Craxi, Benedetto (Bettino)

Statista e politico italiano (Milano 1934-Hammamet, Tunisia 2000), C. è stato dirigente del Partito socialista italiano, di cui diviene segretario nazionale nel luglio 1976, con il partito al minimo storico in termini di consenso elettorale (poco più del 9%), mantenendo ininterrottamente l’incarico fino al febbraio 1993.

Primo socialista nella storia repubblicana a ricoprire la carica di Presidente del Consiglio dei Ministri, guiderà consecutivamente due governi di coalizione DC-PSI-PSDI-PLI-PRI, dall’agosto 1983 all’aprile 1987.

Vicepresidente dell’Internazionale socialista dal 1978 al 1993, è nominato nel dicembre 1989 Rappresentante personale del segretario generale dell’ONU, Peréz De Cuéllar, per i problemi del debito dei paesi in via di sviluppo. Assume successivamente l’incarico di Consigliere speciale per i problemi dello sviluppo e del consolidamento della pace e della sicurezza.

Coinvolto nelle inchieste giudiziarie che agli inizi degli anni Novanta travolgono il sistema politico italiano, si ritira nel 1994 in Tunisia, ove si spegne nel 2000.

Pochi statisti europei come C., ha argomentato lo storico Piero Craveri, hanno contribuito in maniera fortemente decisiva al grande rilancio della costruzione comunitaria europea (v. Craveri, 2006).

In effetti il dossier europeo ha sempre occupato uno spazio prioritario nell’agenda politica craxiana. L’Europa che C. aveva in mente, ricorda Gennaro Acquaviva, uno dei suoi più stretti collaboratori negli anni di Palazzo Chigi, non era quella che tra la seconda metà degli anni Settanta e l’inizio del successivo decennio prendeva forma a Bruxelles, tecnocratica e commerciale: «era piuttosto un’Europa politica, per la quale, nella sua visione, dovevano operare maggiormente i grandi paesi membri, Stati-nazione tutt’altro che al tramonto, su cui occorreva basarsi innanzi tutto per fondare la costruzione della solidarietà europea e assicurare forte slancio politico alla sua azione. A suo avviso, solo dopo un più forte radicamento del concetto nelle identità culturali dei maggiori paesi si sarebbe potuto passare ad un reale processo di unificazione, che sarebbe stato a quel momento conforme agli interessi della società europea» (v. Acquaviva, 2010).

Alle origini della politica estera di C. vi è anche un disegno politico legato al ruolo del PSI nello scenario italiano. Il segretario socialista intuisce sin da subito che l’impegno per smarcare il suo partito dalla doppia subalternità nei confronti di comunisti e democristiani non può prescindere dalle considerazioni di carattere sopranazionale, in un tornante storico in cui, dopo una prolungata fase di distensione, la ripresa acuta del confronto bipolare ha nuovamente come teatro anche l’Europa. Le scelte di politica internazionale non possono essere considerate «come corollari anonimi ed indifferenti rispetto al dibattito interno».

Sin dai primi interventi in Parlamento nelle vesti di segretario del Partito socialista, C. pone l’accento sulle tematiche comunitarie. Ciò accade, ad esempio, il 10 agosto 1976 nel corso del dibattito sulla fiducia al governo di Giulio Andreotti, un monocolore democristiano che si reggerà grazie all’astensione dei partiti dell’arco costituzionale. L’unità europea, è il senso del discorso, va letta in una prospettiva di aumento dell’indipendenza e del peso politico degli Stati europei nei confronti della politica mondiale e in una linea di progressiva apertura verso i paesi della regione mediterranea.

All’idea di un Mediterraneo pacifico, non più area gravida di tensioni, C. si rifarà continuamente, sollecitando un maggiore ruolo di influenza e di iniziativa dell’Europa nella soluzione degli spinosi problemi sul tappeto, primo fra tutti il conflitto arabo-israeliano.

La relazione di esordio al Comitato centrale del 15 novembre 1976 è l’organica presentazione del neo-segretario dinanzi al massimo organismo politico del PSI; C. pone nell’occasione alcuni punti fermi sulla politica del momento e su quella futura. Appare evidente il proposito di accentuare la presenza della forza socialista nel contesto comunitario: la partecipazione socialista alle attività dei movimenti e delle associazioni europeistiche possono concorrere per C. «a rendere più incisiva la nostra presenza nei processi di integrazione e di costruzione dell’Europa e nella definizione di una linea socialista europea» (v. anche Integrazione, teorie della).

Un’Europa, argomenta C. dalla tribuna del XLI Congresso del PSI, che si apre a Torino il 29 marzo 1978, ripiegata su se stessa e divisa da particolarismi ed egoismi nazionali, cui bisogna porre rimedio attraverso un rilancio delle Istituzioni comunitarie «isterilite e inefficaci». Rilancio necessario per consentire alla Comunità di svolgere appieno il suo importante ruolo nello sviluppo delle relazioni con i paesi dell’Est ed in rapporto alle prospettive della regione euro-mediterranea.

Nella seconda metà degli anni Settanta, il nodo dell’europeismo investe l’intero sistema politico italiano. L’1 dicembre 1977 la Camera dei deputati approva, dopo un ampio dibattito, una mozione sugli indirizzi della politica estera italiana sottoscritta e presentata dai sei partiti della “non sfiducia”. Nel documento viene espresso «apprezzamento positivo per gli indirizzi e l’opera dell’Italia nel quadro dell’Alleanza atlantica e della Comunità europea», definite «il termine fondamentale di riferimento» della politica estera del nostro paese.

L’importante convergenza su un terreno fino a quel momento considerato come “discriminante” fra le diverse forze politiche, non si rinnova l’anno successivo sul problema dell’adesione al Sistema monetario europeo (SME), un’adesione che avrebbe comportato per l’Italia risvolti non certo secondari sul piano della politica interna.

L’accelerazione impressa alla vicenda dal governo Andreotti, che il 12 dicembre 1978 invita la Camera a pronunciarsi sull’adesione immediata allo SME, suscita malumori presso socialisti e comunisti. Mentre il PCI esprime voto contrario insieme ai deputati radicali, missini ed a quelli di Democrazia proletaria, i socialisti, dopo un serrato dibattito interno che all’orientamento favorevole di C. vede contrapposto quello contrario della corrente lombardiana, scelgono di astenersi. Proprio l’astensione del PSI risulterà determinante ai fini dell’aggancio immediato dell’Italia al Sistema monetario europeo.

Il tessuto dell’unità nazionale conosce dunque un primo grave strappo su un punto decisamente qualificante e riguardante, per di più, «quell’impegno europeo che i comunisti avevano accettato, sebbene in ritardo rispetto agli altri partiti, e che aveva finito col rappresentare un elemento importante della loro evoluzione politica» (v. Gismondi, 1986).

La rottura sul nodo dell’europeismo si verifica a pochi mesi dalla data cruciale delle prime elezioni a suffragio universale diretto del Parlamento europeo di Strasburgo.

Un appuntamento che consente a C., ed è il motivo dominante della sua campagna elettorale, di intensificare i rapporti con le altre forze del socialismo europeo, in primis la socialdemocrazia tedesca, per fare del partito di via del Corso una forza europea, in sintonia con i maggiori partiti socialdemocratici dell’Europa occidentale, capace di una sua linea coraggiosamente autonoma. L’obiettivo è quello di dimostrare che «il socialismo europeo può avere una politica estera credibile, corrispondente alle esigenze del continente» (v. Romano, 2006).

All’Eurocomunismo berlingueriano, il segretario del PSI contrappone l’eurosocialismo, che conta su una tradizione democratica per affrontare il problema fondamentale dell’Europa, quello cioè di un’alternativa alle forze conservatrici e reazionarie.

Le consultazioni europee, che si tengono ad una settimana di distanza dalle elezioni politiche nazionali, rappresentano la grande occasione per offrire al PSI un volto diverso, consentendogli anche di giocare un nuovo ruolo sullo scacchiere politico interno.

Un assunto ripreso dallo storico Gaetano Quagliariello, secondo il quale la campagna elettorale del 1979 si caratterizza per «un investimento esplicito su un europeismo finalmente affrancato dall’originaria prospettiva terzaforzista»; in tale cambiamento può scorgersi «la propensione del partito, sul piano interno, ad entrare in concorrenza elettorale con il PCI, ma anche con le forze moderate e in particolare con la DC» (v. Quagliariello, 2006).

Al tema dell’europeismo C. farà riferimento in molte occasioni. Nel marzo 1979, nel corso di un intervento pubblico a Milano, il segretario del PSI denuncia l’esistenza di un «europeismo genericamente idealistico e astratto, che è anche una delle forme di espressione politica delle forze più conservatrici». A esso contrappone disegni europei «assai più consistenti di programmi e di rafforzamento delle attuali e di nuove istituzioni». È necessario per C. che il Parlamento europeo non si riduca a una mera facciata rappresentativa, ma «assuma ed utilizzi in pieno il suo potere costituente».

Entrando più nello specifico alla dinamica sociale, C. ritiene essere uno dei problemi di fondo della cooperazione europea il riequilibrio regionale e la cooperazione in favore delle aree depresse: «evitare l’egemonia dei paesi forti da un lato, la decomposizione dei paesi deboli dall’altro».

Il 24 aprile 1979, durante un vertice di partito, il segretario socialista tiene un lungo discorso, dal titolo “Socialismo e libertà”, nel quale da un lato si richiama al ruolo attivo dell’Italia nell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), e dall’altro alla vocazione europeista e all’eurosocialismo, definito la più grande realtà politica dell’Europa occidentale. Riprese da un editoriale del quotidiano “Avanti!”, le parole del segretario sono dirette a dare forza ed a proporre il PSI come il motore di una strategia di «alternativa di sinistra», sulla scia di una tradizione socialdemocratica fortemente consolidata nel resto del continente ma praticamente assente nel contesto italiano.

La campagna elettorale per il Parlamento di Strasburgo, che i socialisti italiani affrontano all’insegna dello slogan “L’Italia progredisce con l’Europa, l’Europa va avanti con i socialisti”, si apre ufficialmente il 2 maggio 1979 a Torino, alla presenza di C. e del presidente dell’Internazionale socialista, Willy Brandt.

Nel capoluogo piemontese, tra l’altro, il leader del PSI evidenzia il contributo offerto dal suo partito all’elaborazione di una piattaforma programmatica comune delle forze socialiste europee da presentare agli elettori, in base a quanto stabilito a Bruxelles il 10 gennaio 1979 nel corso del X Congresso della Confederazione socialista europea. È in quell’occasione che Willy Brandt, François Mitterrand, James Callaghan e lo stesso C. sottolineano l’importanza delle consultazioni europee quale ulteriore mezzo per accelerare il progresso verso una società libera dall’oppressione e dallo sfruttamento.

Gli incontri con gli altri leader del socialismo europeo si intensificano nel corso delle settimane che precedono la data del 10 giugno 1979, per culminare nella grande manifestazione di fine maggio a Parigi nel corso della quale Brandt, C. e Mitterrand lanciano lo slogan: “Cinquanta milioni di voti socialisti costruiranno l’Europa dei lavoratori”.

Per quanto concerne le dinamiche politiche interne, il 9 luglio 1979 il Presidente della Repubblica Sandro Pertini conferisce a C. l’incarico di formare il nuovo governo. Il tentativo del leader socialista dura meno di due settimane: egli dovrà rinunciare al mandato di fronte alla decisa avversione della segreteria democristiana.

Tra gli obiettivi prioritari dell’azione di governo che C. propone, quello relativo alla politica internazionale, che in riferimento al versante comunitario recita: «sviluppo coerente del processo di integrazione europea operando per portare a compimento il processo di integrazione politica, favorendo l’allargamento dei poteri del Parlamento europeo; per una maggiore integrazione economica (coordinamento delle politiche monetarie, finanziarie, energetiche, industriali; revisione della Politica agricola comune); per l’assunzione di una politica estera comune; per l’allargamento della Comunità, oltre che alla Grecia, alla Spagna e al Portogallo».

Concetti che verranno ribaditi due anni dopo, nel corso del dibattito sulla fiducia al governo di Giovanni Spadolini, il primo Esecutivo guidato da un esponente “laico” dal 1945, al quale partecipano anche i socialisti.

Fondamentale è per C. il ruolo che l’Europa deve assumere nell’elaborazione di una politica e di un’iniziativa comune con gli Stati Uniti nel campo del negoziato e della pace.

Altrettanto forte è l’auspicio per un ruolo attivo dell’Italia in ambito comunitario, cui il nascente esecutivo sarebbe stato chiamato a fornire nuovo impulso, rifiutando in Europa «la miopia degli assi e dei direttori».

Il 28 novembre 1981, intervenendo al Comitato centrale del PSI, C. non nasconde il proprio pessimismo sulla crisi profonda che investe la Comunità economica europea (CEE), la sua politica e le sue istituzioni. Il processo di costruzione europea ristagna per difetto di strumenti, carenza di iniziative, lentezze e ritardi. Dalla presa d’atto di una simile situazione, l’appello a uno sforzo per riproporre in termini aggiornati «il ruolo, le possibilità, i doveri di una Comunità che deve ormai entrare in un nuovo stadio del suo sviluppo, realizzando fasi più avanzate del processo di integrazione politica ed economica nell’Europa».

Propositi, questi ultimi, che assumono un rilievo centrale anche nel corso dei lavori della Conferenza programmatica del PSI, il momento forse più significativo del “nuovo corso” socialista, che si apre a Rimini il 31 marzo 1982.

Il 9 agosto 1983, ricevuto l’incarico di formare il nuovo governo, C. ne illustra il quadro programmatico e gli obiettivi di azione in Parlamento: «L’Europa resta per noi il cuore delle nostre relazioni, dei nostri legami, delle amicizie e degli interessi ed anche il cruccio per la inadeguatezza delle istituzioni comunitarie, gli squilibri esistenti e quelli temuti nelle politiche comunitarie, l’evidente condizione di crisi che rende difficile una risposta europea nei campi dove più necessario ed intenso dovrebbe e dovrà farsi lo sforzo di solidarietà e collaborazione, a partire dal fronte monetario internazionale aggredito dalla prepotenza del dollaro, ai problemi della innovazione tecnologica e della ricerca, al fronte sociale della lotta alla disoccupazione. L’Italia difenderà ad un tempo con coerenza e lealtà l’idea dello sviluppo comunitario, le idee della progettualità europea e la necessità di un armonico equilibrio nella difesa e garanzia dei legittimi interessi nazionali».

Negli indirizzi programmatici allegati all’illustrazione del Presidente del Consiglio, si legge: «Rimarrà fermo l’impegno dell’Italia per l’integrazione europea, che non potrà non tradursi in un’azione ferma e coraggiosa, anche sul terreno istituzionale, volta a consentire alla Comunità il perseguimento di interessi effettivamente sopranazionali e non soltanto l’equilibrio e la compensazione, non sempre paritari, di interessi nazionali. Si dovrà inoltre pervenire ad una realistica e sollecita soluzione dei problemi che ancora ostacolano l’allargamento ai paesi dell’Europa mediterranea che ne hanno fatto domanda».

È da Palazzo Chigi che C. fornisce un impulso nuovo alla costruzione comunitaria europea. Ben cosciente della mancata coesione comunitaria e, più in generale, dell’assenza dell’Europa da fronti importanti e decisivi per l’avvenire, il neo-residente del Consiglio avvia una riflessione di fondo sugli obiettivi e le condizioni stesse della vita istituzionale europea, rivelandosi in grado di tradurre principi, propositi e progetti in decisioni concrete.

Nel biennio 1984-1985 il dibattito europeo raggiunge una particolare intensità. Nel corso del XLIII Congresso del PSI, che si tiene a Verona nel maggio 1984, dopo aver annunciato l’approvazione ed il sostegno dell’Italia al nuovo progetto istituzionale avanzato dal Parlamento europeo, C. pone l’accento sulle questioni più spinose che in quel momento attraversano la vita comunitaria, bloccando l’avanzamento del processo di integrazione europea: il contenzioso con il Regno Unito sul bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea), l’Allargamento della Comunità a Spagna e Portogallo, il rilancio della tecnologia europea, l’adozione di nuove strategie industriali.

Sciolto durante il Consiglio europeo di Fontainebleau del giugno 1984 il nodo del contributo inglese al bilancio della Comunità, il tema dell’allargamento irrompe nell’agenda politica comunitaria, caratterizzando la presidenza semestrale di turno della CEE che l’Italia assume nel gennaio 1985 (v. anche Presidenza dell’Unione europea).

C. si reca a Madrid e Lisbona, ove rinnova l’impegno della presidenza italiana ad accelerare i tempi dei negoziati di adesione dei due paesi iberici, consentendo loro l’ingresso nella Comunità a partire dal 1° gennaio 1986.

Dopo settimane di difficili trattative condotte in prima persona dal ministro degli Esteri Andreotti, in particolare sul problema dei prodotti agricoli e della pesca, al Consiglio europeo di Bruxelles del 29 e 30 marzo 1985 l’Italia ottiene un importante successo diplomatico e l’impegno personale del presidente C. porta al raggiungimento di un accordo sulla spinosa questione collegata all’adesione, quella dei Programmi integrati mediterranei (PIM).

La soddisfazione per la conclusione del negoziato di adesione dei due paesi iberici, protrattosi per otto anni, è evidente nelle parole che C. pronuncia il 17 aprile 1985 dinanzi al Parlamento europeo. L’ingresso nella CEE dei due nuovi membri conferma la capacità della Comunità di «crescere, svilupparsi e rafforzarsi».

La presidenza italiana si caratterizza altresì per il forte accento posto sul tema delle riforme necessarie ad assicurare un migliore funzionamento della vita comunitaria e a realizzare un migliore equilibrio interistituzionale. Un progetto di avanzamento istituzionale della Comunità da portare avanti simultaneamente al completamento del mercato interno.

Il Presidente del Consiglio italiano non nasconde le difficoltà di un’evoluzione politico-istituzionale: «non dimentichiamo che, allo stato delle cose, siamo in un regime comunitario unanimistico e che più di una grande Nazione appare assai prudente nell’accostarsi in questo momento sia al contenuto della problematica istituzionale sia alle relative procedure».

L’attività di C. è febbrile nei mesi che precedono il Consiglio europeo del 28 e 29 giugno 1985, che si tiene al Castello Sforzesco di Milano. Ai dibattiti pubblici e agli interventi in Parlamento si accompagnano gli incontri e le consultazioni con i principali attori della politica europea. In ogni occasione C. ribadisce la ferma intenzione della presidenza italiana di creare le condizioni perché l’Europa si doti di una soggettività politica oltre che di una maggiore forza economica, facendo con ciò proprie le raccomandazioni del Comitato Dooge (v. Dooge, James), incaricato a Fontainebleau di elaborare proposte di riforma in materia istituzionale.

All’apertura del Vertice che conclude il semestre italiano di presidenza della CEE, C. è posto di fronte all’intransigente opposizione del premier britannico Margaret Thatcher, contraria a ogni ipotesi di rafforzamento istituzionale della Comunità, e all’ambiguità di Helmut Kohl e Mitterrand, pronti a tirar fuori dal cassetto un progetto franco-tedesco di trattato sulla politica estera e di sicurezza, ma elusivo sulle questioni istituzionali. Le manovre franco-tedesche che precedono l’appuntamento di Milano non suscitano l’entusiasmo della presidenza italiana. Sospettoso che dietro quell’attivismo si nasconda l’intenzione di Kohl e Mitterrand di rilanciare da un lato la loro leadership in ambito comunitario, e dall’altro di giungere ad una soluzione di basso profilo – un accordo di ripiego che eviti la rottura insanabile con la Thatcher – C. intensifica gli sforzi e le pressioni per schivare i tentativi di marginalizzazione della sua presidenza.

Pur costretto a delle «concessioni tattiche», egli riesce ad assicurarsi il sostegno franco-tedesco, in questo abilmente sostenuto dal ministro degli Esteri Andreotti, e a imprimere una svolta decisiva alle lente logiche comunitarie con la decisione di formalizzare il dissenso esistente tra i Dieci ricorrendo al criterio del voto. In particolare, il presidente italiano si appella alla procedura indicata dall’art. 236 dei Trattati di Roma, constatando l’esistenza della maggioranza necessaria per la convocazione di una Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative)che, incaricata di elaborare un progetto di Trattato sulla cooperazione nel campo della sicurezza e della politica estera e di negoziare i primi adeguamenti istituzionali ai Trattati del 1957, avrebbe dovuto sottoporre i risultati delle sue deliberazioni al successivo Consiglio europeo di Lussemburgo.

Il “decisionismo” craxiano provoca una spaccatura in seno al Consiglio; la mozione proposta dal presidente di turno della CEE viene approvata dai sei paesi fondatori della Comunità, ai quali si aggiunge l’Irlanda. Esprimono voto contrario la Gran Bretagna (v. Regno unito), la Grecia e la Danimarca. Il premier britannico, in particolare, definisce lo “strappo” di procedura craxiano «sconsiderato e gravido di rischi». Con la scelta di ricorrere al voto, C. infrange dunque un tabù che da sempre aveva condizionato la vita dei Consigli europei: quello del Voto all’unanimità.

Tra gli altri risultati raggiunti nel corso del Vertice di Milano, l’approvazione degli obiettivi contenuti nel Libro bianco (v. Libri bianchi) della Commissione europea, guidata dal 1° gennaio 1985 dal francese Jacques Delors, sul completamento del mercato interno entro il 1992; l’attenzione alla “dimensione tecnologica”, con l’accordo sul progetto francese “Eureka”; il consenso sulle proposte del Comitato Adonnino per far avanzare l’Europa dei cittadini, con l’accento posto su settori quali la cultura, la gioventù, l’istruzione, l’ambiente, lo sport.

La prima riunione della Conferenza intergovernativa si tiene il 9 settembre 1985; le trattative si protraggono per alcuni mesi e portano all’accordo, in realtà un compromesso, siglato nel corso del Consiglio europeo di Lussemburgo del 2 e 3 dicembre 1985. Nasce l’Atto unico europeo, che modifica i Trattati di Roma. Ne escono indubbiamente ridimensionati i propositi ambiziosi dei mesi precedenti, e lo sforzo per trovare un accordo unanime comporta il sostanziale abbandono dei capisaldi della riforma istituzionale.

Pur considerandolo un primo timido passo nella giusta direzione, il governo italiano non nasconde la propria insoddisfazione sul mancato aumento dei poteri del Parlamento europeo e sulla scarsa cooperazione tra quest’ultimo e il Consiglio, condizione necessaria alla realizzazione di un reale processo di codecisione tra i due organi (v. anche Processo decisionale).

Lo scontento di Roma su un accordo giudicato inferiore alle aspettative è testimoniato anche dalla scelta di sottoscrivere l’Atto Unico europeo il 28 febbraio 1986 in compagnia di Grecia e Danimarca, undici giorni dopo la firma apposta dagli altri Stati membri. Al momento della firma, il ministro degli Esteri italiano Andreotti fa mettere agli atti una nota di dissenso ufficiale per quella che ritiene «una risposta parziale ed insoddisfacente all’esigenza di sostanziali progressi nella direzione indicata dal Parlamento europeo».

Le tematiche connesse al rilancio della Cooperazione politica europea e al riequilibrio interistituzionale continuano negli anni successivi a rappresentare il cardine dell’orientamento europeo di C. E l’insoddisfazione per lo stato di salute dell’Europa riecheggia frequentemente anche dopo aver lasciato la poltrona di Palazzo Chigi.

Dalla tribuna del XLIV Congresso nazionale del PSI (Rimini, 31 marzo-5 aprile 1987), C. denuncia amaramente l’assenza di un’Europa politica e rileva il rischio che quella europea rimanga una costruzione incompleta, limitata ed inadatta a proiettarsi verso l’avvenire. Tra le risoluzioni finali approvate dall’Assise socialista, vi è quella che contempla la necessità di una politica estera comune, condizione necessaria per consentire all’Europa di parlare con una voce sola sulla scena internazionale e per mostrarsi interlocutore affidabile e necessario «nella grande opera di mediazione per la pace».

Sul finire degli anni Ottanta, C. si confronta con il problema dell’Europa in una fase di importanti cambiamenti degli equilibri politici ed economici mondiali. Al centro dei suoi interventi è la grande svolta nei rapporti Est-Ovest per gli accordi sul disarmo e per il nuovo clima di cooperazione tra le due superpotenze. È proprio in relazione a questi profondi mutamenti che C. continua a misurare i ritardi dell’Europa. Accanto a un maggiore e più efficace coordinamento tra i paesi membri, gli appare necessaria la creazione di una nuova identità europea in materia di sicurezza: «un’Europa unità può sviluppare con i Paesi dell’Est un dialogo di ampio respiro che abbia obiettivi di pace, di disarmo, di cooperazione e di scambi».

L’insistenza sul tema della revisione del quadro istituzionale comunitario non perde vigore, nonostante vengano accentuati i riferimenti all’ambito dell’integrazione economica e sociale dinanzi a un’Europa comunitaria in cammino verso il Mercato unico.

Il 15 febbraio 1989, presentando a Roma il testo del Manifesto politico-programmatico messo a punto dall’Unione dei Partiti socialisti europei, C. esprime la convinzione che occorra costruire, intorno al Mercato, una Comunità più progredita e solidale, «meno disuguale nelle condizioni di vita e di lavoro, aperta umanamente alle ragioni profonde dell’unità culturale, della continuità e omogeneità dello spazio più ampio dischiuso ai cittadini. La maggiore unità monetaria, di governo della produzione, la struttura della società, il superamento del divario fra le aree territoriali, sono oggi le materie che toccano il cuore dell’integrazione e formano il crogiuolo in cui deve maturare la Comunità».

Gli eventi del biennio 1989-1991 preannunciano nuove impegnative prove, ponendo di conseguenza l’Europa dei Dodici di fronte a più grandi e ineludibili responsabilità.

Intervenendo a Berlino al Congresso dell’Unione dei Partiti socialisti della Comunità europea (febbraio 1990), C. riconosce che la profonda crisi e le trasformazioni in atto nei paesi dell’Est europeo indicano nuovi traguardi per la realizzazione di quella Comunità solidale fortemente auspicata dalle forze socialiste: «La prospettiva futura dei nostri rapporti con l’Europa orientale potrà essere non solo una partnership nella sfera degli scambi commerciali, ma configurarsi come un’associazione destinata a generare vincoli più impegnativi, giacché si fonda sulle radici della nostra comune identità di nazioni europee. Istituire con noi questo rapporto è per i paesi dell’Est una libera scelta. Per l’Occidente, favorire la loro vocazione europeistica e condividerla attivamente è un mandato morale».

Quanto poi al delicato capitolo della Riunificazione tedesca, il leader del PSI la definisce una tappa obbligata e fondamentale, pur esprimendo la convinzione che essa debba restare intimamente legata al processo di integrazione comunitaria. Il 4 aprile 1990, intervenendo dinanzi al Parlamento europeo, C. trova il modo di chiarire la propria posizione: «una Germania unificata in una Comunità debole avrebbe un effetto disgregante. La risposta deve essere l’accelerazione dell’integrazione, oltre la puntuale realizzazione del mercato unico, e la revisione dei meccanismi istituzionali della Comunità che dovrà deciderla una Conferenza intergovernativa da convocare parallelamente a quella monetaria, secondo un impegno che vorremmo fosse preso già al Consiglio europeo di Dublino».

Gli anni Novanta segnano una nuova tappa nel processo di costruzione comunitaria. Il passaggio a una moneta unica europea prima della fine del secolo rappresenta per C. un’evoluzione resa necessaria dalla crescente interdipendenza dell’economia mondiale. Ciò non di meno, il nuovo Trattato di Maastricht avrebbe dovuto fissare, negli intendimenti del segretario socialista, «la vocazione dell’Unione a trattare tutti gli aspetti della politica estera, sicurezza e difesa».

Il 3 luglio 1992, nel corso del dibattito sulla fiducia al governo di Giuliano Amato, in quello che è destinato a essere uno degli ultimi interventi di C. in Parlamento, spazio importante è nuovamente dedicato al processo di costruzione europea: «Sono questi gli anni del passaggio verso un’Europa più unita, più integrata e augurabilmente più coesa. È naturalmente fondamentale che l’Italia riesca a raggiungere il passo dei suoi grandi partner europei e che, per far questo, si mostri capace di compiere tutti gli sforzi che devono essere realizzati. […] tuttavia dobbiamo insistere a chiederci quale Europa vogliamo e verso quale Europa vogliamo indirizzarci: non verso un’Europa sottratta ad ogni controllo dei poteri democratici; non verso politiche determinate solo sulla base di criteri macroeconomici, indifferenti di fronte alla valutazione dei costi sociali […]. Un’Europa che guardi al proprio riequilibrio interno ma anche all’altra Europa, che si è liberata dal comunismo, ma che rischia di restare ancora separata e divisa, non più, come è stato detto, dalla cortina di ferro, ma dal muro del denaro».

Un’Europa, in definitiva, «capace di una vera politica estera e di una più larga apertura verso il mondo più povero che preme alle sue porte».

Andrea Spiri (2012)




Cresson, Édith

C. (Boulogne-Billancourt, Parigi 1937) è figlia di Gabriel Campion, ispettore generale delle finanze iscritto alla Section française de l’International ouvrière (SFIO) – un caso raro che quindi vale la pena di sottolineare – e da Jacqueline Vignal, appartenente a una agiata famiglia borghese. Fino al 1937 la famiglia abita in una villa a Boulogne-Billancourt ed Édith è affidata alle cure di una governante inglese, alla quale deve la perfetta conoscenza di questa lingua. Nel 1940, a sei anni, a seguito dell’invasione tedesca, viene mandata in Savoia. Dopo la Liberazione, la carriera del padre la porta a viaggiare da Belgrado al Marocco. La giovane Édith viene iscritta al collegio religioso Dupanloup. Poi entra agli Hautes études commerciales (HEC) – Jeunes filles, «una scuola per stenodattilografe d’eccellenza», secondo la sua stessa definizione. Dal 1958 al 1960, è ricercatrice nella Compagnie française des pétroles. Incontra Jacques Cresson, quadro superiore alla Peugeot, e lo sposa nel dicembre 1959. Sceglie di seguirlo a Nantes, dove si occupa delle due figlie Alexandra e Nathalie. Insegna in un liceo e comincia a scrivere una tesi sulla vita femminile in un comune rurale del cantone di Guéméné-Penfao. Dieci anni più tardi, dopo il dottorato in demografia, dirigerà diversi istituti economici.

A trent’anni, la strada di C. si incrocia con quella di una vecchia compagna di scuola, Paulette Decraene, che la inizia alla militanza politica. Nel 1965, le due donne lavorano insieme per la campagna presidenziale del candidato François Mitterrand e nello stesso anno, C. aderisce alla Convention des institutions républicaines (CIR), al cui interno, un anno più tardi, diventa responsabile degli affari agricoli. Nel 1967, Édith conosce Mitterrand e, nel 1971, lo segue nel Partito socialista (PS), nella Federazione di Parigi. Nel 1974, entra a far parte del comitato direttivo come segretario nazionale incaricato della gioventù e degli studenti.

Contrariamente all’opinione di Pierre Abelin, ministro di Valéry Giscard d’Estaing e deputato-sindaco di Châtellerault, Mitterrand sa quello che fa quando manda il “suo piccolo soldato” C. in battaglia, in occasione delle elezioni legislative parziali del 1975. Di fronte alle critiche e alle polemiche, la candidata risponde laconicamente: «Mi piace la mischia». E lo dimostra andando al ballottaggio con Abelin. Questa prima tornata è salutata come un successo e il mondo politico conosce ormai il suo nome. Le elezioni municipali del 1977, molto favorevoli alla sinistra, la portano alla guida del municipio di Thuré, un comune del dipartimento della Vienne. Due anni dopo, ottiene il mandato europeo. Simone Veil, all’epoca presidente del Parlamento europeo, ricorda di averla trovata «molto settaria», ma anche «molto europea». C. fa parte della commissione agricoltura, un settore che ritrova in Francia quando viene nominata ministro dell’Agricoltura nel gabinetto di Pierre Mauroy, dopo la vittoria socialista alle elezioni presidenziali del 1981. Mitterrand le ha anticipato alcune difficoltà affidandole questo ministero: «Sarà dura fisicamente: le maratone di Bruxelles durano tutta la notte e logorano la salute». Ma la presenza sul campo di questa “parigina” elegante e sorridente scatena reazioni estremamente violente. C. affronta con coraggio due anni di scontri e di insulti per difendere la Politica agricola comune (PAC), criticata da numerosi Stati. Il “piccolo soldato”, diventato deputato della Vienne nel 1981 e consigliere generale del dipartimento l’anno seguente, non demorde. Nel 1983, realizza la sua prodezza conquistando il municipio di Châtellerault, unica città con oltre 30.000 abitanti che la sinistra strappa allo schieramento avversario. Nello stesso anno, il Presidente della Repubblica le affida il ministero del Commercio estero e del turismo con un handicap in partenza: un deficit di 93 miliardi di franchi. C. si batte per inserire nel suo ministero anche l’industria, e realizza questo obiettivo nel 1984, creando il ministero della Riorganizzazione industriale e del Commercio estero. Gli industriali si compiacciono della sua lungimiranza poiché considerano questi due aspetti intrecciati.

Nel 1986, la destra ha il sopravvento nelle elezioni legislative e Mitterrand incarica Jacques Chirac di formare il governo, inaugurando una “coabitazione” destinata a ripetersi. Per due anni, C. è segretario nazionale del PS con incarico per l’industria. Nel 1988, è nominata ministro degli Affari europei, un posto tagliato su misura per lei, in quanto in precedenza era solo un’emanazione del ministero degli Esteri. Il suo compito consiste nel preparare la presidenza francese della Comunità europea (v. anche Presidenza dell’Unione europea) dal luglio 1989 al 1° gennaio 1990. Ben presto, le sue iniziative si scontrano con l’ostilità più o meno larvata di tutti i dipartimenti ministeriali che hanno rapporti con l’Europa, e C. arriva a dare le sue dimissioni nel 1990. A quel punto, l’industriale Didier Pineau-Valencienne, che pur gode di una reputazione negativa tra i socialisti, nomina C. alla testa della Schneider Industries services international, una filiale del gruppo Schneider incaricata di favorire l’inserimento e lo sviluppo del gruppo nell’Europa dell’Est.

Il 15 maggio 1991, C. diventa la prima donna primo ministro di Francia. Simone Veil commenta così la sua nomina: «Sono contenta che sia una donna e che fra le donne sia Édith C. Ha fatto le sue esperienze come ministro. Si è assunta vere responsabilità. Credo che vi siano momenti in cui uno choc è più importante della continuità di una politica. Lo choc ha sempre effetti psicologici». Nel suo nuovo ruolo, C. viene ben presto sommersa dalle critiche, seppure molti francesi apprezzino i segni di modernità e di apertura. Il suo governo è il più breve della storia della V Repubblica, dura esattamente 323 giorni.

In occasione del referendum sulla ratifica del Trattato di Maastricht, C. concede un’intervista al “Journal du dimanche”, in cui comunica la sua visione della situazione: «Il successo dell’Europa come modello politico e sociale ispirato dalla Francia insieme ai suoi partner ha bisogno di un’economia francese forte. Questo è possibile solo con l’Europa. La costruzione europea, attenuando le crisi, aiutando le regioni più povere, rilanciando la cooperazione industriale, stimolando la ricerca, dando impulso alla politica sociale, è un fattore di pace». La sua visione eminentemente economica, e sempre volontaristica, la spinge ad analizzare la situazione in termini di blocchi contrapposti. L’Europa dovrà affrontare molto presto i problemi derivanti dal crollo del sistema comunista, come il controllo dei flussi di migrazione verso l’Ovest, le forme di sostegno economico da fornire ai paesi dell’Europa centro orientale, i potenziali conflitti. C. ribadirà le sue convinzioni nel libro Innover ou subir pubblicato nel 1998.

Dopo l’insuccesso delle elezioni legislative nel marzo 1992, C. torna alla presidenza della Schneider industries stratégies internationales environnement e contemporaneamente è a capo dell’Institut d’études européennes dell’Università di Parigi VIII.

Nel 1994 diventa commissario europeo negli ambiti Scienza, Ricerca, Educazione e Formazione (v. anche Commissione europea); è responsabile di 4300 persone, che rappresentano l’organico principale di un’istituzione che ne conta 21.000. Il bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) assegnato nel 1995 al settore Ricerca e sviluppo ammonta a 2 miliardi di ECU. L’esecuzione del IV Programma quadro è in corso e se ne delineano i tratti salienti; si rafforza soprattutto la partecipazione europea delle imprese, che rappresentano il 40% degli oltre 12.000 partecipanti ai 2600 progetti sostenuti. Le piccole e medie imprese hanno beneficiato di incoraggiamenti particolari, con effetti positivi che si sono avvertiti immediatamente sui loro progetti di ricerca e di sviluppo. Un altro sforzo coronato da successo è rivolto alle cosiddette regioni con ritardi di sviluppo, che vengono sempre più coinvolte. Il 1995 vede un’iniziativa importante in cui si riconosce nettamente l’impronta di C., vale a dire il lancio delle task-force ricerca/industria che intendono rinsaldare la collaborazione fra industria e ricerca di base intorno a sfide industriali e sociali di particolare rilievo, come l’aereo di nuova generazione, i software educativi multimediali, l’automobile, i treni e i sistemi marittimi del futuro, l’intermodalità nei trasporti, l’ambiente e l’acqua, i vaccini e le malattie virali. Concentrando i mezzi della ricerca e dello sviluppo, la Commissione intende dare a questo settore una maggiore visibilità sulla scena internazionale. Viene avviata un’intensa consultazione degli ambienti industriali, dei responsabili politici della ricerca e dei suoi fruitori. Viene stilato un inventario dei problemi, ai quali le task force cominciano a lavorare dal 1996. Anche Le Livre vert de l’innovation en Europe, pubblicato alla fine del 1995, ispira numerosi dibattiti.

Nel 1998, inizia il V Programma quadro e l’Unione europea allestisce un proprio padiglione all’Esposizione di Lisbona. Dopo un viaggio in Israele in novembre, dove constata de visu la presenza degli americani nei laboratori e nelle università, C. riesce a far votare dal Parlamento un accordo di associazione fra Israele e l’Unione europea.

C. è all’origine della prima dimissione collettiva della Commissione europea, il 16 marzo 1999. All’inizio dell’anno, l’eurodeputata belga Nelly Maes sporge alla giustizia belga una denuncia che coinvolge anche C. La commissaria avrebbe concesso un “impiego fittizio” a un amico, René Berthelot, dentista a Châtellerault, a spese dei contribuenti dell’Unione europea. Risulta, infatti, in base a tredici false note di spesa, che Berthelot, deceduto all’epoca della denuncia, sarebbe stato impiegato come visitatore scientifico, fra il 1995 e il 1997, dal gabinetto del commissario C., per l’ammontare di 150.000 euro. La denuncia iniziale verte anche su presunte frodi legate alla gestione del programma Leonardo per la formazione continua; secondo le accuse, C. si sarebbe mostrata compiacente, o meglio avrebbe fatto dei favoritismi, nei confronti di un’industria francese.

Dopo due mesi di inchiesta, il Comitato dei saggi, che raggruppa esperti indipendenti, consegna al Parlamento europeo il suo rapporto nel quale si parla di episodi di frode, di cattiva gestione e di nepotismo. Quindi, il Parlamento costringe alle dimissioni la Commissione diretta dal lussemburghese Jacques Santer, al quale succede Romano Prodi, il 15 settembre dello stesso anno.

Nel febbraio 2000, la Commissione europea revoca l’immunità a C. su richiesta del giudice di Bruxelles Jean-Claude van Espen che, nel marzo 2003, la accusa di «falso in scritture, contraffazione e peculato». Il 21 gennaio dello stesso anno, cioè tre anni dopo le dimissioni della commissaria, la Commissione annuncia la sua intenzione di invitare C. a rispondere alle «accuse di aver violato i suoi obblighi durante il mandato di commissario». A chi si stupisce di fronte a una reazione così ritardata, il portavoce del commissario europeo incaricato della riforma amministrativa risponde che si tratta della fase finale di una procedura normalmente lenta. È la prima volta che viene presa una simile iniziativa contro un commissario europeo. Otto funzionari europei sono messi sotto inchiesta e C. rischia che decadano i suoi diritti alla pensione di commissario europeo. Nel settembre 2003, la Commissione europea, che si costituisce come parte civile nel processo condotto dalla giustizia belga, avvia parallelamente la sua inchiesta amministrativa, precisando che potrebbe andare in appello contro una prima decisione di sospensione.

C., che per cinque volte ha risposto per iscritto alle questioni sollevate dalla Commissione, si stupisce di questo accanimento che ritiene sia rivolto più contro la Francia che contro la sua persona. Al giornale “Le Monde” parla di un «affare montato di sana pianta» e osserva che la Christilich-demokratische Union (CDU), partito del centrodestra tedesco, da tre mesi manifesta nei suoi confronti un’incredibile aggressività.

L’edizione di “Le Monde” del 29 maggio 2004 riporta un rapporto del 3 febbraio precedente, il cui contenuto è stato tenuto fino a quel momento segreto. In questo documento, un sostituto della procura belga chiede di lasciar cadere la maggioranza delle accuse contro l’ex commissario e gli altri otto coimputati, perché alcuni fatti di corruzione presunta non si basano su prove inconfutabili. Resta in piedi solo l’accusa di impiego fittizio a Berthelot, il cui costo, in realtà, non supera i 6936 euro. Il 30 giugno 2004, C. beneficia di un non luogo a procedere da parte della giustizia belga. La Commissione europea, il 19 luglio, annuncia comunque che intende rivolgersi alla Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea), accusando l’ex commissaria di «favoritismo» e di «negligenza manifesta». C. reagisce, denunciando la lobby «estremamente attiva» che siede al Parlamento europeo e che, a suo parere, si nasconde dietro un «discorso moralizzatore». C., che si considera una «esiliata dall’interno», resta comunque un’artefice appassionata della costruzione europea.

Fabrice D’Almeida (2009)




Cristiane Scrivener




Criteri di adesione

Riunendosi a Copenaghen, del 12 e 13 dicembre 1993, il Consiglio europeo riconobbe il diritto ad aderire all’Unione europea (UE) dei paesi dell’Europa centrale e orientale «in grado di assumere gli obblighi» a essa connessi e di adempiere a precise condizioni economiche e politiche. Nel definire queste condizioni, esso formulò tre criteri, i cosiddetti criteri di Copenaghen, ormai universalmente considerati i criteri di adesione all’Unione.

Il primo criterio si ispira all’art. 49 del Trattato dell’UE, che stabilisce il diritto di diventare membro dell’Unione di ogni Stato europeo che rispetti i principi di «libertà, democrazia, rispetto dei diritti dell’Uomo, delle libertà fondamentali e dello Stato di diritto» (v. anche Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea).

Il secondo criterio, cosiddetto economico, richiede che i paesi candidati all’adesione dispongano di un’economia di mercato efficiente e, in secondo luogo, che questa economia sia capace di far fronte alle pressioni concorrenziali e alle forze del mercato dell’Unione.

Il terzo ed ultimo criterio, infine, esige il recepimento dell’Acquis comunitario, ossia il rispetto del corpus legislativo dell’Unione e l’assunzione degli altri obblighi derivanti dall’appartenenza all’Unione, compresi gli obiettivi di un’unione politica, economica e monetaria.

In seguito al Consiglio di Copenaghen, le istituzioni europee hanno ulteriormente approfondito le modalità e il contenuto di questi criteri.

La Strategia di preadesione per i paesi dell’Europa centro orientale varata dal Consiglio europeo di Essen (dicembre 1994), ad esempio, ha individuato alcune misure chiave del mercato interno (v. Mercato unico europeo) e alcune priorità nel ravvicinamento delle legislazioni e nel dialogo istituzionale il cui recepimento è considerato prioritario in vista dell’adesione.

Nel 1995 il Consiglio europeo di Madrid ha sottolineato l’importanza dell’adeguamento delle strutture amministrative per consentire il corretto recepimento della normativa UE a livello nazionale (v. Diritto comunitario).

Il Consiglio di Lussemburgo del 1997, infine, ha identificato alcuni precisi criteri di valutazione del recepimento dell’acquis comunitario, mentre “Agenda 2000” ha ulteriormente specificato i criteri economici.

L’insieme di questi elementi ha costituito il punto di riferimento delle relazioni sullo stato di avanzamento dei paesi candidati e associati (v. Associazione) realizzate dalla Commissione europea a partire dal 1998.

Da questi rapporti emerge il rispetto del criterio politico come prerequisito necessario all’apertura di qualsiasi negoziato di adesione. Per valutarne il rispetto, la Commissione ha esaminato elementi diversi come l’indipendenza e la trasparenza della pubblica amministrazione e del sistema giudiziario, la valutazione dei sistemi carcerari o il rispetto delle Pari opportunità e dei diritti delle minoranze, ecc.

Per quanto concerne il criterio economico, dai rapporti della Commissione emerge che l’esistenza di un’economia di mercato efficiente è valutata soprattutto in relazione alla liberalizzazione dei prezzi e degli scambi e all’esistenza di un regime giuridico basato sul diritto comprendente il diritto di proprietà. Fa però parte di questo criterio anche l’esame di altri elementi, quali la stabilità macroeconomica e il consenso sulla politica economica; l’esistenza di un settore finanziario ben sviluppato e l’assenza di ostacoli rilevanti all’entrata e all’uscita dal mercato. Per il secondo elemento («capacità di far fronte alle pressioni concorrenziali e alle forze di mercato all’interno dell’Unione») sono necessari un capitale umano e materiale sufficiente e adeguate infrastrutture; viene preso in considerazione inoltre il livello di ammodernamento delle imprese, la loro capacità di investire e di accedere al finanziamento esterno e il grado di integrazione economica con l’Unione.

L’acquis comunitario, infine, è stato suddiviso in diversi capitoli per ciascuno dei quali sono state identificate alcune priorità. I negoziati di adesione si sono ispirati però al principio che ciascun candidato debba adottare integralmente le norme e la legislazione vigente; vengono quindi condotte trattative solo sui settori che i candidati dichiarano di non poter applicare sin dall’adesione e per i quali richiedono un regime transitorio.

Flavia Zanon (2008)




Criteri di Convergenza

Per “criteri di convergenza” si intende un insieme di requisiti richiesti agli Stati membri per l’adesione alla terza fase dell’Unione economica e monetaria (UEM) (v. anche Criteri di adesione), enunciati a Maastricht in un protocollo allegato al Trattato istitutivo della Comunità europea (v. Trattato di Maastricht).

Il rispetto di tali criteri era volto a realizzare tra le economie aderenti all’area una convergenza tale da consentirle uno sviluppo equilibrato e costante. I quattro criteri contenevano requisiti fondamentali in materia di finanza pubblica, stabilità dei prezzi, tassi di cambio e livelli dei tassi di interesse.

Per quanto concerne la finanza pubblica, Maastricht stabiliva la regola generale per cui avrebbero potuto aderire all’UEM i paesi che non fossero stati oggetto di una decisione del Consiglio dei ministri circa l’esistenza di un disavanzo eccessivo. Questo principio fu ulteriormente esplicitato dalla Commissione europea nel valutare il rispetto del criterio da parte dei membri. Il collegio utilizzò a questo scopo due distinti parametri: il rapporto tra il disavanzo pubblico e il prodotto interno lordo, che doveva essere inferiore al 3%, e il rapporto fra debito pubblico lordo e PIL, che non doveva superare il 60%. Di questi, al momento dell’avvio dell’UEM si adottò però una interpretazione flessibile e dai paesi non in grado di rispettarli fu accettato l’impegno a un riavvicinamento tendenziale e costante.

Il secondo criterio, la stabilità dei prezzi, venne definito sulla base di un tasso di inflazione non superiore all’1,5% di quello dei tre Stati membri più virtuosi, che avevano cioè ottenuto la maggiore stabilità.

Per quanto concerne i tassi di cambio, al fine di aderire alla moneta unica (v. Euro) Maastricht richiedeva che ogni Stato membro avesse partecipato al meccanismo di cambio del Sistema monetario europeo senza gravi tensioni e senza soluzione di continuità per almeno due anni.

Il tasso di interesse nominale medio a lungo termine, infine, non doveva aver superato di oltre due punti percentuali quello dei tre Stati membri che avevano conseguito il migliore risultato in termini di stabilità dei prezzi.

Il rispetto di questi criteri fu preso in esame dal Consiglio dei ministri delle Finanze nel maggio del 1998 sulla base delle valutazioni della Commissione e della Banca centrale europea (v. anche Sistema europeo di Banche centrali). Su questa base il Consiglio individuò gli 11 paesi (dei 15 allora membri) che erano in grado di aderire alla moneta unica fin dal suo avvio. Rimasero esclusi Danimarca, Regno Unito, Svezia e Grecia.

Danimarca e Regno Unito non furono in realtà sottoposti all’esame avendo ottenuto a Maastricht una clausola di opting-out dalla moneta unica. Similmente la Svezia non soddisfaceva il criterio dei tassi di cambio perché, non intendendo partecipare alla moneta unica, non aveva mai aderito allo SME. La Grecia, infine, pur non soddisfacendo allora i criteri, adeguò in seguito la propria economia per aderire all’UEM nel 2001, due anni dopo il suo avvio.

I criteri di convergenza continuano oggi a essere il punto di riferimento per l’adesione all’UEM di ogni nuovo Stato membro.

Principalmente su richiesta tedesca, per i timori legati all’adesione di paesi, come Italia e Belgio, con una tradizione di bilancio meno rigorosa, il Consiglio europeo di Amsterdam del 1997 stipulò un Patto di stabilità e di crescita. Lo scopo del Patto era il mantenimento di una disciplina di bilancio anche tra i paesi già integrati nell’UEM; a questo scopo veniva conferita al Consiglio la facoltà di sanzionare ogni membro che si astenesse dal prendere i provvedimenti necessari a risanare una situazione di deficit eccessivo.

Il rispetto degli altri criteri fu invece diversamente garantito. Il Sistema monetario europeo venne sostituito da un meccanismo di cambio comune, mentre il controllo dei tassi di cambio e la politica monetario fu affidato alla Banca centrale europea.

Flavia Zanon (2009)