Ducci, Roberto

Per generale riconoscimento, nazionale e internazionale, l’ambasciatore D. è stato uno dei protagonisti dell’interminabile cantiere dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Per una sua naturale ritrosia, non comparve spesso fra gli artefici della politica alla pubblica ribalta, ma si collocò invece stabilmente fra quegli artigiani che, dietro le quinte, ne posero le premesse e ne costruirono l’impalcatura. Egli rappresenta ancor oggi, nell’immaginario collettivo del ministero degli Esteri italiano e nella memoria dei colleghi stranieri che l’hanno conosciuto, uno dei migliori esempi di grand commis de l’Etat, consigliere del principe ma anche raffinato interprete dei suoi interessi essenziali.

Nato nel 1914, D. entrò in diplomazia nel 1937, primo del suo concorso. Dopo due incarichi consolari nell’America del Nord, ed un periodo all’Ufficio confini del ministero degli Esteri per la definizione postbellica della frontiera nordorientale, la carriera lo vide giovane funzionario successivamente a Varsavia, a Parigi presso l’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) e l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO), poi nell’impegnativo ruolo di presidente del Comitato di redazione dei Trattati di Roma, per un decennio consigliere di amministrazione della Banca europea per gli investimenti (BEI), quindi ambasciatore a Helsinki, capo della delegazione italiana alle trattative per l’adesione del Regno Unito alla Comunità economica europea (CEE) fino al veto di Charles de Gaulle nel 1963, ambasciatore a Belgrado nel 1964, a Vienna nel 1967. Diventato direttore generale degli Affari politici, D. svolse infine dal 1970 al 1975 un ruolo determinante nella costruzione della Cooperazione politica europea, concludendo la sua vita professionale come ambasciatore a Londra fino al 1980. Morì a Roma nel 1985, lasciando incompiuta una autobiografia della quale soltanto le memorie giovanili hanno visto la luce, rivelatrici del mondo di ieri, scomparso anche perché rimosso di proposito dalla memoria nazionale.

Figlio di un ammiraglio, D. ne ereditò il senso dello Stato, riassumendo in sé la tensione ideale e l’impegno concreto dell’Italia all’edificazione europea, tanto nell’ispirare una classe politica distratta da prevalenti preoccupazioni interne, quanto nel rifornire di contributi propositivi i vari cantieri diplomatici. Letterato per vocazione (scrisse D’Annunzio vivente, pubblicato nel 1973, nonché due volumi di poesie, L’innocenza e Il Libro di musica, pubblicati nel 1978 e nel 1980) e funzionario diplomatico per senso del dovere civico, D. si attribuiva la funzione di stimolare il dibattito pubblico su temi internazionali in un ambiente nazionale incline ad adagiarsi nel compromesso e nel quieto vivere, mentre l’evoluzione del mondo circostante avrebbe imposto una riscossa delle migliori qualità nazionali.

Nei momenti tragici della catastrofe bellica, appena trentenne, egli attirò l’attenzione di chi operava per lenire le condizioni armistiziali. Nelle sue memorie, il generale Giuseppe Castellano lo menziona, assieme ad Antonello Pietromarchi e a Mario Visetti, fra i funzionari degli Esteri con i quali era in contatto, definendolo «uno dei più intelligenti funzionari della nuova generazione» (v. Castellano, 1945, p. 46). Attraversate le linee nemiche con grave rischio personale, D. si collocò subito a Brindisi e poi a Salerno nello sparuto drappello superstite di funzionari del ministero degli Esteri che, sotto la guida di Renato Prunas posero le premesse di una emancipazione dai propositi dei vincitori.

Gli scritti di ispirazione europea di D. testimoniano l’intensità e la continuità delle sue convinzioni. L’impegno personale che il giovane si era assegnato era alimentato dall’intensa consapevolezza della «dura e amara opera da compiere: prendere contatto con i vincitori, restaurare almeno l’aspetto esteriore dell’indipendenza italiana, riaprire le finestre sul mondo, far conoscere agli stranieri la nostra verità». Sua fu l’iniziativa, incoraggiata dal ministero degli Esteri, di fondare e dirigere a tal fine dal marzo 1944 al dicembre 1946 una rivista mensile, “Politica estera”, che ebbe notevole risonanza. Mediante la pubblicazione di documenti, traduzioni di articoli stranieri e commenti di varia ispirazione, tale rivista aveva l’ambizione di “intendere ed essere intesi”, e di definire una nuova fisionomia italiana per collocarla d’urgenza nel dibattito postbellico (vi contribuì anche Mario Ercoli, alias l’appena rimpatriato Palmiro Togliatti, a dimostrazione dell’imparzialità dell’effimera testata). L’ultimo numero, datato 29 dicembre 1946, comprende – sotto pseudonimo – un articolo di D. su Governo mondiale e unità dell’Europa, i traguardi ideali che perseguirà con ostinazione durante l’intero arco della sua esistenza.

Fu allora che maturò la vocazione di D. all’Unione europea, che considerava non soltanto l’unica via di uscita per nazioni martoriate ma anche, nell’immediato, l’“ancoraggio esterno” indispensabile per la riedificazione materiale e morale di una nazione sempre adolescente. Un europeismo funzionale, dunque, e non astrattamente ideale. Il suo contributo si rivolse pertanto soprattutto alla proiezione internazionale della nuova Repubblica. Dopo la liberazione di Roma, utilizzando anche noms de plume ben noti agli iniziati (Clodio, Verax, Astolfo, Bardolfo, Legatus), D. collaborò a diversi fra i periodici spuntati come funghi nella rinata democrazia (“Il Cosmopolita”, “Mercurio”, “Il Globo”, “La Città Libera”, “Libera Stampa”, nonché “Il Tempo”, “Nuova Antologia” e “Il Mondo”), per argomentare che soltanto inedite forme di coesione politica fra le nazioni europee avrebbero potuto al contempo pacificare il continente e sottrarlo all’incombente alternativa fra le due superpotenze emerse dal conflitto. Suo fu anche un lucido e coraggioso saggio introspettivo sull’indole nazionale (e pertanto sul significato del fascismo), dal titolo Questa Italia (pubblicato nel 1948) che Angelo Tasca definì un «bellissimo libro, con il pregio di contestare l’idea che il fascismo sarebbe una semplice aberrazione della storia italiana».

Incluso nella delegazione italiana alla Conferenza di pace di Parigi, D. si occupò soprattutto della sistemazione delle questioni relative ai confini e pose anche mano allo storico discorso col quale Alcide De Gasperi riaffermò la dignità della nazione. Egli era consapevole della necessità di superare le tentazioni neutraliste serpeggianti fra tutti i nuovi partiti democratici, e che ciò non poteva avvenire in modo endogeno bensì necessariamente nel congiungere in qualche modo l’emergente nuova identità nazionale alle nuove costruzioni internazionali (che in Europa il Piano Marshall aveva in particolar modo sollecitato). La scelta di campo operata da De Gasperi tagliò il nodo gordiano, ma le lacerazioni politiche interne, trasversali, persistenti, continuarono a tormentare l’ambizioso funzionario durante l’intera sua vita professionale. Nel costante intento di spiegare, stimolare e sollecitare i migliori istinti nazionali, egli scriveva nella dichiarata «ingenua illusione di contribuire a sospingere in un certo senso la ruota della Storia», convinto com’era che «la diplomazia è un mezzo per immaginare il futuro».

Europeista convinto e coraggioso, irrequieto, talvolta irruente rispetto ai tempi più lenti della politica, D. affiancò sempre all’attività diplomatica una intensa attività di saggista e commentatore politico su riviste e quotidiani, non sempre con pseudonimi, ciò che gli attirò anche ricorrenti critiche da politici e colleghi. Egli descrive l’europeista, distinto dall’eurocrate, come «uomo di sogni insaziabili, di moti della fantasia di poeti e profeti, anche se calati sulla terra da mercanti ed avventurieri». Scrivendo di Jean Monnet con ammirazione palesemente autobiografica, D. lo definisce «inventore di idee, elaboratore di metodi, persuasore efficace nell’ombra del colloquio a quattr’occhi». In qualsiasi sede si trovasse, D. si adoperava per affermare quelle che, spes contra spem, amava definire “le speranze d’Europa”, cosciente del fatto che, come scrisse, si trattava di «un’impresa iniziata per debito di coscienza […] a metà strada fra il disinteresse e lo scetticismo dei più», terreno di elezione per i diplomatici. Il momento più impegnativo si presentò finalmente quando, nominato direttore generale degli Affari politici, istituì – assieme al belga Étienne Davignon – la Cooperazione politica europea (CPE). Al meno appariscente livello dei funzionari diplomatici, dietro le quinte dell’Europa politica e pubblica, si trattava in sostanza di riesumare il Piano Fouchet fallito nel 1962, embrione di quella più strutturata cooperazione intergovernativa che sarebbe poi lentamente sbocciata nell’attuale Politica estera e di sicurezza comune (PESC) dell’Unione europea, dalla salute ancor cagionevole.

Le tre costanti intrecciatesi nel filo conduttore dell’europeismo di D. erano il perseguimento di un rapporto paritario fra Europa e Stati Uniti, l’europeizzazione del problema tedesco e l’evoluzione della Comunità europea verso una entità politica distinta (corredata dall’opzione nucleare, che a suo avviso Francia e Gran Bretagna avevano il compito di tenere in serbo per l’Europa politica futura). Intenso, tenace e frustrante fu il suo impegno durante l’“Anno dell’Europa” invocato da Henry Alfred Kissinger nel 1973, sbiadita riedizione del pilastro europeo invocato dieci anni prima da John Fitzgerald Kennedy e che gli europei, anche a causa dell’embargo petrolifero arabo conseguente alla guerra del Kippur, non seppero per l’ennesima volta raccogliere (v. Ducci, 2005). Una spirale perversa che D. non cessò mai di tentare di sospingere comunque in senso ascensionale.

Fu per l’iniziativa e la perseveranza personale di funzionari come D. che l’Italia potuto poté recare il proprio originale e talvolta determinante contributo all’edificazione europea. Col trasporto di coloro che si sentono investiti di una missione, D. non rinunciò mai a dire la sua. Sistematicamente, anche dalle sue meno cruciali sedi iniziali, indirizzava missive direttamente al ministro perché ne traesse elementi supplementari di giudizio oltre che di informazione; da direttore generale per gli Affari politici condivideva le sue sensazioni e riflessioni con i colleghi presso le principali ambasciate. Nella sua qualità di membro cooptato in esclusivi e influenti gruppi consultivi informali, quali il Bilderbeg e la Commissione trilaterale, D. ebbe frequenti occasioni di impegnare i grandi della terra fra i quali in special modo Henry Kissinger, caratterialmente affine, in accesi dibattiti sulle compatibilità fra la necessaria integrità del rapporto transatlantico e la dichiarata utilità delle ambizioni europeiste.

Instancabile anche in pensione, D. intraprese, assieme a Maria Grazia Melchionni (con l’assistenza dalla quale aveva svolto un corso su “L’arte del negoziato diplomatico all’Università La Sapienza di Roma) la raccolta delle testimonianze degli artefici dei Trattati di Roma, proponendosi fra i pionieri di quella storia orale che va imponendosi come autonoma disciplina – i documenti prodotti sono conservati presso la Fondation Jean Monnet di Losanna, l’Archivio storico della Commissione europea a Firenze (v. Archivi storici delle Comunità europee), e la Discoteca di Stato a Roma. In limine mortis, a metà degli anni Ottanta, D. denunciava in Europa «il decadimento di vitalità, la frustrazione da impotenza, la tentazione del neutralismo, la sindrome di antiamericanismo, e, per reazione, lo sbandare dell’America verso l’unilateralismo imperiale». Talvolta, guardandosi attorno, D. constatava che «abbiamo degli abbozzi di monumenti, che non si comprende bene se siano costruzioni in corso o ruderi abbandonati, in una Europa incompiuta» (v. Ducci, Olivi, 1971).

Partecipe di ogni fermento intellettuale della nostra epoca, con un misto di pragmatismo e di utopia, di scetticismo e di fiducia nel risorgere dei miti e delle virtù umane, sempre legato al primato dell’intelligenza, D. si impone ai posteri non soltanto come uno dei migliori rappresentanti della nostra diplomazia, ma anche come scrittore versatile ed originalissimo, quale insigne interprete del suo tempo.

Guido Lenzi (2010)




Duisenberg, Willem Frederik

Il futuro primo presidente della Banca centrale europea (BCE), D. (Heerenveen 1935 – Faucon 2005) studiò economia all’Università di Goringen specializzandosi cum laude nel campo delle relazioni economiche internazionali. Nel 1965 conseguì il dottorato con una tesi sulle conseguenze economiche del disarmo. All’inizio della sua carriera ricoprì incarichi quali membro dello staff del Fondo monetario internazionale a Washington (1965-1969), consulente della direzione presso la Banca centrale olandese De Nederlandsche Bank (DNB) (1969-1970) e professore di Macroeconomia all’Università di Amsterdam (1970-1973).

D. era membro del partito laburista Partij van de Arbeid (PvdA) e nel 1973 gli fu chiesto di diventare ministro delle Finanze nel governo di Den Uyl (1973-1977). Di fronte alla crisi petrolifera in seguito alla guerra dello Yom Kippur, egli dovette affrontare le conseguenze negative sull’economia olandese. È a lui che venne attribuita (congiuntamente) la responsabilità dell’aumento della spesa pubblica e dell’aumento dell’esportazione di gas naturale olandese che causò un ingente debito e una crescita dell’inflazione, situazione meglio conosciuta come il “male olandese”. Altri sottolineano il suo riuscito cambiamento di politica del 1975, quando introdusse il cosiddetto “criterio dell’1%” che limitava la crescita della spesa collettiva all’1% del reddito nazionale. Ai suoi colleghi europei egli propose il noto “Piano Duisenberg” per risolvere i problemi monetari all’interno della Comunità economica europea (CEE). Il progetto proponeva una maggiore cooperazione nell’ambito dei tassi di cambio. Tuttavia, i tedeschi si opposero e diedero priorità alla stabilizzazione delle variazioni dell’inflazione.

Dopo aver ricoperto la carica di ministro delle Finanze, D. fu deputato (1977-78), e successivamente vicepresidente della Rabobank. Nel 1981 rientrò alla DNB e fu nominato direttore esecutivo nella prospettiva di succedere a breve termine al presidente Jelle Zijstra, cosa che avvenne il 1° gennaio 1982. D. sarebbe rimasto per 16 anni alla Banca centrale dei Paesi Bassi. Egli è stato definito un monetarista moderato, che preferiva un basso livello di inflazione e un tasso d’interesse a lungo termine. Per combattere l’inflazione, agganciò formalmente il fiorino olandese al marco tedesco. Al contempo, divenne membro del comitato speciale sull’Unione economica e monetaria o “comitato Delors” (v. Delors, Jacques) insieme agli altri presidenti delle banche centrali nazionali delle Comunità europee.

Nel luglio 1997 lasciò la DNB per l’Istituto monetario europeo (IME), precursore della Banca centrale europea (BCE). Su nomina del Consiglio europeo di Dublino otto mesi prima, D. assunse l’incarico di presidente dell’istituto che nel giro di un anno sarebbe stato trasformato in BCE. Fu scelto dai tedeschi come candidato per la presidenza del nuovo istituto con il consenso di quasi tutti gli Stati membri. Tuttavia, a novembre i francesi proposero un altro candidato, il governatore della Banca di Francia Jean-Claude Trichet. Dopo difficili negoziati che culminarono nel summit di Bruxelles del 3 maggio 1998, i 15 capi di Stato o di governo raggiunsero finalmente un accordo. La decisione fu un compromesso informale secondo cui D. sarebbe diventato presidente per almeno quattro anni assistito dal francese Christian Noyer come vicepresidente. Al termine di questo periodo D. si sarebbe volontariamente dimesso per lasciare l’incarico a Trichet. Queste manovre politiche suscitarono forti critiche tra i governi europei. Fu messa in discussione l’indipendenza della BCE dall’influenza politica e pertanto anche la credibilità dell’Euro. Inoltre, furono sollevati dubbi sulla validità del Trattato di Maastricht che stabiliva un mandato di 8 anni non rinnovabile per il presidente della BCE e i membri del suo comitato esecutivo.

D. presiedette al passaggio all’Euro che si realizzò in due fasi. Il 1° gennaio 1999 le valute nazionali nell’area dell’euro furono agganciate a tassi fissi e venne introdotto l’euro non ancora come moneta circolante. Tre anni dopo entrarono in circolazione le monete e le banconote in euro. Soprattutto nella prima fase fino al 2002, la BCE dovette affrontare diverse difficoltà. In qualità di primo presidente di questo nuovo istituto, le competenze e la personalità di D. sono spesso state associate ai suoi successi e ai suoi fallimenti. Quasi sin dall’inizio l’euro si era indebolito. Tra gennaio 1999 e gennaio 2002, la valuta europea si svalutò fino a raggiungere gli 80 centesimi di dollaro americano. Tale situazione generò molto malcontento rispetto alla politica monetaria della BCE, soprattutto per via di un abbassamento del tasso di interesse, ritenuto tardivo e insignificante. I governi nazionali europei e le Banche centrali incolparono la BCE per la fragilità dell’euro. Un’altra fonte di critiche, soprattutto nella prima metà del 1999, fu la mancanza di trasparenza riguardo al decision-making della Banca. I verbali delle riunioni non venivano resi pubblici e sarebbero stati accessibili soltanto dopo 30 anni, in modo da garantire l’indipendenza dei membri nei confronti del loro contesto nazionale. Tuttavia, molti associarono la trasparenza alla credibilità e accusarono la BCE di non avere una strategia globale dell’euro. Tuttavia, D. organizzò mensilmente conferenze stampa per spiegare le decisioni della politica monetaria. In seguito, nel 2002, la BCE iniziò a pubblicare due volte all’anno una previsione economica, concentrandosi sulla crescita economica, sull’inflazione e sulla crescita monetaria. Le critiche rivolte a D. furono anche provocate dalle sue incaute dichiarazioni alla stampa, che spesso avevano influito sulla posizione dell’euro. Una intervista rilasciata a “The Times” nell’ottobre 2000, ad esempio, determinò un immediato e significativo ribasso dell’euro. D. aveva affermato che era improbabile che la BCE intervenisse subito se i problemi in Medio Oriente avessero indebolito ulteriormente l’euro. Egli rese anche noto il suo commento personale e piuttosto negativo rispetto alla riluttanza di Larry Summers, segretario al Tesoro americano, a sostenere l’euro un mese prima.

Il 1° gennaio 2002 furono introdotte con successo le banconote e le monete in euro. Durante l’estate e all’inizio dell’autunno, la moneta si stabilizzò riuscendo persino a rafforzarsi. Diminuirono le critiche verso la BCE e il suo primo presidente, il quale ricevette apprezzamenti per il suo management orientato al consenso e la sua abilità a creare posizioni unitarie nel consiglio della BCE. D. è stato anche descritto come un fervente purista per l’importanza attribuita alla necessità di rispettare i regolamenti del Patto di stabilità e crescita che stabilivano il mantenimento del disavanzo di bilancio di un governo nazionale al di sotto del 3%. Tuttavia nel 2002, la BCE decise di non applicare sanzioni ai quattro Stati che divergevano dal patto di stabilità (Germania, Francia, Italia e Portogallo).

D. rimase in carica fino al 1° novembre 2003. Successivamente ricoprì il ruolo di commissario in società come la Rabobank e la KLM-Air France. All’inizio del 2005, fece con successo da mediatore nella vicenda del leasing di azioni all’istituto finanziario Dexia.

Maloers Beers (2012)




Duncan Sandys




Duplice maggioranza

Per “duplice maggioranza” si intende quel meccanismo deliberativo utilizzato in seno al Consiglio dei ministri dell’Unione europea secondo cui, per l’adozione delle decisioni (v. Decisione) che richiedono la Maggioranza qualificata, è necessaria una doppia soglia di approvazione: la maggioranza viene infatti ritenuta “qualificata” qualora sia sufficientemente rappresentativa non solo degli Stati, ma anche dei cittadini dell’Unione (v. anche Unione europea).

Il Trattato di Nizza (2001), così come emendato dall’Atto di adesione (2003) dei dieci nuovi paesi, introduceva all’articolo 205 del Trattato che istituisce la Comunità europea (v. Trattati di Roma) una clausola demografica secondo cui qualunque membro del Consiglio può chiedere di verificare che la maggioranza (237 voti ponderati su 321, corrispondenti al 50% degli Stati membri) rappresenti almeno il 62% della popolazione europea. Tuttavia, solamente con il progetto di Trattato che istituisce una Costituzione europea, presentato dal presidente della Convenzione Valéry Giscard d’Estaing alla Presidenza italiana il 18 luglio 2003, il macchinoso sistema della Ponderazione dei voti nel Consiglio veniva definitivamente abrogato e sostituito con un meccanismo puro a duplice maggioranza. In particolare, l’articolo I-24 del progetto costituzionale della Convenzione europea definiva come maggioranza qualificata «il voto della maggioranza degli Stati membri che rappresenti almeno i 3/5 della popolazione dell’Unione», ovvero il 60%.

Il 4 ottobre 2003 si aprivano ufficialmente i lavori della Conferenza intergovernativa (CIG) (v. Conferenze intergovernative), il cui compito era quello di condurre a buon fine i negoziati per l’adozione di una versione finale del Trattato costituzionale, da sottoporre a successiva ratifica degli Stati membri. Tuttavia, nel dicembre 2003, sotto presidenza italiana, i negoziati si bloccavano proprio sul nuovo sistema a maggioranza qualificata, di fronte all’opposizione di alcuni paesi, in particolare Spagna e Polonia, fortemente decisi a non rinunciare ai vantaggi ottenuti con il Trattato di Nizza in termini di voti ponderati. L’accordo politico fu infine raggiunto il 18 giugno 2004 sotto presidenza irlandese: nel testo finale del Trattato costituzionale (articolo I-25) il principio della duplice maggioranza era mantenuto, ma le soglie di approvazione erano elevate al 55% degli Stati membri e al 65% della popolazione (72% se la delibera non avvenisse su proposta della Commissione europea o del ministro degli Affari esteri). Inoltre, il sistema veniva reso più complicato dall’aggiunta di due ulteriori elementi non previsti dalla Convenzione: in primo luogo, la minoranza di blocco deve essere composta da almeno quattro Stati membri, per impedire che tre grandi, che insieme rappresenterebbero più del 35% della popolazione, possano da soli bloccare l’attività del Consiglio; in secondo luogo, quando la maggioranza è ristretta, gli Stati membri minoritari, secondo una formula ispirata al Compromesso di Ioannina (1994), possono richiedere, a certe condizioni, il proseguimento del dibattito per favorire la formazione di un consenso più allargato. La mancata ratifica del Trattato costituzionale ha pregiudicato, almeno per ora, l’entrata in vigore di tale meccanismo decisionale (v. Processo decisionale).

Il meccanismo della duplice maggioranza presenta numerosi vantaggi: in primo luogo è un sistema semplice e flessibile, che permette di evitare, per gli allargamenti futuri (v. Allargamento), lunghe e spesso difficoltose trattative per l’attribuzione dei voti ponderati; in secondo luogo, è una soluzione estremamente efficace in quanto, rispetto al Trattato di Nizza, permette che la maggioranza qualificata sia costituita da un maggior numero di combinazioni di Stati membri; in terzo luogo, attribuendo ad ogni Stato un solo voto viene rispettata la parità tra i vari membri dell’Unione a tutela dei paesi più piccoli, pur tenendo conto, grazie alla seconda soglia, del peso demografico dei paesi maggiori; infine è soprattutto un sistema che rispecchia la duplice natura dell’Unione europea come Unione di Stati e di popoli.

Elisabetta Holsztejn (2006)




Duverger, Maurice

D. (Angoulême 1917) cresce a Bordeaux in una famiglia protettiva e sollecita della piccola borghesia. Frequenta brillantemente la scuola in un rinomato istituto cattolico di Bordeaux. Scopre la politica attraverso lo zio, impegnato in un piccolo partito locale di destra, l’Union populaire républicaine (UPR), al quale aderisce alla fine del 1933. Il Front populaire e gli scioperi dell’estate del 1936 gli fanno scoprire la sinistra e le questioni sociali. Nel dicembre 1936, lascia l’UPR per il Parti populaire français (PPF), fondato nello stesso anno da Jacques Doriot, un ex comunista che, dopo aver rotto con il suo vecchio partito, decide di formarne uno agli antipodi, molto vicino al modello fascista. All’epoca, il giovane D. sente quest’adesione come una svolta a sinistra, milita nell’associazione giovanile del partito nella Gironda, ma rompe con il PPF nel 1938, quando il partito comincia a indirizzarsi decisamente verso l’estrema destra. Da questa breve esperienza matura la convinzione di sentirsi più a suo agio con lo studio dei partiti politici piuttosto che con la militanza all’interno di organizzazioni collettive.

Al principio del 1935 si iscrive alla facoltà di Diritto dell’Università di Bordeaux in modo abbastanza casuale, ma poi si appassiona a questa disciplina e inizia un dottorato sotto la guida di Roger Bonnard, pur continuando a insegnare storia fino al 1941 nell’istituto in cui aveva studiato. Nell’autunno 1941 è a Parigi come borsista della Fondation Thiers, nel novembre 1942 ottiene la libera docenza in diritto pubblico ed è chiamato dall’Università di Poitiers, mentre l’anno seguente si trasferisce all’Università di Bordeaux. Nel 1940, sempre nei limiti imposti a un funzionario pubblico, inizia a maturare un atteggiamento sempre più critico verso il governo di Vichy. È incoraggiato in questa direzione da padre Maydieu, un domenicano impegnato nella resistenza cattolica che incontra all’inizio del 1943.

A 23 anni pubblica nella prestigiosa “Revue de droit public” un articolo, che in seguito gli verrà spesso rimproverato, in cui commenta le leggi del 3 ottobre 1940 e del 2 giugno 1941 sullo statuto degli ebrei. Formulata a varie riprese, l’accusa di compiacenza nei confronti del regime di Vichy e della sua politica antisemita dà in seguito luogo a una serie di processi vinti da D. Non si impegna in prima persona nella Resistenza, ma il suo libretto su Les constitutions de la France, pubblicato dalle Presses Universitaires de France nella collana “Que sais-je?” nel 1944, è scritto nel 1943 in un’ottica fortemente critica nei confronti del regime di Vichy, con la complicità del suo editore Paul Angoulvent, e viene distribuito rapidamente prima che la censura governativa possa reagire.

Alla carriera di giurista si affianca un interesse crescente per la scienza politica, concretizzatosi nel 1946 nella creazione di un centro di studi politici presso l’Università di Bordeaux che diventa l’Istituto di studi politici (in francese Institut d’Etudes Politiques, IEP). Da allora D., direttore dello IEP, si impone sia come uno dei grandi costituzionalisti francesi sia come un rinomato politologo. I suoi contributi principali riguardano sia la tipologia dei regimi politici che la teoria dei partiti politici. Nel 1951 pubblica un’opera intitolata Les partis politiques che diventa un classico e gli procura riconoscimenti a livello internazionale. Per classificare i regimi politici si fonda sulla loro natura, ma anche sul sistema dei partiti, e formula un principio noto con il nome di “legge D.”, che sottolinea l’influenza delle leggi elettorali e delle modalità di scrutinio sui partiti politici. Quindi insiste sul ruolo stabilizzatore del sistema maggioritario a uno o a due turni, che incoraggia l’emergere di una struttura bipartitica per il primo, bipolare per il secondo, mentre il sistema proporzionale induce piuttosto un sistema caratterizzato da una pluralità di partiti. Nel 1947, grazie ad un contatto stabilito da padre Maydieu, D. dà avvio alla sua carriera di editorialista collaborando regolarmente con il giornale “Le Monde”.

Associato all’IEP di Parigi fa parte del gruppo ristretto che insieme a J. Touchard, R. Rémond, Alfred Grosser, J.-B. Duroselle contribuisce a far riconoscere in Francia la scienza politica come una disciplina a pieno titolo. Grazie ai suoi contributi a “Le Monde”, la sua influenza intellettuale negli anni Cinquanta cresce rapidamente uscendo dalle cerchie universitarie. Dal 1955 è docente alla Facoltà di diritto di Parigi e dirige alle PUF una nuova collezione di manuali giuridici e politici – Thémis – che s’impone rapidamente. Partecipa regolarmente con Raymond Aron alla trasmissione radiofonica “La Tribune de Paris” e collabora con “Sud-Ouest” dal 1948 al 1954, poi con “L’Express” dal 1956 al 1965.

Nel suo ruolo di esperto propone nel 1956 insieme a Georges Vedel l’evoluzione verso un regime presidenziale per rimediare ai difetti della IV Repubblica. Non è coinvolto nella stesura della costituzione del 1958, verso la quale è critico. Si dichiara soddisfatto della riforma istituzionale del 1962 ed è lui a formulare il concetto di “regime semipresidenziale”. Dopo il 1971, la sua carriera prosegue all’Università di Parigi “la Sorbona”, dove, nel 1969, contribuisce a fondare il dipartimento di scienze politiche, e, nel 1976, un centro d’analisi comparativa dei sistemi politici e un istituto di ricerca sulle istituzioni e le culture dell’Europa, dei quali è presidente fino al 1985. Nel 1987, diventa professore emerito.

D. interviene indirettamente nei dibattiti politici con una serie di saggi dedicati alla vita politica francese, al socialismo, all’evoluzione delle democrazie liberali, come per esempio Démocratie sans le peuple (1967), Les orangers du lac Balaton (1980), o Janus. Les deux faces de l’Occident (1979), e pubblica anche un testo autobiografico più personale (L’autre côté des choses, 1977). Attento in qualità di giurista alle istituzioni europee, mette a profitto all’estero la notorietà di cui gode in Francia (diventa editorialista del “Corriere della Sera”, “La Repubblica” e “El País”) per entrare in politica con una scelta anticonformista: nel 1989, è eletto deputato europeo come indipendente nelle liste del Partito comunista italiano, con l’auspicio di sostenerlo nella sua “rivoluzione culturale”, in direzione di una reintegrazione democratica che dovrebbe contribuire a liberare il pensiero marxista delle sue deviazioni totalitarie (“Le Monde”, 7 maggio 1989).

Di fronte al crollo dei regimi comunisti nell’Europa centrale e orientale D. teme che l’Europa unita possa scivolare verso una grande zona di libero scambio dominata dalla Germania e incoraggia la “tartaruga europea” a riacciuffare la “lepre liberale” appoggiandosi a un socialismo democratico rinnovato (D., 1990) e a una riforma istituzionale (v. Istituzioni comunitarie); tutto questo attraverso il rafforzamento del Parlamento europeo e l’instaurazione della Procedura di codecisione. Nel 1992, D. invita a votare per il Trattato di Maastricht in quanto stabilisce un abbozzo di diplomazia e di difesa comuni e prevede una moneta unica (v. anche Euro). Ai suoi occhi un’Unione europea forte è la garante di una democrazia indebolita – malgrado il crollo dei regimi comunisti – dallo slancio dei partiti di estrema destra nell’Europa occidentale, dal risorgere dei nazionalismi in Jugoslavia e dall’integralismo religioso islamico nel Terzo Mondo. A metà degli anni Novanta propone anche un federalismo europeo rinnovato e un abbozzo di costituzione europea (v. Duverger, 1994 e 1995) (v. Federalismo).

Giurista, politologo, giornalista, saggista, parlamentare, D. ha seguito un percorso importante e atipico nella sfera intellettuale e politica del suo Paese, e i suoi scritti sull’Europa chiariscono sempre proficuamente i dibattiti costituzionali europei dell’attualità.

Valérie Aubourg (2009)