Dahrendorf, Ralf Gustav

Sociologo, filosofo e politologo tedesco, D. (Amburgo 1929-Colonia 2009) fu uno dei più noti esponenti del pensiero liberale europeo e della teoria del conflitto di stampo weberiano. D. si espresse più volte criticamente nei confronti del liberalismo classico e del suo esasperato individualismo, cercando nel difficile equilibrio tra libertà politica, coesione sociale e benessere economico una risposta efficace alle sfide che il nuovo millennio poneva all’evoluzione delle società moderne. I suoi scritti e studi propongono la creazione di società aperte di natura universale che condividano diritti umani e civili. Come uomo politico tedesco ed europeo D. influenzò in modo critico-costruttivo il processo di unificazione europea (v. Integrazione, teorie della).

Presidente della Società tedesca per la Sociologia (Deutsche Gesellschaft für Soziologie), membro del Parlamento tedesco per il Partito liberale (Freie Demokratische Partei) sottosegretario presso il ministero degli Affari esteri, membro della Commissione europea e direttore della London school of Economics and Political science, warden del St. Antony’s College dell’Università di Oxford.

Figlio di un parlamentare del Partito socialdemocratico tedesco (Sozialdemokratische Partei Deutschlands, SPD) del Reichstag, D. fu influenzato dall’ambiente familiare, da cui venne educato alla difesa dei valori democratici. Ancora giovanissimo fu coinvolto in atti di propaganda contro lo Stato nazista che gli costarono la carcerazione e il campo di concentramento. Liberato con l’arrivo dei russi, alla fine della guerra si iscrisse all’Università di Amburgo, dove studiò filosofia, filologia classica e sociologia. Nel 1952 ottenne il dottorato di ricerca in filosofia nella stessa università con uno studio su Karl Marx. Dal 1953 al 1954 D. decise di proseguire gli studi socio-economici presso la London School of Economics and Political science e nel 1957 discute la tesi di abilitazione per una cattedra universitaria all’Università di Saarbrücken in Germania. A partire dal 1957 insegnò in varie università, inizialmente come professore di sociologia all’Università di Amburgo (dal 1957 al 1960), poi all’Università di Tubinga (dal 1960 al 1964) e, infine, all’Università di Costanza (dal 1966 al 1969).

D. si avvicinò alla politica attiva nel dopoguerra, quando divenne membro per un breve periodo della Lega tedesca degli studenti socialisti (Sozialistische Deutsche Studentenbund, SDS) guidata da Helmut Schmidt; in seguito divenne membro tedesco della SPD. Nel 1967 si iscrisse al Partito liberale (Freie Demokratische Partei, FDP), con il quale si era già candidato nelle liste regionali. A partire dal 1967 si dedicò, insieme al segretario generale Karl-Hermann Flach, al rinnovo del programma del partito.

Nel 1969 D. venne eletto al Parlamento tedesco (Bundestag) per il Partito liberale e nello stesso tempo fu nominato sottosegretario agli Affari esteri sotto il primo governo Willy Brandt, retto da una coalizione di socialisti e liberali (SPD-FDP). Fin da subito in contrasto con la Ostpolitik del cancelliere tedesco, il nuovo sottosegretario fu scelto dal governo come candidato tedesco alla Commissione europea. Nel 1970 con la nomina a commissario europeo, quindi, ebbe inizio la sua esperienza politica nell’ambito delle istituzioni comunitarie. Da principio ricoprì il ruolo di Commissario per il Lavoro e le pubbliche relazioni nella Commissione presieduta da Franco Maria Malfatti, nel 1972 fu incaricato di occuparsi delle Relazioni esterne nella Commissione Sicco Mansholt e, infine nel 1973, si dedicò al settore della Ricerca, della scienza e dell’educazione nella Commissione François-Xavier Ortoli.

A partire dal Vertice europeo dell’Aia del 1969, i Sei avevano manifestato il desiderio di stringere una più stretta collaborazione nel settore dell’educazione e della formazione; interesse che era emerso sempre più chiaramente all’interno della Comunità e che nel 1973 si era concretizzato nella creazione di uno specifico dipartimento per la formazione all’interno dell’allora Direzione generale XII (Scienza, ricerca e sviluppo) della Commissione europea. Durante il suo ultimo mandato da commissario per la Ricerca, D. aveva ripreso l’idea che era già stata di Altiero Spinelli, di realizzare uno spazio europeo della ricerca. La proposta, allora respinta, fu nuovamente rilanciata e sostenuta anni dopo da Étienne Davignon, Antonio Ruberti e Philippe Busquin, il cui impegno portò nel 2005 alla costituzione del Consiglio europeo della ricerca. Pertanto l’attuale politica europea nel campo della ricerca e della formazione (v. anche Politica della formazione professionale), sviluppatasi dopo un lungo percorso e difficili mediazioni, deve molto al sociologo tedesco e al suo lavoro in qualità di commissario europeo per la ricerca (v. Politica della ricerca scientifica e tecnologica).

Nell’estate del 1971 due articoli pubblicati sul quotidiano “Die Zeit” e firmati sotto lo pseudonimo di Wieland Europa suscitarono un forte dibattito. D. allora criticò in modo tagliente il funzionamento delle istituzioni europee e mise alla sbarra il lavoro dei tecnocrati di Bruxelles (Berufseuropäer). Presto svelato l’autore degli articoli, il commissario europeo si trovò presto implicato in una polemica che ne metteva in discussione il ruolo e la fede europeista. Più volte ingiustamente tacciato di Euroscetticismo, corrente a cui non appartenne mai, D. fu piuttosto incline a mantenere una certa riserva critica nei confronti della Comunità economica europea e verso coloro i quali credevano troppo semplicisticamente di poter estendere i successi dell’integrazione comunitaria a quei settori in cui non esisteva ancora una reale convergenza dei singoli interessi nazionali (v. Integrazione, metodo della). Si considerò sempre un “europeo scettico a favore dell’Europa unita”, benché nella gestione delle sue politiche più rilevanti preferisse, per questioni di realismo politico, il carattere intergovernativo a qualunque tipo di approccio meccanicistico o connotato ideologicamente.

D. rivestì il ruolo di commissario europeo fino al 1974, quando, in seguito alle polemiche sollevate nei confronti delle istituzioni europee e delle scelte di indirizzo politico che allora si voleva dare all’integrazione comunitaria, decise di ritirarsi definitivamente dalla vita politica; scelta ancor più incoraggiata dalla nomina a direttore della prestigiosa London school of Economics.

Durante il suo mandato, D. si interrogò spesso sulla natura della Comunità europea, sul ruolo e la funzione delle sue istituzioni e sulla cosiddetta constituency, al fine di indagare e approfondire il problema della legittimazione democratica delle istituzioni europee, da molti ritenuta insufficiente (v. anche Deficit democratico). Si impegnò sempre a fondo a favore di un’Europa concreta le cui istituzioni non fossero organismi fini a se stessi, ma costituissero lo strumento per mettere in atto una stretta cooperazione intorno a temi specifici, in linea con i naturali interessi degli Stati membri. Convinto sostenitore di un metodo realistico definito da obiettivi contingenti e concretamente perseguibili, metteva in discussione il pensiero di quanti invece sostenevano un approccio “cartesiano” del fare l’Europa, basato cioè su elaborazioni ideologiche e calcoli astratti. «Tutto il periodo fra il 1969 e il 1973 – spiega – […] è caratterizzato dalla triste progressiva scoperta che non si può creare l’Europa attraverso calendari artificiali» (v. Dahrendorf, 1979, p. 134). In virtù di questo approcciò empirico, l’europeismo di D. diffidava sia del Federalismo sia del Funzionalismo, considerati entrambi un’espressione di astrattismo politico. «Dal 1973 vedo molto maggiore realismo nella storia della cooperazione europea. […] Si accetta il fatto che, in un certo senso, dobbiamo avere una Europe à la carte […], in altre parole si accetta il fatto che per poter creare delle realtà europee si deve sviluppare “l’abitudine alla cooperazione”» (ibid., pp. 134-5) (v. Europa “alla carta”).

In 1989. Riflessioni sulla rivoluzione in Europa (v., 1990), D. avanzò una serie di osservazioni sul futuro della Comunità, sul faticoso cammino verso la libertà e il progresso nei paesi dell’Europa orientale e sulle implicazioni che questi avrebbero avuto nel processo d’integrazione europea. Anche la raccolta di saggi Diari Europei (v., 1996), apparsi originariamente sulla rivista tedesca “Merkur”, costituiscono uno specchio del pensiero critico e delle riflessioni sul processo di unificazione europea che D. sviluppò durante i suoi numerosi viaggi nei paesi del vecchio continente, grazie ai quali poté incontrare numerosi uomini politici, ministri e imprenditori europei.

In Perché l’Europa? Riflessioni di un europeista scettico (v., 1997) D. portava avanti una serie di riflessioni sulle prospettive del processo d’integrazione europea, indicando nella distanza tra l’apparato burocratico della Comunità e l’opinione pubblica europea la ragione di una vasta crisi di consenso nei confronti del progetto di unificazione europea. Il politologo tedesco, interrogandosi sul funzionamento delle istituzioni comunitarie in rapporto alle aspirazioni dei cittadini europei, ammoniva che le potenzialità insite nel processo d’integrazione europea sarebbero rimaste inespresse senza un rilancio di obiettivi più concreti, dotati di vantaggi percettibili e in linea con gli interessi dell’opinione pubblica europea. In tal senso, D. seppe cogliere e analizzare compiutamente molti degli aspetti costitutivi della crisi recente del processo di unificazione europea, individuandone l’origine nelle questioni inerenti la giustizia, l’ordine sociale, la disoccupazione, la competitività economica, i mutamenti geopolitici degli anni Novanta e una crescente sfiducia nel sistema-Europa. Secondo il sociologo tedesco, il processo di unificazione europea sarebbe dovuto avvenire sulla base degli interessi collettivi che riguardano le popolazioni europee ed essere più legittimato da un punto di vista democratico. Infine, D., scettico nei confronti dell’Allargamento, esortava a non sottovalutare i rischi derivanti dall’inclusione di paesi che, pur appartenendo all’area geografica europea, si differenziavano per cultura e tradizione.

In altre parole, D. manifestò sempre riserve nei confronti di coloro che propugnavano un “europeismo integralista”, a suo modo di vedere privo di realismo politico. Più propenso alla ricerca di una cooperazione mirata su temi d’interesse collettivo immediato che trascinato da un idealismo ottimistico, il filosofo tedesco fu sempre molto critico nei confronti degli “euro-fanatici”, verso i quali si pose in antitesi in quanto li riteneva troppo entusiasti nel credere «ancora che l’Unione europea [potesse] trasformarsi in una specie di Stato-nazione solo più grande: Gli Stati Uniti d’Europa» (v., 2001, p. 33). Al contrario D. teneva a marcare puntualmente gli aspetti deficitari della costruzione europea e i limiti politico-istituzionali della Comunità come il bilancio, l’indirizzo delle politiche comunitarie, la natura tecnica della sua costruzione, ecc. Dalle sue considerazioni, filtrate da una prospettiva neoliberale, emerge un’Unione europea troppo condizionata dalla burocrazia e dal protezionismo, poco incline, invece, alla promozione di un ordinamento liberale condiviso. Tuttavia, egli non negò mai l’esigenza di procedere verso un Approfondimento dell’integrazione sulla base della cooperazione interistituzionale, della ricerca di obiettivi catalizzanti e del progressivo rafforzamento della democrazia europea (v. Dahrendorf et al., 1991; v. Dahrendorf, 2001).

Dopo il 1974 D. si dedicò esclusivamente alla carriera accademica e presiedette fino al 1984 la prestigiosa London school of Economics. Dal 1984 fino al 1986 lavorò all’Università di Costanza e nel periodo successivo, dal 1986 al 1987, alla Fondazione Russell Sage a New York. Dal 1987 al 1997 fu rettore del St. Antony’s College dell’Università di Oxford, istituto specializzato in studi internazionali. Inoltre, dal 1982 al 1987 presiedette la Fondazione Friedrich-Naumann.

Dopo aver conseguito la cittadinanza britannica nel 1988, nel 1993 D. fu nominato Lord a vita dalla regina Elisabetta II. A partire da quel momento divenne membro della House of Lords come cross-bencher (membro indipendente, non affiliato ad uno specifico partito). Inoltre, dal gennaio 2005 ricoprì il ruolo di professore presso il Wissenschaftszentrum Berlin für Sozialforschung. Nel 2002 gli fu conferito il premio Walter Hallstein indetto dall’Università e dalla città di Francoforte in accordo con la Dresdner Bank. Oltre ai numerosi riconoscimenti, il sociologo tedesco ricevette nel 2007 il premio “Principe delle Asturie”, prestigioso attestato nel settore delle scienze sociali, e nel 2009 ottenne il Premio Schader dell’omonima fondazione per le scienze sociali. Infine, D. fu tra i patrons (carica onoraria affine a quella di senatore a vita) dell’Internazionale liberale, organizzazione mondiale dei partiti politici d’ispirazione liberale fondata nel 1947.

Elisabeth Alber (2012)




Daniel Cohn-Bendit




Daniel Mayer




Daniel Viklund




Danimarca

Nel secondo dopoguerra il processo di cooperazione e di integrazione europea ha conosciuto una svolta qualitativa, sia per caratteristiche che per intensità, rispetto ad altri periodi della storia europea (v. anche Integrazione, metodo della). Questa svolta ha altresì profondamente influenzato e mutato la natura delle relazioni della Danimarca con l’Europa. Tuttavia, al fine di comprendere in che modo la Danimarca ha affrontato le sfide poste dall’integrazione europea nel dopoguerra, è essenziale tenere presente gli eventi del periodo tra le due guerre e nel corso della Seconda guerra mondiale. L’interpretazione dell’esperienza storica danese e alla struttura della sua identità nazionale hanno giocato un ruolo fondamentale nel definire l’atteggiamento danese nei confronti dell’integrazione europea, ma lo stesso vale per altri aspetti, tra cui ad esempio il perseguimento di quello che era ritenuto l’interesse nazionale in senso sia politico che economico, la gestione politica della questione dell’adesione alla CEE/UE (Comunità economica europea/Unione europea) all’interno del sistema politico danese, nonché l’evoluzione e la natura dell’integrazione europea stessa (v. anche Integrazione, teorie della). Illustreremo qui le principali caratteristiche del rapporto tra la Danimarca e il processo d’integrazione europea nelle sue diverse fasi cronologiche, analizzando alla fine gli aspetti più generali di tale rapporto dal dopoguerra a oggi.

Il periodo 1945-1949

Nell’immediato dopoguerra la Danimarca partecipò piuttosto blandamente ai dibatti e agli sforzi in atto in merito all’estensione della cooperazione regionale europea, mostrando scarso interesse soprattutto per la creazione di un’Europa federale, gli Stati Uniti d’Europa (v. Federalismo). Gli sforzi della Danimarca si concentrarono piuttosto sull’ampliamento della cooperazione nordica in direzione di un coordinamento politico con l’Organizzazione delle Nazioni Unite (iniziativa coronata dal successo) e sul tentativo (fallito) di creare una unione doganale europea associata al Piano Marshall e una unione difensiva tra Danimarca, Norvegia e Svezia, come alternativa o integrazione alla partecipazione all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO).

Comunque, non si può affermare che la Danimarca fosse totalmente disinteressata ai dibattiti su un’Europa federale. Fu costituita una diramazione danese dell’European parliamentary union (EPU), principalmente ad opera dei liberali e dei conservatori, che ebbe peraltro pochi aderenti nonostante fosse presieduta da Thorkil Kristensen, ministro delle Finanze nel governo liberale tra il 1945 e il 1947. Nel 1948 il dibattito sull’Europa in Danimarca ebbe una ripresa in concomitanza con il Congresso dell’Aia organizzato da Winston Churchill e dal Movimento per l’Europa unita (United European movement, UEM). La delegazione danese al congresso era tutt’altro che consistente, ma i 32 delegati guidati da Thorkil Kristensen erano tutti rappresentanti di spicco dei principali partiti borghesi danesi e dell’élite imprenditoriale e culturale. Era anche la delegazione più numerosa della Scandinavia, dato che Svezia e Norvegia avevano inviato rispettivamente soltanto 19 e 12 delegati. Dopo il Congresso dell’Aia, il ramo danese dell’EPU si unì all’UEM, rompendo in tal modo con l’organizzazione madre.

Al Congresso dell’Aia partecipò un solo socialdemocratico, Frode Jakobsen. Lo fece da privato cittadino perché il suo partito non gli aveva permesso di partecipare ufficialmente come esponente del partito. I socialdemocratici erano saliti al governo nel 1947 e il nuovo governo, non da ultimo il primo ministro Hans Hedtoft, non avrebbe permesso che le questioni europee distraessero gli sforzi dal progetto di un rafforzamento della cooperazione nordica. D’altro canto, i socialdemocratici danesi non si sentivano del tutto tranquilli nel voltare le spalle ai dibattiti europei. Il partito fu attaccato dalle organizzazioni borghesi che lo accusavano di disinteressarsi degli affari internazionali rifiutandosi di prendere parte ai dibattiti sul futuro dell’Europa. All’interno dell’Internazionale socialista (Committee of the international socialist conferences, COMISCO) i socialdemocratici danesi cominciarono a fare pressioni sui laburisti affinché adottassero un atteggiamento più positivo nei confronti dell’Europa, e in particolare dell’idea di costituire un Consiglio d’Europa. Nel 1949 i socialdemocratici si unirono alla corrente danese dell’UEM e il governo agì in accordo con i partiti borghesi, auspicando l’adesione al Consiglio d’Europa del quale la Danimarca divenne uno dei membri fondatori nello stesso anno.

Il periodo 1950-1960

«A mio giudizio, la politica danese deve mirare a una piena partecipazione a tutte le principali forme di cooperazione europea, non da ultimo considerato il fatto che vi prende parte anche la Germania. D’altronde, occorre anche conoscere che le relazioni con Svezia, Norvegia e Inghilterra sono così strette che non possiamo aderire a i piani di cooperazione europea che escludano queste nazioni» (v. Olesen, Villaume, 2005, p. 271). Queste erano le conclusioni del consulente di diritto internazionale del ministero degli Esteri danese, Max Sørensen, quando nel 1950 gli fu chiesto di analizzare gli scenari del futuro sviluppo del Consiglio d’Europa. Il suo giudizio acuto e lungimirante anticipava quello che sarebbe diventato il vero dilemma della politica europea della Danimarca a partire da quel momento e fino all’adesione formale alla CEE nel 1973. L’Europa, e in special modo la Germania Ovest, promettevano di diventare il motore economico della ricostruzione e della modernizzazione postbellica europea, e quindi il principale mercato di sbocco per le esportazioni danesi. D’altro canto, nel 1950 il Regno Unito costituiva il principale partner commerciale della Danimarca, in quanto acquistava non meno del 55% del totale delle esportazioni agricole, e poiché queste rappresentavano all’epoca i due terzi di tutte le esportazioni danesi, il mercato britannico era di importanza vitale per l’intera economia. Considerazioni di opportunità politica imponevano dunque di non abbandonare la Gran Bretagna. Se la Danimarca si fosse dovuta unire a una associazione europea, avrebbe preferito compiere questo passo assieme alla Gran Bretagna e agli altri Stati scandinavi per controbilanciare l’influenza dell’Europa meridionale, e in particolare della Germania Ovest, all’interno di tale associazione. L’esperienza della Seconda guerra mondiale si era conclusa da appena cinque anni.

Il dilemma tra avvicinarsi all’Europa e allo stesso tempo assicurarsi l’appoggio della Gran Bretagna e del resto della Scandinavia, determinò l’approccio del governo danese ai piani europei proposti dalla Francia nel 1950-1951, cioè il Piano Schuman, il Piano Pleven (v. Pleven, René) e il Piano per la costituzione di un mercato agricolo comune (“Pool verde”). La Danimarca era interessata della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) e alle trattative per il Pool verde più di quanto non lo fossero la Gran Bretagna e il resto della Scandinavia. Tuttavia le autorità danesi non vedevano di buon occhio gli aspetti sovranazionali della CECA e del Pool verde, nel timore che accettando di fare parte di questi accordi settoriali la Danimarca avrebbe corso il rischio di dover accettare il Piano Pleven e la Comunità europea di difesa (CED), restando bloccata in una “piccola Europa” politica e sovranazionale senza la partecipazione britannica. Era stata la politica danese «per generazioni» – come ebbe ad affermare un alto funzionario del ministero degli Esteri – quella di evitare di essere assorbiti dalla Germania, e questa preoccupazione determinava ancora in larga misura il rifiuto danese nei confronti della CED e dell’esercito europeo (v. Olesen, Villaume, 2005, p. 254).

Il dilemma danese si fece ancor più acuto quando i piani della CED fallirono e gli sforzi furono invece volti alla creazione di una Comunità economica europea (CEE) tra le sei nazioni della CECA – sforzi che si rivelarono fruttuosi con la firma dei Trattati di Roma nel 1957. Le previsioni del 1950 si stavano infatti rivelando esatte. La Germania aveva rafforzato la sua posizione di partner commerciale della Danimarca, mentre il mercato britannico ristagnava. La CEE prevedeva perfino la creazione di un mercato comune per i prodotti agricoli, un aspetto che gli inglesi non intendevano considerare nella loro controproposta di creare una grande area di libero scambio (Organizzazione Europea per la cooperazione economica, OECE) che comprendesse anche la CEE.

Fu in questa situazione che partire dal 1956-57 le associazioni di agricoltori danesi e il partito liberale danese Venstre cominciarono a esortare i governi guidati dai socialdemocratici a mostrare maggiore interesse per la CEE, a saggiare il terreno e a negoziare con i Sei in merito alla fattibilità di un’adesione della Danimarca, anche senza la compartecipazione degli inglesi. Malgrado i governi socialdemocratici presieduti da Hans Christian Hansen e il suo giovane ministro degli Esteri, il filoeuropeista Jens Otto Krag, cercassero di tenere tutte le porte aperte, non contemplarono mai seriamente, in quel periodo, l’ipotesi di portare la Danimarca nella CEE senza il Regno Unito e gli altri paesi nordici.

Quando uno studio condotto nel 1958 dal governo mostrò che nel caso in cui la Danimarca fosse entrata a far parte della CEE circa il 40% della produzione industriale danese avrebbe rischiato di trovare una concorrenza tanto agguerrita nel mercato interno da causare una significativa riduzione della produzione, i rappresentanti dell’industria e il Partito conservatore cominciarono ad appoggiare le posizioni del governo. Ciò alleggerì le pressioni su quest’ultimo in merito all’adesione della Danimarca alla CEE, ma non sciolse affatto il dilemma danese relativamente al mercato comune. La soluzione caldeggiata dal governo era quella di creare un’alleanza doganale nordica da inserire nell’area di libero scambio dell’OECE, che incorporasse la CEE e includesse anche il libero scambio dei prodotti agricoli. Si trattava peraltro di un pio desiderio. Verso la fine del 1958, il governo francese mise fine a ulteriori discussioni sulla proposta britannica di un’area di libero scambio; i progetti di un’unione doganale nordica erano ancora in alto mare, e si profilava altresì una nuova minaccia: spinti dalla nascita della CEE e dall’incapacità di creare un’area di libero scambio OECE, la Svezia e la Svizzera riuscirono a persuadere la Gran Bretagna ad appoggiare i piani per la creazione di un’area di libero scambio più limitata (Associazione europea di libero scambio, EFTA) tra sette Stati dell’OECE che non aderivano alla CEE.

Sia al governo danese che all’opposizione questo sviluppo appariva pericoloso. Innanzitutto rischiava di scatenare una vera e propria guerra commerciale, rendendo permanente la spaccatura del mercato all’interno dell’Europa occidentale. Inoltre, l’EFTA avrebbe riguardato esclusivamente il libero scambio dei prodotti industriali, e non anche i prodotti agricoli. Malgrado le concessioni bilaterali da parte degli altri membri dell’EFTA alle esportazioni agricole danesi, la Danimarca era fortemente preoccupata in quanto la divisione CEE-EFTA significava un’esclusione della Danimarca dalla Politica agricola comune (PAC) che la CEE stava progettando, mentre nello stesso tempo non le era consentito di vendere liberamente i suoi prodotti agricoli sul mercato EFTA.

Mentre le associazioni degli agricoltori danesi e Venstre non intendevano sostenere la partecipazione della Danimarca all’EFTA, nella primavera del 1960 il governo di coalizione di socialdemocratici, social-liberali e il piccolo Partito della giustizia, sostenuto dal partito conservatore (e dagli industriali), diede corso alla ratifica al Folketinget, il Parlamento danese. Per molti versi questo risultato rappresentava un gesto simbolico, che testimoniava come il settore agricolo non fosse più in grado di determinare l’orientamento della politica economica estera danese, e rappresentava al contempo una vittoria per quella che è stata definita la tacita alleanza tra i sostenitori di una moderna economia industriale danese, rappresentati da un lato dal Partito socialdemocratico e dal movimento laburista, dall’altro dall’industria e dal Partito conservatore (v. Laursen, 1993, p. 75).

Gli anni 1960-1972

La soluzione EFTA non era considerata soddisfacente nemmeno dai partiti e dalle organizzazioni che avevano sostenuto l’adesione a essa. A questo riguardo occorre specificare meglio la tesi cui abbiamo accennato sopra, secondo cui l’adesione all’EFTA rappresentava la vittoria della modernizzazione industriale sui tradizionali interessi agricoli. Il fatto è che le esportazioni agricole erano un elemento importante per la modernizzazione industriale in Danimarca. «L’agricoltura danese è fondamentale per l’industria di questo paese», spiegava il ministro degli Esteri danese Jens Otto Krag a Ludwig Erhard, ministro tedesco per l’Economia, in un colloquio del 1958, in quanto «l’industrializzazione richiede ingenti investimenti e questi ultimi richiedono a loro volta un a solida bilancia dei pagamenti, per garantire la quale l’agricoltura è indispensabile» (v. Olesen, Villaume, 2005, p. 436).

Non sorprende, dunque, che la Danimarca avesse già pronta la propria richiesta di adesione alla CEE quando il governo britannico nell’agosto del 1961 fece la sua prima domanda in questo senso. Nel Parlamento danese una vasta maggioranza era favorevole all’adesione alla CEE insieme alla Gran Bretagna. La maggioranza superava perfino quella dei 5/6 richiesta dalla Costituzione per approvare un disegno di legge che facilitasse il trasferimento della sovranità nazionale ad autorità internazionali. Qualora non si fosse ottenuta la maggioranza dei 5/6, ma il parlamento avesse ottenuto la maggioranza ordinaria richiesta per l’approvazione di un disegno di legge, quest’ultimo avrebbe potuto essere approvato se il governo avesse indetto un referendum e questo fosse stato approvato con una maggioranza che rappresentasse almeno il 30% dei (possibili) voti totali.

Fino al 1971, si poté sempre contare sulla maggioranza di 5/6, ma nelle elezioni del settembre di quell’anno essa non fu raggiunta. Questo avvenne durante il processo che alla fine aprì la strada all’ingresso danese nella CEE, cosa che si verificò il 1° gennaio 1973. Di conseguenza si dovette indire un referendum, e il 2 ottobre del 1972 i danesi si recarono per la prima volta alle urne per decidere in merito all’adesione della Danimarca alla CEE. Il risultato fu una netta maggioranza del 63,3% di voti favorevoli.

La motivazione della prima domanda di adesione della Danimarca, nel 1961, era stata principalmente economica. Entrare a far parte della CEE insieme alla Gran Bretagna significava che la Danimarca sarebbe entrata in un mercato comune che comprendeva i suoi due maggiori mercati di esportazione e, cosa ancora più importante, esteso anche ai prodotti agricoli. Nel corso dei negoziati a Bruxelles il governo danese riconobbe e accettò anche gli obiettivi politici della Comunità, ma i veri motivi d’interesse erano l’unione doganale e la PAC. Quando, nel gennaio del 1963, il generale Charles de Gaulle di propria iniziativa annunciò che le trattative con la Gran Bretagna si sarebbero dovute interrompere, anche i negoziati con la Danimarca e gli altri Stati candidati furono lasciati in sospeso. Questo stop a ulteriori trattative significava che la Danimarca e la Gran Bretagna si sarebbero dovute accontentarsi dell’adesione all’EFTA. Vista in retrospettiva, l’EFTA non era una struttura svantaggiosa per l’economica danese. Lo smantellamento delle restrizioni quantitative e delle tariffe doganali avveniva più velocemente qui che nella CEE, e l’EFTA si rivelò un’utile campo di addestramento per l’industria danese, dandole la grinta necessaria per affrontare la concorrenza dei mercati mondiali e comunitari. Rispetto alla crescita lenta degli anni Cinquanta, nel decennio successivo la Danimarca fu tra i paesi dell’Europa occidentale che registrarono la crescita più rapida.

Tuttavia, alla metà degli anni Sessanta, l’impressione generale negli ambienti del governo e nell’opposizione era che l’EFTA cominciasse a perdere colpi. Le esportazioni dei prodotti agricoli danesi registrarono un ristagno nel mercato dell’EFTA e per effetto della PAC cominciarono a diminuire nel mercato CEE. Il governo danese fu quindi felice di vedere riattivate nel 1967 le richieste di ammissione del 1967, senza peraltro illudersi che ciò avrebbe effettivamente portato a una conclusione positiva dei negoziati, sfiducia che trovò puntuale conferma allorché de Gaulle rifiutò nuovamente l’allargamento. Alcuni alti funzionari del ministero degli Esteri danese e il primo ministro, Jens Otto Krag, invece, iniziarono a progettare segretamente una nuova iniziativa nordica, mirata a creare un ambizioso Mercato comune nordico autonomo. Il vero senso di questo piano era, da una parte, quello di separare la richiesta di ammissione alla CEE danese da quella inglese, in quanto si temeva che l’antagonismo anglo-francese potesse durare negli anni a venire, e dall’altra quello di creare una forte piattaforma nordica per un approccio congiunto dei paesi nordici alla CEE. Di conseguenza, il Nordek, com’era denominato il progetto di mercato comune, non era principalmente concepito dalle autorità danesi come fine a se stesso, ma piuttosto come una nuova piattaforma attraverso cui avvicinarsi alla CEE. Fu proprio questo obiettivo a decretare alla fine il fallimento del Nordek. L’esplicita finalità europea del piano costrinse la Finlandia a fare marcia indietro proprio quando, nella primavera del 1970, i negoziati sembravano essere giunti a una conclusione; il ritiro della Finlandia causò anche quello della Norvegia e della Svezia.

Il tentativo di condurre in porto l’opzione nordica si rivelò una risorsa per quei partiti che volevano l’ingresso della Danimarca nella CEE. In concomitanza con il definitivo fallimento del Nordek, la Danimarca si stava nuovamente preparando alla terza fase di trattative di adesione alla CEE e, come già menzionato, questa volta l’esito fu positivo. Le trattative danesi con il Consiglio dei ministri e la Commissione europea CEE si svolsero senza intoppi. Nel suo diario, il ministro liberale per gli Affari esteri nel settore economico, Poul Nyobe Andersen, le definì «non problematiche».

All’interno del paese, il nullaosta all’adesione non fu affatto facile da ottenere come poteva indicare il 63% dei voti a favore ottenuti nel referendum del 1972. Nel 1971, la maggioranza dei 5/6 in Parlamento non c’era più e durante la primavera del 1971 i risultati dei sondaggi di opinione cominciarono a mostrare un forte aumento dei voti contrari. Alla fine, si rivelò decisivo il fatto che il governo, tutti i principali partiti eccetto il Partito socialista popolare, i gruppi di interesse più forti e gran parte della stampa si mobilitassero per il “sì”, mettendo in evidenza soprattutto i benefici economici dell’ingresso nella CEE e minimizzandone le implicazioni politiche. A giudicare dai sondaggi d’opinione, si può sicuramente concludere che fu la motivazione economica a persuadere l’elettorato a votare a favore dell’adesione

Il partito del “no”, d’altro canto, incentrò la sua campagna sugli aspetti politici dell’ingresso nella CEE. Furono messi in campo argomenti antitedeschi e anticattolici, ma l’attacco principale fu diretto contro la presunta incompatibilità tra il welfare state danese e la legislazione CEE, contro il coordinamento della politica estera all’interno della nuova struttura della Cooperazione politica europea (CPOE) e, più in generale, contro la perdita della sovranità nazionale nella struttura sovranazionale della CEE. Di contro, il partito del “no” cercò di riproporre la cooperazione nordica come un’alternativa all’adesione, ma non era un argomento facilmente spendibile, proprio perché l’opzione nordica era già stata tentata ed era fallita durante l’intermezzo del Nordek.

Lo schieramento del “no” trovava consenso soprattutto tra i partiti della sinistra e quelli di estrema destra, ma esisteva una forte opposizione all’ingresso nella CEE anche all’interno del partito social-liberale e del movimento laburista socialdemocratico, sia tra i sindacati che nel partito, compresa una minoranza all’interno del gruppo parlamentare. Nonostante il carattere assai eterogeneo dell’opposizione, il blocco del “no” riuscì a formare una organizzazione unitaria, il Movimento popolare contro la CEE, al fine di coordinare la campagna referendaria. Tutti i principali gruppi di opposizione – a eccezione dei Socialdemocratici contro la CEE –parteciparono al Movimento popolare. Fu forse per questa ragione che si cercò di presentare il referendum come una «battaglia del popolo contro l’establishment», senza peraltro riuscire a convincere gli elettori.

Box 1 → Il ruolo del referendum nella politica europea della Danimarca

Gli anni 1973-1993

Il giorno dopo la vittoria nel referendum per l’adesione alla CEE, Krag sorprese l’intera nazione annunciando che avrebbe rinunciato alla carica di primo ministro. Ancor più sorprendente era il fatto che fosse riuscito a garantirsi il sostegno necessario per designare come suo successore Anker Jørgensen, presidente del Sindacato dei lavoratori non specializzati, che nonostante il forte scetticismo all’interno del suo stesso sindacato aveva sostenuto l’adesione della Danimarca alla CEE. Tuttavia, Jørgensen non condivideva lo stesso entusiasmo di Krag per la CEE. Apparteneva a un vasto gruppo di centro all’interno del Partito socialdemocratico che voleva limitare la CEE a un tipo di cooperazione puramente intergovernativa che si occupasse solamente di questioni di mercato ed economiche. Nominando Anker Jørgensen, Krag sacrificò le proprie concezioni europeiste più ambiziose, ma probabilmente lo fece per attenuare la scissione tra europeisti, sostenitori di una cooperazione puramente intergovernativa e dichiarati oppositori della CEE manifestatasi durante la campagna referendaria.

Di conseguenza, la politica danese all’interno della CEE nei suoi primi dieci anni in qualità di Stato membro fu caratterizzata da un approccio di tipo intergovernativo e di basso profilo. Tuttavia la posizione danese in quegli anni non spiccò come particolarmente passiva, in quanto per la CEE nel suo complesso questo fu un periodo di stallo sotto il profilo dello sviluppo e delle riforme, dovuto alle crisi petrolifere e alle controversie su questioni di bilancio. Ma verso la metà degli anni Ottanta la situazione mutò e la CEE attraversò una fase di forte dinamismo, dovuta in primo luogo a uno sforzo congiunto volto a rilanciare l’Europa come attore di primo piano nell’economia internazionale e in secondo luogo all’«accelerazione della storia», come la definì Jacques Delors, determinata dalla fine della Guerra fredda e dalla riunificazione tedesca.

Quando si verificarono questi eventi, i socialdemocratici non erano più al governo. Dal 1982 si era insediato un governo di coalizione di partiti borghesi, con il conservatore Poul Schlüter come primo ministro e il liberale Uffe Ellemann-Jensen come ministro degli Affari esteri. Questo governo iniziò gradualmente ad allontanarsi dalla politica europea difensiva dei precedenti governi; in particolare, il ministro degli Esteri Ellemann-Jensen cercò di dare alla Danimarca una maggior centralità nella politica della CEE. Si trattava peraltro di un obiettivo difficile da raggiungere, poiché in parlamento esisteva ancora una maggioranza guidata da socialdemocratici, social-liberali e socialisti popolari che non condividevano il desiderio di una politica comunitaria più attiva della Danimarca.

Il potere della “maggioranza alternativa”, come veniva chiamata – e che si manifestò anche nelle questioni relative alla NATO – si dimostrò in rapporto alla creazione del Mercato unico europeo. Il governo intendeva sostenere la riforma, ma la maggioranza alternativa la bloccò in parlamento. Dato che non vi era la maggioranza semplice richiesta per la sottoscrizione dell’Atto unico europeo da parte della Danimarca, il governo non poté utilizzare le norme costituzionali per indire un referendum vincolante, e decise quindi di optare per un referendum consultivo, che peraltro avrebbe potuto essere indetto solo con il consenso della maggioranza alternativa. Tale consenso fu ottenuto quando i socialdemocratici e i social-liberali decisero di non votare contro la proposta referendaria e promisero di accettarne l’esito. Il referendum del 27 febbraio del 1986 i voti a favore dell’Atto unico furono il 56,2%, quelli contrari il 43,8%.

Durante la campagna referendaria, i socialdemocratici avevano sostenuto che l’opposizione del partito non era diretta contro l’adesione alla CEE in sé, ma contro determinati aspetti dell’Atto unico, in particolare l’istituzionalizzazione della CPE, l’aumento di poteri del Parlamento europeo e la mancanza di misure adeguate per la tutela dell’ambiente. Inoltre, si temeva che l’Atto avrebbe minato sia il modello del mercato del lavoro danese, sia importanti elementi della cooperazione nordica, come il mercato del lavoro nordico e l’unione nordica dei passaporti. Tuttavia, la sconfitta nel referendum diede l’opportunità di avviare un esame critico e una graduale riformulazione della posizione del partito nei confronti della cooperazione comunitaria. Questo processo venne ulteriormente favorito dal fatto che, nel 1988, i social-liberali furono cooptati nel governo borghese, nonché dallo smantellamento delle strutture della Guerra fredda e dal riemergere della questione tedesca.

Come conseguenza di questo processo di revisione, il governo e il Partito socialdemocratico riuscirono ad accordarsi su un memorandum nazionale congiunto il quale stabiliva la posizione che la Danimarca avrebbe assunto nelle conferenze intergovernative sull’Unione economica e monetaria (UEM) e sull’unione politica, iniziate entrambe nel dicembre del 1990. Il memorandum, che può essere considerato la dichiarazione più schiettamente a favore dell’integrazione mai espressa da a un governo danese, concludeva che la CEE si sarebbe dovuta sviluppare per diventare «un fondamento per l’unità politica ed economica di tutta l’Europa» (v. Petersen, 2004, p. 498).

La versione finale del Trattato di Maastricht o del Trattato sull’Unione europea (TUE) recava alcune significative impronte danesi, in primo luogo e soprattutto in ambiti come agli aiuti allo sviluppo, la tutela ambientale e la protezione dei consumatori (l’istituzione dell’Ombudsman a tutela dei consumatori fu in larga misura un’iniziativa danese) (v. anche Politica dei consumatori). In altri settori la Danimarca combatté una battaglia di retroguardia, principalmente sulla questione dell’inserimento di una dimensione di difesa nella Politica estera e di sicurezza comune (PESC) e dell’UEM. Nel primo caso, il trattato di Maastricht andava più in là di quanto auspicato, non da ultimo dai socialdemocratici danesi; nel secondo, la Danimarca non riuscì a far inserire nel Trattato una clausola di opting-out per quelle nazioni che non avessero potuto o voluto passare alla terza fase dell’UEM. Alla Danimarca era invece concesso un protocollo speciale in cui si stabiliva che essa avrebbe dovuto indire un referendum prima di poter accedere a tale fase.

Nel dicembre del 1991, a Copenaghen, sia i leader socialdemocratici, sia il governo erano assai soddisfatti del risultato finale. Il Trattato di Maastricht costituiva un risultato talmente positivo che nell’imminente referendum i danesi non avrebbero detto semplicemente “sì”, ma “sì, grazie”, come dichiarò ottimisticamente alla stampa il ministro degli Esteri, Ellemann-Jensen (v. Petersen, 2004, p. 504). Questa previsione fu puntualmente smentita. Chiamati alle urne per decidere in merito all’istituzione dell’Unione europea il 2 giugno del 1992, i danesi si espressero per il “no”, seppure con una esigua maggioranza del 50,7%. Il risultato danese fu molto simile a quello del referendum francese tenuto tre mesi dopo, con la cruciale differenza che in Francia fu il “sì” a ottenere una ristretta maggioranza.

Entrambi i referendum testimoniavano i problemi che l’UE incontrava nell’acquisire una più vasta legittimazione popolare. Ma era il risultato danese a creare in quel momento i maggiori problemi perché il “no”, in teoria, significava che il TUE non poteva entrare in vigore, né in Danimarca, né nel resto della CEE. Tuttavia, era difficile trovare una soluzione al problema, in quanto occorreva soddisfare alcuni requisiti di fondo sia in Danimarca sia nella CEE. Stava quindi alla Danimarca sviluppare una formula di compromesso che non richiedesse però una revisione del TUE (v. anche Revisione dei Trattati), né un nuovo processo di ratifica.

In Danimarca fu raggiunto un cosiddetto “compromesso nazionale” tra i partiti favorevoli alla ratifica del Trattato e il partito contrario, il Partito socialista popolare. Proprio perché quest’ultimo aveva sostenuto il “no” nel referendum sul Trattato di Maastricht, diventava essenziale indurre il partito al compromesso nazionale. D’altro canto, questa posizione dava al partito un notevole peso nella definizione della natura del compromesso. Il nucleo del documento consisteva in una serie di richieste esplicite tra cui le tre più importanti erano le seguenti: la Danimarca non avrebbe potuto partecipare alla cooperazione in materia di difesa dell’UE, non avrebbe preso parte alla terza fase dell’UEM e si sarebbe tenuta fuori dalla dimensione sovranazionale della cooperazione in materia di giustizia e affari interni. Il compromesso nazionale rappresentava un ritorno alla tradizione delle politiche europee danesi, nel senso che rifiutava fondamentalmente gli aspetti sovranazionali e politici dell’Unione e voleva limitare la cooperazione europea a una cooperazione intergovernativa ristretta al mercato e alle questioni economiche. Questa limitazione era ciò che il Partito socialista popolare voleva e, secondo i sondaggi d’opinione, e anche ciò che desiderava la maggioranza della popolazione. L’élite politica dal 1972 poteva anche essere diventata in generale più favorevole all’integrazione, ma era evidente che la popolazione nel suo complesso non ne aveva seguito l’esempio.

Dopo accese discussioni, finalmente, con la Risoluzione di Edimburgo nel dicembre del 1992, il Consiglio europeo concesse alla Danimarca le cosiddette clausole di opting-out, corrispondenti alle richieste del compromesso nazionale. In questo modo si accettava che la Danimarca non fosse obbligata a partecipare alla cooperazione in materia di difesa, alla terza fase dell’UEM e agli elementi sovranazionali di cooperazione in materia di giustizia e affari interni, ma anche che avrebbe potuto aderirvi nuovamente se lo avesse desiderato. Da parte sua, la Danimarca doveva accettare che il Trattato di Maastricht non fosse alterato e che le clausole di opting-out non potessero essere usate per limitare gli obiettivi e lo sviluppo dell’unione tra gli altri Stati membri dell’UE.

La Risoluzione di Edimburgo aveva creato i presupposti per un nuovo referendum. Contrari al Trattato erano le due organizzazioni politiche trasversali e i movimenti del “no”, il Movimento popolare contro la CEE e il Movimento di giugno – una costola del primo, istituito dopo ill “no” dell’anno prima. Nello schieramento opposto, ora tutti i partiti in Parlamento, fatta eccezione per il Partito progressista, formazione di destra, sostenevano il Trattato di Maastricht con le restrizioni della Risoluzione di Edimburgo. Ciò spinse la maggioranza verso il “sì” che, il 18 maggio del 1992 poteva contare sul il 56,8% dei voti favorevoli al “Maastricht senza spine”, come venne soprannominata la nuova formula euro-danese (v. Petersen, 2004, p. 512).

Box 2 → I Movimenti a favore del ”no”

Box 3 → Opt-out della Danimarca dal diritto UE: problema o privilegio

Box 4 → La Costituzione danese e la questione della delega di sovranità

Gli anni 1994-2005

L’“intermezzo” di Maastricht dal 1990 al 1993 aveva dimostrato che la definizione delle politiche danesi rispetto all’UE avveniva all’interno di un triangolo strategico costituito dagli input del sistema UE, dalle posizioni e dalle reazioni della popolazione danese, e dal tentativo dell’establishment politico di armonizzare gli input dell’UE con ciò che si riteneva che sarebbe stato giudicato accettabile da parte della popolazione. Ciò richiedeva un delicato gioco di equilibri, non da ultimo in quanto non sempre era facile cogliere gli umori della popolazione (v. Petersen, 2004, p. 618).

Una delle ragioni per cui ciò risultava difficile era ascrivibile al fatto che l’opposizione danese all’UE aveva in qualche modo cambiato la propria composizione politica nel corso dell’ultimo decennio. In generale, la sinistra era diventata più favorevole all’UE, mentre la borghesia e la destra erano divenuti più euroscettici. Questo sviluppo si doveva a varie ragioni. In ambito europeo, dopo Maastricht l’UE aveva avvertito la necessità di avvicinarsi ai cittadini comuni prestando maggior attenzione a questioni post-materiali come i problemi ambientali, la tutela dei consumatori, i diritti dell’uomo e la trasparenza politica. Queste questioni avevano già acquistato maggiore risalto nel Trattato di Amsterdam, siglato nel 1997, che l’anno successivo, fu approvato dall’elettorato danese con il 55,1% dei voti in un altro referendum svoltosi il 28 maggio.

Vi erano però anche fattori interni. Dal 1993 al 2001 la Danimarca fu nuovamente retta da governi guidati dai socialdemocratici – analogamente alla maggior parte dei paesi dell’UE – con Poul Nyrup Rasmussen come primo ministro. Ciò contribuì a dare all’UE in generale e alla politica danese europea un più accentuato profilo socialdemocratico, che trovava buona accoglienza tra l’elettorato di sinistra. Quando Nyrup Rasmussen perse le elezioni nel 2001, fu sostituito da un governo liberale guidato da Anders Fogh Rasmussen. Il suo governo era sostenuto dal Partito popolare danese, una formazione politica di recente creazione che era diventata il partito più apertamente critico nei confronti dell’UE: la svolta a destra dei danesi al volgere del secolo rispecchiava nuovamente la più generale tendenza europea, e ciò spiega in larga misura perché l’euro-scetticismo e il suo rovescio della medaglia, l’ideale di Stato nazione, fossero nuovamente in ascesa in molti paesi dell’UE.

All’interno dell’élite politica, le clausole di opting-out non furono mai tenute in gran considerazione, poiché si riteneva che diminuissero l’influenza della Danimarca a Bruxelles. Col tempo, quindi, aumentarono le pressioni affinché fossero abolite. Tuttavia, il governo di Nyrup Rasmussen doveva procedere con cautela, perché le clausole di opting-out danesi erano considerate il punto di forza dell’accordo tra i cittadini e l’establishment politico raggiunto in occasione del referendum di Edimburgo. Nondimeno, nel 2000, il governo volle saggiare tale accordo e indisse un nuovo referendum sulla partecipazione alla terza fase dell’UEM. Il motivo per cui fu scelta la questione dell’euro dipendeva da vari fattori. In primo luogo, nel 2000, malgrado tutti gli ostacoli l’UE si era impegnata a portare a termine la riforma, ed entrando a farne parte in quel momento, la Danimarca avrebbe avuto la possibilità di aderire proprio quando l’euro era in procinto di essere introdotto come moneta comune. In secondo luogo, la Danimarca aveva già partecipato alle prime due fasi dell’UEM e la corona danese era strettamente ancorata all’euro, sicché i tassi d’interesse e la politica monetaria erano profondamente condizionati dalle decisioni prese dalla Banca centrale europea e dagli incontri dei ministri delle Finanze dei paesi membri dell’unione monetaria, ai quali la Danimarca non prendeva parte. Per il governo questa era un’anomalia che doveva essere corretta. In terzo luogo, nei primi mesi del 2000, i sondaggi d’opinione indicavano una probabile vittoria dei voti favorevoli alla introduzione dell’euro, e questo diede l’impulso decisivo a Nyrup Rasmussen per indire un referendum il 28 settembre.

Ciononostante, il momento scelto si dimostrò poco felice. Nella primavera del 2000, l’UE si trovò a fronteggiare – non molto elegantemente – con la cosiddetta crisi austriaca a seguito della formazione del governo Schlüssel-Haider (v. Haider, Jörg) a Vienna. Le sanzioni imposte all’Austria non furono ben viste in Danimarca: a molti apparvero più una forma di vessazione contro un piccolo Stato da parte di una grande potenza anziché una giusta sanzione per una effettiva cattiva condotta austriaca. Quindi, proprio quando il governo di Nyrup Rasmussen avrebbe dovuto concentrare le forze sulla campagna per il “sì” nel referendum, fu costretto a disperdere molte energie sia all’interno sia nell’UE per neutralizzare la crisi austriaca. All’incirca nello stesso periodo, il valore dell’euro cominciò a diminuire rapidamente, cosa che minò la fiducia nella sua stabilità. A ciò si aggiunse il fatto che la campagna referendaria fu impostata in modo poco felice dal governo, in quanto si focalizzò principalmente sul tentativo di convincere i danesi dell’importanza vitale dell’euro per il benessere dell’economia nazionale. Questa tesi fu messa in discussione dai più stimati economisti del paese, secondo i quali l’adesione all’UEM era sì importante, ma per ragioni eminentemente politiche e non già economiche. L’economia danese, prima e dopo il referendum, aveva – e ha tuttora – un andamento superiore alla media dell’UE – e quindi l’argomento delle catastrofiche conseguenze di una mancata adesione all’euro ebbe pochissima presa sull’elettorato. Nel referendum il “no” raggiunse il 53,2% dei voti, e la clausola di opting-out non poté essere revocata.

Sebbene la clausola di opting-out togliesse incisività alle politiche europee danesi, la Danimarca fu attivamente impegnata nei dibattiti e nel policy-making dell’UE del periodo post Maastricht. La questione dell’allargamento, in particolare, vide un forte attivismo danese, sia nei negoziati di adesione con i paesi nordici dell’EFTA che aprì le porte all’ingresso finlandese, svedese e austriaco nel 1995, sia nelle ancor più difficili e prolungate trattative per l’adesione dei dieci paesi dell’Europa centrale e orientale. Alla riunione del Consiglio europeo di Copenaghen del 1993, l’UE stabilì i cosiddetti “criteri di Copenaghen” (v. Criteri di adesione) che definivano i requisiti politici ed economici che gli Stati candidati avrebbero dovuto soddisfare per ottenere lo status di membri a pieno titolo. Sotto questa luce, assumeva un valore simbolico il fatto che le trattative di adesione fossero portate a termine dieci anni dopo da Anders Fogh Rasmussen e dalla presidenza UE danese al summit di Copenaghen del dicembre 2002, aprendo così la strada per la creazione dell’Europa dei 25 a partire dal 2004.

Gli anni 1945-2005

Spesso, gli storici parlano di un “dilemma dell’integrazione” per spiegare il particolare carattere della posizione danese nei confronti del processo d’integrazione europeo (v. Olesen, 1995, p. 16 e ss.; v. Petersen, 2004, p. 218), in analogia con il “dilemma dell’alleanza” cui si fa riferimento per spiegare la natura delle politiche danesi relative alla NATO. In entrambi i casi, si parte dal presupposto che le politiche danesi siano state determinate da due principali preoccupazioni: la paura dell’abbandono e la paura dell’intrappolamento. Per quanto attiene al dilemma dell’integrazione, la paura dell’abbandono, cioè la paura dell’essere tagliati fuori, ha attirato la Danimarca verso l’integrazione, mentre la paura dell’intrappolamento, cioè la paura di perdere la propria autonomia politica, la ha indotta ad adottare un approccio cauto e funzionalistico (v. Funzionalismo), preferendo la cooperazione intergovernativa all’organizzazione sovranazionale. La paura dell’abbandono è stata messa in relazione con il problema dell’esclusione dagli aspetti economici dell’integrazione europea, mentre il timore dell’intrappolamento era legato alla dimensione politica, in particolare alla cessione di una porzione eccessiva di sovranità nazionale. Pertanto, il dilemma si è fatto più acuto proprio nei periodi in cui la CEE/UE si è mossa nella direzione di un’ulteriore organizzazione sovranazionale.

Si è affermato spesso che la paura dell’intrappolamento è tipica dei piccoli Stati. Secondo alcuni essa avrebbe avuto un ruolo determinante nell’atteggiamento della Danimarca nei confronti dell’integrazione europea in quanto l’identità nazionale danese è stata plasmata in larga misura dal fallimento nella politica internazionale. Nel XVII secolo, la Danimarca era ancora una potenza europea di media grandezza e partecipava attivamente alla politica europea, ma nei secoli a seguire, a causa di alcune sconfitte militari, fu ridotta al rango di un minuscolo Stato, avendo perduto la Norvegia e lo Schleswig-Holstein. L’identità nazionale danese fu influenzata da questi eventi sia negativamente sia positivamente. Negativamente, in quanto la Danimarca ha sviluppato una tradizione di politica estera passiva e di basso profilo, fortemente influenzata dalla vicinanza con la Germania. Positivamente, giacché essa ha cercato di compensare gli insuccessi internazionali costruendo – con un certo successo – una comunità nazionale forte, in base al principio: “Quel che si è perso all’esterno, deve essere conseguito all’interno” (v. Olesen, 2001, p. 61). La creazione di un forte welfare state può essere considerata come un elemento importante in questa strategia, e consente inoltre di spiegare perché proprio il tema dell’assistenza pubblica abbia avuto un ruolo fondamentale nel rifiuto della CEE/UE da parte dei partiti e movimenti danesi contrari all’adesione.

È tuttavia importante ricordare che la costruzione dell’identità danese qui illustrata è una sorta di tipo ideale, rispetto al quale la realtà concreta presenta una miriade di deviazioni. Sebbene, quindi, appaia legittimo sostenere che il progetto europeo non si accordava con la struttura dell’identità nazionale danese nella sua forma idealtipica, resta il fatto che i danesi hanno votato a favore in quattro dei sei referendum europei. Sulla base di queste considerazioni sarebbe opportuno considerare con un certo spirito critico le accuse, mosse spesso alla Danimarca in sede di dibattito europeo, secondo cui questo paese è ed è stato un europeista riluttante, un autentico euroscettico. Dopotutto, la Danimarca si è unita alla CEE già nel 1973, è stata una delle nazioni più rapide nell’adottare e nell’applicare la legislazione comunitaria, ha di norma un ruolo costruttivo nel policy-making, come testimonia il suo contributo al processo di Maastricht, al processo d’allargamento e, più recentemente, al dibattito sulla Costituzione europea; inoltre, anno dopo anno, i sondaggi dell’Eurobarometro hanno dimostrato che i danesi sono tra i più informati in merito alle questioni della Comunità.

Quel che sembra essere vero, tuttavia, è che la Danimarca ha conosciuto un crescente divario tra l’atteggiamento dell’élite politica, sempre più favorevole all’integrazione europea, e quello della popolazione nel suo complesso, la quale non si è mossa nella stessa direzione. All’interno del Partito socialdemocratico, il divario tra la base e la dirigenza è sempre stata evidente, ma negli ultimi dieci anni circa si è approfondito anche quello tra la leadership borghese e il suo elettorato. Un simile fenomeno, peraltro, non si riscontra unicamente in Danimarca, ma anche negli altri Stati scandinavi, in Irlanda, in grandi Stati come il Regno Unito e la Francia e ora anche nei Paesi Bassi, paese per tradizione paladino di tutte le iniziative mirate a rafforzare il processo di integrazione. L’esperienza dei referendum francesi e olandesi sul Trattato costituzionale nel 2005 ne è stata una palese dimostrazione.

Dunque, la sfida dell’anti élite non è affatto una peculiarità danese. Ciò che rende la Danimarca speciale è che essa, con i suoi sei referendum europei, detiene il primato in questo campo tra i paesi dell’UE. Questo fatto è molto eloquente, e spiega la particolare natura del dilemma danese dell’integrazione, ma è lecito supporre che, in futuro, molti altri paesi ricorreranno allo strumento referendario quando dovranno affrontare le questioni europee. Il dilemma danese, a quanto pare, diventa in misura crescente un dilemma europeo.

Box 5 → Commissione per gli affari europei del Parlamento danese

Thorsten B. Olesen (2012)




Dankert, Pieter

D. (Stiens 1935-Perpignan 2003), dopo aver studiato per diventare insegnante, all’età di 24 anni fu assunto dalla scuola primaria di Stompetoren. Un anno dopo iniziò a insegnare storia alla scuola secondaria di Gorinchem. Allo stesso tempo ebbe vari incarichi nel Partito laburista (Partij van de Arbeid, PvdA) di cui era membro dal 1958. Fu presidente della sezione giovanile di Amsterdam (1960-1961), membro del Consiglio nazionale (1960) e capo della sezione di Gorinchem (1962-1963). Nel 1963 la sua carriera professionale ebbe una svolta. Max van der Stoel, che era allora membro del Senato, gli offrì un incarico al Koos Vorrinkinstituut, un istituto scientifico del PvdA specializzato nelle questioni internazionali. Due anni dopo, egli ne divenne direttore, carica che mantenne fino al 1971. Continuò a svolgere un ruolo attivo nella politica di partito del PvdA con il ruolo, tra l’altro, di vicesegretario degli affari internazionali (1963-1965), di membro del comitato esecutivo (1963-1971) e di segretario internazionale (1965-1970).

Il 6 febbraio 1968, D. divenne membro del Tweede kamer der Staten-Generaal, il Parlamento olandese ove rimase per tredici anni. In qualità di rappresentante del PvdA per gli Affari esteri e la Difesa, divenne presidente della Commissione affari esteri (1973-1979) concentrandosi soprattutto sull’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO). Molti anni dopo, quando era sul punto di andare in pensione, avrebbe confessato a un giornalista che all’epoca l’Europa non lo appassionava molto. La sua attenzione era più rivolta al tema della difesa (v. Van der Wal, 1993). Nel 1976, durante la sua attività parlamentare, fu coinvolto nel cosiddetto “affare” Dassault, in cui, senza alcuna prova sufficiente, accusò di corruzione il costruttore francese di aeroplani Dassault. Persino 25 anni dopo definì questa vicenda come uno dei suoi principali insuccessi politici, che avrebbe segnato tutta la sua vita. Egli affermò che questa vicenda aveva rappresentato uno stimolo negli anni successivi per lottare contro le frodi e per mostrare la sua capacità di fornire elementi di prova (ivi, 1993). A partire dal D. 1977 divenne membro del Parlamento europeo (Gruppo socialista) e fece parte delle Commissioni per i bilanci e per il controllo di bilancio. Svolse un ruolo importante nella bocciatura del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea). Il suo successo durante il dibattito del 19 novembre 1979 gli valse il titolo di “Uomo dell’anno” dal “Financial Times”. Nel 1982 fu nominato presidente del Parlamento europeo. In un articolo, dichiarò che in linea con i trattati, i dibattiti parlamentari avrebbero dovuto influire maggiormente sulla elaborazione delle proposte della Commissione europea. Le istituzioni europee avrebbero dovuto affrontare insieme le sfide principali della Comunità. Tali sfide non riguardavano solo i problemi di natura sociale ed economica, ma anche le questioni relative agli affari esteri. L’Europa avrebbe dovuto acquisire una sua identità tra le due superpotenze, incrementare le relazioni politiche ed economiche con il terzo mondo e sviluppare il concetto di sicurezza europea (v. Dankert, 1982). Dopo la sua presidenza, partecipò più attivamente ai dibattiti parlamentari di politica estera. Dal 1985 al 1987 fu presidente della delegazione per le relazioni con gli Stati Uniti. Negli anni dal 1989 fino al 1999 fece parte, come membro e presidente, della Delegazione alla Commissione parlamentare mista della Comunità economica europea (CEE) (in seguito Unione europea) in Turchia.

A seguito di un dibattito all’interno del PvdA, gli fu quasi negata la partecipazione alle elezioni europee del 1984. Il partito laburista si schierò con veemenza contro il dispiegamento di 48 missili da crociera Tomahawk nella base aerea militare di Woensdrecht nella parte sud ovest dei Paesi Bassi. Tale progetto scosse ampiamente l’opinione pubblica e determinò numerose manifestazioni. Tuttavia, D. mantenne la sua posizione a favore del dispiegamento. Soltanto dopo aver firmato una dichiarazione scritta di suo pugno in cui si impegnava a non sostenere la sua opinione nella politica europea, il suo nome comparve come primo candidato nella lista delle elezioni. Soprattutto dopo il 1984, la lotta antifrode divenne una delle specializzazioni di D. In qualità di membro della Commissione sui bilanci, portò alla luce varie attività illecite all’interno delle comunità quali la truffa sui sussidi per il vino e il mancato rispetto delle quote relative al pesce. Nell’aprile 1989 denunciò anche l’arricchimento illecito dei caseifici olandesi che avevano illegittimamente ricevuto sussidi europei, con la piena consapevolezza del ministero olandese dell’agricoltura (1982-1987).

Il 7 novembre 1989 divenne segretario di Stato agli Affari esteri durante il terzo governo di Ruud Lubbers (1989-1994). Con l’incarico di occuparsi della cooperazione europea, inserì nella sua agenda due questioni importanti: l’ulteriore sviluppo e la firma della Convenzione di Schengen (giugno 1990), di cui era un fervente sostenitore e i preparativi per il Trattato di Maastricht. Nel secondo semestre del 1991, i Paesi Bassi assunsero dal Lussemburgo la presidenza delle comunità (v. anche Presidenza dell’Unione europea). Il Lussemburgo aveva già avanzato una prima proposta per il trattato, che era stata accettata da tutti gli Stati membri come punto di partenza per ulteriori negoziati. Nel settembre di quello stesso anno, il ministro degli Esteri Hans van den Broek propose ai colleghi europei una versione olandese del trattato che differiva in modo sostanziale da quella proposta dal Lussemburgo. Tale versione affidava un ruolo maggiore alle istituzioni comunitarie nel decision-making, soprattutto nell’ambito della politica estera. Sebbene gli olandesi fossero consapevoli di quanto fosse delicata tale materia all’interno della comunità, fecero un errore di valutazione pensando di poter contare sul sostegno di Stati quali la Germania e l’Italia. Alla riunione del Consiglio dei ministri del 30 settembre (nota anche come “lunedì nero”), tutti gli Stati membri tranne il Belgio bocciarono nettamente la proposta olandese (v. Van der Wal, 1993; Joustra, 1991). Dopo questo grave fiasco diplomatico, venne riadottata la versione del Lussemburgo come base per ulteriori negoziati. Pochi mesi dopo, il 9 dicembre 1991, si riuscì a elaborare un documento sotto la presidenza olandese. D. non era molto entusiasta di questa versione del Trattato di Maastricht e scrisse un articolo dichiarando che a suo avviso era una «mera codifica della realtà dell’integrazione europea nel 1991» (v. Dankert, 1991, p. 573). Egli prevedeva che per l’Allargamento sarebbe stato necessario dare un maggior peso alla Commissione e al Parlamento nel decision-making. Inoltre, senza un migliore inserimento delle istituzioni nel II e III pilastro (v. Pilastri dell’Unione europea), vale a dire la Politica estera e di sicurezza comune (PESC) e la Giustizia e affari interni (GAI), gli Stati membri si sarebbero resi colpevoli di ciò che egli definiva “politica illusoria”, poiché la cooperazione in tali settori non avrebbe mai potuto funzionare con decision-maker preoccupati di difendere solo gli interessi nazionali.

Poco prima della fine del suo mandato di segretario di Stato, D. venne eletto nuovamente al Parlamento europeo (1994), ottenendo 12.000 voti di preferenza, anche se non era al primo posto della lista elettorale (v. Van der Wal, 1993). Rimase al Parlamento fino a luglio 1999. Il suo ultimo caso importante riguardò il voto di censura contro il commissario Édith Cresson.

Marloes Beers (2012)




Dannie N. Heineman




Danuta Hübner




Daum, Léon

D. (Nancy 1887-Parigi 1966) si diploma brillantemente all’École nel 1907. Intraprende quindi una prodigiosa che lo porta a Douai, la metropoli delle miniere di carbone del Nord, poi a Rabat nel 1913. Stringe rapporti con il maresciallo Lyautey, anche lui originario di Nancy, Residente generale in Marocco. Mobilitato nel 1914, D. combatte nell’arma d’artiglieria, ed è chiamato a Rabat da Lyautey per dirigere il servizio delle miniere attorno al quale ruotano importanti interessi geopolitici. Alla fine del conflitto D. partecipa all’amministrazione della Sarre.

Nel 1921 fa il suo ingresso nella Compagnie des aciéries de la marine et d’homécourt. Il direttore generale dell’impresa è Théodore Laurent, personaggio chiave del Comité des forges. Nel 1923 D. è richiamato al servizio della Francia dal presidente Poincaré. Nel contesto burrascoso delle riparazioni partecipa alla Missione interalleata di controllo delle fabbriche e miniere della Ruhr (MICUM). Dopo l’esperienza della Sarre, si confronta di nuovo con la grande industria tedesca.

Dalla fine degli anni Venti alla fine degli anni Trenta, D. impara il mestiere di futuro presidente di uno dei gruppi siderurgici francesi più potenti, assistendo alla ricostruzione della fabbrica d’Homécourt e agli scontri sociali del 1936. Seguono la sconfitta francese, la creazione del regime di Vichy e la collaborazione. D. viene proposto per il nuovo ministero dell’Industria, ma viene invece nominato al Comité d’organisation de la sidérurgie (CORSID). Per tutto il corso della guerra D. accumula funzioni nell’effimera macchina amministrativa che è stata messa in piedi.

D. partecipa all’amministrazione di guerra in modo funzionale: non è un collaboratore ideologico, né un resistente. Alla Liberazione manifesta il suo desiderio di contribuire al rinnovamento del patronato ispirandosi alla dottrina sociale della Chiesa. È uno dei fondatori della Association des cadres dirigeant de l’industrie pour le progrès social et économique (ACADI). Ma questa iniziativa avrà una scarsa risonanza.

D. torna alle sue fabbriche nel momento in cui si prendono le grandi decisioni per la modernizzazione dell’economia francese grazie al piano di modernizzazione e di infrastrutture della Francia (Piano Monnet).

Per D. la svolta viene dall’Europa. Dopo la Dichiarazione Schuman (v. Piano Schuman), le discussioni fra i siderurgici e il governo francese sono piuttosto rudi. Ma quando giunge il momento di mettere in atto il Trattato di Parigi (1951), Jean Monnet ha l’intelligenza di proporre alla corporazione delle ferriere di essere rappresentata nella futura Alta autorità della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). Dopo qualche tergiversazione viene designato D.: per lui è senz’altro meglio il Lussemburgo piuttosto che l’attesa interminabile della presidenza del gruppo Marine. Inoltre è competente in merito ai complessi e promettenti interessi in gioco relativi alle relazioni siderurgiche franco-tedesche all’interno della prima comunità.

D. è membro dell’Alta autorità dal 1952 al 1959. Presiede il gruppo di lavoro Investimento-finanziamento-produzione, con una funzione tecnica ma fondamentale per lo sviluppo della Comunità. Non è possibile valutare il bilancio della sua azione personale, che si inscrive in quello, molto positivo soprattutto in ambito finanziario, della prima comunità. D. partecipa con entusiasmo ai suoi esordi e abbandona l’incarico nel momento in cui l’Alta autorità si vede rifiutare dal Consiglio dei ministri e dagli Stati la possibilità di applicare «lo stato di crisi manifesta» (articolo 58 del trattato di Parigi), per contrastare il declino delle miniere di carbone europee. D. ha comunque tutte le ragioni per conservare un buon ricordo della sua esperienza lussemburghese.

Le fonti, in particolare i commenti abbastanza aspri del patronato della siderurgia francese, dimostrano che D. si è gradualmente fatto coinvolgere dalla sua missione di artefice dell’Europa. Avrebbe potuto essere il primo mandatario della lobby dell’acciaio, mentre invece è stato il fideis commis di Jean Monnet.

Quando lascia il suo incarico nel 1959, D. si ritira senza riallacciare i rapporti con il mondo degli affari, contrariamente a tanti altri. Presiede un circolo franco-tedesco e assume una serie di funzioni onorifiche. Nel 1962, quattro anni prima della morte, scrive a Monnet a proposito dell’Alta autorità: «Là, sotto la sua presidenza, ho fatto il mio debutto in un mondo di persone e di idee nuovo per me – e mi sono reso conto dell’immensità dell’opera che stava sorgendo e prendendo forma. I dieci anni trascorsi hanno dimostrato la fecondità di questo programma, la solidità dell’apparato che lei ha creato con imperturbabile fermezza. Se la CECA e la sua Alta autorità oggi appaiono sonnolente e un po’ invecchiate, la Comunità economica europea, che è la loro figlia o almeno la loro sorella minore, mostra una magnifica vitalità e procede con passo sicuro in mezzo alle difficoltà» (lettera di D. a Jean Monnet, 12 agosto 1962).

Philippe Mioche (2012)




David Mitrany