Dialogo euro-arabo

Inquadramento storico

Nell´ambito della Comunità economica europea, la questione dei rapporti con i paesi terzi del Mediterraneo (PTM) sorge negli anni Sessanta, soprattutto tramite la Francia, interessata a mantenere i legami commerciali preferenziali derivanti dal passato rapporto coloniale con alcuni paesi del Nordafrica. Tuttavia, si deve aspettare il Vertice di Parigi del 19 ottobre 1972 per definire un accordo e programma sulla strategia di cooperazione con i paesi mediterranei. Nasce così la Politica globale mediterranea, che copre il periodo che va dal 1976 al 1990. L’asse centrale di questo approccio cooperativo è il libero accesso ai mercati della Comunità per i manufatti dei paesi del Sud. Ne sono esclusi i prodotti agricoli (v. anche Processo di Barcellona; Partenariato euromediterraneo).

Nonostante i propositi, i risultati per entrambi le parti sono deludenti. Le ragioni si devono, soprattutto, alla crisi del settore tessile europeo che impone “autolimitazioni” alle esportazioni verso l’area mediterranea e alle conseguenze dell’allargamento della Comunità verso i paesi europei del Sud (Spagna, Grecia e Portogallo) con la conseguente competizione nel mercato dei prodotti agricoli.

La crisi petrolifera del 1973 apre un nuovo ciclo di rapporti, dovuto alla presa di coscienza dei paesi europei della loro dipendenza reale verso il mondo arabo per via dei rifornimenti di petrolio. Nel 1974 nasce il Dialogo euro-arabo, un forum permanente per la discussione e il dialogo su temi d´interesse comune, che, comunque, non prevede una cooperazione strutturata e approfondita. L´approccio precipuo della politica verso i PTM è di firmare accordi individuali con ciascun paese. L´approccio si differenzia dall´altro dominio simile di politica estera della Comunità, quello per i paesi degli Stati dell’Africa sub sahariana, Carabi e Pacifico (ACP), basato su un accordo globale tra la Comunità e il gruppo. La Comunità firma Accordi di Associazione con Turchia, Malta e Cipro. Con gli altri paesi si concludono, invece, solo accordi di cooperazione che prevedono relazioni commerciali privilegiate. La Politica globale mediterranea non soddisfa i PTM, che vedono aumentare le differenze economiche e sociali tra loro e i paesi europei. Le differenze economiche sono la causa principale dell´aumento dei problemi di stabilità nell’area e dell´emigrazione verso l´Europa. L´aumento dei flussi migratori e l’ascesa di movimenti islamisti nel nord Africa (principalmente la vittoria alle elezioni legislative del partito islamista, Fronte islamico di salvezza, in Algeria nel 1991), destano allarme e la Comunità europea diventa fortemente preoccupata per la stabilità nel Mediterraneo.

Tale preoccupazione porta l’Unione europea, agli inizi degli anni Novanta, a riformulare la strategia nel Mediterraneo. Nel 1990 la Commissione europea presenta il documento, “Un nuovo profilo per la politica mediterranea – Proposta per il periodo 1992-1996”, che costituisce l’avvio di una nuova politica, definita “Politica mediterranea rinnovata”. Sono anche adottati programmi di assistenza specifici come i Programmi integrati mediterranei (MED), tesi ad aiutare lo sviluppo economico, tecnologico e sociale nei PTM. Successivamente, vengono migliorati gli accordi bilaterali di cooperazione o di associazione conclusi in precedenza.

Gli anni Novanta e il Processo di Barcellona

Durante gli anni Novanta, la stabilità e lo sviluppo nel Mediterraneo diventano in misura crescente questioni all’ordine del giorno. L´Unione europea (UE) decide di dare maggiore attenzione al Mediterraneo. Il 27 e 28 novembre 1995 viene celebrata a Barcellona la prima Conferenza ministeriale euro-mediterranea (v. Processo di Barcellona). Dopo due decenni di intensi scambi commerciali su base bilaterale, questa iniziativa inaugura un vero e proprio “Spazio euromediterraneo”, un quadro globale di cooperazione che include tutti i paesi, concepito come un unico insieme politico e geografico. La conferenza ha gettato le basi di un quadro multilaterale che associa strettamente gli aspetti economici e di sicurezza e comprende, inoltre, le dimensioni umana, sociale e culturale.

La conferenza rappresenta una vera svolta: per la prima volta i quindici paesi membri dell’Unione europea e dodici paesi del sud e dell’est del Mediterraneo (Algeria, Tunisia, Marocco, Egitto, Israele, Giordania, Autorità nazionale palestinese, Libano, Siria, Turchia, Cipro e Malta) si accordano su un documento finale (Dichiarazione sul partenariato euromediterraneo) e su un programma di attività per metterlo in atto. L´idea su cui si impernia la conferenza è che la stabilità economica e politica, condizione per garantire la sicurezza dell’area, dovrà essere attuata attraverso la realizzazione entro il 2010 di una zona di libero scambio comprendente i paesi del bacino mediterraneo. Il programma è anche centrato sui temi dell’assistenza e del dialogo reciproco nei settori della sicurezza, del rispetto delle diversità culturali e religiose e della tutela dei Diritti dell’uomo. I 12 paesi che si affacciano sul bacino del Mediterraneo (Malta e Cipro sono diventati membri dell’UE il 1° maggio 2004) sono legati all’Unione europea da accordi di vario tipo ed intensità. In effetti, il partenariato euro-mediterraneo viene realizzato su due livelli complementari: la dimensione bilaterale, che riguarda le relazioni bilaterali fra l’UE e ciascuno dei PTM (che poggiano sugli Accordi euromediterranei di associazione) e la dimensione regionale che riguarda l’UE e i PTM nel loro complesso e si occupa di temi e problemi comuni ai partner mediterranei. L’aspetto bilaterale della politica euromediterranea si concretizza attraverso la stipulazione di Accordi di associazione tra l’UE e i 10 paesi della sponda meridionale del Mediterraneo. Attualmente i paesi che hanno già firmato tali accordi sono: Tunisia (firmato nel 1995 ed entrato in vigore nel 1998), Israele (firmato nel 1995 ed entrato in vigore nel 2000); Marocco (firmato nel 1996 ed entrato in vigore nel 2000); Territori autonomi palestinesi (firmato ed entrato in vigore nel 1997); Giordania (firmato nel novembre 1997 ed entrato in vigore nel 2002). Gli accordi con Egitto (2001), Libano e Algeria (2002), sono in corso di ratifica. La Siria è ancora in fase negoziale. La Libia non rientra nel partenariato ma gode, per il momento, dello status di “osservatore” e come tale viene invitata a essere presente ai vertici. Cipro e Malta, che rientravano nei PTM, sono entrati nell´UE nel 2004. La Turchia rientra tra i PTM, ma gode anche dello status di “paese candidato all’adesione” e quindi partecipa anche alle iniziative di preparazione all’adesione (v. Paesi candidati all’adesione).

L’approccio regionale si focalizza su tre assi principali. Il primo, relativo alla politica e alla sicurezza, mira a creare un’area comune, in cui predomini la pace e la stabilità, con l’implementazione di azioni comuni volte a garantire la sicurezza ed il rispetto dei diritti umani, della democrazia e dello Stato di diritto. L’asse economico e finanziario si propone di creare un’area di prosperità condivisa attraverso un partenariato economico e finanziario da realizzarsi progressivamente, in primo luogo, attraverso una zona di libero scambio entro il 2010, che dovrebbe generare benefici economici comuni a lungo termine, grazie ad un maggior flusso di investimenti e alla riallocazione delle risorse europee nei paesi che attualmente beneficiano dei Fondi MEDA. Il terzo asse, relativo alla dimensione culturale, sociale e umana, ha l´obiettivo non solo di avvicinare i sistemi politici ed economici, ma anche di favorire l’incontro tra le diverse culture e i diversi popoli, in modo da far sì che l’integrazione tra i paesi coinvolti sia completa, facendo leva sulla società civile, la cooperazione decentrata e le organizzazioni non governative (ONG).

Il programma MEDA è il principale strumento finanziario del Partenariato euromediterraneo, con 5.458 milioni di euro stanziati dal 1995 al 2004. Un’altra importante fonte di finanziamento è la Banca europea per gli investimenti (BEI) che eroga prestiti destinati a finanziare progetti di sviluppo. Dal 2004 i PTM (esclusa la Turchia, ma con l’aggiunta della Libia e di alcune delle ex repubbliche sovietiche), rientrano nella nuova “Politica di prossimità” (2004) e dal 2007 beneficiano dello strumento di finanziamento della Politica europea di vicinato o ENPI (European neighbourhood policy instrument).

Dalla prima Conferenza di Barcellona, si sono svolte altre 7 Conferenze coinvolgendo i ministri degli Esteri, oltre a due Conferenze “informali” e ad una serie di riunioni ministeriali che hanno riguardato settori specifici di cooperazione. Il 27 e 28 novembre 2005, a dieci anni dalla prima Conferenza di Barcellona, la medesima città ha ospitato la Conferenza euromediterranea “Barcellona +10”. Il vertice, che per la prima volta doveva riunire gli Stati partecipanti a livello di capi di Stato e di governo per testimoniare l’importanza attribuita alla cooperazione con i PTM (sottolineata anche dal fatto che il 2005 era l’“anno del Mediterraneo”), non ha riscontrato il successo sperato: i paesi arabi, ad eccezione di Turchia e Palestina, non si sono fatti rappresentare dai capi di Stato e ciò ha conseguentemente ridotto l’impatto del vertice. Oggetto di contrasto è stata in particolare la definizione di terrorismo (ovvero la distinzione, inaccettabile per l’Europa, fra terroristi e resistenti o liberatori, cioè coloro che usano violenza per liberare il proprio paese da una situazione di “occupazione”). ll progresso del partenariato risente molto dell´impasse nel conflitto arabo-israeliano. Il Processo di Barcellona non ha l´ambizione di sostituirsi alle altre azioni ed iniziative intraprese a favore della pacificazione, della stabilità e dello sviluppo della regione, ma l’assenza di una soluzione al conflitto palestinese-israeliano è un importante fattore di divisione e continua ad avvelenare le relazioni dei partner Euromed. Il deterioramento della situazione nel conflitto in questione ha finito quasi per bloccare il Processo di Barcellona, dimostrando la preponderanza dei fattori “sicurezza” sulla operatività di tale processo.

Maria do Céu Pinto (2007)




Dialogo sociale

Nell’ambito del negoziato sul Piano Schuman, Jean Monnet e altri delegati ritennero opportuno avviare una qualche forma di cooperazione con i rappresentanti dei sindacati anticomunisti (v. anche Parti sociali). Era infatti evidente che le decisioni della futura Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) avrebbero interessato migliaia di lavoratori di questi due settori; inoltre, nel clima di contrapposizione frontale determinato dalla Guerra fredda appariva necessario che il processo di integrazione godesse del consenso più ampio possibile. Da parte loro, alcune organizzazioni sindacali, in particolare quelle di ispirazione cattolica, come l’italiana Confederazione italiana dei sindacati dei lavoratori (CISL), vicine a partiti direttamente impegnati nella scelta europea, mostrarono attenzione e interesse verso il processo di integrazione (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Fu dunque all’interno della CECA, in particolare nel contesto del Comitato consultivo, che nacquero le prime forme di dialogo e collaborazione fra gli organismi europei, i sindacati e le rappresentanze delle associazioni padronali.

Il modello proposto con la CECA non venne però seguito in occasione del “rilancio dell’Europa” e della creazione della Comunità economica europea (CEE) e della Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom). Non solo le forze sociali non vennero coinvolte nelle trattative per la redazione dei Trattati di Roma, ma ad esse il trattato CEE riservava altresì un ruolo marginale all’interno di un organo consultivo, il Comitato economico e sociale; nel corso degli anni Sessanta, d’altronde, anche i sindacati non comunisti e le loro organizzazioni internazionali parvero mostrare un minore interesse verso il processo di integrazione, il quale trovava espressione nella formazione di un’Unione doganale. Il “maggio francese” e gli analoghi fenomeni verificatisi in altri paesi europei con un evidente spostamento a sinistra determinarono una maggiore combattività da parte dei sindacati e un loro desiderio di contare maggiormente sul piano politico. La fine del periodo di espansione economica che aveva caratterizzato la seconda metà degli anni Cinquanta e tutti gli anni Sessanta, nonché l’esplodere di una grave crisi economica internazionale, fecero comprendere ai vertici sindacali dei paesi europei che i problemi presentatisi avrebbero dovuto trovare soluzione in un contesto continentale. Si ritenne inoltre che la costruzione europea e le Istituzioni comunitarie dovessero tenere conto in maniera crescente delle esigenze dei lavoratori, favorendo ad esempio l’avvio di una efficace Politica sociale europea.

Nel 1970 si teneva a Lussemburgo, in ampia misura per iniziativa del ministro italiano del Lavoro Carlo Donat Cattin, la prima conferenza “tripartita”, che vedeva riuniti delegati delle organizzazioni sindacali europee, della Commissione europea, dei governi e delle associazioni imprenditoriali (v. anche Unione delle industrie della Comunità europea). In tale sede si decideva di creare un Comitato per l’occupazione permanente. Nel 1973, inoltre, veniva istituita la Confederazione europea dei sindacati (CES), alla quale aderivano non solo le maggiori organizzazioni non comuniste dell’Europa occidentale, ma anche la Confederazione generale italiana del lavoro (CGIL). Ciò nonostante, forse anche a causa degli scarsi risultati delle prime iniziative comunitarie in tema di politica sociale e del ruolo giocato da alcune centrali sindacali tradizionalmente scettiche sulla costruzione europea, quali ad esempio le unions britanniche, nel corso degli anni Settanta la CES parve non farsi coinvolgere nelle dinamiche comunitarie. L’arrivo al potere nel Regno Unito di Margaret Thatcher e di Ronald Reagan negli Stati Uniti segnavano l’avvio di una fase “neoliberista” nell’economia occidentale, nel cui contesto il ruolo dei sindacati appariva destinato a indebolirsi.

La nomina di Jacques Delors alla guida della Commissione determinò un “rilancio” europeo, che nel campo economico mostrava un apparente allineamento a scelte “liberiste”, ad esempio nella volontà di creare un efficace Mercato unico europeo. Ma Delors, oltre a essere stato ministro delle Finanze con François Mitterrand, proveniva da un’esperienza sindacale e riteneva che alle scelte liberiste si dovesse affiancare un costruttivo “dialogo sociale” che consentisse alle forze sindacali europee di trovare uno spazio nella nuova architettura comunitaria delineata dal presidente della Commissione con il sostegno di Mitterrand e di Helmut Josef Michael Kohl.

Nel gennaio del 1985 una delle prime mosse di Delors fu la convocazione di una conferenza a Val Duchesse che vedeva riuniti i rappresentanti della Commissione, delle associazioni imprenditoriali e dei sindacati. Si sviluppava così un “dialogo sociale” che non si sarebbe più interrotto. Le intenzioni della Commissione trovavano varia espressione: dal progetto di Carta dei diritti sociali fondamentali (v. anche Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori), al cosiddetto “capitolo sociale” del Trattato di Maastricht, all’attenzione del Trattato di Amsterdam verso il problema dell’occupazione (v. anche Protocollo sulla politica sociale). Ciò nonostante e a dispetto del crescente interesse mostrato dalla CES, i risultati del “dialogo sociale” vengono spesso considerati marginali, soprattutto perché, al di là di una serie di pur importanti provvedimenti normativi presi dalla Unione europea, il ruolo dei sindacati nel Processo decisionale comunitario resta limitato.

Antonio Varsori (2006)




Diana, Alfredo

D., nato a Roma nel 1930, dopo essersi laureato in Scienze agrarie presso l’Università di Napoli si dedicò all’amministrazione e gestione delle proprie aziende agricole, perfezionando così le sue conoscenze in campo agricolo e sperimentando nuove tecniche.

Il 14 maggio 1969 fu eletto presidente della Confagricoltura e mantenne la carica sino al 1977. La strategia del nuovo presidente aveva alcune caratteristiche molto innovative, in particolare riguardo alla ristrutturazione organizzativa della Confederazione, in modo da renderla in grado di affrontare i cambiamenti nazionali e comunitari. Prioritaria, però, in tutta la sua azione, fu la volontà di impedire cambiamenti radicali in una situazione politica nazionale che egli riteneva grave e pericolosa. Benché la Confederazione tenesse ad essere percepita come non schierata politicamente, i principali partiti di riferimento rimanevano il Partito liberale e la Democrazia cristiana (DC), per la quale lo stesso D. invitò a votare per impedire l’ascesa del partito comunista e tentare di superare il centro-sinistra che egli riteneva esperimento pericoloso e deleterio per il paese. Inoltre, è proprio tra le fila di questi partiti che furono cercati parlamentari di riferimento, attraverso i quali influenzare le scelte politiche del governo.

Con D. si assiste alla trasformazione di Confagricoltura da sindacato datoriale in vero e proprio gruppo di pressione, attraverso un potenziamento avvenuto sia a livello regionale e nazionale, sia comunitario. Tale politica ebbe un risultato tangibile, dimostrato dall’aumento degli associati, in particolare fra le imprese familiari coltivatrici. La vasta azione di modernizzazione e razionalizzazione operata da D. e dalla nuova classe dirigente si concretizzò nella innovativa riforma dello statuto federale che invertì la tendenza, iniziata nel dopoguerra, alla verticalizzazione e centralizzazione.

Particolarmente incisiva e innovativa fu l’azione nei confronti della Politica agricola comune (PAC), nel tentativo di creare una Confederazione in grado di sostenere una modernizzazione tale da reggere la concorrenza con gli altri paesi europei, la creazione di canali formalizzati di pressione sulla definizione delle scelte politiche operate a livello europeo e la capacità di accogliere e applicare tali decisioni. L’Italia sembrava incapace di produrre politiche agricole adeguate; in particolare D. riteneva che la Democrazia cristiana non solo non fosse in grado di proporre politiche adeguate, ma che andasse al carro dei partiti di sinistra, impedendo sia al governo che alla Comunità economica europea (CEE) di incidere in un settore tanto vitale, soprattutto per quanto riguardava la politica delle strutture agricole. Basti ricordare che, proprio negli stessi anni, la legge italiana di recepimento delle direttive sociostrutturali della Comunità fu approvata soltanto nel 1975; oltre al ritardo di tre anni, ci fu anche la maggiore lentezza nell’emanazione degli atti normativi e applicativi di competenza delle regioni. La scelta di D. di rendere la Confagricoltura più operativa ed efficace a livello comunitario trovò la sua formalizzazione nella creazione di un Centro studi, con l’obiettivo di approfondire soprattutto le scelte politiche ed economiche per mettere la Confederazione in grado di incidere a livello nazionale ed europeo nella formulazione di politiche agricole vere e proprie. Il Centro studi doveva essere articolato in tre sezioni, una delle quali dedicata alla politica comunitaria e ai problemi internazionali, scelta fortemente innovativa rispetto alle altre organizzazioni agricole italiane.

D. continuò la sua azione ricoprendo ruoli di grande rilevanza politica: parlamentare europeo (eletto nelle liste della DC) dal 1979 e senatore della Repubblica nella IX (1983) e X legislatura (1987). Ricoprì inoltre il ruolo di ministro dell’Agricoltura e delle foreste nel primo governo di Giuliano Amato e di ministro per il Coordinamento delle politiche agricole e, successivamente, delle risorse agricole, alimentari e forestali nel governo Ciampi (v. Ciampi, Carlo Azeglio).

In qualità di parlamentare europeo, gran parte del lavoro e della azione di D. si sono concentrate sulla politica agricola; per questo è stato membro della Commissione per l’agricoltura oltre che membro della Delegazione al comitato misto Parlamento europeo/Corti spagnole. Numerosi sono stati gli interventi nell’aula parlamentare e tutti dedicati all’agricoltura. In uno dei suoi primi discorsi in Parlamento, dell’ottobre 1979, D. introdusse gran parte dei temi che poi riprenderà a più riprese negli anni successivi e che sintetizzano le sue opinioni riguardo la PAC. Il discorso si basava su una riflessione in merito alle ricadute a livello nazionale della PAC, in particolare all’importanza del principio di solidarietà sovranazionale, previsto dai Trattati di Roma, sul quale D. riteneva non ci dovessero essere ripensamenti anche in momenti particolarmente difficili per il bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea), perché Secondo D. la solidarietà nei confronti delle aree più povere della Comunità era l’elemento cruciale che rendeva la CEE qualcosa di diverso da una semplice area di libero scambio. Tale riflessione lo portò ad essere fermamente favorevole all’allargamento ai tre paesi dell’Europa meridionale, nonostante potessero essere pericolosi competitori dal punto di vista agricolo. Era un discorso che evidenziava tutti gli elementi centrali del dibattito sulla politica agricola, mettendone in luce tutte le principali difficoltà e i mancati obiettivi, rispetto a quanto previsto dal Trattato istitutivo (v. anche Trattati).

Riguardo agli effetti della PAC, D. metteva in discussione soprattutto i risultati conseguiti dall’obiettivo di un avvicinamento dei redditi, ritenendo che in alcuni paesi il divario fosse addirittura aumentato, come in Italia. Gli squilibri erano dovuti principalmente ai ritardi in alcune politiche, tra le quali la Politica sociale, regionale (v. Politica di coesione) e la Politica industriale. Inoltre un rilievo eccessivo era stato dato alla politica dei prezzi rispetto a quella delle strutture e maggior sostegno accordato alle produzioni continentali. Come D. avrà più volte occasione di ricordare in Parlamento, un altro elemento fondamentale del mancato sviluppo delle zone più povere e depresse stava nella scarsa attuazione delle politiche strutturali. In particolare, D. richiamava l’attenzione del Parlamento sulla necessità di rendere le direttive comunitarie obbligatorie (v. Direttiva), impedendo che ogni membro comunitario potesse, con la propria azione, impedirne, diluirne o posticiparne a lungo l’applicazione. Il punto centrale, più volte ripreso negli interventi dei primi anni Ottanta (caratterizzati da difficili discussioni all’interno del Parlamento europeo), riguardava il bilancio: nel tentativo di giustificare e salvaguardare la spesa della PAC, D. sottolineava l’esigenza di aumentare notevolmente il bilancio, perché riteneva che l’idea di rendere operative altre politiche necessarie allo sviluppo europeo soltanto risparmiando sulle spese agricole fosse impossibile. Inoltre, le spese agricole non dovevano essere tagliate, bensì incentivate, perché la gran parte degli obiettivi posti dal Trattato di Roma e ripresi dalla Conferenza di Stresa sulla PAC non erano ancora stati raggiunti. Nella sua attività di parlamentare europeo D. fu difensore degli agricoltori italiani delle zone agricole meno sviluppate della Comunità e dei prodotti agricoli mediterranei.

Oltre agli impegni prettamente politici, D. ha svolto ruoli di particolare importanza in confederazioni e consigli nazionali: vicepresidente del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro dal 1977 al 1980; governatore per l’Italia dell’International fund agricoltural development dall’agosto 1997 al luglio 1999; membro del consiglio d’amministrazione dell’Istituto centrale per il sostentamento del clero; presidente della ricostituita Società italiana degli agricoltori. Dal dicembre 1981 all’ottobre 2001 è stato presidente della Federazione nazionale dei Cavalieri del lavoro, della quale è ora presidente onorario. È accademico emerito dell’Accademia dei Georgofili.

Giuliana Laschi (2010)




Dichiarazione di Stoccarda

Nei primi anni Ottanta il processo di integrazione europea attraversò una fase di stasi determinata dalla generalizzata e perdurante crisi economica internazionale (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), dalla crescente concorrenza degli Stati Uniti e del Giappone, dalla paralisi provocata dalla richiesta del governo di Margaret Thatcher di riconsiderare il contributo della Gran Bretagna (v. Regno Unito) al bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea), e dalle difficili relazioni con gli Stati Uniti. Furono però anni caratterizzati anche da un clima di grande fermento, in cui si sviluppò un animato dibattito sul tema della riforma delle Istituzioni comunitarie. Le sfide di natura economica poste alla Comunità sul piano interno e su quello internazionale rendevano necessario ripensarne i meccanismi del Processo decisionale al fine di renderne l’azione più snella ed efficiente, e richiedevano un’energica iniziativa per il rilancio dell’integrazione. La crisi latente nei rapporti con gli Stati Uniti, che aveva attraversato gli anni Settanta e che non sembrava destinata a normalizzarsi dopo l’elezione di Ronald Reagan, costituiva un’ulteriore spinta in direzione del rafforzamento della Cooperazione politica europea (CPE) e a dotarla di strumenti istituzionali adeguati. Inoltre, il Parlamento europeo, eletto per la prima volta a suffragio universale nel giugno del 1979 (v. Elezioni dirette del Parlamento europeo), rivendicava un ruolo nella formazione delle politiche comunitarie che i Trattati istitutivi non gli riconoscevano: il rifiuto di approvare il bilancio, che segnò l’apogeo del conflitto tra le istituzioni della Comunità e ne intralciò l’attività, era il segnale dell’insofferenza del Parlamento e della sua determinazione a sfruttare gli strumenti di cui disponeva per ottenere maggiore visibilità e maggiori poteri. Del resto, la questione del deficit democratico della Comunità era da sempre avvertita come un limite della costruzione europea, e accrescere le competenze della sola istituzione rappresentativa significava fornire una prima risposta, seppur parziale e insufficiente, al problema. Il recente Allargamento della Comunità alla Grecia e la prospettiva del prossimo ingresso della Spagna e del Portogallo richiedevano una redistribuzione dei seggi in seno alle istituzioni.

Tra il 1980 e il 1984 si moltiplicarono le iniziative volte a rilanciare il processo di integrazione, fra cui si distinsero quella della Commissione che, incaricata dal Consiglio dei ministri di trovare una soluzione alla questione del budget, approvò un progetto complessivo di riforma, e quella del cosiddetto “Club del Coccodrillo”, che elaborò il progetto di Trattato approvato dal Parlamento europeo nel febbraio 1984 (v. anche Atto unico europeo).

In questa cornice si collocò l’azione del ministro degli Esteri tedesco Hans-Dietrich Genscher e dall’ex Presidente del Consiglio italiano e presidente del Parlamento europeo Emilio Colombo, che sfociò nella solenne Dichiarazione sull’Unione europea approvata dal Consiglio europeo di Stoccarda nel giugno 1983. Il primo, a capo della diplomazia tedesca nel governo del Cancelliere Helmut Josef Michael Kohl, avrebbe in seguito svolto un ruolo di primo piano nell’accelerazione dell’integrazione, con l’appoggio al Mercato unico europeo, e nel processo di riunificazione tedesca (v. Germania); se tuttavia nella fase successiva il ministro Genscher fu fautore convinto del rafforzamento dell’asse franco-tedesco, esordì sulla ribalta europea come promotore di un’iniziativa italo-tedesca. In due discorsi pronunciati rispettivamente a Stoccarda e a Firenze nel gennaio del 1981, Genscher e Colombo affrontarono la questione della riforma delle Comunità europee evidenziando la necessità di procedere in direzione del rafforzamento della cooperazione politica europea inaugurata dopo la Conferenza dell’Aia, dello sviluppo di una politica di difesa (v. anche Politica europea di sicurezza e difesa), e dell’ampliamento dei poteri del Parlamento. Emergeva da questi interventi una significativa convergenza tra il governo italiano e quello tedesco, che fu confermata nel corso dei mesi successivi sia in sede europea, sia nell’ambito delle consultazioni convocate al fine di coordinare i programmi di rilancio europeo, sia infine in occasione degli incontri al vertice tra i due ministri.

L’esito di questa intensa attività diplomatica fu sintetizzato nel testo consolidato del progetto italo-tedesco di Atto europeo, e dalla Dichiarazione sui temi dell’integrazione economica.

L’Atto europeo indicava gli obiettivi da perseguire nello sviluppo di una politica estera comune (v. anche Politica estera e di difesa comune), nella concertazione in materia di sicurezza e nello sviluppo di un’azione comune per la lotta al terrorismo internazionale (v. anche Lotta contro il terrorismo), nella cooperazione culturale, e nella creazione di un’unione giuridica. Sul piano istituzionale, il documento italo-tedesco proponeva il rafforzamento del Parlamento e del Consiglio europei (v. Consiglio europeo), una sostanziale riforma delle procedure di voto in seno al Consiglio dei ministri (v. Voto all’unanimità), e lo sviluppo della cooperazione politica europea attraverso il potenziamento del ruolo della Presidenza dell’Unione europea. L’annesso progetto di dichiarazione poneva l’accento sul completamento dell’integrazione economica, e sottolineava la necessità di procedere all’allargamento della Comunità economica europea alla Spagna e al Portogallo.

Dopo l’approvazione da parte dei governi di Roma e Bonn, il 12 novembre 1981 il progetto fu illustrato al Parlamento europeo e al Consiglio dei ministri del Consiglio d’Europa, e in seguito fu sottoposto al Consiglio europeo di Londra, che accolse con soddisfazione l’iniziativa italo-tedesca, ma si limitò a prendere nota delle proposte contenute.

Il Consiglio europeo conferì inoltre mandato ai ministri degli Esteri di esaminare i documenti presentati dai governi italiano e tedesco, e di predisporre un rapporto da sottoporre al successivo Consiglio europeo. Riunitisi a Bruxelles nel gennaio 1982, i ministri affidarono tale compito a un “gruppo ad hoc”, composto da alti funzionari nominati dai governi, in seguito incaricato di redigere un documento comune.

I nodi più impegnativi del negoziato riguardarono i poteri da attribuire al Parlamento europeo e le modalità di voto in seno al Consiglio dei ministri (la Gran Bretagna, la Danimarca e la Grecia si opponevano al superamento del Compromesso di Lussemburgo che garantiva agli Stati membri il potere di veto). Emerse inoltre l’indisponibilità da parte della Gran Bretagna ad accettare che il documento comune assumesse la denominazione di Atto, circostanza che avrebbe reso necessaria la ratifica da parte del Parlamento, e per questa ragione alla riunione del 1° marzo 1982 si approvò la proposta di una Dichiarazione solenne.

Raggiunto l’accordo circa il contenuto in occasione della riunione informale svoltasi tra i ministri degli Esteri a Gymnich, la solenne Dichiarazione sull’Unione Europea fu sottoscritta al Consiglio europeo di Stoccarda il 19 giugno 1983.

Suddivisa in tre capitoli (Istituzioni, Campo d’azione e Disposizioni finali), la Dichiarazione riconosceva al Consiglio europeo il ruolo di impulso politico generale, attribuiva al Consiglio dei ministri la facoltà di discutere «le materie che riguardano la cooperazione politica», prefigurando in tal modo il superamento della separazione tra le politiche comunitarie e la Cooperazione politica europea, ma ometteva ogni riferimento esplicito all’applicazione del voto a Maggioranza qualificata; infine, si limitava ad attribuire al Parlamento europeo il potere di discutere «su tutte le materie di competenza dell’Unione europea, compresa la Cooperazione politica europea», la facoltà di presentare interrogazioni e di essere informato dal Consiglio e dalla Commissione sulle questioni di maggiore importanza, e di obbligare la Presidenza a presentare il proprio programma all’inizio del semestre e un rapporto sui progressi realizzati alla fine del periodo di turno.

Nonostante la portata limitata e la natura non vincolante delle innovazioni introdotte, la Dichiarazione di Stoccarda contribuì a riavviare il dibattito relativo alla riforma della Comunità che tre anni dopo condusse all’approvazione dell’Atto unico europeo.

Daniela Vignati (2008)




Dichiarazione Transatlantica

Sottoscritta il 22 novembre 1990, la Dichiarazione transatlantica ha come scopo di realizzare un più stretto coordinamento economico e politico su obiettivi comuni tra l’Unione europea (UE) e gli Stati Uniti d’America (USA), mediante riunioni periodiche e conferenze informative tenute ai massimi livelli, a partire dalla Presidenza dell’Unione europea (e della Commissione europea) e presidente degli USA.

Nel successivo vertice del 3 dicembre 1995 tale cooperazione è stata rafforzata con l’adozione di una dichiarazione d’impegno politico, la Nuova agenda transatlantica (NAT), e di un Piano di azione comune, riguardanti i principali problemi mondiali: pace e sicurezza, democrazia e Stato di diritto; tutela dell’ambiente; risposta alle sfide globali (Lotta contro il terrorismo, lotta contro la criminalità internazionale e il traffico di droga, proliferazione delle armi nucleari, chimiche e biologiche); assistenza ai paesi in via di sviluppo; sostegno al processo di riforma nei paesi dell’Europa centrale e orientale; aiuto gli scambi economici mondiali; intensificazione delle relazioni economiche.

La Dichiarazione transatlantica si inquadra nei rapporti tra gli USA e gli Stati dell’Europa occidentale, iniziati con il Piano lanciato il 5 giugno 1947 dal segretario di Stato americano (v. Piano Marshall), George Marshall, con lo scopo di sostenere finanziariamente, dopo la fine della Seconda guerra mondiale, la ricostruzione delle distrutte economie dei paesi europei. Il Piano, nell’intenzione del governo americano, aveva soprattutto lo scopo di dare vita ad una Organizzazione comune tra i paesi europei, che avrebbe dovuto gestire unitariamente gli aiuti. Tale condizione non fu realizzata, facendo cadere la possibilità di creare le basi per una comunità europea.

Considerati alcuni progressi dell’UE, dopo il 1995, con la creazione della moneta unica (v. Euro; Unione economica e monetaria), con la nomina di un Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza (v. anche Politica estera e di sicurezza comune) e con l’Allargamento a nuovi paesi, in occasione del vertice UE-USA nel giugno 1999, è stato deciso di promuovere una cooperazione sempre più stretta nei settori già delineati nel 1995 e di identificare le nuove priorità emerse nel corso degli ultimi quattro anni.

In generale, la NAT ha favorito, sul piano economico, un alto livello di integrazione tra gli USA e l’UE, sia nello scambio dei prodotti, e dei servizi, sia in quello degli investimenti diretti all’estero, oltre a contribuire a un maggiore equilibrio delle loro relazioni commerciali. Tuttavia, se sul piano economico vi è stato spesso accordo, anche se a volte con difficoltà (per esempio in materia di agricoltura, trasporti aerei, telecomunicazioni, audiovisivi), rilevanti divergenze si sono manifestate sul piano politico riguardo, tra le altre cose, alle differenti politiche adottate verso Cuba, il Medio Oriente, l’Iraq e l’Iran.

Sul piano commerciale, sia al Vertice UE-USA, tenutosi a Londra nel maggio 1998, che, soprattutto, quello tenuto a Bonn nell’anno successivo, malgrado siano stati superati alcuni conflitti, si è costatata la necessità di prevenire i contenziosi al fine di risolverli prima che si trasformino in conflitti che pregiudichino i rapporti commerciali. A Londra si è anche stabilito di non approvare un nuovo aggiornamento del NAT, ma di dare vita a un sistema di Partenariato economico transatlantico (PET), che prevede una maggiore liberalizzazione degli scambi sul piano multilaterale per favorire un maggiore sviluppo delle relazioni commerciali tra l’UE e gli USA.

Nel quadro del NAT un ruolo interessante va assumendo la collaborazione tra il Parlamento europeo e la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, le cui rispettive delegazioni hanno adottato, nella riunione interparlamentare svoltasi a Strasburgo il 15 e 16 gennaio 1999, una risoluzione nella quale viene affermata la volontà di rafforzare e potenziare i rapporti tra le due istituzioni.

Sulla base della Dichiarazione transatlantica si sono sviluppate a partire dal 1990, attraverso consultazioni regolari a tutti i livelli, relazioni di cooperazione sia politica, sia economica e commerciale tra l’UE e il Canada. Tali consultazioni troveranno, nel dicembre 1996, la loro definizione sia in una Dichiarazione politica che riguarda i principi generali delle loro relazioni, fondate su comuni tradizioni democratiche e su legami politici, economici e commerciali, sia in un Piano d’azione che indica i settori di cooperazione, i quali ricalcano in gran parte quelli della NAT.

Edmondo Paolini (2008)




Difensore civico

Il difensore civico negli Stati dell’Unione europea: uno sguardo d’insieme

L’istituto del difensore civico, meglio conosciuto come Ombudsman, nasce all’inizio dell’Ottocento in Svezia quale organo ausiliario del Parlamento deputato al controllo della legalità e della regolarità dell’azione amministrativa. Istituito dapprima come organo indipendente, affrancato dall’esecutivo nella penisola scandinava e, poi, in tutto il territorio dell’Unione europea, esso si presenta, ora e ovunque, come organo promotore della buona amministrazione e garante degli interessi individuali del cittadino e delle formazioni sociali di fronte all’amministrazione. L’evoluzione e la crescente importanza dell’istituto è strettamente correlata alle sempre più pressanti esigenze di nuove forme di partecipazione democratica nonché di rimedi sostanzialmente alternativi a quelli giurisdizionali e amministrativi per la tutela dei diritti fondamentali. Il compito di esaminare le doglianze sollevate dai cittadini contro la maladministration e di risolvere le controversie in modo rapido, economico e facilmente accessibile, attraverso l’impiego di poteri istruttori, di informazione, di stimolo, di raccomandazione nonché sanzionatori, completano il quadro generale entro il quale si configura l’organo in esame.

La circolarità e/o l’imitazione di tale istituto tra le realtà ordinamentali nazionali europee non deve tuttavia trarre in inganno. Come rilevato dalla maggior parte della dottrina comparatistica, il risultato del trapianto di tale organo da un ordinamento all’altro è stato tale da avere dato luogo a una pluralità di modelli. Dalle discipline degli ordinamenti giuridici è, infatti, possibile individuare, per le disparate competenze settoriali, difensori civici che operano nel tradizionale campo del diritto pubblico così come difensori civici che operano anche nel settore privato; per i diversi ambiti territoriali di sindacato, difensori civici nazionali, difensori civici subnazionali e difensori civici locali; per le differenti strutture organizzative, difensori civici monocratici e difensori civici collegiali. Ancora, per la natura dei rapporti stretti con gli altri organi istituzionali, si profilano difensori civici parlamentari, difensori civici parlamentari-governativi, difensori civici governativi e difensori civici spontanei (o di organizzazione del terzo settore); per le funzioni loro attribuite, si rinvengono difensori civici deputati alla difesa civica, al controllo di legalità dell’azione amministrativa, alla composizione dei conflitti, alle riforme, nonché alla rappresentanza politico-democratica.

Il difensore civico regionale in Italia

Alla luce dei modelli sopra illustrati, il difensore civico italiano rientra tra quelli di tipo pubblicistico, locale, monocratico ed assembleare. Sotto il profilo delle sue competenze il discorso, come vedremo, non è semplice.

A differenza di tutti gli altri paesi dell’Unione europea, in Italia manca ancora un difensore civico nazionale, nonostante le diverse proposte presentate. Il difensore civico possiede esclusivamente una competenza territoriale circoscritta a livello locale. Ma se sul terreno regionale tale istituto è ormai previsto da tutte le legislazioni, alcune basate su disposizioni statutarie, non può dirsi altrettanto per gli altri enti territoriali. La facoltà lasciata ai comuni e alle province dal legislatore nazionale di prevedere, nei rispettivi statuti, tale organo non ha impedito la sua perdurante assenza in numerose realtà istituzionali, soprattutto in quelle meno popolose. Peraltro, in difetto di difensore civico locale, o in ragione di un maggiore coordinamento tra le difese civiche competenti nei diversi livelli territoriali, vi è la possibilità per i comuni e le province, attraverso apposite convenzioni con la regione, di avvalersi del difensore civico regionale o di istituire una difesa civica unica.

Similmente a quanto previsto dagli altri Stati dell’Unione europea, il difensore civico si caratterizza per una posizione di indipendenza rispetto agli organi di governo regionale; al punto che alcuni testi statutari e legislativi lo qualificano come “autorità indipendente della Regione”. Al di là di queste definizioni giuridiche, la prassi contribuisce a confermare tale autonomia. Il rapporto con il Consiglio regionale, ad esempio, è di tipo fiduciario e ciò consente un’ampia autonomia operativa. Spetta a tale organo eleggere, in una rosa dei candidati e con maggioranze qualificate, il rispettivo difensore civico così come revocarlo, con le medesime maggioranze, per gravi motivi. Il significato delle norme è preciso: si auspica che il difensore civico sia una personalità ampiamente rappresentativa dell’ente, al di sopra della lotta politica contingente. Sempre in questa logica (di indipendenza), devono essere letti i requisiti relativi all’eleggibilità e le cause di incompatibilità previsti sia dalle normative regionali sia da regolamenti governativi, il sopravvenire dei quali determina la decadenza dall’incarico. Durante il mandato, fissato a 5 anni (in alcuni casi rinnovabile una volta sola, in altri vietato), il difensore civico ha l’obbligo annuale di presentare al Consiglio regionale una relazione sulla attività svolta, con eventuali proposte di modifiche normative o amministrative, anche in relazione alla struttura e al funzionamento degli uffici regionali, alla distribuzione delle competenze e all’assetto dei rapporti tra la Regione e gli enti locali e strumentali.

Con riferimento alle funzioni, si tratta, come ha affermato testualmente la Corte costituzionale, di un «soggetto essenzialmente preposto alla vigilanza sull’operato dell’amministrazione» (sent. n. 167/2005). Attivabile, sia d’ufficio sia su istanza di parte, per segnalare abusi, disfunzioni, carenze e ritardi dell’amministrazione nei confronti del cittadino, il difensore civico ha visto ampliare nel tempo la sua competenza col sovrapporsi di nuove disposizioni legislative e di molteplici prassi. A causa di ciò, il difensore civico oscilla tra l’esercizio di un controllo tecnico-giuridico di difesa del cittadino nei confronti dell’amministrazione e una mediazione tra gli interessi dei cittadini e dell’amministrazione stessa. E in effetti, se poniamo attenzione al tipo di controllo che spetta al difensore civico, esso non incide direttamente sull’atto, annullandolo o modificandolo, bensì sul comportamento dell’organo che ha dato origine alla irregolarità amministrativa sollecitando, se del caso, l’autorità a modificare il proprio comportamento.

Il difensore civico nell’Unione europea

Anche l’ordinamento europeo si è dotato, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, di un difensore civico, denominato “Mediatore dell’Unione europea” (v. Mediatore europeo).

In forza dell’art. 195 TCE il Mediatore dell’Unione europea si occupa delle denunce presentate dai cittadini europei o da qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o abbia sede sociale in uno Stato membro contro casi di cattiva amministrazione nell’azione delle Istituzioni comunitarie e degli organi comunitari, fatta eccezione per gli atti compiuti dalla Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) e dal Tribunale di primo grado nell’esercizio delle loro funzioni giurisdizionali. L’ambito dell’indagine del Mediatore è quindi costituito esclusivamente dall’amministrazione europea, intesa sia come apparato amministrativo sia come attività, essendo sottratti al suo sindacato casi riguardanti le amministrazioni nazionali, regionali o locali degli Stati membri, anche quando la loro attività conosca questioni inerenti all’Unione europea.

Scopo precipuo dell’organo è quello di «proteggere i diritti dei cittadini e di promuovere le relazioni tra le istituzioni della Comunità e i cittadini europei». A tal fine, il Mediatore si attiva, anche di propria iniziativa, per controllare le irregolarità amministrative, le discriminazioni, gli abusi di potere, la mancanza di trasparenza, il rifiuto di informazione, il mancato adempimento degli obblighi comunitari (v. anche Infrazione al diritto comunitario), l’errore giuridico e i ritardi ingiustificati dell’amministrazione europea nei confronti del cittadino, cercando, in prima battuta, di addivenire, attraverso un procedimento di conciliazione-mediazione, a una decisione che soddisfi sia il ricorrente sia l’istituzione contro cui è rivolta la denuncia. Qualora non si giunga a una soluzione amichevole, il Mediatore può archiviare il caso trasmettendo un’osservazione critica all’istituzione, così come può formulare un progetto di raccomandazione da trasmettere all’istituzione interessata. Se quest’ultima nei tre mesi successivi risponde con un parere circostanziato insoddisfacente, il Mediatore può presentare una relazione speciale al Parlamento europeo da inoltrare anche all’istituzione interessata. Sussiste, inoltre, in capo al Mediatore, l’obbligo di presentare annualmente al Parlamento europeo una relazione sui risultati delle proprie indagini.

Discussa in dottrina è la possibilità di ricorrere contro i provvedimenti del Mediatore, essendo gli stessi non giuridicamente vincolanti. Ciò non toglie, tuttavia, la possibilità di agire, in forza dell’art. 288 TCE, contro il Mediatore per risarcimento dei danni a seguito di una pronuncia di trattamento inadeguato.

Il Mediatore, al pari degli altri difensori civici, è un organo indipendente e imparziale che opera nell’interesse generale della Comunità e dei cittadini dell’Unione, senza chiedere né accettare istruzioni da alcun governo o organismo. Tra gli elementi strutturali che costituiscono i sintomi rivelatori della sua autonomia ricordiamo che spetta al Parlamento europeo, all’inizio e per la durata di ciascuna legislatura, nominare il Mediatore, così come porlo in stato di accusa innanzi alla Corte di giustizia per colpa grave, e che si tratta di un organo sottratto, per motivi funzionali, a rapporti di gerarchia.

Conclusioni

Al di là dell’efficacia pratica che alcuni ordinamenti riscontrano nell’utilizzo di tale figura, e con un massimo di generalizzazione, è possibile affermare che il difensore civico, quale soggetto estraneo all’amministrazione, ma capace di incidere sul suo agire, svolge, all’interno di ciascun ordinamento, un ruolo chiave per la tutela di diritti e interessi, relativamente “nuovi”, che altrimenti non troverebbero adeguata protezione di fronte al giudice.

Tuttavia, non deve essere nascosto il rischio che tale figura, così innovativa nel panorama delle soluzioni tese ad avvicinare l’amministrazione al cittadino e viceversa, possa perdere di incisività nella dimensione europea. La proliferazione dei modelli derivati dall’originario istituto, e quindi le differenti tutele attivabili, nonché la ristrettezza territoriale della sua sfera di azione a fronte di una sempre più avvertita esigenza di ridefinire il patrimonio dei diritti individuali e collettivi del cittadino europeo (v. anche Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), nonché dell’uomo in generale (v. anche Diritti dell’uomo), sono alcuni dei fattori che rivelano tale problematica. In un simile contesto, tra le soluzioni auspicabili si profila quella di una maggiore collaborazione sia tra i difensori civici competenti nei rispettivi ordinamenti sia tra gli stessi e gli organi giurisdizionali attraverso un processo assimilabile all’open method of coordination.

Sotto il primo aspetto, ad esempio, il già esistente sistema integrato dei difensori civici nazionali, regionali e locali, concretizzatosi nella c.d. rete europea dei difensori civici, potrebbe tra-sformarsi in uno strumento adeguato per affrontare in maniera tempestiva e informale le denunce dei cittadini se fosse potenziato sia il meccanismo di scambio di informazioni relative all’applicazione del diritto comunitario, alle rispettive esperienze nonché best practices, sia il meccanismo di trasferimento dei reclami al difensore civico nazionale o regionale competente o a un organo simile. In questo modo si offrirebbe una garanzia più efficace affinché i diritti dei cittadini europei e dei residenti, sanciti dalla normativa comunitaria, ivi compresi i diritti fondamentali, divengano una realtà sostanziale.

Quanto al secondo aspetto, si potrebbero sollecitare entrambi gli organi a utilizzare reciprocamente, nell’esercizio delle proprie funzioni, le rispettive decisioni. Così come il difensore civico si avvale della giurisprudenza per la risoluzione dei suoi casi, altrettanto il giudice può trarre ispirazione dalle relazioni dei difensori civici per assumere le proprie decisioni. La costante evoluzione sia dei principi giurisprudenzialmente posti sia di quelli enucleati dai difensori civici, nonché la loro ormai stretta interdipendenza, costituiscono buone ragioni per sviluppare ulteriormente tale tipo di rapporto.

Silvia Sassi (2010)




Dimitris Th. Tsatsos




Dini, Lamberto

D., economista e uomo politico italiano, è nato a Firenze nel 1931. Laureatosi con lode in Economia e commercio all’Università di Firenze con una tesi in Scienza delle finanze, nel 1956 e 1957 è assistente presso le Università di Roma e di Firenze. Dopo studi di perfezionamento negli Stati Uniti, nel 1959 entra nel Fondo monetario internazionale (FMI), intraprendendo una carriera che lo porta a ricoprire la carica di condirettore centrale. Dal 1976 è nominato direttore esecutivo dello stesso Fondo in rappresentanza di Italia, Grecia, Portogallo e Malta. Dal 1979 al 1994 è direttore generale della Banca d’Italia, impegno in seguito al quale ricopre altre importanti cariche in organismi internazionali.

Nel 1994, dopo la vittoria elettorale dello schieramento di centrodestra, D. entra nel primo governo guidato da Silvio Berlusconi come ministro del Tesoro. Nell’inverno successivo, a seguito delle dimissioni di Silvio Berlusconi, riceve l’incarico di formare il nuovo governo e dal 17 gennaio 1995 al 17 maggio 1996 è Presidente del Consiglio dei Ministri e ministro del Tesoro ad interim in un governo tecnico costituito esclusivamente da non parlamentari. Dall’ottobre 1995 assume anche l’interim del ministero di Grazia e giustizia.

Nelle dichiarazioni programmatiche che accompagnano la costituzione del suo ministero, D. pone l’attiva appartenenza dell’Italia all’Unione europea come uno dei punti qualificanti dell’azione di governo. Il contenimento del disavanzo pubblico per il rientro della lira nel Sistema monetario europeo (SME), da cui era uscita a seguito della svalutazione dell’autunno 1992, viene considerato uno dei principali obiettivi di politica economica da perseguire, mentre l’inclusione dell’Italia in Europa ed il rispetto degli impegni previsti dal Trattato di Maastricht è considerato un traguardo essenziale della politica estera.

Alle elezioni dell’aprile 1996, D. si presenta con l’Ulivo, la coalizione di centrosinistra guidata da Romano Prodi, con una propria sigla (Lista Dini). Dopo la vittoria dell’Ulivo, gli viene affidato il ministero degli Affari esteri, incarico in cui viene riconfermato nei successivi governi D’Alema e nel secondo governo di Giuliano Amato, fino al termine della legislatura.

Durante la sua permanenza alla Farnesina, il fulcro della politica estera italiana si definisce sempre più in direzione della “vocazione europea” e del rinsaldamento del legame transatlantico. Nel primo semestre del 1996, l’Italia è alla presidenza dell’Unione europea e il 29 e 30 marzo dello stesso anno, a Torino, si tiene la Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) per la prima revisione del Trattato di Maastricht. I lavori condurranno al Trattato di Amsterdam, firmato il 2 ottobre 1997.

Nel novembre 1996 viene raggiunto l’obiettivo del rientro della lira nello SME, mentre l’ottobre 1997 sancisce l’ingresso operativo dell’Italia nel sistema di Schengen.

Coerentemente con l’intento del governo di tessere una serie di relazioni privilegiate in ambito mediterraneo dirette a superare definitivamente retaggi negativi del passato, nel 1998 D. e il suo collega libico firmano un accordo bilaterale nel quale si affrontano i temi irrisolti tra i due paesi: tra gli altri punti la Libia rinuncia alla pretesa del pagamento dei danni della colonizzazione e della guerra, mentre l’Italia si impegna a fornire alla Libia un sostegno speciale in campo economico, tecnico e culturale.

Sempre in qualità di ministro degli Affari esteri, D. dovrà fronteggiare la drammatica situazione nei Balcani. In Albania l’intervento italiano si impegna a promuovere il ritorno alla democrazia, quale premessa per la ricostituzione dell’ordine pubblico e per il risanamento economico e finanziario del paese. Successivamente, in seguito all’aggravarsi della crisi in Kosovo e all’inizio delle operazioni aeree dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO), nel marzo 1999, l’Italia interviene per la prima volta dal dopoguerra in azioni militari in un paese europeo, affiancando a questo intervento l’assistenza umanitaria.

Eletto al Senato nel maggio 2001, dal febbraio 2002 al luglio 2003 D. opera come rappresentante del Parlamento italiano alla Convenzione europea per la preparazione della bozza di Costituzione europea. Riconfermato senatore nel 2006, il 6 giugno 2006 è eletto presidente della Commissione esteri del Senato.

Nunzia Guardigli (2007)




Dinkelspiel, Ulf

D. (Stoccolma 1939) dopo aver compiuto studi all’Università dell’Arkansas, USA, nel 1956-57, seguiti qualche anno più tardi da una laurea in Economia e commercio presso la Scuola di economia di Stoccolma, lavorò come addetto presso il ministero degli Affari esteri, nel 1962.

Durante tale incarico, D. lavorò dapprima nell’ambasciata svedese di Tokyo dal 1963 al 1965 e poi nella delegazione svedese dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) a Parigi, dal 1965 al 1967. Tuttavia, in un periodo nel quale la Svezia stava per iniziare le trattative con la Comunità economica europea (CEE), egli si rivelò un collaboratore prezioso al ministero degli Esteri. Il governo nominò l’ambasciatore Sverker Ǻström come capo della delegazione svedese per i negoziati. Ǻström si dimostrò un abile ed esperto diplomatico. Ma come ex capo della sezione politica del ministero degli Esteri e successivamente ambasciatore presso le Nazioni Unite, Ǻström si era distinto principalmente nel settore della politica per la sicurezza, e tra i maggiori interpreti della politica svedese di neutralità.

La nomina di Ǻström a capo negoziatore rifletteva le priorità del governo svedese nelle trattative con la CEE. Mentre il raggiungimento di un accordo era ritenuto un obiettivo di massima importanza, in nessun modo la Svezia avrebbe accettato che i vincoli autoimposti alla politica di neutralità fossero pregiudicate. Per rimediare alla propria limitata esperienza in materia economica, Ǻström scelse D. come segretario personale con vasta esperienza in questo settore. Durante l’intero periodo delle trattative, D. ebbe funzioni di assistente del capo negoziatore, illustrando la logica economica delle differenti soluzioni ed elaborando le implicazioni pratiche di una materia sovente molto tecnica. Nelle proprie memorie, Ǻström elogia il proprio gruppo di collaboratori, in particolare indicando D. come la persona chiave nelle trattative.

Grazie al proprio ruolo nei negoziati sull’accordo relativo all’Associazione europea di libero scambio (EFTA) tra la Svezia e la CEE, D. sviluppò una vasta conoscenza del processo di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Tuttavia, sarebbero occorsi altri 14 anni prima che egli avesse la possibilità di farla fruttare appieno. Dopo la conclusione delle trattative, fu offerto a D. un interessante incarico all’ambasciata di Washington D.C., nella quale operò dal 1975 al 1979. In seguito dovette fare ritorno a Stoccolma dove venne nominato assistente del sottosegretario di Stato, ovvero secondo soltanto al più alto funzionario del ministero, l’ambasciatore Leif Leifland. Nel 1983, D. stesso ricevette la nomina ad ambasciatore.

Allorché i rapporti con la CEE assunsero il primo posto nell’agenda politica nella seconda metà degli anni Ottanta, era ovvio che D. vi avrebbe svolto un ruolo fondamentale. Poiché era chiaro che la Svezia si trovava ancora una volta dinnanzi a negoziati complessi sia all’interno dell’Associazione di libero scambio europeo, sia con la CEE, la scelta di D. come capo negoziatore sembrò la più naturale. Egli lavorò con il ministro del Commercio, Anita Gradin e con il sottosegretario di Stato, Michael Sohlman, definendo priorità e strategie, guidò e coordinò un nutrito gruppo di funzionari svedesi impegnati nei negoziati. Con il progredire delle trattative, D. partecipò alle riunioni di gabinetto, anche se limitatamente al ruolo di funzionario pubblico che illustrava i problemi tecnici o gli sviluppi negoziali.

Nell’ottobre 1990, il governo svedese mutò la propria posizione in merito all’adesione alla CEE. Secondo il governo, la decisione fu determinata, tra l’altro, dallo scarso progresso nei negoziati per lo Spazio economico europeo (SEE) e dalla scarsa disponibilità mostrata dalla CEE in tema di poteri e procedure di decision-making, rispetto alle aspettative iniziali della Svezia e degli altri Stati EFTA. D. ha asserito che a un esame retrospettivo, non c’era da sorprendersi per la posizione assunta dalla CEE su tali questioni. Le trattative, dopo la presentazione della candidatura nell’estate 1991, con D. ancora alla guida, vennero intensificate in vista dell’adesione.

Quando nell’autunno 1991 il leader del Partito conservatore, Carl Bildt, formò una nuova coalizione governativa, D. venne promosso a un incarico di governo e nominato ministro degli Affari europei. Dopo aver fatto carriera come burocrate, al servizio dei governi socialdemocratici, D. era ora diventato un politico e un membro del Partito conservatore. In tale nuovo ruolo, egli ebbe maggiore visibilità che in precedenza. Appariva quasi ogni giorno sui media nazionali, assicurando che il governo avrebbe seguito una linea ferma su varie questioni vitali per i cittadini e che un trattato avrebbe rispecchiato l’interesse nazionale svedese. L’opinione pubblica svedese che, a quel punto, secondo i sondaggi di opinione, era in maggioranza contraria all’adesione all’UE, riteneva D. affidabile nel difendere prerogative nazionali come il principio del libero accesso agli archivi di Stato, il monopolio di Stato sulla vendita di alcolici, la produzione e il consumo di tabacco “senza fumo” (tabacco da fiuto svedese) nonché il contenimento del contributo svedese al bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) e ai fondi strutturali.

Infine, nella primavera del 1994, le trattative si conclusero con successo. D. accompagnò il primo ministro Bildt alla firma del Trattato d’adesione al Consiglio europeo di Corfù, in Grecia. Pochi mesi dopo, i partiti della coalizione di governo persero le elezioni nazionali, a favore dei socialdemocratici e Bildt insieme ai suoi ministri si dimise. Con il referendum per il Trattato d’adesione fissato a due mesi dalle elezioni, D., il quale era stato coinvolto in tutte le fasi del processo, si ritrovò senza incarichi.

Tuttavia, egli proseguì la campagna e fu tra le figure guida del partito del “sì” nel referendum. Nel corso delle sue numerose apparizioni in pubblico, D. sottolineò l’importanza dell’Unione europea (UE) e sostenne quanto fosse essenziale che la Svezia beneficiasse della possibilità di influire sul processo d’integrazione. Il fronte del No percepiva D. come un antagonista chiave, facendone oggetto di dure critiche nel corso di una campagna spesso caratterizzata da diffamazioni personali.

Quando fu certa una maggioranza in favore dell’adesione, D. aveva finalmente raggiunto il proprio obiettivo. Tuttavia, invece di continuare a dedicarsi alla politica, egli si cimentò in un terreno nuovo, benché a lui familiare. D. fu nominato amministratore delegato dello Swedish trade council, un’organizzazione di proprietà “mista”, con partecipazione pubblica e privata, la quale aveva il compito di assistere le piccole e medie imprese svedesi in cerca di mercati esteri. Con la propria esperienza diplomatica e commerciale, D. era particolarmente preparato per l’incarico dal quale si ritirò nell’autunno del 2004.

D. passerà alla storia come uno degli artefici chiave dell’ingresso svedese nell’UE. Per il governo socialdemocratico egli fu in quel periodo il perfetto alto burocrate: affidabile e stimato dalla comunità imprenditoriale, ma anche altamente professionale e leale nei confronti dei propri superiori politici. Come uomo politico, il profilo sociale di D., un conservatore facoltoso e con legami aristocratici, appariva alquanto insolito. Malgrado il suo atteggiamento compassato e la personalità gradevole, tale retroterra costituì probabilmente un ostacolo alla sua carriera personale, nonostante i ripetuti tentativi, sulla considerevole fetta di pubblico svedese mostratasi scettica riguardo all’UE.

Jakob Gustavsson (2012)




Diogo Freitas do Amaral