De Clercq, Willy

Uomo politico belga, commissario e parlamentare europeo, D.C. (Gand 1927-ivi 2011) si è distinto soprattutto per il suo attivismo politico sia a livello nazionale sia europeo. Liberale ed europeista convinto, D.C. è sempre stato favorevole a una concezione federalista dell’assetto istituzionale dello Stato (v. Federalismo), sia in relazione alla riforma costituzionale in senso federale del Belgio, realizzata nel 1993, sia per ciò che concerne il processo d’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) e la riforma istituzionale dell’Unione europea (UE).

Nel 1950, dopo essersi laureato in Giurisprudenza presso l’Università di Gand (Rijksuniversiteit Gent, RUG) e dopo aver seguito un master di perfezionamento in scienze sociali negli Stati Uniti, alla Maxwell school for Citizenship and Public affairs della Syracuse University, D.C. intraprese la carriera legale, svolgendo l’attività notarile e lavorando come avvocato presso la Corte d’appello della sua città. Contemporaneamente si dedicò all’insegnamento, perseguendo la carriera universitaria. Negli anni Cinquanta divenne professore di diritto presso l’Università di Gand e successivamente ottenne la cattedra di Finanza pubblica all’Università fiamminga di Bruxelles (Vrije Universiteit Brussel, VUB).

Fin da giovane D.C. si distinse all’interno della gioventù liberale belga (Liberaal Vlaams Studentenverbond), interessandosi alla politica attiva. Per oltre quarant’anni partecipò alla vita del Liberale Partij, seguendo le difficili vicissitudini che portarono alla scissione del partito negli anni Settanta e alla formazione di due nuove correnti distinte, una francofona e una fiamminga. Nel 1972, D. C., insieme a Frans Grootjans e Herman Vanderpoorten, diede vita al partito liberale fiammingo, il Partito della libertà e del progresso (Partij voor Vrijheid en Vooruitgang, PVV), di cui venne eletto presidente e, a distanza di vent’anni, nel 1992, prese parte alla nascita del Partito dei democratici e liberali fiamminghi (Vlaamse Liberalen en Democraten, VLD), fondato da Guy Verhofstadt, ex primo ministro belga (1999-2008).

Abbandonata la carriera legale, D.C. venne eletto prima consigliere comunale di Gand, poi membro del Parlamento nazionale. Nel corso della sua vita ricoprì numerosi incarichi istituzionali in diversi governi di coalizione: segretario di Stato per il Bilancio dal 1960 al 1961, vice primo ministro e ministro del Bilancio dal 1966 al 1968, vice primo ministro e ministro delle Finanze dal 1973 al 1974 e dal 1974 al 1977 e ancora vice primo ministro nel 1980. A coronamento della lunga carriera politica e amministrativa, D.C. venne, infine, nominato ministro di Stato (Minister van Staat) nel 1985 e insignito del titolo nobiliare di visconte nel 2006 per volontà del sovrano belga.

Negli anni Settanta, l’allora ministro delle Finanze belga assunse importanti cariche nell’ambito delle istituzioni finanziarie a livello europeo e internazionale. Di fronte alla crisi e al fallimento del Serpente monetario, i leader europei decisero di avviare la ricerca di un nuovo approccio al fine di garantire la stabilità monetaria. Fu così che nel gennaio 1976, a Kingston in Giamaica, D.C. presiedette un’importante seduta del comitato interinale del Fondo monetario internazionale (FMI), durante la quale venne stabilita una serie di accordi miranti all’adozione di una riforma del sistema monetario internazionale – noti anche come Jamaica agreements. Nel 1977, poi, fu chiamato alla presidenza del Consiglio dei governatori (Board of governors) della Banca europea per gli investimenti (BEI) e, sempre lo stesso anno, divenne anche membro del Board of governors della World bank, della Inter-American bank e della Asian bank.

A metà degli anni Ottanta, D. C. volse la propria attenzione alla politica europea, intraprendendo una nuova carriera nel quadro delle Istituzioni comunitarie. Nel 1985 fu nominato commissario europeo, entrando a far parte della prima Commissione Delors (1985-1989) (v. Delors, Jacques), al posto di Étienne Davignon, occupandosi della politica commerciale e delle relazioni esterne congiuntamente al francese Claude Cheysson. Nel 1989, scaduto il mandato e sostituito all’interno della Commissione europea da Karel van Miert, D.C. si candidò alle elezioni europee nelle liste del Partito dei liberali e democratici fiamminghi, inserito nel Gruppo europeo dei liberali (v. Gruppi politici al Parlamento europeo), dei democratici e dei riformatori e aderente alla coalizione liberale europea dell’Alleanza dei liberaldemocratici europei (ALDE). La sua posizione all’interno del liberalismo europeo lo portò ad assumere più volte la presidenza della federazione dei partiti liberali europei (European liberal democrat and reform party, ELDR), dal 1979 al 1981 e dal 1990 al 1995.

Nel corso di quasi vent’anni, D.C. associò all’esercizio del mandato di europarlamentare una convinta militanza federalista, infondendo nella propria attività al Parlamento europeo un indirizzo europeista e favorevole a una maggiore coesione politica dell’UE. D.C. fu membro del Mouvement européen belgique, (MEB) e presidente dell’Union des fédéralistes européens (UEF) del Belgio, partecipando alle iniziative da loro organizzate in favore di un’evoluzione in senso federale del processo d’integrazione europea. Nel 1992, in seguito alla crisi europea innescata dall’esito negativo del referendum danese e dall’esigua maggioranza (51%) conseguita da quello francese sul Trattato di Maastricht, D.C., insieme ad altri esponenti politici, cercò di rianimare il Movimento europeo belga, rilanciando l’idea di un’Europa federale in opposizione alle proteste degli “euroscettici” (v. Euroscetticismo). L’europarlamentare belga, infatti, considerava assolutamente necessaria e urgente una campagna di propaganda europeista per ridurre il divario crescente tra il processo d’integrazione europea e l’opinione pubblica sempre più distaccata e indifferente.

Il federalismo di D.C. emerse nuovamente nel 2004, in occasione dell’allargamento della UE verso i paesi dell’Europa centro orientale, quando non riuscì a nascondere le proprie perplessità e le profonde preoccupazioni di fronte a un tale processo. Convinto, come molti altri esponenti federalisti, della necessità di realizzare un primo nucleo federale (v. anche Nucleo duro) al fine di guidare il processo d’integrazione verso la realizzazione di una grande federazione europea, D.C. riteneva che la prospettiva dell’allargamento costituisse un pericolo, poiché avrebbe comportato una diluizione della capacità decisionale in seno alle istituzioni dell’UE (v. anche Processo decisionale), compromettendone la governabilità e la capacità di pervenire a scelte politiche condivise. D.C., pensando che gli Stati membri non fossero riusciti a rafforzare le istituzioni dell’Unione tanto da garantirne la funzionalità qualora si fosse compiuto l’allargamento, considerava urgente la realizzazione di un’unione federale tra i sei Stati fondatori (sixism), in modo da preservare il processo d’integrazione politica dell’UE e sopportare le pressioni dovute all’espansione. In occasione del Vertice di Amsterdam (1997) (v. Trattato di Amsterdam), D.C. si dimostrò favorevole a una riforma urgente e radicale delle istituzioni europee, volta a realizzare una maggiore coerenza politica, una più forte coesione e una più stretta condivisione dei poteri a livello europeo; l’Allargamento, infatti, avrebbe innescato un processo senza ritorno verso l’ingovernabilità dell’Unione. Di fronte a questo pericolo, lo statista belga credeva nell’autonomia del Parlamento europeo e nella contrapposizione tra le sue potenziali virtù federali e gli interessi nazionali espressi in sede di Consiglio europeo. In qualità di europarlamentare, D.C. si dimostrò sempre favorevole all’idea di attribuire maggiori poteri alle istituzioni comunitarie allo scopo di trasformare progressivamente l’UE in una grande federazione di Stati.

Ancora, in occasione del risultato negativo del referendum francese e olandese sul Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa (2005), D.C., insieme agli ex commissari europei Davignon e van Miert, si è reso protagonista di un dibattito pubblico in seno al Parlamento europeo sulle strategie necessarie al superamento della crisi (v. Costituzione europea).

Negli ultimi anni, anche a causa di un incidente, D.C. ha deciso di ritirarsi dalla vita politica, concludendo una lunga carriera svolta all’interno delle istituzioni nazionali ed europee.

Filippo Maria Giordano (2012)




De Gasperi, Alcide

Altiero Spinelli, come epitaffio della caduta della Comunità europea di difesa (CED), richiamava il giudizio di Machiavelli sulla difficoltà «a trattare, né più dubbia a riuscire» per introdurre gli “ordini nuovi”, alla cui intrapresa il nome di D.G. (Pieve Tesino 1881-Borgo Valsugana 1954) è legato, almeno sotto un aspetto sostanziale, quello della fondazione di un’Europa politica, più di qualunque altro statista europeo. Paul-Henri Spaak nelle sue memorie nota che la Conferenza di Bruxelles (agosto 1954), nella quale Pierre Mendès France avrebbe espresso la contrarietà della Francia a fare di quel trattato l’avvio di un processo di unificazione politica dell’Europa, «cominciò sotto cattivi auspici. Qualche minuto prima della sua apertura, venne annunziata la morte di D.G.». Konrad Adenauer, a sua volta, affermò: «Un’ombra grigia avrebbe sovrastato i nostri negoziati». La definitiva cancellazione della CED dall’agenda europea avvenne di lì a poco col voto contrario dell’Assemblea nazionale francese, ma la sua sorte era già segnata da qualche mese.

La vita di D.G. si sarebbe chiusa sul piano internazionale con una sconfitta, la seconda grave sconfitta dopo quella dell’anno precedente nella politica interna. Come per l’Italia, il futuro dell’Europa non sarebbe stato quello che D.G. si era proposto di costruire, ma molti dei profili fondamentali, che l’avrebbero poi caratterizzato, rimasero quelli che l’opera sua aveva intrapreso a determinare. E così non sembra pertinente chiedersi se egli fu “europeista”, ancor più “federalista”, perché certamente nella sua azione politica ambo le cose sono presenti, assieme ad altre considerazioni altrettanto rilevanti di altro segno. Così pure pare superfluo domandarsi se e quando l’idealismo avrebbe prevalso in lui sul realismo, per un uomo così intrinsecamente coerente con le sue idee, in ogni passaggio della sua vita, in cui per altro non risulta abbia nel contempo mai abbandonato un solo istante la sua congenita attitudine politica a vedere le cose in quanto realizzabili.

Nella formazione intellettuale di D.G. l’idea d’Europa è presente nella forma che la cultura cattolica aveva dato ad essa sulla fine del XIX secolo, quella dell’Europa cristiana, come appare nell’enciclica Immortale Dei di Leone XIII. Da ciò anzi D.G. continuava a trarre linfa nell’idea che fosse necessario trasferire il solidarismo cattolico sul piano internazionale e nella considerazione della Germania, convinto della possibilità di un nuovo moto ideale tedesco e dell’influsso negativo che il luteranesimo vi aveva storicamente esercitato, almeno nel contribuire a congelare in se medesima la sua identità nazionale, facendo così voti perché «un’iniziativa cattolica si sostituisse all’iniziativa protestante». Tuttavia non vi sono tracce di una riflessione sul “federalismo”. Negli scritti di D.G. degli anni Trenta sulla politica internazionale questo tema non compare: nulla sui propositi europeistici di Aristide Briand, né tantomeno sul dibattito federalista animato dal liberalismo inglese, il cui eco troviamo invece ben presente nelle posizioni di Luigi Einaudi del secondo dopoguerra. Le prime “idee ricostruttive” parlano bensì di una “comunità europea”, come necessario teatro della ricostruzione nazionale e in esse c’è da parte di D.G. piuttosto un riferimento idealtipico al Commonwealth britannico. È stato detto che la sua esperienza politica austriaca lo portava naturalmente sulla strada del federalismo. Ma l’obbiettivo della sua battaglia nell’ambito delle istituzioni imperiali asburgiche era piuttosto volto a perseguire l’autonomia, nel quadro delle diverse componenti nazionali che in esso erano congiunte, senza che ciò comportasse propriamente un disegno di tipo federalista. C’era piuttosto l’idea che “nazionalità” e “Stato” fossero due cose che andavano considerate come distinte e non sempre necessariamente congiunte. Ed è questo un motivo che ritorna ad echeggiare nei suoi discorsi sull’Europa, quando insisteva nel dire che «la base di tutte le cooperazioni è la nazione in un consorzio di nazioni libere». Prima di tutto dunque “nazione”, piuttosto che “Stato”, e il “consorzio” cui bisognava adire, nell’ultima fase decisiva, prendeva così naturalmente forma federalistica, anche se D.G. non aveva in mente di preciso i profili istituzionali.

D.G. tuttavia non ne nascondeva le difficoltà. Nelle sue convinzioni intellettuali c’era tutt’altro che l’idea d’uno Stato accentratore. Egli era stato sempre attento al problema delle minoranze etniche, avendo presente la composizione plurietnica di molti Stati europei, su cui metteva ancora l’accento negli anni Trenta, considerando che gli effetti della Prima guerra mondiale e il Trattato di Versailles non avevano del tutto cancellato questa indelebile caratteristica, che gli esiti della Seconda guerra mondiale avrebbero ulteriormente e drammaticamente pregiudicato. Ma aveva ben presente come proprio la storia europea avesse fatto infine dello Stato nazionale, costruito sull’antecedente modello dello Stato assoluto, il suo soggetto determinante, il che non poteva che rendere difficile il cammino verso una diversa unione. E quando si riferiva agli esempi contrari, la Svizzera e gli Stati Uniti, non mancava di notare come essi avessero costruito il loro Stato federale nel momento storico del riscatto della loro indipendenza nazionale, cioè in circostanze diverse da quelle in cui gli Stati europei avrebbero ora dovuto operare per la loro reciproca integrazione. Tuttavia, facendo riferimento al generale movimento che dopo la Seconda guerra mondiale si era messo in moto per assicurare nuove condizioni di sicurezza e di pace, per cui si parlava anche di una “Federazione mondiale”, invitava a “essere concreti”, sottolineando come la Federazione europea fosse quella la cui possibilità di pratica realizzazione era più vicina, ma avvertiva che era impossibile sapere quanto la sua generazione avrebbe potuto realizzare.

D.G. Intendeva piuttosto pregiudizialmente gettare un seme e assicurarsi che potesse crescere. Il seme dell’“unità politica”, quello che appunto allora non si poté far germinare. In ciò espresse priorità che non erano di tipo “funzionalista” (v. Funzionalismo). È singolare constare che nelle sue memorie Jean Monnet, parlando dell’azione che D.G. condusse nel concerto degli statisti europei per introdurre l’art. 38 del trattato della CED, con cui si sarebbe dovuto affrontare da un punto di vista istituzionale proprio il tema dell’“unità politica”, si domandi se «bisognasse davvero subito andare più lontano sulla strada politica».

Su questo punto D.G. fu più solitario di quanto correntemente si ritiene. Egli impose allora ai suoi colleghi europei il suo punto di vista, relativo alla priorità dell’“unità politica”, che anch’essi consideravano un approdo necessario, ma lo facevano proprio, in quel momento, soprattutto sotto la spinta di altre considerazioni impellenti: Adenauer perseguendo principalmente l’obbiettivo di ridare alla sua Germania intera la sovranità, Robert Schuman consapevole che la Francia dovesse responsabilmente trovare la via di scogliere, per l’avvenire suo e dell’Europa, il nodo tedesco. Diversamente i rappresentanti dei paesi del Benelux facevano propria quella suggestione di D.G. per cui la sopranazionalità delle istituzioni europee era, e tale sarebbe rimasta in seguito, un antidoto necessario al prevalere politico degli Stati più forti. Monnet attribuisce a D.G. un pensiero analogo: «aveva capito che l’Italia non avrebbe giocato un ruolo equivalente a quello degli altri Stati più industrializzati, altrimenti che accelerando il processo politico che era rimasto sospeso negli altri trattati europei».

E questa preoccupazione era indubbiamente presente in D.G., anzi rappresentava un motivo portante della politica estera italiana, che troviamo chiaramente espressa anche da Carlo Sforza. Ma con ciò non può parlarsi, come tra le righe si è fatto, di un «utilizzo strumentale dell’europeismo». D.G. al contrario parlava di quest’ultimo come di un “mito soreliano”, cioè avente valenza etico-politica, e riteneva inoltre che dovesse tradursi in un obbiettivo politico da perseguire con tenacia. E di questo mito egli vedeva i presupposti nelle tre grandi famiglie politiche europee, oltre che in quella cattolica, in quella liberal-democratica, nella quale la figura di Giuseppe Mazzini gli sembrava una testimonianza particolarmente significativa in tema di Europa, e naturalmente in quella socialista. D.G. propugnò dunque un federalismo di particolare forma, patrocinando un progetto di tipo federalistico. Di lui può affermarsi quello che, a diverso titolo, è stato detto di Monnet: “europeista non si nasce, ma si diventa”. Ed è indubbio che gli ultimi suoi anni furono sotto questo segno. Che la prospettiva europeistica di D.G. fosse ben più di una considerazione di realismo politico, la mera ricerca cioè di uno strumento che servisse all’Italia per non subire l’inevitabile superiorità della Francia e della Germania, magari ambedue in un secondo momento ancor più unite dalla coincidenza dei loro rispettivi interessi, risulta del resto chiaro dalle riflessioni che egli svolse su due temi sempre presenti nel suo dialogare politico: da un lato la natura e gli effetti della guerra europea e dall’altro il problema, che anche da quella terribile esperienza si deduceva, della difesa della democrazia politica.

D.G. vedeva questi due aspetti tra loro strettamente congiunti. La “guerra europea” era stata “una guerra civile”. Era nata da una spaccatura interna che aveva trasversalmente segnato pressoché tutte le nazioni europee. Il nazionalismo era la sponda che nel passato aveva prevalso, trascinando i popoli nella guerra fratricida. Era così emersa in Europa la peculiare fragilità della democrazia come regime politico. Esaminandone da più vicino le cause, D.G. notava come non fosse vero che «la democrazia dipende solo dalla situazione economica, come non è vero che la situazione economica possa in ogni paese modificarsi nella stessa misura e con gli stessi mezzi»; e ancora: «non è neppure vero che in Europa abbiamo tutti provato le stesse esperienze economiche, politiche e sociali, e che con gli stessi mezzi si sia tentato di arrivare ai medesimi obbiettivi», mentre di contro «non è vero che il comunismo sia anzitutto un sistema economico». Ora, se «l’avviamento più logico, più pratico, più conforme ai precedenti storici» era l’Unione doganale ai fini del processo di integrazione europeo, questo non bastava affatto perché il primo più importante problema era quello costituzionale dello Stato federale, che un trattato sulla comune difesa militare come la CED necessariamente presupponeva (v. Integrazione, teorie della).

D.G. notava infatti che «se la realizzazione della solidarietà economica europea dovesse dipendere dalle forme di compromesso elaborate dalle diverse amministrazioni interessate, questo ci condurrebbe molto probabilmente a debolezze e contraddizioni». Egli conveniva con Sforza che il disegno di integrazione che il suo governo metteva in campo andasse sottratto alla logica delle burocrazie diplomatiche e militari. Un esercito europeo avrebbe infatti dovuto comportare una spesa comune e un prelievo fiscale unificato: occorreva quello che egli definiva il “secondo pilastro”, cioè un “bilancio comune” (v. anche Bilancio dell’Unione europea). Il primo, di per sé insufficiente, rimaneva invece quello della liberalizzazione degli scambi tra i paesi europei, legato alla necessità di assicurare ai sistemi industriali dei vari paesi uno spazio di mercato più ampio di quello interno.

Le democrazie postulavano in modo analogo un contesto omogeneo, che in Europa sarebbe stato pienamente assicurato soprattutto attraverso un processo di integrazione. Per questo D.G. invocava «un’associazione di sovranità nazionali basata su istituti costituzionali democratici» e richiedeva “un soffio vitale” per costituirla. Non si intende questa inclinazione così radicale di D.G. sul problema dell’Europa se la si disgiunge dalle riflessioni sulla guerra mondiale. Questo pensiero ricorrente invero era un elemento in comune con gli altri statisti europei a lui coevi. «Nella nostra sventura», ebbe a dichiarare D.G. a Bruxelles nel novembre 1948, «ridivenimmo più che mai consapevoli della comune civiltà e del nostro comune destino», e lo stesso sentimento era destinato poi a rimanere vivo anche nei decenni seguenti. Così pure l’adagio che in quel periodo egli fece spesso risuonare in tutte le sedi: “fare presto”. In questo caso il riferimento era invece alla congiuntura internazionale dell’epoca, perché la Guerra fredda imponeva allora scelte drastiche per garantire la difesa europea, come quella impellente del riarmo tedesco. La guerra passata, e quella che era in atto come Guerra fredda, confluivano dunque in una medesima suggestione, e D.G. avvertiva che di ciò occorreva approfittarne per realizzare l’integrazione. Quando quella tensione sarebbe venuta meno, come pure era auspicabile, tutto sarebbe divenuto più difficile. D.G. volle così rimanere fedele fino all’ultimo a quel progetto a cui aveva intimamente aderito.

Egli non credeva che la liberalizzazione del mercato bastasse da sola a fondare un’Unione europea. L’esperienza del Piano Marshall gli aveva mostrato che, malgrado le pressioni americane, per quella strada l’integrazione rimaneva semplicemente funzionale al rafforzamento delle singole economie nazionali e che in ultima analisi anche un passo così importante, come quello che si era fatto con la carbosiderurgia, attraverso la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), andava principalmente in quella direzione (v. Integrazione, metodo della). Ma l’effettivo ridimensionamento della sovranità degli Stati nazionali e, a partire da ciò, l’estrinsecarsi di una politica propriamente europea, erano un’altra cosa. A questa consapevolezza si riconnetteva la constatazione che l’ideale europeo non era ancora ben radicato. D.G. diede così senza remore il suo appoggio alle iniziative e ai Movimenti europeistici.

Al primo Consiglio internazionale del Movimento europeo (ME), tenutosi a Bruxelles nel febbraio 1949, Meuccio Ruini, che guidava la delegazione italiana, lesse una dichiarazione di D.G. e nel corso della riunione le posizioni italiane risultarono decisamente più proiettate di quelle di altri paesi verso la prospettiva dell’integrazione. Nel luglio del 1950 si tenne a Roma la Conferenza sociale del ME, avvenimento a cui D.G. attribuì grande importanza, e che fece preparare con cura, intervenendovi con un discorso le cui riflessioni sulla giustizia sociale e la democrazia, che abbiamo già richiamato, penetravano a fondo il tema dell’“unità”, sottolineando come fosse necessario che «tutti i popoli, ricchi e poveri» dovessero essere chiamati a fare sacrifici per essa. Nel novembre 1950 interveniva poi ad una manifestazione del Movimento federalista europeo, apponendo la sua firma alla petizione da questi promossa per un “patto di unione europea”. Si preoccupava nel contempo di riaffermare, assieme ai comuni sentimenti verso il processo di unificazione europea, la necessità di non formalizzarsi su di una prospettiva eccessivamente astratta.

Qualche giorno dopo al Senato avrebbe pronunciato uno dei più argomentati suoi discorsi europeistici a sostegno di una mozione federalista presentata da alcuni senatori della maggioranza, che abbiamo già diffusamente citato, tenendo la stessa cauta distanza tra la meta ideale e l’azione di governo. Anche in seguito, quando il suo impegno per la CED esplicitò una più accentuata vicinanza, l’azione militante dei federalisti fu una sponda idealmente contigua, che D.G. considerava necessaria per “affiancare e stimolare” lo svolgimento della politica europea, senza mai tuttavia identificarsi con essa e senza mai confondere la propria azione con le iniziative di quei movimenti.

Non fu dunque per un impulso semplicemente ideale che a un certo punto D.G. cercò di cogliere l’attimo fuggente dell’unità politica dell’Europa, bensì perché aveva intravisto l’esistenza di un’effettiva possibilità politica nel contesto europeo. Sperò che la consapevolezza allora presente nei maggiori statisti europei sortisse effetti positivi. In quei frangenti aveva scritto a Sforza: «Non bisogna nascondersi che tra i nordamericani i fanciulloni sono molti e che anche le democrazie politiche hanno i loro punti deboli. La vecchia Europa è più equilibrata e più esperta».

Era un istintivo trasporto verso una saggezza europea, in quel momento fiduciosamente presunta, che si aggiungeva alle remore naturali e indelebili di Einaudi, che era personalmente oltremodo partecipe di questi sforzi di D.G., l’aveva sollecitato a lasciare che il suo nome fosse legato «alla realizzazione della grande idea» e per un certo tratto egli sperò che fosse possibile. Con ciò non si nascondeva che la CED fosse comunque ancora “una fase transitoria”, per quel che riguarda l’Italia, basata sull’art. 11 della sua Costituzione, che avrebbe richiesto una seconda fase, quella federale: allora sarebbe stata «necessaria una revisione costituzionale». Un percorso ancora lungo ed accidentato, ma D.G. aveva cercato comunque di fare il primo passo, e ciò gli si era proposto come un “imperativo categorico”. A volte aveva avvertito che l’occasione avrebbe potuto non ripresentarsi. E nei fatti quella occasione non è stata in seguito più colta. La “tela di Penelope” della sua politica europea si sarebbe strappata e quanto sarebbe rimasto del suo ordito non avrebbe più permesso di far passare il filo necessario a comporre un disegno federalista.

Questo acuto europeistico di D.G., con cui, come parve a Schuman, egli assunse quasi il ruolo di un “apostolo”, fu tuttavia quasi l’ultimo atto della sua politica estera e prese forma su di un terreno preparato con cura e con prudenza. Mai tuttavia questa politica si discostò un momento dalla convinzione che il referente primario stava nell’alleanza con gli Stati Uniti. Gli Stati europei, ancorché divisi, erano troppo deboli per giocare un ruolo autonomo, non solo nell’arena internazionale, ma nello stesso loro teatro continentale. La necessità di coinvolgere gli Stati Uniti invocando una loro corresponsabilità per fronteggiare la minaccia sovietica rispondeva ad una esigenza che riguardava non solo i rapporti di forza internazionali, ma anche quelli interni a ciascun paese occidentale. Poteva anzi dirsi che l’intensità di questa “chiamata” dell’alleato americano variasse proporzionalmente rispetto a quella correlata della pressione sovietica.

Questa pregiudiziale americana ha radici particolari nella storia italiana che affondano nella svolta del luglio 1943 la quale portò alla caduta di Mussolini, all’armistizio con le potenze alleate e al rovesciamento di alleanze con cui l’Italia partecipò poi alla guerra a fianco di queste ultime. Le clausole dell’armistizio stringevano strettamente la nazione italiana alla sua condizione di paese vinto. Gli inglesi si fecero interpreti rigorosi di esse, nella politica interna come nella politica estera. Nella politica interna si attennero al principio della continuità dello Stato nella persona del sovrano, Vittorio Emanuele III. Ciò comportava vincoli allo sviluppo della rinascente vita democratica, in cui la gran parte dei partiti antifascisti avanzavano la pregiudiziale repubblicana. Quando D.G. assunse la carica di ministro degli Esteri nel primo governo Bonomi (giugno 1944) si trovò subito nella necessità di cercare di allentare questi vincoli. E il crinale lungo il quale si mosse fu quello di un sempre più stretto rapporto con gli americani, favorito dal ruolo sempre più preminente che essi vennero assumendo nel Mediterraneo rispetto agli inglesi. Rapporto necessitato anche dalle elementari esigenze di aiuti, in primo luogo alimentari, di cui il paese, nelle contingenze belliche e in quelle degli anni immediatamente successivi alla guerra, il paese aveva drammatica necessità. Sul lato della politica estera fu più difficile districarsi, e per quanto l’inclinazione della diplomazia americana fosse più attenta alle richieste italiane, il trattato di pace rifletteva la logica dei rapporti e degli impegni reciproci tra le potenze vincitrici che si erano andati stabilendo nel corso della guerra. L’avvio della Guerra fredda determinò condizioni più propizie allo svolgersi di un autonomo ruolo italiano di partnership, che fu anche questo tutto di segno americano. Alla metà del 1947 la ratifica italiana del trattato di pace e la rottura da parte di D.G., col suo IV governo (giugno 1947), furono la premessa di una svolta decisiva, tra l’altro con l’adesione italiana al Piano Marshall. Ma la data definitiva fu quella delle elezioni politiche del 18 aprile 1948 con l’ampia vittoria delle forze anticomuniste e in particolare del partito di D.G., la Democrazia cristiana.

Fu una scelta di campo dell’elettorato italiano sulla quale diveniva possibile costruire un univoco indirizzo di politica estera. Da quella data possiamo parlare in effetti della costruzione di un disegno di politica internazionale che ebbe indubbiamente allora in D.G. il maggiore artefice. E la via subito intrapresa fu quella di rafforzare il legame transatlantico. L’Italia aderì al Patto atlantico attraverso una sofferta trattativa, in cui ai dubbi degli alleati verso la sua partecipazione si aggiunsero le resistenze interne di larga parte del partito cattolico e di settori della socialdemocrazia che furono superate soltanto all’ultimo momento (v. anche Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico). L’ingresso nel Patto atlantico va comunque considerato come l’atto di fondazione della nuova politica estera italiana. La politica europea che lo accompagnò e seguì fino agli anni Cinquanta deve considerarsi come un elemento sussidiario seppure carico di intense speranze.

Le attenzioni di D.G. e quella del ministro degli Esteri Carlo Sforza si volsero innanzitutto a rinsaldare le relazioni con la Francia. Quando il Quai d’Orsay passò dalle mani di Georges Bidault a quelle di Schuman il compito divenne più agevole. Ambedue venivano dal Mouvement républicain populaire, il partito francese di ispirazione cattolica, il che costituiva un principio di consonanza per D.G. Durante la complessa trattativa per l’ingresso dell’Italia nel Patto atlantico la Francia era stata l’interlocutore più interessato alla partecipazione italiana. Quando Ernest Bevin lanciò il Patto di Bruxelles gli italiani, premuti com’erano dalla necessità di non perdere occasioni per rientrare nel concerto internazionale, avevano avanzato il proposito di aderirvi, trattenuti poi dalla preoccupazione, avvicinandosi la scadenza del 18 aprile, di non dare ai social-comunisti un argomento polemico efficace nella campagna elettorale, aderendo a un’alleanza militare che aveva valenza in principio antitedesca, ma insieme evidentemente antisovietica. Dopo il risultato elettorale favorevole, la trattativa del Patto atlantico, che assorbì nel suo contesto la piccola intesa di Bruxelles, avrebbe poi invece rappresentato il necessario consolidamento internazionale della nuova maggioranza parlamentare.

Si deve all’iniziativa italiana il proposito di un’unione doganale italo-francese, accolta inizialmente in modo favorevole dalla Francia, che per un momento volle anche estenderla ai paesi del Benelux, ma che non giunse mai a maturazione. Questa di unificare il più possibile il mercato europeo era obbiettivo che perseguivano anche gli Stati Uniti, facendo del Piano Marshall uno strumento di pressione. Corrispondeva a un’idea di D.G., che ritroviamo anche nelle sue pagine programmatiche che accompagnarono la nascita della Democrazia cristiana. In D.G. era ferma del resto anche la convinzione che la Germania avrebbe dovuto riassumere un ruolo centrale nella costruzione europea. Non a caso la prima visita all’estero di Adenauer come cancelliere nel giugno 1951 fu a Roma su invito del governo italiano. La formula dell’Europa di Carlomagno è un’etichetta postuma che unisce i tre statisti Adenauer, Schuman e D.G., anche nel segno della loro comune origine di uomini di frontiera oltre che dell’appartenenza a forze politiche di ispirazione cattolica. Non fu in realtà un disegno, ma una naturale convergenza, indubbiamente in un idem sentire che si manifestò via via nel corso degli eventi e che poggiò sull’idea che l’asse fondamentale della costruzione europea dovesse necessariamente aver natura continentale e passare attraverso la riconciliazione franco-tedesca cui l’adesione italiana ancor più di quella dei paesi del Benelux costituiva un apporto indispensabile per dare ad essa un effettivo e più ampio contenuto europeo.

L’Italia aveva dal canto suo necessità di trovare nella politica europea l’elemento di stabilizzazione per rientrare nel concerto internazionale di cui il rapporto con gli Stati Uniti era il volano necessario, ma non sufficiente. Il punto di precipitazione fu, con la guerra di Corea, la necessità che venne imponendosi del riarmo tedesco. Il nodo delle relazioni franco-tedesche emerse così drammaticamente a nudo. La difesa dell’Elba non era concepibile senza una partecipazione tedesca. Tanto più che i sovietici, nella zona tedesca da loro occupata, andavano formando tre divisione tedesche. Il proporsi in Europa di una situazione di tipo coreano si presentava così come qualcosa di più di una semplice suggestione. Adenauer, fermo nella sua scelta occidentale che respingeva ogni possibile accordo con l’URSS su di un’ipotesi di neutralizzazione tedesca, si trovava a fronteggiare una situazione in cui la Germania era pressoché militarmente inerme di fronte alla minaccia sovietica e nel contempo puntava a realizzare con il riarmo un pieno riconoscimento della Repubblica federale come soggetto di politica internazionale.

Il nodo della questione era nelle mani dei francesi. All’iniziativa di Schuman si doveva già il Trattato della CECA, l’autorità carbosiderurgica europea che, concepita da Monnet, introduceva il principio di una gestione sovranazionale di quel vitale comparto industriale. La partecipazione italiana alle trattative aveva seguito una linea proficua di difesa degli interessi italiani, ma nel contempo di assoluta lealtà verso gli obbiettivi transnazionali di costruzione europea che l’iniziativa comportava. Era stata l’industria pubblica italiana a fare da supporto all’iniziativa, di contro alle preoccupazioni dei privati. D.G. non si nascondeva come l’iniziativa rispondesse alle strategie economiche di espansione dell’industria francese che Monnet aveva messo a punto nel suo piano economico nazionale. Poiché gli interessi italiani erano stati anche tutelati, aveva sorretto con decisione l’iniziativa. L’incontro di Santa Margherita del febbraio 1951 con il governo francese, presenti il Presidente del Consiglio René Pleven e Schuman, aveva appianato le ultime difficoltà e coronato l’intesa. Era avvenuto per altro alla vigilia della presentazione del piano Pleven, dove lo schema sopranazionale della CECA era stato trasporto nella costituzione di un esercito europeo che risolvesse nel suo ambito il problema del riarmo tedesco. Dopo un’iniziale incertezza, quando gli americani decisero di appoggiare l’iniziativa, il progetto francese prese forma con il pieno appoggio del governo italiano. Fu allora che anche l’europeismo di D.G. prese anch’esso la sua forma definitiva e a puntare sull’ipotesi di un’unità politico-istituzionale. Era, come si è detto, presente l’idea che una soluzione federale avrebbe maggiormente garantito l’Italia dal saldarsi dei più forti interessi franco-tedeschi, ma il disegno che perseguiva trascendeva comunque l’interesse nazionale.

D.G. si propose quindi di alzare il livello della trattativa. Quando nel dicembre 1951 intervenne all’Assemblea del Consiglio d’Europa con un discorso di chiaro indirizzo federalista, raccolse la particolare approvazione degli olandesi e dei belgi. L’11 dicembre, nel corso della Conferenza dei ministri degli Esteri sull’esercito europeo che si tenne a latere dell’Assemblea del Consiglio d’Europa a Strasburgo, calò sul tavolo le sue carte. Nella seduta antimeridiana dichiarava: «L’Italia è pronta a trasferire ampi poteri ad una Comunità europea, purché questa sia democraticamente organizzata e dia garanzie di vita e di sviluppo. Non nega che vi possa essere un periodo transitorio, ma ritiene necessario che nel momento in cui il Trattato verrà presentato ai Parlamenti, sia già chiaramente affermata la volontà di creare istituzioni politiche comuni, che assicurino la vita dell’organizzazione. Riconosce che l’organizzazione politica e integrata dell’Europa non si potrà realizzare subito, ciò nondimeno stima che è necessario fin da principio la sicurezza che questa organizzazione a un certo momento prenderà vita. Se si trasferisce tutto l’esercito ad un potere europeo, bisogna che i Parlamenti e i popoli sappiano in che maniera questo potere sarà organizzato, come gestirà le sue attribuzioni e come sarà controllato. È per questo che considera la presenza di una Assemblea nell’organizzazione europea come essenziale; è necessario che nella Comunità europea esista un corpo rappresentativo, questo potrà anche essere formato mediante delegazione di poteri da parte dei parlamenti nazionali».

L’organo esecutivo europeo, che secondo D.G. avrebbe dovuto essere collegiale, sarebbe stato responsabile verso questo corpo rappresentativo europeo. L’organo esecutivo avrebbe dovuto essere un presidente: «che si chiami Commissario o in altra maniera […] il nome è una questione secondaria, l’importante è che si tratti di un Commissariato e non di una persona singola. In questo corpo collegiale la presidenza, ad esempio, potrebbe essere esercitata a turno».

D.G. si rendeva conto che la creazione di una Assemblea rappresentativa poteva destare qualche preoccupazione presso i paesi minori che, per forza, avrebbero avuto una rappresentanza limitata, ma individuava il correttivo nel Consiglio di ministri, in cui ogni paese avrebbe avuto una rappresentanza eguale come in un Consiglio di Stati.

Vi era poi la questione della messa in moto dell’esercito europeo. Nel Patto atlantico, almeno teoricamente, non vi era automatismo. Per l’esercito europeo occorreva che nel determinare i poteri dell’Assemblea e del Consiglio degli Stati, si trovasse una formula perché questi organi fossero consultati.

Comunque sia, concludeva D.G., «per riuscire dobbiamo fare qualche cosa che presenti attrattive per la gioventù europea; dobbiamo lanciare un appello a cui questa possa rispondere. Come potremo giustificare il trasferimento a organi comuni di così importanti parti della sovranità nazionale, se non diamo al tempo stesso ai popoli la speranza di realizzare idee nuove? È questa la sola maniera per combattere i risorgenti nazionalismi».

La dichiarazione di D.G. si poneva al centro della discussione, modificando l’iniziale impostazione di Schuman e finiva per raccogliere il consenso di tutti con l’introduzione dell’art. 38 del Trattato, in base al quale entro un anno, sulle linee federalistiche così tracciate, l’Assemblea della CECA avrebbe formulato un progetto costituzionale europeo (v. Comunità politica europea). Una successiva riunione dei sei ministri degli Esteri a Parigi dal 27 al 30 dicembre avrebbe ulteriormente precisato i termini comuni con cui l’impostazione di D.G. venne accolta.

D.G. si proponeva di presentare alle Camere per la ratifica il trattato della CED dopo le elezioni del 7 giugno 1953, in cui la sua coalizione di governo doveva subire una cocente sconfitta, non essendo scattato il premio di maggioranza della nuova legge elettorale che egli stesso aveva imposto. Trascorse da quella data un anno in cui la preoccupazione costante di D.G. fu quella della ratifica del Grattato. Egli voleva che l’Italia, come avevano già fatto la Germania e i paesi del Benelux ratificasse prima del voto dell’Assemblea nazionale francese. Ormai fuori dal governo, ma in una posizione ancora preminente, sollecitò con tenacia il governo italiano, facendo cadere prima quello presieduto da Giuseppe Pella, che andava in altra direzione, poi incalzando quello presieduto da Mario Scelba e con esso il nuovo segretario della Democrazia cristiana Amintore Fanfani. L’Italia finì per attendere il voto negativo dell’Assemblea nazionale francese del 30 agosto 1954. D.G. morì il 19 dello stesso mese, alla vigilia di quella Conferenza di Bruxelles in cui Mendès France aveva chiesto di stralciare dal trattato della CED proprio quel progetto federalista che poteva dirsi il lascito politico incompiuto di D.G.

Piero Craveri (2012)




de Gaulle, Charles

Nessun personaggio pesa più di de G. (Lille 1890-Colombey-les-deux-Églises 1970) nella storia della Francia del Novecento. Nel 1940, nel momento più buio dell’occupazione nazista, con il «gran rifiuto» al dovere di obbedienza alla resa firmata da Pétain, de G. divenne il simbolo dell’unità del popolo francese, l’eroe della Resistenza; nel 1946 gli venne affidato l’incarico di presiedere il primo governo della nuova Francia e, con esso, il compito di ricomporre le tante fratture che si erano consumate durante la Seconda guerra mondiale; infine, nel 1958, richiamato al potere come uomo della Provvidenza, sventò il putsch dei militari e avviò a soluzione la crisi algerina, salvando la Francia per la seconda volta da una situazione che sembrava potesse mettere a repentaglio l’esistenza stessa della nazione. D’altra parte, quando si osserva la biografia di de G., si aprono prospettive che vanno ben oltre le vicende della storia francese della “Francia libera”, della Quarta repubblica o della Quinta, di cui il generale fu fondatore. La politica di integrazione europea è certamente un ambito in cui il generale de G. ha lasciato delle tracce indelebili (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Fu con il consenso di de G. che si avviò la costruzione del mercato comune, fu nel decennio gollista che si concretizzò quell’asse franco-tedesco che, sia pure a fasi alterne, avrebbe “governato” il processo d’integrazione fino agli anni Novanta; fu sempre in quel decennio che si bloccò il processo d’integrazione politica e l’Allargamento della Comunità europea a nuovi paesi membri; e fu al termine della sua stagione politica che, con l’invasione della Cecoslovacchia da parte dell’URSS, tramontò definitivamente la prospettiva dell’Europa dall’Atlantico agli Urali sulla quale il generale aveva puntato con decisione.

La vita di de G. si intreccia con tutti i principali snodi del “secolo breve”: dalla Prima guerra mondiale, alla quale rimanda di continuo, fino alla caduta del comunismo, alla quale allude nella sua fase finale. Per educazione e formazione, la figura di de G. appare tuttavia legata più al secolo che gli diede gli albori, l’Ottocento, che a quello in cui si trovò a compiere la sua azione pubblica. Dal padre, professore di storia e letteratura, de G. ereditò il rigore, la disciplina, la devozione alla Chiesa cattolica e soprattutto un amore intransigente per il proprio paese, attitudini e sentimenti che si sarebbero consolidati negli anni trascorsi all’Accademia militare. De G. entrò a Saint-Cyr nel 1912, quando far parte dell’esercito francese era, a suo dire, «una delle cose più grandi del mondo». Il suo primo colonnello fu Pétain. Due anni dopo scoppiò la Prima guerra mondiale e le disfatte francesi lasciarono un’impronta indelebile nella sua mente, rivelandogli il valore del suo paese, indebolito da governi considerati «indegni» di esso. Ai traumi ereditati (Sédan) e a quelli patiti in prima persona, al fronte e poi come prigioniero in Germania durante la Grande guerra, si aggiunse infine il dramma dell’occupazione nazista, l’umiliazione della disfatta e dell’esilio londinese, che segnarono anche il momento in cui de G. decise di entrare in scena, «assumendo su di sé una grande controversia», come scrisse, citando Shakespeare in epigrafe a Le fil de l’épée.

Con l’appello ai connazionali del 18 giugno 1940, lo sconosciuto generale di brigata esortò i francesi a resistere, quindi a disobbedire alla resa firmata da Pétain, perché convinto che quella di Francia era soltanto una battaglia perduta, e che, essendo mondiale, la guerra poteva ancora essere vinta. de G. avrebbe affermato in seguito che quella fase eroica della sua esistenza fosse l’unica che valeva la pena di ricordare. Proprio per questo alle memorie del periodo di guerra de G. non consegnò solamente ambizioni letterarie, ma diede il valore di iniziativa politica. Al riguardo, vi è una pagina delle memorie di guerra – la prima – che deve essere letta e riletta se si vuole cogliere nella sua essenza la matrice ideale del gollismo: «Per tutta la mia vita ho avuto una certa idea della Francia: essa è ispirata dal sentimento e dalla ragione. Il mio lato sentimentale tende ad immaginare che la Francia, come la principessa nelle fiabe o la Madonna negli affreschi, sia votata ad un destino sublime ed eccezionale. Istintivamente, ho la sensazione che la Provvidenza l’abbia creata o per grandi vittorie o per sconfitte esemplari. Se, al contrario, i suoi atti si dimostrano mediocri, questo mi colpisce come un’assurda anomalia, da imputarsi agli errori dei francesi, non al genio della loro terra. Il lato razionale della mia mente mi assicura anch’esso che la Francia non è veramente se stessa altro che al primo posto; che solo imprese grandiose possono compensare i fermenti di divisione che il suo popolo porta con sé; che il nostro paese, quale è, fra gli altri, quali sono, deve puntare in alto e tenersi unito, pena la morte. Insomma, secondo me la Francia non può essere la Francia senza la “grandeur”» (v. de Gaulle, 1954, pp. 1-2).

La Francia, dunque, al primo posto e l’arena internazionale come luogo privilegiato nel quale affermare e ristabilire il primato francese, la grandeur. Il gollismo fu innanzitutto una dottrina della nazione, un complesso concettuale coerente e omogeneo nel quale si inseriva una certa idea della Francia e, di riflesso, anche dell’Europa, e delle forme politico-istituzionali che esse avrebbero dovuto esprimere. Punto di partenza era il primato dello Stato e della sua indipendenza, lo strumento attraverso il quale la nazione, intesa come realtà aprioristica che sfugge alla necessità di una definizione, avrebbe trovato la sua espressione politica più compiuta. Ne derivava la visione di uno scenario internazionale multipolare basato sul principio dell’equilibrio di potenza, in cui ogni soggetto era chiamato a svolgere il ruolo assegnatogli dalla storia, dalla geografia, dalla sua forza e dalla sua ambizione. Nel corso degli anni de G. avrebbe fornito quattro interpretazioni diverse del ruolo riservato alla Francia nel mondo delle nazioni del XX secolo: come portavoce di tutti “i galli, i latini e i teutoni”; come “grande potenza” indipendente, che pretende pari diritti nell’ambito di un direttorio occidentale, organizzato come asse Washington-Londra-Parigi; come leader naturale di un’Europa allargata dall’Atlantico agli Urali, arbitro tra Mosca e l’Occidente, e infine come portavoce del «pensiero di più di due miliardi di esseri umani» dei paesi del Terzo mondo. Il punto di incontro di questi quattro scenari sarà la prospettiva, inseguita da de G. sin dal tempo di guerra, di far riguadagnare alla Francia la sua supremazia sul vecchio continente.

«Intendevo assicurare alla Francia la supremazia sull’Europa occidentale, impedendo la nascita di un nuovo Reich che potesse nuovamente minacciare la sua sicurezza; cooperare con l’Oriente e l’Occidente e, se necessario, ridurre i legami con l’una o l’altra parte senza mai accettare alcun tipo di dipendenza; […] convincere gli Stati del Reno, delle Alpi e dei Pirenei a formare un blocco politico, economico e strategico; fare di questa organizzazione una delle tre grandi potenze mondiali e, eventualmente, l’arbitro tra il campo sovietico e quello angloamericano. Dal 1940 ogni mia parola e ogni mio gesto erano stati dedicati a creare queste possibilità: ora che la Francia era di nuovo in piedi, avrei cercato di realizzarle» (v. de Gaulle, 1959, pp. 872-873).

Al cospetto delle grandi Weltanschauungen del Novecento, delle due superpotenze emerse vincitrici dalla Seconda guerra mondiale e del correlato declino delle grandi potenze europee tradizionali, la dottrina della nazione propugnata da de G. apparirà sotto molti aspetti anacronistica, viziata da un’impostazione molto ideologica che lo avrebbe portato a non riconoscere una realtà di cui il generale era forse inconsciamente consapevole: l’impossibilità di far rivivere alla Francia, e indirettamente all’Europa, un passato glorioso che non sarebbe più ritornato. D’altra parte, in de G. questa impostazione ideologica si combinerà sempre con un approccio marcatamente realista alla politica internazionale, che non avrebbe tardato a manifestarsi. Bisognava infatti essere dotati di una straordinaria lungimiranza per immaginare nel pieno trionfo nazista che il conflitto in corso avrebbe potuto cambiare direzione. Nell’appello del 18 giugno non accennò apertamente all’eventualità che il prosieguo della guerra potesse condurre ad un coinvolgimento diretto degli Stati Uniti, né che l’Unione Sovietica potesse essere indotta a cambiare alleanze. In un discorso successivo a Radio Londra del 22 giugno 1940 fece, però, un chiaro riferimento a tali evenienze: «Questa guerra non è una guerra franco-tedesca che possa essere decisa da una battaglia. Questa è una guerra mondiale. […] Nessuno può prevedere se i popoli oggi neutrali lo saranno anche domani; né se gli alleati della Germania resteranno sempre suoi alleati» (v. de Gaulle, 1970, pp. 6-7).

Questa chiaroveggenza d’altro canto non implicò l’accettazione né del fatto che il conflitto conducesse ad un declino della nazione come elemento fondamentale dell’equilibrio internazionale, né della fine dell’eurocentrismo. In una lettera a Franklin Delano Roosevelt del 6 ottobre 1942, de G. ribadì che l’obiettivo prioritario era quello di restituire l’unità della Francia in guerra e, per questa via, reinserirla nel novero delle nazioni vincitrici. Il generale riteneva tale passaggio imprescindibile non solo per il futuro della sua nazione ma per il più complessivo ordine postbellico che, a suo modo di vedere, non avrebbe potuto fare a meno della presenza, al centro di un’Europa non diminuita nella sua importanza, di una grande Francia conciliata con se stessa (v. de Gaulle, 1997, pp. 45-52). Le idee del presidente americano Roosevelt si rivelarono tuttavia molto diverse, se non addirittura opposte a quelle del generale, sia in merito al futuro della Francia sia per quanto riguarda la sistemazione dell’Europa. Più precisamente, nei piani di Roosevelt per il dopoguerra vi era la volontà di sfruttare la contemporanea sconfitta di Germania e Francia per limitare il peso complessivo dell’Europa e delegare la gestione dei conflitti di quella parte del mondo agli inglesi e ai sovietici che, ottimisticamente, il presidente riteneva avrebbero cooperato all’edificazione di un mondo più integrato, innanzitutto economicamente. Proprio per questo Roosevelt e il Dipartimento di Stato si mostrarono pregiudizialmente ostili ad un movimento, come quello gollista, che si proponeva di “revisionare” la sconfitta francese del 1940 e di porre la Francia su un piede di parità con i tre grandi. Queste iniziali incomprensioni con gli Stati Uniti si coniugarono con la sottovalutazione dell’atteggiamento benevolo che il Regno Unito di Winston Churchill aveva riservato al suo paese: circostanza che spinse il generale a recuperare il rapporto con l’Unione Sovietica di Stalin che, tra l’altro, nella sua visione avrebbe potuto costituire un argine alla possibile rinascita di un pericolo tedesco. Per de G., pur di fronte a una Germania sconfitta, costretta alla resa senza condizione e occupata, il pericolo per la Francia rimaneva quello storico costituito dal dinamismo tedesco. Tutto ciò sfociò, nel 1944, nella firma di un nuovo trattato franco-russo e, nel 1945, nell’affidamento alla Francia di una zona di occupazione in Germania: due risultati che, sebbene mostreranno ben presto tutta la loro fragilità e incongruenza, sancirono in qualche modo il peso che la continuità esercitava nell’ambito della concezione gollista delle relazioni internazionali.

Pur tra mille difficoltà inaudite, la prima fase del gollismo, la stagione eroica che era stata inaugurata il 18 giugno del 1940, si presenta a posteriori come una fase di successi, nel corso della quale la riunificazione di una nazione lacerata procedette senza interruzioni. Essa si concluse nel gennaio del 1946, quando de G. si dimise da primo ministro, di fronte alla prospettiva di una normalità ritrovata.

La seconda stagione del gollismo prese avvio dalla convinzione che dagli esiti del conflitto mondiale non sarebbe potuto derivare un durevole equilibrio internazionale. Nell’analisi del generale, ritiratosi nel frattempo nella sua residenza di Colombey-les-Deux Eglises, tali esiti avevano soffocato ma non risolto lo scontro ideologico e di potenza tra i vincitori. A de G. parve che le democrazie liberali e l’Unione Sovietica, spinti ad allearsi dalla decisione della Germania di invadere l’URSS, avrebbero assai presto trasformato in lotta armata la Guerra fredda, della quale già nel 1946 egli aveva intravisto i prodromi. Da questa seconda profezia, e dalla correlata convinzione che una nuova emergenza mondiale era alle porte e alla quale la Francia non era preparata, sarebbe nato anche il secondo appello di de G. a riunire intorno a sé la nazione, che portò alla fondazione del Rassemblement du peuple français: un nuovo rassemblement per la salvezza della nazione che, nel momento del pericolo, avrebbe riunito tutti i francesi in uno schieramento trasversale, al di là della loro provenienza da differenti famiglie politiche spirituali. Da qui anche l’assunzione dell’anticomunismo come prioritaria esigenza nazionale: nel momento nel quale incombeva il rischio concreto di un’invasione di truppe sovietiche attestate «a meno di due tappe del Tour de France» dai confini della nazione, i comunisti interni sarebbero divenuti dei “separatisti”. Da queste analisi derivò con naturalezza, in politica estera, la scelta di «incollarsi agli americani». Questa opzione di fondo fu rafforzata dalla convinzione di de G. che non soltanto gli obiettivi finali, ma anche i contingenti interessi di politica estera di Stalin fossero pregiudizievoli per la Francia, sia sul continente sia in ambito coloniale. In particolare, egli considerò come le mire dell’Unione Sovietica sulla Germania avrebbero rappresentato una minaccia permanente sulla frontiera orientale della Francia, rafforzando le ragioni dell’inevitabile alleanza con gli anglosassoni. L’altra conseguenza inevitabile che la fase acuta della Guerra fredda ebbe sul pensiero di de G. riguardò la concezione dei rapporti franco-tedeschi. Quando il conflitto era ancora in corso, i piani gollisti per il dopoguerra erano stati ampiamente condizionati da una contrapposizione secolare e senza soluzione di continuità. A partire dal 1949, invece, de G. non soltanto giunse ad accettare l’eventualità di una presenza unitaria del popolo tedesco nell’ambito della ricostruzione postbellica dell’Europa; iniziò anche a pensare che quella presenza potesse risultare un fattore di equilibrio indispensabile, a causa dell’amputazione dell’Est provocata dai sovietici e dall’allontanamento della Gran Bretagna, a suo dire sempre più attirata dalla “massa” d’oltre Atlantico. Tale nuova disponibilità si manifestò anche nel modo nel quale de G. affrontò l’ipotesi del riarmo tedesco quando, dopo l’invasione della Corea del Sud ed il conseguente rischio che il conflitto finisse per coinvolgere il teatro europeo, questo problema si fece non più eludibile. Nel settembre del 1950, quando gli americani posero la soluzione della questione del riarmo tedesco come esplicita condizione per accogliere la richiesta degli alleati europei di finanziare il loro riarmo ed il loro correlato sforzo di dare vita ad un’organizzazione militare integrata, de G. si rese conto della ragionevolezza della prospettiva. Il 21 ottobre 1950 dichiarò: «Ad una Francia stabile e forte in un’Europa organizzata e della quale essa rappresenti il centro, l’eventuale partecipazione di contingenti tedesco-occidentali alla battaglia interalleata dell’Elba non potrà apparire allarmante» (v. de Gaulle, Discours et Messages. Dans l’attente: février 1946-avril 1958, 1970, pp. 304-310).

La proposta gollista in merito all’unificazione europea si precisò, tuttavia, solamente allorché sulla scena del dibattito politico fecero irruzione le prime organizzazioni di cooperazione economica europea. Nel 1951, di fronte alla Costituzione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), fu definita l’alternativa netta tra un’Europa delle nazioni in un quadro confederale e l’idea di un’Europa sovranazionale ritenuta inevitabilmente egemonizzata dai tecnocrati e, per di più ispirata direttamente dagli anglosassoni per il loro prevalente vantaggio. Questa contrapposizione avrebbe assunto tratti ancora più marcati negli anni successivi, allorché con il progetto della Comunità europea di difesa (CED) i tentativi di costruzione dell’Europa sconfinarono dalla sfera economica verso la dimensione più alta della politica. Non a caso, in una lettera scritta nel marzo 1954, proprio alla vigilia della battaglia finale sull’esercito europeo, il generale contrappose in maniera inconciliabile due differenti idee di Europa: «Io sono – per primo – convinto della necessità dell’unità europea. Perché vi sia un’unione bisogna che l’istituzione abbia un’anima, un corpo e delle membra. Non si può costruire l’Europa se non a partire dalle nazioni. Quanti tentano – invano spero – di fabbricare la CED impediscono di fare l’Europa, così come la caricatura si oppone al ritratto» (v. de Gaulle, 1985, p. 188).

De G. si mostrò, dunque, apertamente ostile non all’integrazione europea, della cui necessità era convinto, ma all’Europa federale, apolide come la definì, cioè senza l’anima rappresentata dalle nazioni. Per un nazionalista come lui era inaccettabile la riduzione della sovranità nazionale prevista dal progetto federalista (v. Federalismo). Quando la lotta alla CED divenne la prima preoccupazione di de G., quest’opzione non giunse soltanto a consolidare un’ideale di unità europea. Essa comportò anche la definitiva riconsiderazione del ruolo degli Stati Uniti e dell’Alleanza atlantica nell’equilibrio mondiale. Ai suoi occhi il trattato del 27 maggio 1952 che istituiva la CED, prevedendo che gli eserciti degli Stati membri, raggruppati in divisioni, fossero di fatto posti sotto il comando militare integrato dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), avrebbe costituito un vero e proprio attentato alla sovranità nazionale. A differenza di altri gollisti, de G. fece però ben attenzione a tenere distinta la sua posizione da quella dei comunisti e a non eccedere nella deriva antiamericana. L’opposizione di de G. alla CED si inseriva, infatti, in un disegno più ampio che si proponeva già all’epoca di ridefinire i rapporti all’interno della NATO in modo che questa risultasse «una buona alleanza, non un cattivo protettorato». L’archiviazione della fase più acuta della Guerra fredda ebbe, d’altra parte, l’effetto di spostare sempre più l’attenzione di de G. dalla ricerca di un equilibrio all’interno del blocco occidentale al ruolo autonomo d’equilibrio che l’Europa avrebbe potuto giocare tra i due blocchi contrapposti. L’asse angloamericano doveva trovare un bilanciamento nell’Europa continentale sotto guida francese, dalla cui integrazione doveva restare esclusa l’Inghilterra. Questa è anche una delle ragioni fondamentali per la quale de G. nel 1958, nonostante avesse criticato dall’isolamento nell’eremo di Colombey tutti i passaggi dell’incipiente integrazione europea, deciderà di non opporsi all’attuazione dei Trattati istitutivi della Comunità economica europea (CEE) e della Comunità europea dell’energia atomica (CEEA).

La firma dei Trattati di Roma avvenne in un periodo in cui il generale, ritiratosi dalla scena politica, aveva deciso di trincerarsi nel silenzio. Malgrado il riserbo, tuttavia, nel maggio 1958 all’estero, così nella stessa Francia, era opinione diffusa che, se mai fosse ritornato al potere, il generale non avrebbe esitato ad affossare la neonata Comunità economica europea. Questa profezia non solo si sarebbe rivelata errata, ma sarebbe stata addirittura capovolta allorché le misure prese da de G. resero non più necessario il prospettato ricorso alle clausole di salvaguardia. Il nodo è cruciale. Raymond Aron, nell’affrontarlo, evidenziò l’imprevedibilità del processo storico laddove, per il suo autorevole giudizio, i trattati non avrebbero mai visto la luce se nel 1957 fosse stato al potere il generale ma, d’altra parte, non sarebbero mai decollati se nel 1958 non fosse crollata la Quarta repubblica. Sulle ragioni che indussero de G. a sostenere l’esperimento della Comunità economica europea, e forse addirittura a evitare alla nuova organizzazione comunitaria una crisi prematura, bisogna continuamente ritornare, se si vuol capire l’atteggiamento complessivo del generale nei riguardi dell’unificazione europea. Alla base vi fu innanzitutto la considerazione che l’Europa di Roma per la sua maggiore aderenza alla realtà degli Stati nazionali rispetto a quanto previsto dalla CECA e dalla CED, avrebbe potuto rappresentare, a certe condizioni, uno strumento utile alla strategia gollista. In particolare, oltre alle perplessità legate ad un’eventuale revoca di vincoli internazionali contratti nel periodo precedente, nel generale si era fatta strada la convinzione che attraverso la Comunità economica europea la Francia avrebbe potuto imboccare la via della modernizzazione. L’importanza che in questo contesto rivestì il piano di politica economica elaborato dal comitato presieduto da Jacques Rueff è ben resa dal commento riservatogli da de G. nelle sue memorie: «È una rivoluzione! Il piano ci consiglia, in realtà, di far uscire la Francia dal vecchio protezionismo, praticato da un secolo […] Ho fatto in modo che la preparazione e l’esecuzione del Piano assumano un rilievo che prima non avevano, dandogli un carattere di ardente obbligo» (v. de Gaulle, Mémoires d’espoir. Le Renouveau: 1958-1962, 1970, p. 143].

L’avvio del Mercato comune avrebbe potuto consentire alla Francia di contare su un ammortizzatore istituzionale che avrebbe potuto limitare i rischi nel momento in cui essa sceglieva di rituffarsi nella concorrenza internazionale. Inoltre, avrebbe fatto convivere il nuovo indirizzo liberistico con la possibilità di scaricare anche sulle spalle dei partner europei le sue eccedenze nel settore agricolo, che rappresentavano un problema tipico dell’economia francese. Il diniego inglese lasciava, infine, intravedere la possibilità di poter trasformare una scelta comunque dolorosa in un’opportunità per conquistare l’agognata centralità europea. De G. perse invece rapidamente interesse nei confronti dell’Euratom, perché egli mirava alla realizzazione di un deterrente nucleare indipendente, nonché, più in generale a un’utilizzazione dell’energia atomica in un ambito nazionale. Al riguardo, va però ricordato che già nell’aprile 1957 la Francia aveva deciso di proseguire l’attuazione del programma di costruzione delle armi nucleari, laddove il piano di ammodernamento dell’esercito avviato dal governo socialista nel febbraio 1958 era andato ancora più lontano, prevedendo che la Francia si dotasse di una forza d’urto equipaggiata con aerei Mirage IV e in seguito con missili di media gittata di fornitura americana ma dotati di testate nucleari francesi. In tal senso, de G. non sconfessò, eccezione fatta per alcuni progetti di cooperazione con Germania, Italia e Israele, le decisioni prese dai governi della IV Repubblica, bensì riprese e accentuò, con il rilancio del progetto della force de frappe, linee di politica precedenti.

Per qualche tempo, comunque, anche la Comunità economica europea e i suoi sviluppi non furono al centro degli interessi del generale, il quale riteneva che la Francia potesse conseguire la posizione internazionale, che a suo giudizio le spettava, soprattutto nel quadro atlantico. A soli pochi mesi dal suo ritorno al potere, de G. diede così inizio a una campagna volta a revisionare i rapporti interni all’Alleanza atlantica, attraverso un memorandum inviato al presidente americano Dwight David Eisenhower e al primo ministro britannico Harold Macmillan. Nel documento si prendeva atto dell’evoluzione della Guerra fredda nell’ultimo decennio. In particolare, la prospettiva di uno scontro decisivo con l’URSS era ritenuta ormai tramontata, tanto da imporre in tempi più o meno brevi l’inaugurarsi di una fase di distensione internazionale. Da questa analisi si derivava l’enunciazione di tre obiettivi principali: una riforma della NATO che trasformasse il Patto atlantico nello strumento di elaborazione di una strategia occidentale di carattere globale, la formazione all’interno dell’alleanza di un direttorio di cui avrebbero dovuto far parte gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e – ovviamente – la Francia, la messa in discussione dell’integrazione militare e del monopolio atomico americano. Sino al 1960, il presidente francese contò sul raggiungimento di questi obiettivi, pur non trascurando di instaurare buoni rapporti con la Repubblica Federale Tedesca. In particolare, il 14 settembre 1958, a Colombey-les-Deux-Eglises, ebbe luogo l’incontro tra de G. e il cancelliere tedesco. Fu la prima volta che un uomo di Stato straniero in visita ufficiale violava l’intimità della Boisserie. A detta dell’ambasciatore francese a Bonn, François Seydoux, de G. faceva espresso affidamento su alcuni motivi biografici che lo avvicinavano a Konrad Adenauer: i due appartenevano alla medesima generazione e, anche per questo, avevano modi simili di concepire l’arte del governo, portato di una formazione che aveva attinto a fonti culturali e spirituali non troppo diverse. I risultati del vertice furono all’altezza della novità. Nonostante Adenauer non condividesse per intero il progetto gollista di promuovere una riforma radicale della NATO e delle Comunità europee, il cancelliere si mostrò ricettivo rispetto all’ipotesi di creare in Europa un nucleo di potere decisionale attorno al quale fare avanzare una nuova politica d’integrazione europea.

L’apertura verso la Germania e l’offensiva revisionista all’interno della NATO appaiono come iniziative per più versi complementari. Esse risposero, in primo luogo, al convincimento di de G. che l’obiettivo della Francia doveva essere quello di acquisire una posizione di centralità sul continente, dalla quale trarre le risorse necessarie per contrastare l’egemonia mondiale degli angloamericani. In tale prospettiva, giocare contemporaneamente su due tavoli – l’asse franco-tedesco e il revisionismo atlantico – avrebbe creato una rendita di posizione diplomatica da poter spendere, all’occorrenza, su entrambi i fronti. In particolare, la creazione di un’asse con la Germania in vista della costruzione di un’Europa politica avrebbe potuto rafforzare la richiesta di una modifica degli equilibri interni all’Alleanza atlantica. La coincidenza delle iniziative, inoltre, avrebbe reso più difficile la possibilità che si saldasse un fronte ostile in grado di isolare la Francia. Non casualmente, le due iniziative di de G. furono recepite in modi differenti dai principali alleati: mentre Stati Uniti e Italia si preoccuparono per entrambe, la Germania coinvolta direttamente nella prima, non vide di buon occhio la seconda; l’Inghilterra, al contrario, guardò con preoccupazione all’incontro tra il generale e Adenauer, ma con interesse alle prospettive aperte dal memorandum.

Per dispiegare la sua offensiva diplomatica europea de G. attese la ripresa delle tensioni internazionali, al fine di cogliere le opportunità che questo contesto, malgrado tutto, avrebbe potuto offrirgli. Il momento propizio giunse con la Conferenza di Parigi del maggio 1960, il cui fallimento sancì la fine dell’illusione, che era stata alimentata dall’incontro di Camp David del settembre 1959, di poter raggiungere un’intesa con i sovietici sul problema tedesco e indirettamente una vittoria della linea della fermezza sostenuta da de G. nel corso della crisi di Berlino. L’occasione fu espressamente cercata dal generale, il quale alla vigilia della conferenza di Parigi e successivamente con una lettera inviata il 18 luglio 1960 sollecitò un incontro che facesse piena luce su come fare avanzare il processo d’integrazione europea. Nel corso dell’incontro di Rambouillet del 29 e 30 luglio 1960 de G. illustrò al cancelliere Konrad Adenauer i contorni e i risvolti politico-strategici del suo progetto di riforma delle Comunità europee con una ricchezza di dettagli che non aveva mai fornito fino a quel momento. Con una “note au sujet de l’Europe”, de G. delineò l’idea di un’Europa confederale, che si sarebbe dovuta realizzare, a partire dalla costituzione di un’unione franco-tedesca aperta inizialmente solo ai paesi del Benelux e all’Italia, attraverso periodiche consultazioni al vertice tra i capi di Stato e di governo dei Sei paesi membri, una riforma degli organi comunitari volta a riassorbire le loro virtualità federali e la correlata istituzione di commissioni permanenti incaricate di preparare le riunioni ministeriali nei settori della politica, dell’economia, della cultura e della difesa. La vera novità fu data dalla chiarezza espositiva con cui de G. da un lato collegò la proposta di riassetto delle Comunità europee con l’esigenza di riformare la NATO e dall’altro accentuò il carattere esclusivo dell’accordo franco-tedesco.

Al cospetto delle riserve e delle accese polemiche che le indiscrezioni trapelate dal vertice avevano suscitato in Germania, la Francia di de G. fu tuttavia costretta a ripiegare su quella che Peyrefitte definì «una strategia dei piccoli passi». Tale ripiegamento su una linea più conciliante rappresentò, d’altra parte, una condizione necessaria affinché fosse possibile avviare le trattative per un’unione politica non solo con la Repubblica federale, ma anche e soprattutto con i paesi membri più piccoli, chiaramente filoatlantici ed essenzialmente contrari a una riforma strutturale delle Comunità europee. L’accordo tra i Sei sulla procedura fu raggiunto nel corso di due conferenze che si svolsero a Parigi e a Bonn, rispettivamente nel febbraio e nel luglio 1961: una commissione intergovernativa, presieduta dall’ex ambasciatore francese a Copenhagen Christian Fouchet, fu incaricata di elaborare una proposta di trattato (v. Piano Fouchet). Sin da principio emersero posizioni molto diverse tra loro sulle questioni riguardanti il ruolo internazionale dell’Europa e il suo legame con la NATO, l’assetto istituzionale della futura unione politica e il suo rapporto con le strutture comunitarie già esistenti. E ben presto le divergenze si intrecciarono, e in parte si sovrapposero, con un’altra grande questione, che nel medio termine avrebbe rappresentato un vero e proprio ostacolo al raggiungimento di un accordo sull’unione politica: la richiesta dei britannici di essere associati ai negoziati per un’unione politica ancora prima di essere ammessi al Mercato comune. Nel suo travagliato iter vi fu, però, un momento – alla fine del 1961 – nel quale il Piano Fouchet, adeguatamente rivisitato e reso compatibile con una politica atlantica, fu a un passo dall’approvazione. Fu de G. a sprecare l’occasione, estremizzando le richieste francesi nel Consiglio dei ministri del 17 gennaio 1962. Con ciò dimostrò che, nella prospettiva di un revisionismo atlantico, la costruzione di un’Europa politica, nella quale tra l’altro la Francia avrebbe mantenuto un ruolo centrale ma non egemone, era per lui meno importante dell’illusione di un asse franco-tedesco indipendente dall’influenza anglosassone. Una credibile politica di revisionismo atlantico, inoltre, non avrebbe potuto fare a meno di costruire un rapporto forte con la Gran Bretagna, che d’altro canto, si sarebbe posta in continuità con la storia di lunga durata della diplomazia francese. Su questo piano, invece, la chiusura del generale fu totale. Dopo aver rifiutato agli inglesi ogni concessione sulla zona di libero scambio, de G. fu intransigente anche per quanto concerne l’ipotesi del loro ingresso nel Mercato comune, perdendo così un potenziale alleato nella battaglia per depurare l’Europa da supposti «virtuosismi sovranazionali»; e rinunziò sostanzialmente ad una strategia nucleare integrata nella prospettiva di un confronto con gli Stati Uniti. Da tali atteggiamenti sarebbero derivati un cambiamento delle alleanze storiche della Francia, un suo maggiore isolamento in Europa, il tramonto della politica del revisionismo atlantico. Gli atti conclusivi di questo processo si compirono tra il dicembre 1962 ed il gennaio 1963. In particolare, il 15 e 16 dicembre 1962 si svolse, nuovamente a Rambouillet, un incontro questa volta tra de G. e Macmillan, dal quale sembrò emergere una sostanziale identità di vedute, in particolare in merito all’indipendenza nucleare dei due Paesi dagli Stati Uniti e alla trasformazione interna della NATO. I risultati raggiunti in quella riunione, però, secondo de G., sarebbero stati smentiti subito a Nassau, in occasione dell’incontro angloamericano. John Kennedy e Macmillan si accordarono sulla creazione di una forza multinazionale della NATO e sulla fornitura di missili Polaris americani per armare i sottomarini britannici, che sarebbero entrati a far parte della forza multinazionale. Il generale interpretò tale proposta e la richiesta di ingresso dell’Inghilterra nella CEE come due aspetti complementari di un’unica strategia tendente a rafforzare l’egemonia americana sul continente. Reagì da par suo con la nota conferenza stampa del 14 gennaio 1963, nella quale attribuì esplicitamente agli accordi di Nassau la responsabilità della rottura delle trattative con la Gran Bretagna per la sua ammissione nella CEE. Rifiutando qualsiasi discussione nel merito, de G. mostrò la volontà di puntare, in realtà, a un’altra politica. Questa si sarebbe manifestata di lì a poco con il Trattato dell’Eliseo, che fu sottoposto il 22 gennaio 1963 a Parigi da de G. e Adenauer, e che regolava una vera e propria intesa franco-tedesca costruita sulla base di consultazioni regolari e della creazione di commissioni speciali negli ambiti della cooperazione, della difesa, dell’educazione e della cultura. L’accordo, con ogni evidenza, si poneva in continuità con le conclusioni della clamorosa conferenza stampa di pochi giorni prima. de G., ormai libero dall’ipoteca algerina e ben saldo alla testa del riformato Stato francese, liquidò definitivamente il revisionismo atlantico e gli contrappose un accordo interstatuale con la Germania, in vista della costruzione di un’Europa che potesse favorire la crisi dei blocchi. Proprio in questa contrapposizione, però, risiedeva tutta la velleità del suo disegno. Solo in seguito de G. avrebbe compreso che un accordo con la Germania sulle linee di politica estera da lui ricercate sarebbe stato possibile unicamente in un quadro bilaterale, in quanto i tedeschi, al di fuori di quest’ipotesi, avrebbero inevitabilmente sentito il richiamo dell’integrazione atlantica. Questa constatazione, però, avrebbe dovuto convincerlo che la costruzione dell’asse poteva significare qualcosa per la Francia esclusivamente in una cornice comunitaria e in un’ottica revisionista. Al di fuori di queste coordinate esso sarebbe stato destinato a fallire, surclassato dalla forza di attrazione esercitata dagli Stati Uniti. È quanto accadde con il Trattato dell’Eliseo, anche prima di quel che si potesse immaginare. Il 16 maggio 1963, al momento della ratifica del trattato, il Bundestag approvò un preambolo che sottomettendo quel documento alla riconferma degli impegni imposti dall’Alleanza atlantica, decretò la sconfitta della linea dell’asse privilegiato Parigi-Bonn nella prospettiva gollista.

Il 1963 è comunemente considerato come un momento di svolta nella politica estera gollista. Se ricondotta entro limiti che non implichino la messa in discussione degli orientamenti di fondo, la cesura è indubbia. Da quel momento, risolti i problemi interni e messa fine alla guerra d’Algeria, il generale ebbe le “mani libere” per applicare con minori condizionamenti la sua politica estera. Questa nuova condizione si rifletté in alcune evidenti inflessioni della strategia diplomatica francese. In primo luogo fu progressivamente esasperato l’antagonismo nei confronti della presunta egemonia americana, manifestato sul terreno della politica nucleare, delle strategie della sicurezza e della finanza internazionale. Questa ostilità comportò il rifiuto di ogni politica di limitazione degli armamenti che potesse consolidare la supremazia dei due “grandi”, nonché l’opposizione a strategie d’integrazione nel campo della difesa, con la conseguente priorità assegnata al programma nazionale di sviluppo nucleare. Essa toccò il suo vertice nella decisione del 1966 di fuoriuscire dalla NATO, sostituendo la partecipazione con un accordo di cooperazione in caso di guerra. Inoltre, la sostanziale sconfitta dell’asse franco-tedesco spinse la Francia a distaccarsi maggiormente dalla costruzione dell’unità europea. In questo ambito si verificò una situazione di “stallo”. La Francia restò legata all’idea dell’Europa dei Sei intesa come confederazione, esprimendo una correlata opposizione all’accrescersi dei poteri della Commissione europea e alla prospettiva di rafforzare il processo unitario ricorrendo ad elezioni popolari. D’altro canto, si adoperò concretamente per rendere effettiva la cooperazione, in particolare, nel campo dell’agricoltura. È dall’intreccio tra questi due aspetti della politica europea gollista che scaturì nel 1965 una delle più gravi crisi della storia della Comunità europea, anche nota come “crisi della sedia vuota”. Ben conoscendo l’interesse della Francia nei riguardi della Politica agricola comune (PAC), la Commissione presieduta da Walter Hallstein, anziché limitarsi, come richiesto da Parigi, a predisporre un regolamento sul finanziamento della PAC che valesse fino alla fine del periodo transitorio della Comunità europea, propose di sostituire i contributi nazionali forfettari con i proventi dei diritti doganali e dei prelievi agricoli, di modo che il bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) potesse gradualmente essere finanziato con risorse proprie; l’autonomia finanziaria avrebbe inoltre comportato un accrescimento dei poteri di controllo del Parlamento europeo. La strategia perseguita dalla Commissione europea si dimostrò, tuttavia, condizionata da un’errata valutazione di alcuni elementi strutturali e contingenti del quadro diplomatico. Da un lato, non venne tenuta in debita considerazione la portata degli interessi in gioco e soprattutto la diversa gerarchia delle priorità che era alla base delle posizioni negoziali degli altri paesi membri, dall’altro lato venne data eccessiva importanza alle pressioni che la Francia avrebbe dovuto sostenere in vista del rinnovo elettorale del mandato presidenziale. Fu così che invece di cedere al ricatto, de G. decise di alzare il livello dello scontro, trasformando il contrasto sul finanziamento della PAC in uno scontro politico-istituzionale, finalizzato a ridimensionare il ruolo dei «tecnocrati senza patria» della Commissione europea e a impedire il passaggio al voto della Maggioranza qualificata previsto a partire dal 1° gennaio 1966. Il culmine della crisi fu raggiunto nel luglio 1965, allorché il generale ordinò al proprio rappresentante permanente, Jean-Marie Boegner, di rientrare a Parigi e ai ministri del Consiglio e ai membri della Commissione di astenersi dalle sedute comunitarie. Non era la prima volta che de G. decideva di violare apertamente le regole del cosiddetto metodo comunitario, ma mai fino a quel momento la sua minaccia di sabotare il funzionamento della macchina aveva assunto delle forme così concrete. Si avviò così un periodo burrascoso per la Comunità europea, segnato da un generale deterioramento nelle relazioni comunitarie. Riconfermato al potere, sia pure al secondo turno e con solo il 55% delle preferenze, dopo due mesi di assenza nel settembre 1965 de G. cominciò a dettare le condizioni per il ritorno della Francia nelle istituzioni, chiedendo, oltre all’approvazione di un regolamento finanziario per il periodo 1965-1970, da un lato di salvaguardare il diritto di veto dei paesi membri sulle questioni di importanza vitale (v. anche Voto all’unanimità), dall’altro lato un ridimensionamento sostanziale della Commissione europea. La crisi rientrò soltanto alla fine del gennaio 1966, quando il governo francese accettò di incontrare in due riunioni straordinarie a livello ministeriale i rappresentanti degli altri cinque paesi membri. Le riunioni si svolsero dal 17 al 18 e dal 28 al 30 gennaio 1966 a Lussemburgo, poiché de G. aveva posto come condizione di negoziare lontano da Bruxelles. Gli incontri sancirono quello che sarebbe stato definito come Compromesso di Lussemburgo, ovvero un “accordo sul disaccordo”. Fu soprattutto la Commissione a uscire sconfitta dalla crisi della sedia vuota, come dimostrato dall’intesa raggiunta su un codice di condotta, che se non pregiudicava l’autonomia della Commissione, ne circoscriveva il monopolio d’iniziativa, e dalla rapida uscita di scena di Walter Hallstein. D’altra parte, neanche de G. riuscì a far valere pienamente il proprio punto di vista dinanzi all’indisponibilità degli altri partner europei a modificare la lettera del trattato sulla questione della procedura di voto nel Consiglio dei ministri. Su questo punto la dichiarazione finale non fece altro che mettere agli atti l’esistenza di una interpretazione discordante tra i cinque e la Francia, la quale riteneva che in presenza di interessi molti importanti si dovesse trattare fino al raggiungimento di un accordo unanime, anche quando il trattato prevedeva il criterio della maggioranza. Tutte e sei le delegazioni convennero, però, che tale divergenza non avrebbe dovuto impedire la normale ripresa dei lavori, a dimostrazione del fatto che nessuno, nemmeno la Francia gollista, era realmente disposto a mettere a repentaglio quel reticolo di interessi comuni che si era sviluppato a partire dalla fine degli anni Quaranta.

Ben presto l’attenzione comunitaria si focalizzò su una altra questione che era stata solo temporaneamente accantonata: la partecipazione inglese alla Comunità europea. Anche questa volta chi sperò in un ammorbidimento della posizione di de G. restò deluso. L’opposizione alla richiesta d’adesione dell’Inghilterra venne replicata, anche se con una maggiore attenzione alla forma e qualche apertura in più. D’altra parte, se il rifiuto fu meno drastico, dettato più da presunte incompatibilità economiche che da ragioni politiche, ciò si deve anche al fatto che l’America di Lyndon Johnson, impantanata nella guerra del Vietnam, decise di non appoggiare apertamente la richiesta inglese come aveva fatto Kennedy con Macmillan. L’Europa, però, non uscì dall’orizzonte principale della proposta gollista. Essa fu recuperata nell’ambito di una strategia su scala mondiale, che de G. avrebbe privilegiato, soprattutto a partire dal 1965 quando, dopo la riconferma popolare all’Eliseo, il sentimento dell’approssimarsi della fine della sua vicenda politica lo spinse sempre più spesso a ricercare “eventi di fondazione”, destinati nelle sue intenzioni a lasciare una traccia. Da questa propensione derivarono alcuni dei suoi più discutibili atti di politica estera, come il discorso di Montreal sul Quebéc libero del 24 luglio 1967 o la conferenza stampa su Israele del 27 novembre 1967, ma anche la costante attenzione a declinarli all’interno di una prospettiva mondiale. In particolare, in questo contesto vanno ricordati il grande interesse per il Terzo Mondo, l’opposizione incessante e crescente al conflitto in Vietnam, la sorprendente apertura verso la Cina comunista, la definitiva inversione di tendenza della strategia francese in Medio Oriente con l’abbandono del rapporto privilegiato che aveva storicamente legato la Francia a Israele, l’assunzione di un orientamento filoarabo e, infine, una nuova apertura verso l’Unione Sovietica e i paesi dell’Est. In questo quadro si colloca la ricerca gollista di un’Europa che, secondo la formula, si sarebbe dovuta estendere dall’Atlantico agli Urali, e che fu il vettore principale della politica di distensione inaugurata e portata avanti dal presidente francese nella seconda metà degli anni Sessanta. L’atto che consacrò questa prospettiva fu il viaggio di de G. a Mosca al quale il presidente intese dare il risalto e la rilevanza di un momento di fondazione di una nuova fase per il continente. In de G. vi era l’intenzione di sfruttare l’indebolimento di Mosca per proporre una strategia di distensione che avrebbe dovuto portare l’URSS a liberalizzare il suo regime e, soprattutto, ad allentare progressivamente i vincoli imposti ai paesi europei appartenenti alla sua sfera d’influenza. Inoltre, de G. auspicava di poter avere un ruolo decisivo nel convincere Mosca a prendere in considerazione l’ipotesi di un riavvicinamento alla Germania occidentale. In tal modo, si sarebbero potute porre le premesse per la costruzione di una grande unione europea delle nazioni, in un mondo divenuto ormai multipolare. de G. che aveva sempre sottovalutato l’importanza del vincolo ideologico nel campo comunista, era convinto che i paesi dell’Est potessero emanciparsi dall’Unione Sovietica senza strappi, attraverso un processo d’accrescimento dell’indipendenza regolare e continuo. Dal punto di vista degli equilibri europei, il generale giunse a prefigurare la riedizione di una “piccola intesa” – l’unione dei paesi dell’Europa centro orientale, formatasi tra le due guerre con la Francia come potenza di riferimento – che mettesse Mosca di fronte al fatto compiuto. In una prospettiva storica più ravvicinata, ritenne che le nuove contingenze avrebbero reso possibile l’avanzamento del processo d’aggregazione ed emancipazione dei paesi del blocco dell’Est, per scongiurare il quale Stalin nel 1948 era giunto alla rottura con Tito. In quest’ottica la Francia gollista, parallelamente al disgelo con URSS, compì un eccezionale sforzo diplomatico in direzione dei paesi dell’Europa orientale. Per de G., Polonia e Romania furono anche mete di visite di stato, rispettivamente nel 1966 e nel 1968. Per comprendere l’importanza fondamentale che il generale attribuì a questi viaggi basti pensare che la visita in Romania si svolse dal 14 al 18 maggio 1968, quando era già in pieno svolgimento la crisi del maggio francese. Il bilancio politico di quest’offensiva diplomatica fu a lungo limitato.

Nondimeno ancora una volta de G. dimostrò di essere un uomo dotato di una straordinaria lungimiranza, al limite della chiaroveggenza. In un contesto che molto probabilmente non avrebbe amato, la sua Europa dall’Atlantico agli Urali, oggi più di ieri, appare all’ordine del giorno.

Gaetano Quagliariello (2012)




De Michelis, Gianni

D.M. nacque a Venezia il 26 novembre 1940. Laureato in chimica industriale all’Università di Padova, intraprese la carriera accademica, divenendo prima libero docente di chimica generale, poi assistente di ruolo di chimica generale presso l’Università di Venezia e nel 1980 professore incaricato della stessa materia all’Università di Venezia. Parallelamente si dedicò all’attività politica nelle file del Partito socialista italiano, al quale s’iscrisse nel 1960.

Dal 1962 al 1964 fu presidente nazionale dell’Unione goliardica italiana. Nel 1964 venne eletto consigliere comunale a Venezia e nel 1969, dopo essere stato capogruppo del PSI in Consiglio comunale, divenne assessore all’urbanistica del Comune di Venezia. A partire dallo stesso anno entrò a far parte del Comitato centrale del PSI come esponente della sinistra lombardiana e venne chiamato a svolgere la funzione di responsabile nazionale dell’organizzazione del partito. Nel 1976 divenne membro della direzionale nazionale, e nello stesso anno entrò alla Camera dei deputati. Rieletto il 3 giugno 1979, l’anno seguente, nel confronto politico all’interno del partito, si schierò accanto al segretario Bettino Craxi, di cui sarebbe divenuto uno dei collaboratori più vicini, svincolandosi dalle posizioni dei lombardiani. Entrò per la prima volta al governo, come ministro delle Partecipazioni statali, nell’aprile 1980, nel secondo ministero Cossiga. Per i tre anni successivi, fino al maggio 1983, ricoprì la stessa carica nei vari governi che si succedettero in quel periodo (governo Forlani (v. Forlani, Arnaldo), primo e secondo governo guidato da Giovanni Spadolini, quinto governo di Amintore Fanfani). Rieletto deputato il 26 giugno 1983, fu per quattro anni alla guida del ministero del Lavoro e della previdenza sociale nel primo e nel secondo governo Craxi (v. Craxi, Bettino).

In seguito alla rielezione alla Camera il 15 giugno 1987 entrò a far parte della Commissione affari esteri e comunitari, e nel luglio dello stesso anno fu nominato presidente del gruppo parlamentare del PSI alla Camera. Nell’aprile 1988 divenne vicepresidente del Consiglio dei ministri nel governo De Mita. Dal 22 luglio 1989 al 28 giugno 1992 ricoprì la carica di ministro degli Affari esteri nel sesto e nel settimo governo di Giulio Andreotti.

D.M. si trovò quindi a essere il massimo responsabile della politica estera italiana in un periodo di grandi rivolgimenti. Per quanto relativamente sprovvisto di esperienza nel campo delle relazioni internazionali, il nuovo ministro portò sicuramente un contributo originale alla definizione della politica estera del paese, grazie a una vivace inventiva politica, all’interesse per i disegni di vasto respiro e, non ultimo, a un certo gusto per l’esposizione mediatica. Come ha osservato Sergio Romano (v., 1993, p. 204), «dopo Sforza De Michelis fu certamente il più esuberante e dinamico dei ministri degli Esteri italiani». Il cambio di stile era innegabile, ma diversi commentatori hanno sottolineato come non sempre la dinamicità sia stata accompagnata da una costanza tale da consentire il concretizzarsi di risultati tangibili.

Di fronte a importanti modifiche dell’assetto geopolitico europeo, D.M. sottolineò a più riprese la necessità di un ruolo da protagonista della Comunità economica europea, che non avrebbe dovuto limitarsi alle questioni puramente economiche e commerciali, ma affermarsi come attore di primo piano anche per le questioni di grande politica, in modo da offrire una sponda solida su cui poggiare il processo di emancipazione della parte orientale del continente. In accordo con questa visione, il ministro degli Esteri italiano fu tra i fautori della convocazione, accanto alla Conferenza intergovernativa (CIG) (v. Conferenze intergovernative) sull’Unione economica e monetaria (UEM), di una seconda CIG sull’Unione politica (v. anche Cooperazione politica europea). Nel secondo semestre del 1990, in un momento di grande fermento, l’Italia ebbe la presidenza di turno della Comunità (v. anche Presidenza dell’unione europea) e D.M. s’impegnò nel tentativo di definire le priorità italiane in merito agli sviluppi che si andavano profilando. L’obiettivo di fondo restava quello tradizionale di evitare il realizzarsi di rapporti preferenziali e assi di intesa, come quello che si sta instaurando tra Helmut Josef Michael Kohl e François Mitterrand, che portassero ad un’emarginazione delle posizioni italiane. A questo fine D.M. puntò a riconfermare l’immagine dell’Italia come paese “federatore”, ribadendo la priorità accordata al rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo e all’Approfondimento dell’unione politica, ma al contempo sviluppò un approccio pragmatico e realista, che metteva l’accento sull’aspetto intergovernativo dei negoziati in corso e proponeva una politica dei piccoli passi, puntando a ricercare, durante il semestre di presidenza dell’Italia, un compromesso accettabile tra modello federale e modello confederale (v. anche Federalismo). In questa ottica D.M. puntò a un avvicinamento alle posizioni inglesi, soprattutto in materia di politica di sicurezza, facilitato dall’uscita di scena di Margaret Thatcher.

Questa impostazione attirò sul ministro le critiche dei settori federalisti, ampiamente rappresentati in seno al Parlamento italiano e a quello europeo (con quest’ultimo D.M. aprì un’aspra polemica nell’autunno 1990, accusandolo di essere «malato di irrealismo e letteratura»; v. IAI, 1993, p. 168). Il semestre italiano si concluse in modo sostanzialmente positivo, il governo italiano riuscì ad assicurare l’avvio delle due CIG precisandone il mandato e a fissare al 1° gennaio 1994 l’inizio della seconda fase dell’UEM, spingendo per l’attuazione graduale di una politica estera comune (memorandum del 16 novembre 1990), confermando così il tradizionale appoggio al disegno federalista coniugato all’approccio realista e pragmatico propugnato dal ministro degli Esteri, più consono all’affermazione di una politica europea concreta. Su questa linea D.M. si mantenne anche nei mesi seguenti, esprimendo il suo appoggio alla proposta presentata dal governo del Lussemburgo, che prefigurava la struttura del Trattato di Maastricht, e respingendo la proposta avanzata successivamente dagli olandesi, sebbene questa contenesse maggiori elementi di sovranazionalità, per evitare di rimettere in discussione il compromesso faticosamente raggiunto col Regno Unito. Come disse lo stesso D.M. di fronte al Senato, sebbene il trattato di Maastricht fosse ben al di sotto delle speranze espresse dal Parlamento italiano, il disegno che ne usciva era «l’unica architettura possibile» (v. IAI, 1994, p. 125) e non ve ne erano altre per avviare l’unione politica dell’Europa.

In sostanza, quindi, l’azione di D.M. come ministro degli Esteri si distinse, in ambito europeo, come attenta alle compatibilità e allo stato reale delle cose, nel tentativo di imporre un ruolo attivo dell’Italia come mediatore tra i diversi fronti. L’obiettivo però fu raggiunto solo parzialmente; come è stato osservato da Neri Gualdesi, le scelte compiute sull’unione politica – il tema cui D.M. dedicò maggiore attenzione, preferendo delegare al ministro del Tesoro Carli e alla Banca d’Italia i negoziati sull’UEM – sembrarono «più subite che suggerite dall’Italia» (v. IAI, 1994, p. 126). Proprio la ricerca costante di un equilibrio tra posizioni spesso opposte, sia all’interno dell’Italia che all’estero, produceva un’ambivalenza che minava alla base l’efficacia della politica del governo italiano, che agli occhi degli osservatori esterni, appariva spesso indecifrabile riguardo ai suoi obiettivi ultimi. Inoltre, come abbiamo accennato, la tendenza a presentare proposte sugli argomenti più disparati senza poi sostenerle fino in fondo, rappresentava un ulteriore elemento di debolezza della politica estera italiana.

Rieletto deputato nel 1992, D.M. venne coinvolto nelle inchieste sugli scandali della cosiddetta “tangentopoli” e il 7 luglio 1995 fu condannato per aver incassato tangenti per appalti pubblici nel Veneto. Abbandonata temporaneamente l’attività politica, dal 1994 prese a lavorare come consulente estero per conto di aziende italiane. Ripreso l’impegno politico, nel 1997 fu eletto segretario nazionale del Partito socialista e il 14 luglio fu tra i fondatori del Nuovo PSI di cui ha assunto la guida insieme a Claudio Martelli e Bobo Craxi e sin dalla nascita del partito, D.M. ne è stato segretario.

Alle elezioni europee del 2004, D.M. è stato eletto, nella circoscrizione sud, deputato all’Europarlamento per la lista Socialisti uniti per l’Europa. Ha scelto di non aderire ad alcun gruppo parlamentare nell’attesa di essere accolto, insieme al Nuovo PSI nel gruppo del Partito socialista europeo. Al Parlamento, è membro della Commissione per l’industria, la ricerca e l’energia, della Commissione temporanea sul presunto utilizzo di paesi europei da parte della CIA per il trasporto e la detenzione illegale di persone e della Delegazione per le relazioni con la Repubblica Popolare Cinese. È membro sostituto della Commissione giuridica, della Sottocommissione per la sicurezza e la difesa e della Delegazione all’Assemblea parlamentare Euromediterranea. Nonostante l’elezione alle politiche italiane del 2006, D.M. ha preferito mantenere il proprio seggio all’Europarlamento.

Francesco Petrini (2007)




De Schoutheete de Tervarent, Philippe P.J.

De S. (Berlino 1932) studia diritto all’Université catholique di Lovanio e si laurea altresì in scienze politiche e diplomatiche. Dopo aver concluso il servizio militare come ufficiale di riserva, nel 1956 intraprende la carriera diplomatica.

Dopo uno stage al dipartimento degli Affari economici del ministero degli Esteri (dove è incaricato degli affari del Benelux), il giovane diplomatico si trasferisce a Parigi come attaché di ambasciata (1958-1962), poi al Cairo (1962-1965), dove negozia – inizialmente dall’ambasciata svizzera – la ripresa delle relazioni diplomatiche fra Belgio ed Egitto e diventa incaricato d’affari. La nomina di Pierre Harmel come ministro degli Esteri richiama de S. a Bruxelles, dove dal 1966 esercita la funzione di capo ufficio stampa e di portavoce del Ministero, prima di proseguire la sua carriera come consigliere d’ambasciata a Madrid (1969-1972).

Dal 1975 de S. riprende la riflessione e l’azione propriamente europee in seguito al suo coinvolgimento nell’elaborazione del Rapporto Tindemans, presentato al Consiglio europeo del dicembre 1975. Ispirato da convinzioni federaliste (v. Federalismo), il documento sintetizza la visione dei suoi autori: fornire all’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) gli strumenti per le realizzare le sue ambizioni identitarie, politiche e di sicurezza. Il modo di procedere degli autori del rapporto si richiama ai meriti della dinamica politica (la realizzazione di obiettivi definiti) più che ad un rigorismo giuridico o istituzionale. Di fatto il rapporto propone «il rafforzamento delle istituzioni della comunità e quello della cooperazione politica, instaurando dei legami fra i due apparati ma senza fonderli» (v. de Schoutheete, 1986, p. 529). La cooperazione politica (v. anche Cooperazione politica europea) rimarrà uno dei temi centrali della riflessione di de S., che nel 1980 pubblica un’opera pionieristica su questa problematica (v. de Schoutheete, 1980). La politica estera e di sicurezza europea (v. anche Politica estera e di sicurezza comune) sarà ancora oggetto di diverse monografie scritte da de S., alcune in collaborazione con E. Regelsberger e W. Wessels.

Al termine di questi incarichi, de S. continua a lavorare al destino europeo del suo paese, esercitando dal 1976 al 1980 le funzioni di direttore del servizio delle organizzazioni europee, incaricato del coordinamento dei problemi europei. La sua carriera prosegue per due anni (1980-1981) nell’amministrazione come capo gabinetto di Charles-Ferdinand Nothomb, ministro cristiano-sociale degli Affari esteri dal maggio 1980 al dicembre 1981.

Nominato ambasciatore del Belgio in Spagna (1981-1985), de S. segue il processo di Adesione di questo paese alla CE (v. Comunità economica europea), restando anche a capo della delegazione belga incaricata di discutere l’iniziativa tedesco-italiana dei ministri Hans-Dietrich Genscher ed Emilio Colombo del gennaio 1981 (con cui si chiede una maggiore collaborazione fra gli Stati membri in materia di politica estera) (v. Piano Genscher-Colombo). Il fallimento di questa iniziativa è compensato nel 1986 dalla firma dell’Atto unico europeo, tappa decisiva di cui de S. è testimone essendo diventato direttore generale della politica degli Affari esteri (1985-1987).

La designazione dell’ambasciatore de S. come rappresentante permanente del Belgio presso le Comunità europee completa il percorso di quest’europeista impegnato. Il decennio trascorso nello svolgimento di tali funzioni (1987-1997) è segnato dall’approfondimento del Mercato comune (v. Comunità economica europea), dalla presidenza del Consiglio (v. Presidenza dell’Unione europea) nel 1993 e dai negoziati del Trattato di Maastricht e del Trattato di Amsterdam, due processi sui quali il diplomatico interviene anche in qualità di rappresentante del ministro belga degli Affari esteri.

Il coinvolgimento della rappresentanza permanente, già intenso nella preparazione di Maastricht, si prolunga nel secondo semestre del 1993 con la presidenza belga dell’Unione, durante la quale il Belgio si prefigge il compito di «mettere in atto le nuove disposizioni del trattato e di incrementare il coordinamento e l’azione comunitaria per rilanciare la crescita e stroncare la disoccupazione» (v. Franck, de Wilde, 1994, p. 36). Mentre si profilano le adesioni del 1995, la gerarchia delle priorità della presidenza belga consiste «nell’allargamento prima, nella riforma poi», poiché le disposizioni di Maastricht possono essere applicate attraverso «un adattamento aritmetico». Invece la prospettiva dell’Allargamento dell’Unione ad una decina di paesi non consente più questo tipo di aggiustamento: nei successivi negoziati che preparano il Trattato di Amsterdam il Belgio si schiera, da allora, tra i fautori di una riforma istituzionale preliminare a qualsiasi nuovo allargamento.

Da Amsterdam de S. evoca un “vuoto politico” che contrasta con il «clima che regnava a Maastricht, dove ancora l’ultimo giorno si parlava di una “vocazione federale” dell’Unione» (v. de Schoutheete, 1998). Ma questo vuoto, agli occhi di un federalista “realista” come de S. può essere combattuto efficacemente da un processo di estensione graduale delle Competenze della UE e dalla definizione di progetti concreti: un approccio che ricorda quello del Rapporto Tindemans e che da quel momento sembra permeare la visione di de S. attraverso le peripezie dell’integrazione europea.

Giunto al termine della carriera diplomatica, l’ambasciatore mette a disposizione della società le sue competenze e la sua esperienza. Alberto II gli conferisce il titolo di barone, il governo vallone lo sollecita perché nel febbraio 1998 affianchi come consigliere il ministro Ancion nei negoziati sull’“Agenda 2000” relativa alle prospettive finanziarie. Nel 1999 a de S. viene affidato l’incarico di rappresentante dell’Ordine di Malta presso la Commissione europea e quello di consigliere particolare del commissario europeo Michel Barnier sui problemi istituzionali dell’Unione (v. anche Istituzioni comunitarie). De S., desideroso di contribuire alla diffusione della conoscenza delle tematiche europee, è attivo anche nei circoli accademici e associativi impegnati a stimolare la riflessione sull’Europa. A partire dal 1999 presiede il Fonds InBev-Baillet Latour, partecipa all’amministrazione della Fondation Paul-Henri Charles Spaak e della rete Friends of Europe; è membro dell’Académie Royale de Belgique e direttore degli studi europei all’Institut royal des relations internationales-Egmont. Nel 1990 assume un incarico di insegnamento all’Université catholique di Lovanio e nel 1998 al Collège d’Europe di Natolin.

De S. è anche coautore di alcune opere sul processo di integrazione europea e di numerosi articoli pubblicati sulle riviste scientifiche e sui giornali europei.

Laetitia Spetschinsky (2009)




Dean Gooderham Acheson




Debré, Michel

D. (Parigi 1912-Montlouis-sur-Loire 1996). Il padre Robert, di origine alsaziana, è un pediatra di fama nazionale, membro dell’Institut de France; le idee politiche di Robert Debré, socialista, pacifista e al contempo ardente patriota, influenzano il giovane Michel. Questi studia alla facoltà di Giurisprudenza di Parigi e all’École libre des Sciences politiques; in seguito ottiene un dottorato in giurisprudenza. Nel 1935 entra al Consiglio di Stato come uditore; nel 1942 raggiunge il grado di maître des requêtes.

Nel novembre del 1938 D. entra nel gabinetto di Paul Reynaud, allora ministro delle Finanze (fino al marzo 1940). Il direttore di Gabinetto è Gaston Palewski, che D. ritroverà alcuni anni dopo a capo del gabinetto di Charles de Gaulle. Con lo scoppio della guerra è mobilitato come istruttore degli allievi ufficiali di cavalleria. Inviato in un’unità al fronte, nel giugno del 1940 è fatto prigioniero; riesce a evadere e a raggiungere il territorio francese sotto Vichy, dove ritorna al Consiglio di Stato. Nel marzo del 1941 Emmanuel Monick, segretario generale della Residenza in Marocco, lo chiama come collaboratore nell’Africa del Nord.

Secondo le sue memorie, l’esperienza in Marocco, il successivo soggiorno ad Algeri e i contatti ivi stabiliti convincono D. che l’unico modo per servire l’interesse della Francia è essere gollisti e che la resistenza contro i nazisti ripartirà dall’Africa del Nord. De Gaulle è per lui il simbolo della Repubblica nuova, con lui tornerà quella «Repubblica pura e dura che, nelle sventure della Patria, abbiamo tanto desiderato» (v. Debré, 1984, p. 43). Partecipa quindi attivamente alla Resistenza sotto lo pseudonimo di Jacquier: fa parte del comitato di direzione del movimento Ceux de la Résistance, attivo nella regione parigina e nell’est della Francia. Dall’aprile del 1943 è membro del Comitato generale di studi; questo Comitato, frutto dell’iniziativa di Jean Moulin, è un importante ingranaggio della Resistenza interna e, allo stesso tempo, consiglio permanente della delegazione del Comitato francese di Liberazione nazionale (CFLN). Il compito di D. è preparare la designazione dei futuri prefetti e dei commissari della Repubblica per il momento della liberazione. Il 3 ottobre 1943 è egli stesso nominato dal CFLN Commissario della Repubblica per la regione di Angers; assume questa funzione il 10 agosto 1944.

Nell’aprile del 1945 D. entra nel gabinetto di de Gaulle, all’epoca presidente del governo provvisorio della Repubblica francese: ha l’incarico di studiare una riforma amministrativa, che si traduce nella creazione dell’École nationale d’Administration. Dopo le dimissioni del generale de Gaulle nel gennaio del 1946, egli entra al ministero degli Affari Esteri come chargé de mission. Dopo una breve missione in Tunisia con il compito di riorganizzarne la funzione pubblica e l’amministrazione, alla fine del 1946 D. è incaricato di organizzare il congiungimento della Saar alla Francia. Di fronte alla nuova situazione internazionale del 1947 l’annessione gli appare come un’utopia pericolosa ed egli propone al governo francese di limitarsi a staccare la Saar dal resto della Germania, di liberarla rapidamente dal sistema d’occupazione militare e di porre le basi istituzionali di un nuovo Stato. Sul piano economico egli propone l’ingresso della Saar nell’insieme economico e monetario francese, cosa che gli sembra compatibile con l’autonomia interna. Alla fine del 1947 è segretario generale agli affari tedeschi e austriaci.

È un incarico che dura pochi mesi perché da tempo egli ha deciso di impegnarsi in politica in prima persona: si presenta alle elezioni per l’Assemblea nazionale nel novembre del 1946 e, su consiglio dello stesso de Gaulle, sceglie di guidare una lista radicale. Tuttavia, non è eletto. Convinto delle debolezze strutturali delle istituzioni della IV Repubblica, fa parte del piccolo gruppo di fedeli che nell’aprile del 1947 fonda con de Gaulle il Rassemblement du Peuple Français (RPF), pur continuando ad appartenere al partito radicale che fino al 1951 ammette la doppia appartenenza con l’RPF. Nell’ottobre del 1948 è eletto senatore nel dipartimento di Indre-et-Loire in una lista che associa l’RPF e il Rassemblement des gauches républicaines, nuovo nome dei radicali. D. mantiene la carica di senatore del dipartimento di Indre-et-Loire dal 1948 al 1958. È eletto consigliere generale d’Indre-et-Loire dal 1951 al 1970 e nuovamente dal 1976 al 1992. Dal 1966 al 1989 è anche sindaco di Amboise. Fonda e collabora regolarmente al giornale «L’Echo de la Touraine».

Già durante la guerra D. elabora una propria riflessione sulle trasformazioni dello scenario internazionale e sulla politica estera della Francia, riflessioni che egli approfondirà e in parte modificherà nel corso degli anni successivi. Nel 1944-1945, con gli pseudonimi di Jacquier e Bruère, D. e Mönick scrivono insieme e pubblicano due testi, Réfaire la France. L’effort d’une génération e Demain la paix, esquisse d’un ordre international. Il primo è un manifesto per la riforma radicale del paese in numerosi settori, inquadrato in una visione mondiale dei problemi. Il progetto di riforma dello stato prevede un esecutivo forte, esercitato dal Presidente della Repubblica, vero e proprio monarca repubblicano eletto per dieci anni. Il secondo testo si propone di delineare un ordine a livello mondiale per salvare la civiltà dell’Occidente dalla scomparsa causata da un’altra guerra. Gli autori partono dalla constatazione che il dogma della sovranità nazionale è perito in quanto i problemi che minacciano la pace – crisi economiche, problemi sociali, aggressioni militari – non possono più essere padroneggiati dalle singole nazioni. «D’ora in poi le nazioni, volenti o nolenti, in guerra come in pace, per vivere devono cedere una parte della loro sovranità e subire la dura legge dell’unione» (Demain la paix, esquisse d’un ordre international, Plon, Paris 1945, p. 7). Questo non significa la scomparsa delle nazioni, ma la fine della loro piena sovranità. Gli autori propongono un’organizzazione internazionale suddivisa in raggruppamenti regionali non basati sui continenti, ma organizzati attorno ai bacini marittimi. In termini concreti, per la Francia ciò significa entrare a far parte di una comunità non tanto europea, quanto atlantica: «attorno all’Atlantico una concezione comune della dignità della persona umana, derivante dal cristianesimo, impregna la vita sociale. Si è stabilita una zona di solidarietà in cui nessun abitante, che ne abbia la consapevolezza o meno, non ha più sicurezza politica né economica se gli altri non la condividono con lui» (ivi, pp. 70-71).

Negli anni successivi D. sviluppa la propria riflessione sia sulle colonne dei giornali sia in altri libri. Rispondere alla minaccia dell’imperialismo sovietico è il primo obiettivo dell’alleanza duratura di queste nazioni; egli critica duramente il neutralismo e la concezione dell’Europa come terza forza. A questo si affianca un secondo obiettivo strategico, fornire una soluzione al «problema drammatico del futuro del popolo tedesco» (La Républiques et ses problèmes, Nagel, Paris 1952, p. 143): gli Alleati non devono smettere di guidare, di dirigere la Germania; dal canto suo, la Francia, prima che la Germania recuperi una parte della sua potenza e domini l’organizzazione dell’Europa, deve porsi alla guida della confederazione europea. L’Europa immaginata da D. è dunque un’Europa atlantica, saldamente legata agli Stati Uniti benché non succube.

È del 1950 il suo testo europeista più conosciuto, Projet de pacte pour une Union d’Etats européens, nel quale egli riprende la concezione dell’associazione politica del Vecchio e del Nuovo Mondo, ossia delle nazioni dell’Europa occidentale che condividono l’ideale di libertà con l’America del Nord, come unica strada per salvaguardare la libertà e il futuro dell’Europa (Projet de pacte pour une Union d’Etats européens, Nagel, Paris 1950, p. 28). Di questa vasta comunità atlantica l’organizzazione dell’Europa sarebbe una prima e necessaria tappa. Spetta alla Francia prendere la guida del processo di unificazione dell’Europa occidentale. Secondo l’articolo 2 del suo progetto di patto, l’unione avrà competenze e poteri per assicurare: la difesa dei suoi membri; il miglioramento delle condizioni di vita dei popoli; lo sviluppo della produzione mineraria, industriale e agricola; l’unificazione delle grandi regole amministrative e delle istituzioni giuridiche; il coordinamento della politica estera dei membri dell’unione. La costruzione istituzionale di D. è incentrata sulla figura di un arbitro eletto per cinque anni a suffragio universale, affiancato da due vicearbitri; si aggiungono la Corte di giustizia e due assemblee: il Senato dell’Unione e l’Assemblea delle nazioni europee, composta da deputati eletti a suffragio universale.

D. accompagna la riflessione teorica con un impegno militante concreto. Nonostante il silenzio delle sue memorie a tal proposito, dal 1947 D. diventa un militante attivo nei movimenti europeisti. È membro del Comité français pour l’Europe unie dans le cadre de l’ONU, che D. contribuisce a fondare assieme a René Courtin nel giugno del 1947 (alcune riunioni preparatorie hanno avuto luogo già alla fine del 1946). Il Comitato intende sfruttare il Piano Marshall come base per un rinnovamento delle condizioni economiche e politiche della vita internazionale. Quando, dopo il Congresso dell’Aia nel maggio 1948, il Movimento europeo raggruppa tutti i Movimenti europeistici, D. fa parte delle istanze dirigenti del gruppo francese ad esso affiliato: è presidente della Commissione culturale del Comité exécutif français. In quegli anni, se il Movimento europeo ha interesse a non staccarsi dal gollismo, a sua volta il movimento gollista non intende tagliare i ponti con il Movimento europeo.

Nel 1949 D. è il relatore al Consiglio della Repubblica della legge per la ratifica del trattato istitutivo del Consiglio d’Europa. Il suo parere è positivo, benché egli trovi la nuova istituzione insufficiente per i bisogni dell’Europa. Cosicché alla fine del 1950 D. firma l’appello per la convocazione di un’assemblea costituente europea incaricata dell’elaborazione di un progetto per un’autorità politica europea, testo firmato sia da unionisti sia da federalisti (v. Federalismo).

Nel 1949 non viene eletto come delegato all’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa; in seguito è scelto come rappresentante del Conseil de la République all’Assemblea parlamentare della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), che si riunisce per la prima volta nell’autunno del 1952; in questa Assemblea fa parte della Commissione per gli affari sociali, ma si distingue rapidamente per le sue requisitorie contro la politica europea della Francia. Fa parte anche dell’Assemblea ad hoc incaricata del progetto di costituzione europea. Il suo impegno all’interno degli organismi europei prosegue anche nella seconda metà degli anni cinquanta: è rappresentante supplente della Francia all’Assemblea dell’Unione dell’Europa occidentale creata nel 1956; è nominato rappresentante della Francia anche nell’Assemblea comune alle tre comunità (Comunità europea del carbone e dell’acciaio, Comunità economica europea, Comunità europea dell’energia atomica), costituita nel marzo del 1958.

Il giudizio di D. sull’iniziativa di Robert Schuman in merito alla costituzione di un’autorità europea del carbone e dell’acciaio è inizialmente positivo; nelle fasi successive, durante le quali il progetto prende corpo, egli lo critica perché ritiene che non affronti il vero problema dell’Europa, che è un problema politico: la volontà dell’Occidente di difendersi dall’URSS e di risolvere la povertà interna. Allo stesso modo, egli critica il progetto della Comunità europea di difesa (CED), poiché, sebbene egli chieda da tempo l’organizzazione di una difesa europea, il progetto gli sembra uno «strumento senza testa, […] un artificio per accettare, senza dirlo, il riarmo quasi incondizionato della Germania» (La Républiques et ses problèmes, cit, p. 184). Inoltre, dal 1951 si nota negli scritti di D. un crescente dissenso verso la politica degli Stati Uniti: non solo egli critica il loro sostegno ai governi francesi di terza forza, sostegno che permette alle forze favorevoli alla IV Repubblica di mantenersi al potere, ma ancor più disapprova la loro azione in Medio Oriente e in Africa del Nord. A suo parere la mancanza di appoggio, da parte degli Americani, alle politiche del Regno Unito e della Francia in questi teatri è in contraddizione con l’esigenza della solidarietà occidentale e con la coalizione di una civiltà dal destino comune e solidale.

Nel corso del 1952 de Gaulle, che nel frattempo esprime solennemente la propria opposizione al trattato sulla CED, affida la battaglia gollista contro questo trattato a D., che in quell’anno entra nel Consiglio nazionale dell’RPF e diventa lo specialista incontestabile degli affari europei e costituzionali. Aiutato da Christian de la Malène, segretario generale dell’intergruppo gollista al Senato, il senatore d’Indre-et-Loire usa tutte le possibilità che gli offre il regolamento del Consiglio della Repubblica per combattere la CED; interviene alla tribuna dell’assemblea della CECA, davanti alle assemblee locali, davanti agli ex resistenti, all’RPF, a Sciences-Po; pubblica numerosissimi articoli su diversi giornali e riviste. Egli ritiene che per trovare una soluzione al riarmo della Germania si penalizzi la Francia, unica nazione, tra le sei aderenti al Trattato, ad avere un esercito nazionale, un budget militare importante e ambizioni nucleari. Con la CED la Francia perderebbe il proprio esercito e perderebbe l’indipendenza della sua difesa e della sua politica estera, mentre la Gran Bretagna, che non vi aderisce, manterrebbe intatte entrambe e gli Stati Uniti godrebbero del controllo sull’esercito comune europeo attraverso l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO). A causa del rifiuto degli Inglesi di entrare nella costruzione europea, delle debolezze del sistema istituzionale francese e delle oscillazioni della politica americana, secondo D. l’occasione storica della costruzione dell’Europa all’interno della comunità occidentale è stata mancata. Questo fallimento contribuisce alla rinascita della potenza tedesca, incoraggiata anche dagli stati Uniti.

La battaglia che D. conduce contro il progetto della Comunità europea di difesa, contribuendo al suo affossamento nell’agosto del 1954, gli vale «allo stesso tempo solide inimicizie, l’inizio della sua notorietà politica e la sua reputazione di nazionalista intransigente», (v. Samuel, 2002, p. 24). Non a caso, le divergenze sul progetto della CED segnano anche la fine della sua militanza nei movimenti europeisti: alla fine del 1953 D. si dimette dal Comité exécutif Français e, assieme ad altri parlamentari, forma il Comité National de Défense de l’unité de la France et de l’Union Française. Dal 1953 in poi nei suoi scritti D. non auspicherà più il trasferimento di una parte della sovranità dagli stati europei a una unione o confederazione.

Nel marzo del 1955 D. sostiene, con stupore degli altri gollisti, il Presidente del Consiglio Edgar Faure che chiede la ratifica degli accordi di Parigi sul riarmo tedesco nel quadro della NATO. Mentre molti gollisti premono per una riapertura del dialogo con Mosca, egli se ne discosta persuaso che il fallimento degli accordi di Parigi, lungi dall’accelerare il ritorno del Generale, rilancerebbe i sostenitori della sovranazionalità. De Gaulle, al quale D. illustra la propria posizione, gli lascia libertà di scelta; il giorno in cui egli espone il rapporto al Consiglio della Repubblica solo 11 su 47 senatori repubblicano-sociali (partito che riunisce gli ex membri dell’RPF) seguono D., che, pure, dall’inizio dell’anno è il loro presidente (D. rimane presidente del gruppo dei senatori dei repubblicano-sociali fino al 1958).

L’opposizione di D. a qualsiasi trattato che imponga cessioni di potere da parte dello stato si estende anche ai Trattati di Roma (CEE ed Euratom). In particolare, egli denuncia senza tregua il trattato dell’Euratom, ritenuto «un complotto preparato e messo a punto dallo straniero contro la Francia». Alla «falsa analisi giuridica dei trasferimenti di sovranità» si aggiunge «una concezione politica che è contro la natura delle cose: quella dell’Europa-nazione». Dietro queste costruzioni giuridiche, emerge chiaramente il fatto che CEE ed Euratom siano il cavallo di Troia per il dominio della Germania, alleato e servitore degli USA, sul continente europeo (v. Debré, 1956). Egli difende l’dea che essere europei non significhi essere favorevoli a una costruzione sovranazionale.

Tra il 1956 e il 1958, dalla tribuna del Consiglio della Repubblica D. critica instancabilmente le istituzioni della IV Repubblica e invoca il ritorno al potere di de Gaulle. Fra il 1957 e il 1958 si moltiplicano i suoi appelli affinché il generale de Gaulle sia richiamato a capo dell’esecutivo. È celebre il suo pamphlet Ces princes qui nous gouvernent e le sue invettive dalle pagine de «Le Courrier de la colère» che fonda nel 1957 e dirige. Dalle pagine di questo giornale egli ricorda costantemente il dovere di disobbedienza al regime «fino alla ghigliottina». Inoltre, difende con intransigenza il mantenimento dell’Algeria nella Repubblica.

È ministro della Giustizia nel governo de Gaulle del giugno 1958. Dall’autunno di quell’anno è anche membro del comitato centrale dell’Union pour la Nouvelle République (UNR), il partito gollista appena costituito. Nella seconda metà del 1958, quando il governo di de Gaulle si trova ad affrontare la questione della messa in atto del Trattato sulla CEE, D. è tra quanti vorrebbero che la Francia entri nell’Associazione europea di libero scambio (EFTA), di cui la Gran Bretagna ha preso l’iniziativa e a cui si oppongono il generale Couve de Murville (v. Couve de Murville, Maurice).

D. svolge un ruolo chiave nella redazione della nuova costituzione della V Repubblica. Nelle sue intenzioni la carta approvata il 28 settembre del 1958 istituisce un parlamentarismo razionalizzato, nel quale il Presidente della Repubblica è custode degli interessi nazionali e il primo ministro dirige la politica della nazione. Quando viene scelto da de Gaulle, Presidente della Repubblica dal dicembre del 1958, come primo ministro, D. si considera sia come il capo della maggioranza parlamentare sia come l’uomo del Presidente.

Tuttavia, sebbene D. benefici della totale fiducia del capo dello Stato e questi gli riconosca un’ampia autonomia d’azione, nella lettura che de Gaulle dà della Costituzione alcuni ambiti politici appartengono ormai quasi esclusivamente al Presidente della Repubblica. In particolare, nel nuovo governo de Gaulle sceglie il ministro degli affari esteri, Maurice Couve de Murville, e quello che presiede alle forze armate, Pierre Guillaumat (dal febbraio 1960 sostituito con Pierre Messmer); questi due ministri agiscono sotto la direzione del Presidente della Repubblica. Nella pratica ciò si traduce anche nel fatto che D. non accompagna il Presidente della Repubblica in occasione delle sue visite ufficiali all’estero; egli contribuisce solo con i propri viaggi e con i propri incontri, limitandosi a sostenere le iniziative del capo dello Stato.

La politica europea non rientra dunque nella sfera decisionale di D., che rimane a Matignon fino all’aprile del 1962. Nondimeno, egli esprime le proprie opinioni in numerose note al Presidente della Repubblica. Egli condivide appieno la volontà del generale di costruire l’«Europa delle patrie», in cui il sovranazionalismo è respinto a favore della cooperazione intergovernativa, da estendere soprattutto all’ambito politico. «Respingo l’argomento dell’indebolimento della difesa occidentale attraverso la costruzione di questa Europa realista e responsabile. […] fisso gli obiettivi della politica estera francese: “difendere la Nazione, partecipare all’unione delle nazioni del vecchio continente, strettamente associate in seno alle nazioni occidentali”» (v. Debré, 1988, p. 381). D. non solo approva, ma rivendica anche la paternità del Piano Fouchet, che mira a istituire riunioni periodiche dei capi di Stato dei Sei, assistiti da un segretariato politico ben distinto dalla Commissione europea di Bruxelles, con l’obiettivo di rafforzare il peso degli Stati europei sullo scenario internazionale pur evitando la costruzione di un’Europa sovranazionale.

D. diverge però da de Gaulle sul ruolo da accordare alla Germania federale in questo insieme. Certamente la costruzione dell’Europa deve servire al riavvicinamento franco-tedesco, ma egli insiste spesso sui limiti del rapporto con i tedeschi. In particolare, egli teme la potenza economica tedesca – condizione del riavvicinamento franco-tedesco è pertanto l’esistenza di una Francia con un’industria all’altezza e in grado di sostenere la concorrenza dei vicini d’oltre Reno – e insiste sulle limitazioni alla politica estera tedesca. Non solo dunque D. approva il riconoscimento della frontiera Oder-Neisse da parte della Francia (marzo 1959), ma ritiene che la Germania debba accettare le limitazioni militari, in particolare il divieto di disporre di armi nucleari. D. sospetta che la Germania abbia doppi fini nel riavvicinamento con la Francia: a suo parere Konrad Adenauer ritiene che gli USA non solo siano i garanti della sicurezza tedesca contro la minaccia sovietica, ma siano l’unica assicurazione che ha la Germania di ritrovare un giorno la sua unità. Il primo ministro francese ritrova queste sue impressioni confermate dalla sua visita al Cancelliere del 9 ottobre 1960. Dalla fine del 1960, tuttavia, D. ritiene che la posizione di Adenauer evolva: egli si convince della bontà delle intenzioni del generale nei confronti della Germania grazie alla fermezza che, contrariamente alla Gran Bretagna, la Francia dimostra nei confronti dell’URSS sulle questioni tedesche.

I principi su cui D. intende fondare l’azione del governo sono: opposizione alla tendenza alla sovranazionalità, che «crea commissioni indipendenti dall’autorità governativa e indipendenti dal suffragio universale, che è la legittimità del potere»; costruzione della solidarietà europea fondando il futuro su «una cooperazione con la nuova Germania», senza che questo significhi rottura della «costante e naturale cooperazione politica con la Gran Bretagna»; accelerazione economica del Mercato comune ponendo come condizione sine qua non l’attuazione della politica agricola comune (Discorso di D. al Congresso dell’‘Union pour la nouvelle République, Strasburgo 19 marzo 1961). Per quanto riguarda in particolare l’attuazione del Trattato sulla CEE, il governo di D. opera infatti principalmente in tre direzioni: stabilire una tariffa esterna doganale comune; aprire il mercato dei cinque partner della Francia alla produzione agricola francese; estendere il Mercato comune all’oltremare francese.

La questione algerina è l’ambito in cui si misura maggiormente la distanza crescente fra de Gaulle e il suo primo ministro, tanto che dall’aprile del 1961 la sua gestione passa totalmente nelle mani del presidente. D. cerca fino alla fine di condurre la trattativa verso uno Stato algerino associato alla Francia, che egli preferisce alla soluzione poi adottata dell’indipendenza unita a un accordo di cooperazione. Eppure, la divergenza di vedute che lo separa dal capo dello Stato in merito all’Algeria non intacca la sua lealtà nei confronti del generale. Una volta ratificati gli accordi di Evian nell’aprile del 1962, il generale ritiene necessario sostituire il primo ministro. D., secondo la sua concezione istituzionale, preferirebbe che le sue dimissioni siano precedute dallo scioglimento dell’Assemblea e da nuove elezioni, cosa che il generale rifiuta. Il 14 aprile del 1962 D. rassegna le dimissioni su domanda del generale.

Battuto alle elezioni per l’Assemblea nazionale del 1962 nel suo dipartimento d’Indre-et-Loire, ritrova un seggio parlamentare come deputato della Riunione tra il 1963 e il 1966. È ministro dell’Economia e delle finanze nel governo di Georges Pompidou (1966-1967), incarico che gli viene confermato dopo la sua rielezione come deputato della Riunione alle elezioni legislative del 1967. In disaccordo con la linea politica seguita da Pompidou durante il maggio ’68, da lui ritenuta troppo lassista, e ritenendo che gli accordi di Grenelle rimettano in causa la ripresa economica e finanziaria, D. rassegna le dimissioni.

Nel governo Couve de Murville, formato nel luglio del 1968, D. ricopre il ruolo di ministro degli Affari esteri. Al Consiglio dei ministri delle Comunità europee del 27 settembre si oppone con veemenza alla proposta tedesca di rafforzare le Comunità prima dell’allargamento e di far partecipare i paesi candidati all’allargamento (Gran Bretagna, Irlanda, Danimarca e Norvegia) alle discussioni sulla cooperazione tecnologica. Si tratta per la Francia di opporsi all’allargamento della CEE, secondo le decisioni già palesate da de Gaulle. In novembre, al Consiglio dei ministri D. propone un piano di rilancio del Mercato comune, con lo scopo di consolidare l’Unione doganale e la politica agricola e di sviluppare una Politica industriale, ma mantiene il disaccordo totale con gli altri cinque membri in merito all’allargamento della Comunità.

Nel 1969, benché critico verso la riforma regionale e la riforma del Senato presentate del ministro Jean-Marcel Jeanneney, difende il “sì” una volta che, in aprile, queste sono sottoposte ai cittadini tramite referendum. Dopo la partenza del generale e l’elezione a Presidente della Repubblica di Georges Pompidou, D. è ministro di Stato con l’incarico della difesa nazionale nel governo di Jacques Chaban-Delmas nel 1969 e nel primo governo di Pierre Messmer, formato nel luglio del 1972. D., che è pienamente convinto del valore di quella che è stata la politica militare e di difesa di de Gaulle, intende perpetuarne i principi. In particolare non transige in merito all’affermazione del carattere nazionale delle forze armate – il compito fondamentale delle forze armate francesi è assicurare la sicurezza della Francia e dei francesi, assicurare l’indipendenza del suo territorio e della sua politica, la sua libertà di destino e quella dei suoi cittadini – e alla necessità di una difesa moderna ossia efficace, quindi con armamento nucleare. Anche in queste vesti egli continua a difendere il principio della sovranità nazionale contro ogni trasferimento di poteri alle Comunità. «L’integrazione europea e atlantica, privando i responsabili eletti dal popolo della loro responsabilità in ambito di difesa, ci condannava allo stesso tempo alla decadenza e al neutralismo, vale a dire alla rinuncia» (v. Debré, 1988, p. 366).

Dopo le sue dimissioni del 18 gennaio 1973 non ricopre più incarichi governativi. Dal 1973 al 1988 è deputato del partito gollista Union des démocrates pour la République (che si trasforma nel 1976 nel Rassemblement pour la République) per il dipartimento della Riunione. In rottura con gli orientamenti governativi adottati dopo il 1973 e soprattutto dopo il 1974, nonché con la linea politica del partito gollista ormai nelle mani di Jacques Chirac, D. si erge a difensore ad oltranza dell’ortodossia gollista – in particolare dell’indipendenza della nazione francese – contro la politica troppo liberale ed europea del presidente Valéry Giscard d’Estaing. Egli si batte in Parlamento e si rivolge direttamente ai francesi contro il “giscardo-chiracchismo”, censore implacabile di una V Repubblica che ai suoi occhi ha deviato dal solco dell’insegnamento di de Gaulle, in particolare nell’ambito della politica estera e della difesa.

Sebbene si sia opposto all’elezione diretta del Parlamento europeo e abbia creato il Comitato per l’indipendenza e l’unità della Francia, il 10 giugno 1979 si presenta alle elezioni per l’Assemblea delle comunità europee con la lista Difesa degli interessi della Francia in Europa. È eletto e diventa presidente del suo gruppo all’Assemblea, ma rassegna le dimissioni da queste funzioni nel 1980. L’anno successivo si candida alle elezioni presidenziali francesi raccogliendo un modesto 1,64% dei voti. Nel 1988 non si ricandida al seggio di deputato.

Il 24 marzo 1988 D. è eletto all’Accademia francese.

Lucia Bonfreschi (2012)




Decisione

La decisione è un atto vincolante che le Istituzioni comunitarie possono adottare nell’esercizio delle proprie Competenze, in conformità all’art. 249 del Trattato istitutivo delle Comunità europee (TCE) (v. Trattati di Roma). La decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi nei confronti dei destinatari cui è indirizzata, e sotto tale profilo è quindi equiparabile al regolamento, ma a differenza di quest’ultimo è priva di portata generale e astratta, poiché rivolta a soggetti definiti, siano essi Stati, persone fisiche o persone giuridiche. L’assenza dei requisiti dell’astrattezza e della generalità, tipici degli atti legislativi, induce a considerare la decisione un atto “amministrativo” di portata individuale attraverso il quale le istituzioni comunitarie garantiscono l’applicazione del Diritto comunitario a fattispecie concrete, creando, modificando o estinguendo situazioni giuridiche soggettive in capo ai destinatari.

Le istituzioni competenti ad adottare decisioni sono il Consiglio dei ministri dell’Unione europea, il Consiglio unitamente al Parlamento europeo (PE), la Commissione europea – per potere proprio o per delega del Consiglio – e la Banca centrale europea. Sebbene non esista nel TCE un riparto di competenze tra il Consiglio e la Commissione, solitamente il primo adotta le decisioni rivolte agli Stati membri, mentre la seconda quelle dirette ai singoli.

Gli effetti delle decisioni si producono, in conformità all’art. 254, par. 3, dal momento della notifica ai suoi destinatari, salvo per quelle adottate in base alla Procedura di codecisione ex art. 251, per le quali è necessaria la firma dei presidenti del PE e del Consiglio e la successiva pubblicazione nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea.

L’efficacia delle decisioni negli ordinamenti degli Stati membri varia a seconda del soggetto destinatario. Nel caso in cui siano dirette verso uno Stato, le decisioni hanno efficacia diretta solo se l’obbligo in esse imposto ha natura self-executing o è sufficientemente chiaro e preciso. Nell’ipotesi in cui invece si renda necessaria l’adozione di provvedimenti interni per la loro attuazione, le decisioni devono considerarsi prive di tale efficacia e la loro mancata esecuzione potrà dare luogo a una procedura di Infrazione al diritto dell’Unione europea da parte della Commissione ai sensi dell’art. 226 del TCE.

Nel caso in cui destinatari siano persone fisiche o giuridiche, le decisioni hanno sempre efficacia diretta, con la conseguenza di poter essere fatte valere dal singolo dinanzi al giudice nazionale. Inoltre, nell’ipotesi in cui le decisioni impongano obblighi di pagamento, esse costituiscono titolo esecutivo negli ordinamenti degli Stati membri, in conformità all’art. 256, comma 1 del TCE. Da ciò consegue che, qualora gli obblighi pecuniari non vengano adempiuti, il soggetto interessato, ottenuta dall’autorità designata da ciascuno Stato membro l’apposizione della formula esecutiva, subordinata all’accertamento dell’autenticità del titolo, potrà ottenere l’esecuzione forzata richiedendola direttamente all’organo competente per territorio secondo la legislazione nazionale. Tale procedura è regolata dalle norme vigenti nello Stato sul cui territorio viene effettuata, salvo la sospensione della sua esecuzione, che il TCE attribuisce in via esclusiva alla Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) (art. 256, comma 4).

Massimo Francesco Orzan (2007)




Defferre, Gaston

D. (Marsillargues 1910-Marsiglia 1986) trascorre parte della sua infanzia a Dakar, in Senegal, dove inizia anche i suoi studi. Avvocato al foro di Marsiglia, nel 1933 aderisce alla Section française de l’Internationale ouvrière (SFIO) nel 1936 diventa segretario della seconda sezione marsigliese. Il suo impegno nella Resistenza a capo della rete Brutus e l’azione svolta per la ricostituzione clandestina del Partito socialista gli valgono, dopo la Liberazione, la presidenza del Consiglio municipale di Marsiglia fino al 1945 e l’ingresso nel comitato direttivo della SFIO; prende parte contemporaneamente all’Assemblea consultiva. Dopo essere diventato editore, nel gennaio 1946 è segretario di Stato alla presidenza del Consiglio dei ministri incaricato dell’informazione nel governo Gouin. Poi siede sui banchi dell’Assemblea nazionale, dove si iscrive alla commissione dei Territori d’oltremare (TOM). È rieletto fino al 1958, è sindaco di Marsiglia dal 1953 e a quattro riprese ricopre funzioni ministeriali.

Il suo interesse per le questioni europee si manifesta a partire dal 1949. Come specialista degli affari d’oltremare aderisce al Mouvement socialiste pour les Etats Unis d’Europe, al Conseil français pour l’Europe unie e al Comité français du Mouvement européen (v. Movimento europeo), ai quali integra le commissioni dei TOM (v. anche Regioni ultraperiferiche dell’Unione europea). Si preoccupa di non lasciare in disparte nel processo di costruzione europea i territori che hanno svolto un ruolo capitale durante la guerra, sottolinea l’interesse economico di mettere in comune le loro risorse per un’Europa che vuole esistere in un mondo ormai dominato dai grandi insiemi geografici.

I dibattiti sulla Comunità europea di difesa (CED) a partire dal 1950 e poi sulla creazione di una Comunità politica europea (CPE) pongono il problema dei territori extrametropolitani in maniera più concreta. Questi ultimi sono esclusi sia dalla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) che dalla CED. D., pur essendo favorevole al trattato, non nasconde la sua preoccupazione di fronte ai problemi che il testo solleva per la difesa dei Territori d’oltremare e la coesione dell’Union française. Tuttavia vede nella CPE che si sta progettando il mezzo per rimediare a queste lacune. Quindi il 17 novembre 1953, all’Assemblea nazionale, parla a favore della creazione di un’autorità politica europea sopranazionale, con competenze in un primo tempo limitate alla CECA e alla CED alle quali andrebbero integrati i TOM. Il desiderio di dare la possibilità alla Gran Bretagna (v. Regno Unito) di integrarsi all’Europa non è estraneo a questa soluzione intermedia, a metà fra un’adesione della sola metropoli, suscettibile di provocare agitazioni politiche e di mettere in pericolo la coesione della zona franca che D. considera l’unica vera ossatura dell’insieme francese, e un’integrazione dei TOM in un’Europa sovranazionale che rovinerebbe la loro economia esponendoli alla concorrenza degli europei.

La questione resta aperta, soppiantata dal dibattito sulla ratifica del Trattato della CED al quale D. partecipa attivamente. Nella commissione dei Territori d’oltremare si adopera per coinvolgere coloro che sono preoccupati per l’esclusione dei TOM dal Trattato: è relatore del progetto di legge diretto a modificare il Trattato e il 12 agosto 1954 dà parere favorevole, ma al tempo stesso chiede che i TOM siano parte ricevente di qualsiasi nuova integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Non riesce a convincere una commissione che in maggioranza è contraria alla CED, ma riesce a farla convergere su una proposta di risoluzione che impegna il governo ad attuare una vera e propria politica di difesa dell’Union française parallelamente alla CED. Il voto preliminare del 30 agosto 1954 all’Assemblea nazionale gli impedisce di pronunciare un discorso in cui metteva in guardia il governo contro la tentazione di approfittare della costruzione europea per abbandonare l’oltremare francese. Tuttavia tenta fino all’ultimo di evitare le divisioni all’interno della SFIO: sostenitore intransigente dell’unità di voto, sottolinea instancabilmente che l’alternativa non riguarda il riarmo della Germania ma l’autonomia dell’esercito tedesco. È consapevole dell’impossibilità per la Francia di restare isolata ed è favorevole alla ripresa di una politica d’intesa europea che includa la Gran Bretagna, quindi aderisce agli accordi di Parigi dell’ottobre 1954 ma deplora la marcia indietro sulla sovranazionalità e la porta aperta al riarmo autonomo della Germania.

Il fallimento della CED rinsalda la sua convinzione sulla necessità di tener conto delle ripercussioni della costruzione europea sull’oltremare e di associare alle discussioni i rappresentanti di questi territori. Dopo essere diventato ministro della Francia l’oltremare nel governo di Guy Alcide Mollet nel gennaio 1956, i negoziati per i trattati della Comunità europea dell’energia atomica (Euratom) e del Mercato comune (v. Comunità economica europea; Trattati di Roma) gli offrono l’occasione per ribadire questa esigenza, tanto più che vede la possibilità di concretizzare l’idea di Eurafrica e di evitare, grazie all’Europa, una rottura totale con i territori che procedono ineluttabilmente verso l’indipendenza, preservandoli al tempo stesso da influenze extraeuropee. Quindi ritiene che la legge quadro per l’oltremare del 23 giugno 1956, che porta pacificamente questi territori all’autonomia, e l’integrazione europea debbano completarsi e non intralciarsi.

Per queste ragioni, se in un primo tempo Euratom attira la sua attenzione, dopo la pubblicazione del rapporto che porta il nome di Paul-Henri-Charles Spaak l’interesse di D. si sposta verso il Mercato comune (v. Comunità economica europea). Il 17 maggio 1956, in una lettera al Presidente del Consiglio Mollet, il ministro prende posizione a favore dell’ammissione dei TOM nel Mercato comune, con l’integrazione di clausole legate al loro stato di sottosviluppo, la cui accettazione deve condizionare l’adesione della Francia: protezione dell’industria nascente e della produzione agricola mediante una Tariffa esterna comune favorevole e soprattutto partecipazione degli europei agli oneri con uno sforzo di investimento nei territori in cambio della loro apertura.

Da allora la questione dei TOM diventa uno dei principali scogli nei negoziati. D. resta sulle sue posizioni, malgrado le forti resistenze dei Cinque e le pressioni del comitato interministeriale, che nel dicembre 1956 ritiene che l’associazione dei TOM a queste condizioni sia votata al fallimento. Nel gennaio 1957, con il sostegno dell’amministrazione del suo ministero e del ministro per gli Affari economici e finanziari Paul Ramadier, fa pressioni su Mollet perché rifiuti la formula di Maurice Faure, il quale per facilitare la conclusione dei negoziati intende accettare una dilazione di quattro anni per regolare in modo preciso la questione delle modalità d’associazione dei TOM al Mercato comune. D. minaccia di dimettersi intuendo che il rapporto di forza dopo la firma del trattato sarà sfavorevole alla Francia, invoca la ragion di Stato di fronte ai rischi di agitazioni politiche che una Repubblica già resa fragile dalla situazione algerina non potrebbe affrontare, evoca il caso di coscienza di un europeo convinto, costretto ad ammettere che «se dev’essere fatta una scelta, […] è meglio rinunciare al Mercato comune piuttosto che accettare una rottura con i territori d’oltremare». Negli ambienti politici, in particolare mendesisti, e in quelli degli affari legati agli interessi coloniali, anche altre voci denunciano un mercato di oltremare offerto in dote agli altri Stati europei. Quindi il ministro, che si preoccupa anche di non mettere in difficoltà i leader africani che sostengono la legge quadro, si sente incoraggiato a mantenere le sue posizioni, ancora alla vigilia della conferenza di Parigi nel febbraio 1957.

Il Trattato di Roma (v. Trattati di Roma) comprende un accordo di associazione dei TOM al Mercato comune della durata di cinque anni. Questi ultimi sono liberi di mantenere la loro tariffa nei confronti di terzi e della metropoli e le tariffe doganali dei Sei sono abbassate del 30% sulle importazioni provenienti da questi territori. Ma la Francia ha dovuto cedere sul fronte degli investimenti, inferiore a quello auspicato da D. Tuttavia, cercando di conciliare vocazione africana e vocazione europea della Francia, D. e il governo Mollet sono riusciti ad ancorare l’Africa all’Europa e a posare la prima pietra di una politica nei confronti del Terzo mondo.

Negli anni Sessanta l’Europa diventa uno dei cavalli di battaglia dei socialisti e un tema che compatta la sinistra non comunista contro il generale Charles de Gaulle. E se pure D. non appare come uno degli specialisti in questioni europee nel Partito socialista, la tribuna che gli procurano la presidenza del gruppo parlamentare all’Assemblea nazionale e soprattutto le due candidature alle elezioni presidenziali del 1965 e del 1969, lo collocano in prima linea nell’opposizione al gollismo: quindi nei suoi discorsi riserva uno spazio essenziale all’Europa.

Il progetto europeo di “Monsieur X” è il frutto delle riflessioni della commissione “costruzione europea” dell’associazione Horizon 80 creata per la circostanza – alla quale appartiene anche Étienne Hirsch. D. condanna la politica che de Gaulle conduce in nome dell’indipendenza nazionale: giudica inutile la scelta della force de frappe nazionale, ne denuncia gli effetti perversi ritenendo che la ricerca dell’indipendenza per vie militari non impedisca la realizzazione di una vera e propria colonizzazione “economica” della Francia da parte degli Stati Uniti. All’“Europa delle patrie”, cara a de Gaulle e giudicata anacronistica, oppone la realizzazione di un’Europa “vera”, nazione dalle dimensioni moderne, dotata di un’autorità politica, che in un’assemblea eletta a suffragio universale vedrebbe rafforzati i suoi poteri. Prospetta anche la formazione a termine di un governo europeo sovranazionale (v Defferre, 1965). Ma pur condannando l’atteggiamento di de Gaulle nei confronti degli Stati Uniti, rifiuta che l’Europa sia loro subordinata e opta per un’Europa indipendente concepita come un trait d’union fra Stati Uniti e URSS. Questa posizione testimonia la ricerca di un punto di equilibrio tra la Francia gollista e l’atlantismo di certi partner europei. Ma persiste un’ambiguità sulla questione nucleare: D., pur rifiutando la proposta americana di una forza multilaterale, non prende posizione sul tema di una forza nucleare europea.

Malgrado il ritiro della sua candidatura nel giugno 1965, D. continua a denunciare la battuta d’arresto provocata da de Gaulle all’integrazione europea e non smette di sostenere l’ingresso della Gran Bretagna nel Mercato comune, indispensabile per fare da contrappeso alla Germania e rafforzare l’Europa nei confronti degli Stati Uniti. Ma alle elezioni presidenziali del 1969 subisce un vero smacco.

Il 1969 resta anche l’anno in cui la storia europea entra in una fase nuova. D. dal gennaio 1968 è vicepresidente del comitato esecutivo del Movimento europeo e nel 1972 guida l’organizzazione francese del movimento: frequentando i “protagonisti” europei, è molto attivo su questo fronte al principio degli anni Settanta. In una lettera a Jean Monnet del marzo 1972 si dichiara contrario a qualsiasi dominio di una coalizione di Stati sull’Europa: è propenso a dotarla di un’autorità reale e diffida della tecnocrazia, quindi difende il rafforzamento della Commissione europea proponendo la presenza di una personalità di primo piano che la guidi, eletta per una “durata abbastanza lunga”, e la limitazione delle decisioni con Voto all’unanimità. Si impegna a favore di un’istituzione politica “di tipo comunitario” sul modello della commissione. In nome di questa concezione e per non avallare l’“Europa delle nazioni” di Pompidou (v. Pompidou, Georges) chiede l’astensione, insieme al PS ma contro la maggioranza del Bureau du Mouvement Européen, in occasione del referendum sull’Allargamento dell’Europa nel 1972.

Un anno più tardi, davanti ad un’Europa divisa, “umiliata” dalla sua impotenza di fronte alla guerra nel Vicino Oriente e investita dalla crisi energetica, D. sottolinea in occasione del congresso socialista sull’Europa a Bagnolet la necessità di «concepire e realizzare un’altra Europa». Più che mai avverso agli Stati Uniti, ritiene che in una congiuntura internazionale inedita l’indipendenza dell’Europa richieda la fine dell’ancoraggio all’ovest e il rifiuto dell’arma nucleare ed evoca, nel lungo termine, anche lo scioglimento simultaneo dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) e del Patto di Varsavia. Ma essendo consapevole delle divergenze fra i socialisti europei sulla questione dei rapporti con gli Stati Uniti, nell’immediato incoraggia l’Europa a cercare un accordo con il Consiglio di mutua assistenza economica (COMECON) e a instaurare relazioni di cooperazione scevre da qualsiasi imperialismo con i paesi del Terzo mondo. Il presupposto non cambia: porre fine alle divisioni e creare nuove istituzioni sovranazionali e politiche comuni.

D. difende questa posizione, conforme al programma europeo del PS, fino alla campagna del 1979 per l’elezione dei deputati al Parlamento europeo (v. anche Elezioni dirette del Parlamento europeo). Ultimo, per sua volontà, della lista socialista, dirada sempre più la sua presenza alle riunioni del comitato esecutivo del Movimento europeo e se ne giustifica così con Robert van Schendel: «Sono stato un militante europeo assiduo nel momento in cui la costruzione europea cominciava appena a prendere corpo. Le difficoltà erano numerose all’epoca per chi difendeva la causa europea. Con il futuro Parlamento europeo entriamo in una fase che sarà certamente interessante ma più facile di quella che ho conosciuto io. Quindi ho meno ragioni per militare, e inoltre devo smaltire una mole sempre crescente di lavoro come sindaco di Marsiglia».

Gli impegni di D. per Marsiglia e la sua regione hanno spesso una risonanza europea. Nella campagna per la costruzione del canale Reno-Rodano, nel 1979, insiste sul suo interesse economico per la regione, ma sottolinea anche la dimensione europea di un progetto che contribuisce a collegare e a riequilibrare il Nord e il Sud dell’Europa. Ma poi, temendo la concorrenza di Spagna, Portogallo e Grecia, nel 1978 esige con il PS delle condizioni preliminari all’ingresso dei tre paesi in Europa.

La questione dell’equilibrio tra le regioni è all’ordine del giorno in un’Europa in cui si discute sulla creazione di un fondo di sviluppo regionale, come in Francia dove si lavora alla riforma regionale. D., che dagli anni Cinquanta è Presidente del Consiglio dei comuni d’Europa, non ha mai smesso di sottolineare il ruolo degli eletti locali nella formazione di uno “spirito europeo”, il solo in grado di dare corpo ad un’“Europa dei popoli” e di militare a favore di una rappresentanza delle collettività locali nelle Istituzioni comunitarie. Ormai presidente del Consiglio regionale Provence-Alpes-Côte d’Azur, D. pone al centro dei suoi discorsi la regione. Per lui l’Europa è una volta di più l’occasione per interessarsi alla coniugazione di due dimensioni differenti e per promuovere riforme istituzionali interne. Nella prospettiva della costituzione di regioni transfrontaliere, si appropria dell’idea dell’“Europa delle regioni” – che rappresenta un mezzo per aggirare gli Stati nazionali e portare l’Europa verso una sovranazionalità e un federalismo più accentuati – per dimostrare la necessità di una modernizzazione del sistema istituzionale francese: la creazione della dimensione regionale deve accompagnarsi al decentramento di cui la regione è il perno. In quest’ottica nel 1972 presenta una proposta di legge sull’organizzazione regionale insieme al gruppo socialista e in seguito, divenuto ministro dell’Interno e del decentramento nel governo Mauroy (v. Mauroy, Pierre) nel maggio 1981, fa votare le leggi del decentramento.

Ma il decentramento risponde anche, e forse soprattutto, alle sue preoccupazioni di eletto locale. Quando D. difende di fronte al Parlamento il suo progetto di legge, i riferimenti all’Europa sono scarsi. Il decentramento, soluzione francese ad un problema francese, non sembra essere stato concepito in una prospettiva europea e, concedendo al dipartimento i principali trasferimenti di competenze – una concezione che gli attira le critiche dei militanti europei federalisti – si allontana dal “modello europeo di decentramento” (v. Delcamp, 1993). Tuttavia, allineando in certa misura la Francia alle strutture esistenti negli altri paesi europei, favorendone l’accesso ad una modernità istituzionale – giudicata da D. indispensabile per accompagnare la sua integrazione europea – il decentramento francese ha incontestabilmente una risonanza europea.

D., pur non figurando nel pantheon dei padri dell’Europa, è stato nondimeno un militante della causa europea, convinto che la sua battaglia fosse iscritta nel “senso della storia”.

Anne-Laure Ollivier (2010)




Deficit democratico

L’espressione “deficit democratico” viene frequentemente utilizzata, fin dagli anni Settanta, in relazione al funzionamento reale dei processi politici e decisionali (v. Processo decisionale) in seno all’Unione europea e precedentemente delle Comunità europee (v. Comunità europea del carbone e dell’acciaio; Comunità economica europea; Comunità europea dell’energia atomica). Con essa si vuole evidenziare l’insufficiente legittimazione democratica nella struttura organizzativa comunitaria, che si riflette conseguentemente sugli atti e le politiche da essa promossi (v. anche Diritto comunitario). L’esistenza di tale deficit democratico viene riconosciuta anche in documenti prodotti dalle stesse Istituzioni comunitarie, specie per giustificare alcune riforme, e in varie pronunce di Corti costituzionali nazionali (v. Corti costituzionali e giurisprudenza), tra cui la più rilevante appare quella del Bundesverfassungsgericht tedesco del 12 ottobre 1993, relativa alla legge tedesca di ratifica del Trattato di Maastricht.

All’origine, l’espressione era riferita essenzialmente agli scarsi poteri attribuiti all’istituzione parlamentare in seno alla struttura istituzionale comunitaria, che pur evolvendosi nel tempo da mero organo rappresentativo dei parlamenti nazionali (Assemblea) a vero e proprio Parlamento europeo eletto direttamente a suffragio universale dai cittadini (dal 1979 in poi) (v. Elezioni dirette del Parlamento europeo), concretamente non è mai riuscita ad assicurare il rispetto del principio della democrazia parlamentare a un livello comparabile con quello garantito nei singoli Stati membri.

In tale quadro la principale responsabilità del deficit democratico viene comunemente attribuita al ruolo preponderante assegnato dai Trattati al Consiglio (v. Consiglio dei ministri; Consiglio europeo) nel campo delle scelte politiche, ma ancor più in quello dell’adozione degli atti normativi europei. Essendo rappresentato nel Consiglio il potere esecutivo di ciascuno Stato membro piuttosto che quello legislativo, accade che collegialmente a livello europeo tali soggetti si ritrovino a esercitare poteri e ad adottare norme efficaci sull’insieme del corpo sociale europeo che sarebbero prerogativa degli organi parlamentari nei rispettivi ambiti nazionali.

In tutte le occasioni di Revisione dei Trattati la questione della legittimità democratica, nell’ambito della funzione legislativa comunitaria, si è imposta con forza crescente, e per porre rimedio a tale situazione è stata percorsa principalmente la strada del coinvolgimento sempre maggiore dell’organo direttamente rappresentativo dei cittadini, il Parlamento europeo, prevedendo percorsi decisionali in cui esso risulta detenere poteri paritari a quelli del Consiglio (Procedura di codecisione), in un numero sempre crescente di materie e ambiti di competenza (v. Competenze). Da più parti si ritiene, inoltre, che un coinvolgimento sempre più stretto dei parlamenti nazionali nel processo decisionale europeo, possa concorrere al miglioramento dei fondamenti di legittimazione degli atti comunitari.

Nell’ambito più generale del funzionamento delle istituzioni comunitarie, però, la persistenza di un deficit democratico è stata di volta in volta rilevata anche in situazioni che non sempre sono direttamente ed esclusivamente ricollegabili a un insufficiente rispetto del principio della separazione dei poteri. Rilevanza particolare assume a questo riguardo l’insieme di disposizioni o dati di fatto che rendono meno trasparente e poco efficace il rapporto tra coloro che prendono le decisioni a livello europeo e coloro che scelgono o dovrebbero scegliere i decisori (rappresentatività dei responsabili politici europei). Vengono solitamente comprese tra queste fattispecie sia la procedura di scelta dei membri della Commissione europea – in cui solo recentemente si è cominciato a riconoscere un certo peso anche al parere del Parlamento europeo –, sia la sostanziale scarsa responsabilità politica dei singoli membri del Consiglio, che il più delle volte non agiscono a livello europeo sulla base di mandati richiesti espressamente, su tali questioni, durante le campagne elettorali nazionali, e spesso nemmeno sulla base di precise direttive impartite dai rispettivi parlamenti.

Nel dibattito relativo al deficit democratico attribuito all’Unione europea si fa riferimento altresì al monopolio dell’iniziativa legislativa affidata alla Commissione europea (facoltà riconosciuta solitamente anche ai deputati nelle varie costituzioni nazionali) e all’ampio ricorso al Voto all’unanimità nelle deliberazioni del Consiglio., indubbiamente lesivo del principio in base al quale la volontà della maggioranza dei cittadini europei costituisce il fondamento ultimo della costruzione comunitaria.

Va sottolineato come il problema dell’attuale deficit democratico dell’Unione venga sollevato periodicamente sia da coloro che sostengono la necessità di progredire ulteriormente nel processo di integrazione europea, attuando incisive riforme che tendano a un modello di organizzazione di tipo federale (v. anche Federalismo) in grado di compensare le attuali imperfezioni negli equilibri istituzionali e nell’efficacia delle diverse politiche, sia da coloro che si oppongono al trasferimento di competenze e, quindi, della sovranità a livello europeo, ritenendolo intrinsecamente inadeguato a garantire il controllo da parte del cittadino. Ciò dimostra che qualsiasi soluzione proposta per diminuire il deficit democratico non possa essere separata dalle diverse interpretazioni avanzate sia sul concetto più generale di democrazia, sia sulla natura stessa dell’Unione europea, in cui convivono elementi intergovernativi e sopranazionali.

Con il testo del Trattato che adotta una Costituzione europea, firmato a Roma il 29 ottobre 2004, al titolo VI (artt. da I-45 a I-52) denominato “La vita democratica dell’Unione”, si tenta di dare una definizione più precisa della democrazia perseguita a livello europeo. Tra gli elementi più rilevanti introdotti vi è quello dell’espresso riconoscimento del principio della democrazia partecipativa accanto a quello della democrazia rappresentativa.

Più recentemente il problema del deficit democratico viene sollevato anche in relazione alle difficoltà dei cittadini di venire correttamente informati sulle vicende politiche europee e sul funzionamento delle sue istituzioni, nonché alla difficoltà di formazione di una vera e propria opinione pubblica europea (v. anche Opinione pubblica ed Europa)

Stefano Milia (2007)