i gruppi socialisti che si erano andati organizzando negli ultimi mesi del regime fascista intorno al Partito socialista di unità proletaria (PSIUP), divenendo membro della direzione provvisoria del ricostituito partito, nonché redattore capo dell’“Avanti!” clandestino. Curerà inoltre l’edizione definitiva del Manifesto di Ventotene, pubblicato nel gennaio 1944 con il titolo Problemi della federazione europea. C. vi aggiungerà una sua prefazione, nella quale sfatava il mito socialista secondo cui la federazione europea sarebbe stato il risultato automatico della costituzione di governi popolari e progressisti. Quindi poneva la priorità della federazione rispetto all’impegno per la risoluzione dei problemi istituzionali, economici, e sociali. Solo infatti in un quadro politico continentale unitario, realizzabile dopo la guerra, essi avrebbero potuto trovare soluzioni veramente adeguate attraverso un confronto tra forze politiche non appiattite in un ambito strettamente nazionale.

Alessandra Petrone (2010)




COMECON

Consiglio di mutua assistenza economica (COMECON)




Comitati e gruppi di lavoro

Il diritto comunitario e la pratica istituzionale dell’Unione europea hanno dato vita a una moltitudine di comitati e gruppi di lavoro che assistono le istituzioni europee nelle loro funzioni (v. Istituzioni comunitarie), anche se i loro compiti non corrispondono necessariamente alla loro denominazione. Una prima distinzione fondamentale tra comitati e gruppi di lavoro è che i primi (specialmente i più importanti nel processo di decisione comunitario (v. Processo decisionale) sono istituiti direttamente dai Trattati o dal diritto secondario (atti legislativi europei) (v. anche Gerarchia degli atti comunitari). I gruppi di lavoro, invece, sono creati direttamente dalle istituzioni per assistere quest’ultime nelle loro funzioni.

In ordine di importanza sul piano giuridico-istituzionale, i Trattati hanno istituito i seguenti comitati:

– Il Comitato economico e sociale (CES) previsto dall’art. 257 del Trattato istitutivo delle Comunità europee (TCE) (v. Trattati di Roma). Si tratta di un organo consultivo delle tre principali istituzioni (in particolare della Commissione europea e del Consiglio dei ministri) che interviene sia nella fase legislativa che in quella prelegislativa.

– Il Comitato delle Regioni (CdR) previsto dall’art. 263 del TCE. Anche il CdR è un organo consultivo che dà pareri alle tre istituzioni (Commissione, Consiglio e Parlamento europeo) su provvedimenti che interessano le autorità regionali e locali.

– Il Comitato dei rappresentanti permanenti (COREPER) previsto dall’art. 207 TCE. Si tratta di un organo sussidiario del Consiglio dei ministri che prepara i suoi lavori ed esegue i mandati che gli sono affidati da quest’ultimo.

– Il Comitato politico e di sicurezza previsto dall’art. 25 TUE (Trattato sull’Unione europea) (v. Trattato di Maastricht), come anche il Comitato di coordinamento previsto dall’art. 36 TUE, svolgono funzioni analoghe a quelle del COREPER nelle materie appartenenti al c.d. “secondo pilastro” (v. Pilastri dell’Unione europea) (politica estera e di sicurezza) (v. Politica estera e di sicurezza comune) e al “terzo pilastro” (cooperazione penale e di polizia) (v. Giustizia e affari interni).

– Il TCE prevede la creazione di altri comitati che hanno come funzione principale quella di seguire l’evoluzione dei settori di loro competenza, di formulare pareri su richiesta del Consiglio e della Commissione europea e di preparare i lavori del Consiglio. Si tratta del Comitato economico e finanziario (art. 114 TCE) e del Comitato per l’occupazione (art. 130 TCE). Tali Comitati organizzano al tempo stesso il coordinamento delle politiche nazionali nei settori di loro competenza (v. anche Competenze), tenuto conto delle competenze limitate dell’Unione in questi settori.

– Il TCE prevede anche la creazione di un Comitato speciale per assistere la Commissione nelle sue funzioni di negoziatrice di accordi internazionali (bilaterali o multilaterali) nel campo della Politica commerciale comune. Si tratta del Comitato detto 133 poiché previsto da tale articolo del TCE. Per analogia con questa disposizione, la Commissione è assistita da altri Comitati composti da funzionari nazionali nel suo ruolo generale di negoziatrice di accordi internazionali nei vari settori di competenza comunitaria (trasporti, ambiente, pesca, proprietà intellettuale, ecc.).

– Il TCE prevede inoltre la creazione di un Comitato consultivo presso la Commissione europea nel settore dei trasporti (art. 79) (v. anche Politica comune dei trasporti della CE).

– Infine, il TCE prevede nel suo articolo 251, comma 4, la riunione di un Comitato di conciliazione composto da rappresentanti del Consiglio e del Parlamento europeo al fine di trovare un accordo tra le due istituzioni nell’ambito della procedura detta di codecisione (v. Procedura di codecisione).

Una seconda distinzione fondamentale tra comitati e gruppi di lavoro composti da esperti nazionali riguarda la maggioranza degli organismi che assistono la Commissione europea nell’esercizio delle sue funzioni (sia di iniziativa legislativa che di esecuzione). Da questo punto di vista (l’assistenza alla Commissione), sussiste una differenza importante tra gruppi di esperti e comitati. La Commissione europea è assistita da circa 1300 gruppi di esperti nazionali nell’esercizio dei suoi poteri di iniziativa legislativa e di controllo della corretta applicazione del diritto europeo. Questi 1300 gruppi sono creati direttamente dalla Commissione o dai suoi servizi, e sono composti da esperti nazionali che si esprimono generalmente a titolo personale e non come rappresentanti delle proprie autorità o organizzazioni di provenienza. Tali esperti possono essere funzionari nazionali come anche esperti provenienti dall’industria, dai sindacati o da organizzazioni della società civile. Il loro compito è quello di fornire pareri tecnici o scientifici alla Commissione prima che quest’ultima elabori una proposta legislativa o rediga un rapporto sull’esecuzione di una legge europea.

La Commissione ha creato e reso pubblico un registro generale di tutti i gruppi che l’assistono nella preparazione di proposte legislative o iniziative politiche al fine di assicurare la necessaria trasparenza. Tale registro comprende sia i gruppi formalmente istituiti sia i gruppi informali, e fornisce informazioni sulla natura e i compiti di ciascun gruppo, nonché il servizio competente della Commissione responsabile per la sua attività. Il registro fornisce anche informazioni sui membri del gruppo, compatibilmente con le regole sulla protezione dei dati personali e la vita privata. La Commissione europea è anche assistita da circa 260 comitati composti da funzionari nazionali che partecipano all’esercizio della sua funzione esecutiva (vale a dire l’approvazione di circa 3000 misure esecutive ogni anno che danno attuazione alle leggi europee). A differenza dei gruppi di esperti, tali comitati sono creati dal legislatore europeo (Consiglio da solo oppure Consiglio e Parlamento europeo) e non direttamente dalla Commissione. Inoltre, i comitati sono composti da funzionari nazionali che si esprimono a nome del loro governo e non a titolo personale. In taluni casi (comitati di gestione o di regolamentazione), il voto sfavorevole di una maggioranza di membri del comitato può impedire l’approvazione della misura da parte della Commissione e l’intervento in appello del Consiglio.

Paolo Ponzano (2007)