Eichel, Hans

E. nasce nel pieno della Seconda guerra mondiale, il 24 dicembre 1941 nella cittadina tedesca di Kassel, da una famiglia protestante liberale. Il padre era un tecnico ed architetto. Diplomatosi al liceo Wilhelm di Kassel, studia lingua tedesca, scienze politiche, filosofia e storia alle università di Marburgo e di Berlino per diventare insegnante liceale. Il periodo universitario (1961-1968) è segnato dal movimento studentesco, sfociato nel 1968 in violente dimostrazioni e rivolte. Sebbene in genere di temperamento moderato, anche E. è influenzato dal mutamento del clima intellettuale che si avverte in Germania. Mentre in precedenza si era impegnato in una campagna elettorale per Konrad Adenauer e l’Unione cristiana democratica (Christlich-demokratische Union, CDU), si orienta ora verso il partito socialdemocratico (Sozialdemokratische Partei Deutschlands, SPD), partecipando al circolo Frankfurter Kreis di Jochen Steffen, esponente dell’ala sinistra della SPD, ed entrando nel partito nel 1964.

L’impegno nel partito socialdemocratico ben presto si sovrappone alla carriera di insegnante iniziata da E. alla fine degli anni Sessanta. Nel 1969 viene eletto capo delegato dei giovani socialdemocratici, e diventa membro del comitato direttivo dell’organizzazione giovanile della SPD (sino al 1972). Parallelamente a questo incarico, come stella nascente della SPD guida il gruppo parlamentare nel municipio di Kassel (1970-75), e diventa nel 1975 sindaco della città, conservando la carica sino al 1991, quando la sua carriera compie un altro balzo in avanti.

Nel ruolo di sindaco, E. promuove politiche spiccatamente progressiste, e adotta diverse idee politiche del nuovo movimento dei Verdi, nato dal dibattito pubblico sulla pace e sulla tutela ambientale tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. E. avvia politiche ecologiste e si schiera contro l’energia nucleare e gli armamenti con missili nucleari a medio raggio. Nella sua sfera di influenza locale promuove una politica di pari opportunità di lavoro tra uomini e donne e propone misure di integrazione per gli immigrati. Quando la SPD perde la maggioranza nel 1981, non sorprende pertanto che E. formi una coalizione con il partito dei Verdi – la prima coalizione con il nuovo partito in una città tedesca delle dimensioni di Kassel (circa 180.000 abitanti). E. riottiene la maggioranza per la SPD nel 1985, e riesce a vincere anche le elezioni del 1989.

Il successo di E. come sindaco della SPD di Kassel porta infine alla sua elezione alla guida della SPD in Assia nel 1989, anno in cui viene designato candidato principale per le imminenti elezioni politiche del 1991. Durante la campagna elettorale E. presenta un governo ombra con una eguale rappresentanza di uomini e di donne, e un programma progressista che include il no all’energia nucleare, la richiesta del diritto di voto per gli immigrati con cittadinanza straniera nelle elezioni comunali, e un piano edilizio per la costruzione di 160.000 unità abitative entro quattro anni. Le elezioni, che si svolgono all’inizio del 1991, segnano la vittoria della SPD sulla SDU al governo, ma senza la maggioranza dei voti. Forte del successo ottenuto a livello comunale, E. forma una colazione di governo con il partito dei Verdi. Il 4 aprile 1991 viene eletto ministro presidente dell’Assia, lo Stato tedesco con il più alto prodotto interno lordo pro capite. Conserva questa carica per due mandati legislativi, fino a che perde le elezioni del 1999 contro la CDU con Roland Koch quale principale candidato e successore alla carica di ministro presidente.

In qualità di ministro presidente dell’Assia, E. realizza la maggior parte delle promesse fatte durante la campagna elettorale, e introduce alcuni cambiamenti in direzione di una “politica di riforme socio-ecologica” Il governo riduce le ore di lavoro per gli insegnanti, aumenta i sussidi per gli asili infantili, incrementa le opportunità di accesso al pubblico impiego, introduce programmi di integrazione per disoccupati di lungo periodo e riduce il finanziamento per la costruzione di strade nel quadro di una riforma della politica per il traffico. Pur rispettato per i provvedimenti progressisti adottati come ministro presidente, E. incontra crescenti difficoltà nel governo e all’interno del suo partito, rivelando scarse capacità di leadership. Nel 1992 fallisce all’interno del suo stesso partito regionale il tentativo di E. di introdurre normative più umanitarie e progressiste nei confronti degli Asylanten E. non riesce a vincere l’ostilità dell’orientamento reazionario e populista che domina nel dibattito pubblico. Quando la SPD perde drammaticamente le elezioni comunali nel 1993, la politica progressista di E. viene ritenuta responsabile della sconfitta.

Poco dopo l’indebolimento della posizione di E. all’interno del partito, anche il governo si trova a fare i conti con un imbarazzante episodio di corruzione, quando il ministro per le Politiche femminili deve dare le dimissioni, accusata di arricchimento personale in occasione dei lavori di ristrutturazione del suo appartamento. L’apice degli scandali di governo è raggiunto nel 1994, quando il ministro delle Finanze è costretto a dimettersi per una vicenda di tangenti associate alla lotteria di Stato.

Il governo di E. è sostenuto nelle elezioni del 1995, con perdite di voti per la SPD e guadagni per i Verdi. Durante il secondo mandato come ministro presidente, E. deve fare i conti con l’aggressiva opposizione del candidato Roland Koch, che definisce E. “simbolo assiano di stagnazione”. Alla fine del mandato E. cerca di mutare la sua politica dando impulso all’economia, e fonda una banca di investimento per incentivare potenziali investimenti in attività produttive.

Se non riesce a risollevare le sue sorti come capo di governo dello Stato dell’Assia, E. conosce però un’ulteriore promozione all’interno della SPD. Nel 1997 diventa portavoce del partito per le politiche finanziare, acquistando visibilità pubblica e riconoscimento a livello nazionale. Si schiera contro le politiche fiscali del governo federale, accusate di diminuire il gettito fiscale dello Stato. Quando la SPD supera l’alleanza SDU/ Unione cristiano sociale (Christlich-soziale Union, CSU) alle elezioni del 1998 e Gerhard Schröder viene eletto cancelliere con una coalizione SPD/Verdi, E. viene nominato presidente del Bundesrat.

Le elezioni del febbraio 1999 segnano la vittoria della CDU sulla SPD di E., che deve dimettersi dalla carica di ministro presidente. Appena due mesi dopo, quando Oskar Lafontaine si dimette dalle cariche di ministro federale delle Finanze e di capo della SPD, nell’aprile del 1999 E. viene nominato suo successore al ministero delle Finanze. Forte della sua esperienza ampiamente riconosciuta nel campo della politica finanziaria, E. avvia un ambizioso programma che prevede drastici tagli alla spesa, impulsi alla crescita economica, una nuova regolamentazione in materia di sussidi familiari, fondi pensione e imposizioni fiscali, in vista dell’introduzione di tasse ambientali. Scopo dichiarato di E. è quello di raggiungere il pareggio del bilancio federale entro il 2006. E. diventa il politico più influente dopo il cancelliere Schröder allorché riesce a far approvare con l’appoggio dell’opposizione rappresentata da CDU/CSU la riforma fiscale, che include riduzioni della tassa sul reddito e sulle imprese.

Ancora una volta, però, le sorti di E. subiscono un rovescio. A seguito in un incremento della spesa pubblica associato alla recessione economica, i suoi piani di bilancio falliscono, e il deficit pubblico cresce di giorno in giorno. Criticato costantemente dall’opposizione all’interno della Germania per due anni, E. viene ora messo sotto accusa dalla Commissione europea, in quanto il deficit pubblico tedesco ha superato la quota massima del 3% del prodotto interno lordo fissata dal Trattato di Maastricht. Grazie ad analoghi problemi economici in Francia, Italia e in altri paesi dell’Unione europea (UE) che hanno causato violazioni del tetto prestabilito del 3%, al governo tedesco non sarà applicata la procedura per eccesso di deficit prevista dal Trattato (v. anche Trattati).

Anton Legerer (2007)




Einaudi, Luigi

La fama di E. (Carrù 1874-Roma 1961) è legata agli studi di economia (fu professore di Scienza delle finanze all’Università di Torino), al giornalismo (fu collaboratore della “Stampa” di Alfredo Frassati e del “Corriere della Sera” di Luigi Albertini), all’attività politica (aderì al liberalismo democratico d’ispirazione inglese e fu contrario al fascismo; emigrato in Svizzera dopo l’8 settembre 1943, venne nominato governatore della Banca d’Italia nel 1945 ed eletto deputato alla Costituente nel 1946; fu vicepresidente del Consiglio e ministro del Bilancio con Alcide De Gasperi e Presidente della Repubblica dal 1948 al 1955). Meno noto è il fatto che E. sia stato un convinto europeista e uno dei maestri del pensiero federalista del Novecento (v. Federalismo), autore di una serie di saggi originali sulla pace, sulla crisi dello Stato nazionale, sull’unificazione dell’Europa. Come riconosciuto dallo stesso Altiero Spinelli, furono gli scritti di E., in particolare le Lettere politiche di Junius (ristampate da Laterza nel 1920), a influenzare alla fine degli anni Trenta le riflessioni degli autori del Manifesto di Ventotene, assurto poi a testo fondamentale del federalismo contemporaneo.

Gli scritti einaudiani sull’unità europea coprono oltre mezzo secolo, dal 1897 al 1956, con una interruzione fra il 1925, quando E. sospese la collaborazione al “Corriere della Sera” in segno di solidarietà con il direttore Luigi Albertini, dimessosi a seguito della fascistizzazione della testata, e il 1940, quando riprese ad affrontare il problema della pace e dell’unificazione europea. Sono più frequenti negli anni 1915-1925 e 1943-1954, cioè nei momenti critici della storia del Novecento che videro le guerre mondiali, la crisi del dopoguerra, la fondazione della Società delle Nazioni, la ricostruzione e l’avvio dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Tali scritti sono sparsi, occasionali, brevi, rigorosi ma non accademici, pubblicati per lo più su quotidiani con lo scopo di educare l’opinione pubblica e spingerla a vedere oltre l’apparenza delle cose. In tutto compongono alcune centinaia di pagine. Particolarmente rilevanti sono i contributi einaudiani alla definizione del concetto di crisi dello Stato sovrano, alla distinzione tra federazione e confederazione, alla critica della Società delle Nazioni e dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), all’individuazione delle ragioni che portarono ai conflitti mondiali, all’analisi delle cause della guerra e dei mezzi per garantire la pace, alla dottrina dello Stato federale, alla critica del funzionalismo.

Contro il mito dello Stato sovrano

Il concetto di crisi dello Stato sovrano rappresenta per il federalismo, oltre che un fatto empirico, la categoria storiografica fondamentale di valore euristico per comprendere la storia del Novecento, l’origine delle due guerre mondiali e del fascismo, la ragione principale del processo di integrazione europea e, in prospettiva, mondiale. Tale concetto è alla base della riflessione einaudiana. E. denuncia il dogma della sovranità assoluta, contrapponendovi la necessità della cooperazione imposta dalla crescente interdipendenza. La sua riflessione prende le mosse dall’analisi dello sviluppo economico generato dalla rivoluzione industriale. La sovranità assoluta, cioè il non dipendere da altri, richiede l’autosufficienza economica, quindi la possibilità di disporre di uno spazio vitale. La teoria degli spazi vitali come rimedio alla mancanza di materie prime e all’eccesso di produzione presuppone una condizione che di fatto non esiste: l’autosufficienza economica di ognuno degli spazi vitali. Nell’epoca dell’interdipendenza, lo spazio vitale è il mondo intero, in quanto nessun aggregato economico, per quanto grande, possiede tutte le materie prime necessarie al suo sviluppo; anche nello spazio ampliato mancherà sempre qualche bene rintracciabile in paesi più lontani. La pretesa di conseguire la sovranità assoluta e la conquista dello spazio vitale presuppongono così il dominio del mondo, quindi la guerra.

La rivoluzione industriale e la conseguente evoluzione socioeconomica e scientifica avevano dato avvio al processo di interdipendenza globale, favorito l’affermazione di Stati di grandi dimensioni (E. cita, all’inizio del Novecento, gli Stati Uniti, la Russia, l’Impero britannico), condannato i paesi europei, ridotti a pigmei, all’emarginazione e all’impotenza. Le dimensioni di questi ultimi erano ormai insignificanti, il loro territorio troppo piccolo, il mercato interno troppo ristretto per permettere una vera divisione del lavoro e alle imprese di raggiungere una dimensione ottimale. La conclusione di E. è categorica: «Bisogna distruggere e bandire per sempre il dogma della sovranità perfetta. La verità è il vincolo, non la sovranità degli Stati. La verità è l’interdipendenza dei popoli liberi, non la loro indipendenza assoluta».
Dalla demolizione del dogma dello Stato sovrano E. ricava quattro conseguenze: l’affermazione del diritto d’ingerenza; l’individuazione della causa ultima della guerra; la critica della Società delle Nazioni e dell’ONU; la necessità della federazione europea.

Il diritto d’ingerenza

Dalla critica del mito della sovranità assoluta discende il diritto, addirittura l’obbligo secondo E., all’ingerenza negli affari interni di un altro paese. La dottrina del non intervento deriva dalla proclamazione della sovranità assoluta dello Stato. La crescente interdipendenza mondiale ha reso labile la divisione fra relazioni esterne e relazioni interne. E. si pone la domanda se le società moderne debbano ancora organizzarsi in Stati sovrani o se ogni paese non debba accettare l’intervento degli altri nei propri affari interni. La risposta è scontata: se lo Stato non è più sovrano, in quanto l’interdipendenza ha vanificato tale pretesa, è evidente che cade anche la dottrina del non intervento. Chi resta fedele a tale teoria non ha imparato la lezione delle due guerre mondiali, combattute contro la dottrina del non intervento. Gli alleati, afferma E., lottarono per affermare l’obbligo, (l’obbligo, ribadisce con chiarezza, non solo il diritto), di intervenire negli affari interni di uno Stato il cui regime rappresentava una minaccia costante alla loro esistenza e per proclamare l’intollerabilità in ogni angolo del mondo di regimi tirannici. L’esistenza di una dittatura, infatti, coinvolge non solo i cittadini che la subiscono, ma ogni paese, perché è un germe d’infezione per tutto il mondo. È una evidente anticipazione del diritto d’ingerenza, dell’obbligo per l’ONU di intervenire per tutelare la pace e la democrazia.

La causa ultima della guerra

Il pacifismo di E. s’inserisce nel filone del pacifismo giuridico risalente a Kant, cui si ricollega la tradizione federalista d’ispirazione hamiltoniana. Secondo questa, la causa ultima della guerra non risiede né nella forma interna degli Stati, né nelle ragioni politiche o economiche che possono sì spiegare uno specifico conflitto, ma non perché la guerra è possibile. Secondo E., la causa vera sta nella sovranità assoluta dello Stato, nell’assenza di un governo superiore, quindi nella conseguente anarchia internazionale in cui senza un giudice superiore e imparziale è impossibile risolvere pacificamente le controversie. Solo la federazione, cioè la costruzione di un potere statale superiore, può garantire la pace. Su questo tema E. interviene nuovamente nel 1948, prendendo spunto da due temi all’epoca di grande attualità, con due articoli pubblicati sul “Corriere della sera”, Chi vuole la bomba atomica? e Chi vuole la pace?. Il dissidio non sorge contro l’uso della bomba atomica, su cui regna l’accordo, ma sui mezzi per impedirne l’uso. Fautori e avversari della nuova arma non possono essere distinti solo dal rifiuto o dall’accettazione di sottoscrivere una convenzione internazionale di messa al bando della bomba atomica. Colui che sottoscrive il bando negando i mezzi per fare osservare il divieto, diventa il più efficace sostenitore della bomba atomica. Bisogna indicare i mezzi sufficienti a fare osservare tale divieto. L’unico criterio per giudicare se alle parole corrispondano i fatti è chiedersi se il divieto debba agire entro l’ambito della piena sovranità degli Stati o presupporre la rinuncia alla sovranità medesima. Nel primo caso, la proclamazione solenne del divieto dell’uso della bomba atomica è pura utopia, come dimostra l’esperienza storica. I divieti, infatti, non hanno impedito alla Germania di riarmarsi dopo la Prima guerra mondiale e non ci sono controlli internazionali che possano impedire a uno Stato sovrano di perseguire i propri interessi. E. propone il trasferimento della proprietà e dell’impiego di tutto ciò che serve alla fabbricazione della bomba atomica a un ente internazionale, una sorta di super Stato, limitato nei suoi scopi al tema specifico, che detenga il possesso di tutte le materie prime e dei giacimenti di minerali indispensabili alla fabbricazione dell’arma atomica.

Circa la pace, E. scrive che non basta gridare nelle piazze “vogliamo la pace”, occorre chiedersi come attuare tale proposito. Paragona la società internazionale alla società interna; dentro gli Stati, per difendersi da ladri e assassini, gli uomini hanno creato i giudici e i poliziotti, rinunciando a difendersi da sé e ricorrendo al superiore potere della legge e al monopolio statale dell’uso della forza. Così nella società internazionale solo una forza superiore alle singole nazioni può impedire di scatenare la guerra. Chi vuole la pace deve volere la federazione, cioè la creazione di un potere superiore ai singoli Stati sovrani.

I limiti della Società delle Nazioni e dell’ONU

La critica della sovranità assoluta offre a E. gli strumenti per sottolineare le insufficienze e prevedere il fallimento della Società delle Nazioni e dell’ONU. A tale scopo impiega la distinzione tra federazione (intesa come limitazione della sovranità degli Stati che si federano e costruzione di un nuovo Stato cui è trasferita parte dei poteri di quelli federati) e confederazione (concepita come cooperazione intergovernativa fra paesi che rimangono sovrani e non delegano poteri agli organi comuni). La Società delle Nazioni è intesa come alleanza di Stati sovrani e indipendenti al fine di mantenere la concordia fra gli associati e difenderli dalle aggressioni esterne. Nessuno pensa che per conseguire tali obiettivi si debba costituire un super-Stato fornito di sovranità diretta sui cittadini e del diritto di stabilire imposte proprie, di mantenere un esercito sovrannazionale, di avere una propria amministrazione. Si vuole una Società delle Nazioni, ma ogni Stato deve rimanere indipendente. Fra lo stupore e la riprovazione generale (sarà aspramente criticato per questa presa di posizione), E. pubblica un articolo all’inizio del 1918 in cui definisce la Società delle Nazioni un puro nome, il nulla, capace addirittura di aumentare le ragioni di guerra. Alla debole e incapace Società ginevrina contrappone una vera federazione, dotata di poteri limitati ma reali.

Dopo la nascita dell’ONU, E. riprende le argomentazioni del 1918 per criticare la nuova organizzazione e dimostrarne l’inefficacia nel perseguire lo scopo di garantire la pace. Il suo valore morale è indiscusso, scrive; forse non si può fare di più, forse la guerra sarà resa meno frequente, ma annota sconsolatamente che il meccanismo giuridico atto a sopprimere i conflitti non è stato creato neppure questa volta: manca la limitazione della sovranità assoluta; la nuova organizzazione non ha il potere di impedire lo scoppio di altri conflitti. E. conferma la natura giuridica, e non morale, del suo pacifismo. Assicurare la pace non è un problema di buona volontà, di palingenesi sociale, di rinnovamento religioso, ma significa creare il «meccanismo giuridico» atto a sopprimere le guerre, cioè la federazione.

Dalla critica dello Stato sovrano e dall’impostazione giuridica del problema della pace deriva per E. la necessità storica dell’unificazione europea, condizione per il progresso del continente e per impedire altri conflitti. A questo proposito sviluppa la sua interpretazione delle guerre mondiali.

L’interpretazione delle guerre mondiali

Secondo E., le guerre mondiali sono una manifestazione della necessità storica dell’unificazione europea, uno sforzo cruento verso la creazione di unità statali superiori innescato dalle spinte all’integrazione generate dall’evoluzione del processo produttivo e dall’aumento degli scambi. L’interdipendenza economica è in contraddizione con l’esistenza di Stati chiusi e protezionistici. Ad alcuni paesi non rimaneva dunque che conquistare lo spazio vitale, logica e fatale conseguenza del principio dello Stato sovrano, con la forza. I conflitti mondiali risultano così il tentativo di unificare l’Europa con la violenza, la risposta aberrante alla crisi degli Stati nazionali e all’esigenza di integrare i mercati. Guglielmo II e Hitler sono il frutto di una necessità storica, l’unificazione dell’Europa, e hanno posto un problema reale che va risolto scartando soluzioni confederali, del tipo societario, perché consacrano l’idea dello Stato sovrano e non eliminano la guerra. Ricorrendo a un’immagine biblica, E. afferma che il problema europeo non può essere risolto che in due maniere: o con la spada di Satana (quella impugnata da Hitler, cioè l’egemonia) o con la spada di Dio (cioè la federazione realizzata con il consenso dei popoli). Se non si realizzerà la federazione, l’Europa sarà sconvolta da altre guerre finché non sarà compiuta la necessità storica della sua integrazione.

L’organizzazione dello Stato federale

E. ritorna sull’argomento della federazione europea verso la fine del 1943 e prende in considerazione per la prima volta la struttura istituzionale dello Stato federale. La federazione, scrive, ha un fondamento prevalentemente economico, conseguenza delle moderne condizioni di vita che hanno unificato economicamente il mondo e trasformato i mercati nazionali in spazi troppo stretti. Alla filosofia della scarsità, propria dello Stato piccolo, bisogna contrapporre la filosofia dell’abbondanza, propria dello Stato grande. Nella federazione i danni di un’eventuale politica protezionistica, comunque sbagliata perché il mercato deve ormai coincidere con il mondo intero, sono attenuati dalla maggiore ampiezza, rispetto a quello nazionale, dello spazio economico, i beni e i servizi circolano liberamente, la concorrenza è meglio garantita e gli accordi monopolistici risultano più difficili. E. elenca le competenze minime che gli Stati devono delegare alla federazione: il commercio interno; i trasporti (per abolire ogni discriminazione per viaggiatori e merci); le migrazioni interne (per garantire la libertà di movimento e di residenza); le poste, i telefoni, il telegrafo (per assicurare l’illimitata facilità di comunicazione); infine la competenza più significativa e limitativa della sovranità degli Stati, la moneta, con la fissazione di rapporti legali stabili tra le varie divise nazionali e la creazione di una banca centrale di emissione (per regolare la spesa pubblica, limitare l’inflazione ed evitare le misure protezionistiche). In sintesi, la federazione deve essere competente su moneta, libertà di circolazione, dogane, sicurezza.

Per realizzare i suoi obiettivi, l’amministrazione federale dovrà essere dotata di strumenti adeguati. Innanzitutto l’esercito comune, composto non da contingenti degli Stati membri, ma reclutato individualmente; ai singoli paesi rimarrebbe il controllo della polizia. Senza una forza propria la federazione sarebbe un puro nome, una dannosa società delle nazioni. Il diritto di dichiarare la guerra verrebbe così sottratto alle singole nazioni e trasferito alla federazione; con esso gli Stati sarebbero amputati dell’espressione più significativa della sovranità. Poiché la federazione ha competenze sulla difesa e sul commercio estero, le spetta anche la rappresentanza diplomatica per quanto riguarda le materie federali, mentre continuerebbero a sussistere le rappresentanze diplomatiche e consolari degli Stati federati per i restanti settori. La federazione dovrà disporre di una magistratura federale, di una corte suprema e di una polizia federale per far rispettare le leggi. Gli organi legislativi devono prevedere un parlamento bicamerale, composto da un consiglio degli Stati, in cui ogni paese è rappresentato da un uguale numero di rappresentanti, e da un consiglio legislativo, eletto direttamente dai cittadini in proporzione alla popolazione. Le camere esercitano la potestà legislativa e le leggi devono essere approvate da entrambe. Il potere esecutivo spetta al consiglio federale (la terminologia è chiaramente mutuata dall’esperienza elvetica), eletto dal parlamento in seduta comune.

Fissati i compiti e gli strumenti della federazione, E. si preoccupa di precisarne i mezzi finanziari. Secondo una sua radicata convinzione, maturata dall’esperienza americana (amava citare la frase di Alexander Hamilton secondo cui il potere, senza il diritto di stabilire imposte, nelle società politiche era un puro nome), qualsiasi organismo, per risultare vitale, deve vivere con risorse proprie, non dipendere dal contributo di altri. Le dogane sono la più ovvia entrata finanziaria da attribuirsi esclusivamente alla federazione. Spettano inoltre allo Stato federale le imposte di fabbricazione e le entrate derivanti dai servizi gestiti direttamente. Se l’insieme di queste risorse non risultasse sufficiente, si potrebbe imporre un’eventuale imposta sul reddito dei cittadini. Viene delineato così un vero Stato federale, garante dell’unicità del mercato e della pace interna, con un unico territorio doganale, un esercito comune, una finanza propria, un’autorità legislativa, esecutiva e giudiziaria.

Nel 1950 con il memorandum che porta il nome di Jean Monnet si avvia effettivamente l’unificazione europea secondo l’impostazione funzionalistica. Il 9 maggio la Dichiarazione Schuman (v. Schuman, Robert) dà avvio alla prima Comunità, quella del carbone e dell’acciaio (v. Comunità europea del carbone e dell’acciaio). Il 27 giugno E. detta una nota sul Piano Schuman, in cui raccomanda, come condizione di buon funzionamento dell’organizzazione, che si adotti il principio del voto a maggioranza (v. anche Maggioranza qualificata) e che l’Alta autorità possa dare ordini direttamente ai soggetti economici, in qualsiasi territorio nazionale siano situati, senza attendere ratifiche di sorta da parte dei singoli Stati. Unanimità significa (v. anche Voto all’unanimità), ammonisce E., Società delle Nazioni, ONU, Consiglio d’Europa, cioè enti privi di poteri effettivi.

La critica al funzionalismo

Chiarita la necessità dell’unificazione e il modello di Stato federale, E. si chiede come realizzarlo. All’epoca della Prima guerra mondiale egli aveva mostrato interesse verso il metodo funzionalistico. Ora ne rileva i limiti e sottolinea le incongruenze cui sarebbero andate incontro le Comunità europee di tipo funzionale. Da tempo esistono unioni internazionali amministrate da tecnici che limitano la sovranità degli Stati (la Croce rossa, l’unione postale, l’unione per la tutela della proprietà industriale, dei marchi di fabbrica, della proprietà letteraria, ecc.). Dati i buoni risultati conseguiti da tali unioni tecniche, si pensò di estenderne il principio ad altre materie, creando così il Fondo monetario internazionale, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), la Comunità europea di difesa (CED). Tutti questi sono tentativi che dimostrano buona volontà, a patto che non siano fini a se stessi, ma implichino a breve scadenza il passaggio alla federazione politica. E. non crede all’evoluzione spontanea dall’integrazione tecnica e settoriale all’unificazione politica. Il gradualismo può risultare utile, ma deve prevedere chiaramente le tappe verso l’unione politica, collocata non in un imprecisato futuro, ma posta fin dall’inizio come meta ultima, da conseguire attraverso stadi intermedi altrettanto chiaramente prefissati. L’oggetto delle vecchie unioni internazionali era tecnico e limitato; l’oggetto di quelle nuove coinvolge gli interessi vitali dei paesi membri. Sia la CECA sia la CED, se vorranno funzionare, dovranno ingerirsi nella vita economica e sociale degli Stati; quindi dovranno disporre di un vero governo e di un vero parlamento.

E. cerca di immaginare le conseguenze concrete cui condurrà il Funzionalismo. Se le nuove unioni si limitassero a sopprimere gli ostacoli al libero commercio, forse potrebbero anche funzionare; ma se vogliono prendere decisioni di natura politica, che toccano interessi contrastanti di ceti diversi, andrebbero incontro al fallimento. Se lo Stato nero del carbone vorrà non solo liberalizzare il commercio, ma anche fissare il prezzo del carbone e dell’acciaio, distribuire le imprese produttrici sul territorio e regolare il commercio, le sue decisioni si scontrerebbero con gli interessi dello Stato verde degli agricoltori, danneggiato dai prezzi fissati da quello nero per il combustibile e per i macchinari agricoli; entrambi poi litigherebbero con lo Stato funzionale più importante, quello della difesa, il cui bilancio sarebbe gravato dalle pretese degli altri due circa il costo delle vettovaglie e dei cannoni. Gli Stati a pezzettini, conclude E., non funzionano; meglio un’alleanza tradizionale, che si sa che dura finché gli alleati hanno interesse a rimanere uniti. L’idea della federazione funzionale è frutto di confusione mentale. Chi accetta l’idea dell’esercito comune deve andare fino in fondo e accettare l’idea della federazione politica. Le unioni parziali, quali la CECA, il “Pool verde”, la CED sono accettabili solo provvisoriamente, come tappa intermedia sulla via della più vasta federazione politica. L’Unione doganale senza quella monetaria è un non senso e l’unione monetaria non si realizza senza la rinuncia alla stampa dei biglietti e a una parte notevole di sovranità politica: «È un grossolano errore dire che si comincia dal più facile aspetto economico per passare poi al più difficile risultato politico. È vero il contrario. Bisogna cominciare dal politico, se si vuole l’economico». E. avverte che la realizzazione della CED è fondamentale; l’esercito comune è la condizione necessaria della federazione, in quanto non ci si può più difendere da soli. L’angoscia in cui vivono gli europei è l’angoscia di Machiavelli per l’impotenza degli Stati italiani di fronte a Francia e Spagna; è l’angoscia odierna di italiani, francesi, tedeschi per la loro impotenza di fronte ai colossi mondiali dell’Est e dell’Ovest. L’esercito comune diventa così la garanzia dell’indipendenza dell’Europa, condannata, se permane la divisione, a una condizione di vassallaggio nei confronti degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica.

Conclusioni

Il contributo di E. all’unificazione europea fu essenzialmente teorico. Predicò con profonda dottrina la necessità dell’integrazione, apportando contributi originali al pensiero federalista, ma operò poco, rispetto, per esempio, al suo impegno nella politica interna italiana. A differenza di Ernesto Rossi e di Altiero Spinelli, mancò a E. la volontà di tradurre in azione la sua riflessione teorica. Invocò l’unità dell’Europa dal 1897, ne dimostrò la necessità, ma non si impegnò per realizzarla. Qui sta il paradosso di E.: scrisse, suggerì, propagandò l’idea dell’unità europea, aderì, finanziò e fece finanziare il Movimento federalista europeo, ma non vi è traccia di un suo impegno concreto, né egli è ricordato nelle autobiografie di altri illustri politici europeisti suoi contemporanei come un artefice dell’integrazione europea.

E. fu un teorico, più che un politico dell’integrazione europea. Pur arrecando contributi significativi all’elaborazione del pensiero federalista, non riconobbe nel federalismo una ideologia autonoma, dotata di propri valori e di nuove categorie concettuali, in grado di produrre originali riflessioni sulla società e sul potere, capace di alimentare un movimento politico indipendente dai partiti e teso a un fine esclusivo e prioritario rispetto alla realizzazione nella politica interna dei tradizionali ideali liberali o socialisti, cioè alla federazione europea. Il suo orizzonte culturale circa l’organizzazione politica ed economica della società rimase quello liberale; il federalismo diventava accessorio rispetto al liberalismo, garantendo il pieno realizzarsi degli ideali liberali attraverso le strutture dello Stato federale, l’abolizione delle barriere doganali e l’unificazione dei mercati, una più sana gestione monetaria, la stabilità dei cambi, l’assicurazione della pace.

E. va comunque annoverato tra i maestri del pensiero federalista del Novecento. La rilevanza delle sue riflessioni spicca soprattutto se paragonata all’incapacità della cultura italiana coeva (Piero Gobetti, Antonio Gramsci, Benedetto Croce) di cogliere il significato degli avvenimenti che stavano accadendo, di accorgersi della crisi dello Stato nazionale, di cercare nuove categorie interpretative del fascismo e della storia del Novecento. Alla maggior parte degli intellettuali italiani sfuggì la connessione fra i problemi interni e il contesto internazionale in cui maturavano e la percezione che l’effettiva soluzione a tali problemi andava cercata al di là dei confini nazionali, superando la forma di Stato uscita dalla Rivoluzione francese. Mentre per la maggior parte della cultura italiana lo Stato nazionale continuava a essere la forma indiscussa di organizzazione politica (Gaetano Salvemini, per esempio, nel 1944-1945 consigliava a Rossi di non perdere tempo a fabbricare castelli in aria, cioè la federazione europea, ma di tornare a Firenze a costruire la repubblica democratico-socialista italiana, aspirante successivamente a diventare parte della federazione europea), E. seppe emanciparsi da questa prospettiva nazionale e leggere la storia da un punto di vista sovrannazionale. Ebbe la capacità di vedere con chiarezza il problema storico fondamentale del Novecento: il superamento dello Stato nazionale sovrano verso l’unificazione europea e mondiale.

E. ebbe forte il senso dell’autonomia europea rispetto alle superpotenze e non accettò la riduzione del continente a una condizione di vassallaggio, scongiurabile proprio con la realizzazione della federazione europea. L’unione, non la protezione americana, poteva garantire ai cittadini europei ciò che gli Stati nazionali non erano più in grado di assicurare: sicurezza e benessere. E i tempi per realizzare l’unione non erano infiniti, come ricordò il 1° marzo 1954, all’epoca della ratifica della CED, nell’ultimo scritto europeista: «Nella vita delle nazioni di solito l’errore di non saper cogliere l’attimo fuggente è irreparabile. La necessità di unificare l’Europa è evidente. Gli Stati esistenti sono polvere senza sostanza. Nessuno di essi è in grado di sopportare il costo di una difesa autonoma. Solo l’unione può farli durare. Il problema non è fra l’indipendenza e l’unione; è fra l’esistere uniti e lo scomparire. Le esitazioni e le discordie degli Stati italiani della fine del Quattrocento costarono agli italiani la perdita dell’indipendenza lungo tre secoli; e il tempo delle decisioni, allora, durò forse pochi mesi. Il tempo propizio per l’unione europea è ora soltanto quello durante il quale dureranno nell’Europa occidentale i medesimi ideali di libertà. Siamo sicuri che i fattori avversi agli ideali di libertà non acquistino inopinatamente forza sufficiente a impedire l’unione; facendo cadere gli uni nell’orbita nordamericana e gli altri in quella russa? Esisterà ancora un territorio italiano; non più una nazione, destinata a vivere come unità spirituale e morale solo a patto di rinunciare a una assurda indipendenza militare ed economica».

Umberto Morelli (2010)




Eiropas integrācijas birojs

Ufficio per l’integrazione europea




Eiropas kustība latvijā

Movimento europeo lettone




Eisenhower, Dwight David

E. (Denison, Texas, 1890-Washington 1969) proveniva da una famiglia di origine alsaziana (Eisenhauer) emigrata in America alla metà del XVIII secolo, stabilendosi in Pennsylvania e poi in Kansas. Sull’infanzia del futuro presidente ebbe un’influenza significativa l’atmosfera di forte religiosità in cui la famiglia viveva: gli Eisenhower erano appartenuti a una setta mennonita e i genitori di Dwight si sarebbero negli anni seguenti avvicinati ai Testimoni di Geova. E. invece, se ne sarebbe progressivamente allontanato e nel febbraio 1953 sarebbe poi stato battezzato e cresimato nella Chiesa presbiteriana, poche settimane dopo la sua elezione alla presidenza. Terminati gli studi nel 1909, iniziò la carriera militare nell’esercito a West Point nel 1911.

Negli anni di accademia E. si distinse più per le sue qualità di giocatore e di allenatore della squadra di football che come studente, riuscendo comunque nel 1915 a completare il suo corso di studi tra i primi classificati. Il suo primo incarico da ufficiale lo portò a Fort Sam Houston, nel Texas. Durante la Prima guerra mondiale fece ripetutamente domanda per essere inviato al fronte, ma con sua grande frustrazione rimase destinato a compiti interni – per lo più l’addestramento delle reclute – per tutta la durata del conflitto. All’estero si recò per la prima volta tra il 1922 e il 1924, quando accettò l’invito del generale Fox Conner a far parte del suo Stato maggiore, nella Zona del Canale di Panama. Fu una scelta ben ponderata, che si rivelò cruciale per il futuro di E.: come capo ufficio operazioni del Corpo di spedizione americano durante la Prima guerra mondiale sotto il generale Pershing, Conner aveva acquisito una eccellente reputazione tra i militari americani e sotto il suo comando E. completò con un mentore di eccezione la sua formazione culturale e professionale. Oltre a guidarlo nel completamento degli studi, Conner lo aiutò ad entrare alla Scuola superiore di Stato maggiore (la Command and general staff school a Ft. Leavenworth, Kansas), dove nel 1926 E. si sarebbe laureato primo su 245 iscritti. Negli anni seguenti E. lavorò con alcune delle personalità più celebri e brillanti dell’esercito degli Stati Uniti, prima con il generale Pershing e successivamente, dal 1933 fino al 1939, come principale aiutante di campo del generale MacArthur. Con quest’ultimo nel 1935 si trasferì nelle Filippine, dove collaborò all’addestramento e alla creazione dell’esercito nazionale. Infine, nei primi due anni della Seconda guerra mondiale, fu trasferito nuovamente in Texas, con l’incarico di capo di Stato maggiore della Terza armata sotto il comando del generale Krueger. Le brillanti intuizioni e le notevoli qualità messe in luce in quel periodo lo segnalarono all’attenzione del capo di Stato maggiore dell’esercito, il generale George Catlett Marshall, che lo convocò a Washington pochi giorni dopo l’attacco di Pearl Harbour, per assegnargli incarichi di crescente importanza.

Nominato maggior generale nel marzo del 1942, in maggio E. fu inviato a Londra come comandante generale del teatro europeo, e da quel momento cominciò il suo coinvolgimento diretto nelle operazioni più importanti della Seconda guerra mondiale in Europa. Nel novembre 1942 guidò l’operazione Torch, lo sbarco americano nel Nord Africa francese, e la successiva campagna conclusasi con la resa delle forze italo-tedesche in Tunisia. Come comandante in capo del Mediterraneo, seguì le trattative che portarono alla resa italiana il 3 settembre del 1943 e guidò le operazioni in Sicilia e in Italia fino al dicembre di quell’anno, quando il presidente Franklin Delano Roosevelt gli assegnò il Comando supremo per lo sbarco in Francia – l’operazione Overlord. Nominato comandante supremo delle forze alleate, E. divenne responsabile della più importante operazione della Seconda guerra mondiale, destinata a cambiare le sorti del conflitto. Dopo il successo dello sbarco, rimase al comando delle forze alleate in Europa fino alla resa della Germania, superando non senza qualche difficoltà gli ostacoli derivanti dalla diversità di visioni strategiche all’interno della coalizione. Generale a 5 stelle nel dicembre 1944, alla fine della guerra divenne comandante in capo della zona di occupazione americana in Germania, dove rimase fino al novembre 1945, quando ricevette l’incarico di capo di Stato maggiore dell’Esercito. Nel 1948 lasciò la vita militare per diventare presidente della Columbia University, posizione che rivestì fino al dicembre del 1950.

La grande popolarità e l’esperienza acquisita nel guidare le forze dell’eterogenea coalizione che aveva vinto la campagna in Europa occidentale nel 1944-1945 resero E. il candidato quasi naturale per l’amministrazione guidata da Harry Spencer Truman al momento di nominare il primo comandante supremo delle forze dell’Alleanza atlantica. Quando nel dicembre del 1950, in seguito allo scoppio della guerra di Corea, ebbe inizio la creazione dell’organizzazione permanente delle forze dell’alleanza – quella che poi sarebbe diventata l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) – E. fu perciò nominato Supreme allied commander in Europe (SACEUR). In questa posizione entrò direttamente in contatto con i principali problemi dell’organizzazione politica e militare dell’Europa occidentale: arrivò infatti a Parigi, dove il suo comando avrebbe avuto il quartier generale, nel momento in cui il governo Pleven (v. Pleven, René) aveva appena proposto la possibilità di dar vita a un esercito europeo come soluzione per il riarmo della Germania federale. Il primo impatto con l’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) fu abbastanza difficile: E. ebbe un’impressione molto negativa del Piano Pleven, da lui giudicato come un progetto che «includeva ogni sorta di ostacolo, difficoltà, e nozione fantastica che esseri umani mal guidati avrebbero potuto mettere insieme in un unico pacchetto» (v. Winand, 1997, p. 27). Il suo giudizio negativo rifletteva le perplessità di quanti, chiamati ad allestire in fretta uno strumento militare che rafforzasse le difese dell’Europa occidentale e rendesse meno probabile un’aggressione sovietica, vedevano nella proposta francese una manovra volta soprattutto a guadagnare tempo e a procrastinare il riarmo tedesco. E. avrebbe cambiato idea a seguito di alcune celebri conversazioni con Jean Monnet, che nel giugno del 1951 lo convinse dell’opportunità politica, prima ancora che militare, di procedere all’unificazione degli eserciti francese e tedesco. E. rimase fortemente impressionato dalla logica di Monnet e da quel momento sarebbe diventato un convinto sostenitore del progetto di una comunità europea di difesa e più in generale della logica dell’integrazione come strumento complessivo per il rafforzamento dell’Europa occidentale. Di lì a pochi giorni, all’inizio di luglio, rese nota la sua nuova prospettiva in un celebre discorso tenuto a Londra, a Grosvenor palace, nel quale descrisse come “incalcolabili” i vantaggi dell’integrazione europea, un tema che avrebbe poi ripetutamente ripreso nei mesi seguenti come quando, nel Consiglio Atlantico del 26 novembre, auspicò con calore il successo del Piano Schuman e del Piano Pleven. Né i suoi sforzi erano limitati al piano puramente propagandistico, dal momento che anche in privato non mancò di insistere con l’amministrazione Truman perché si adoperasse per rafforzare le tendenze del Federalismo europeo, fino ad appoggiare l’ipotesi di un’unione politica ed economica dell’Europa come lo strumento migliore che gli Stati Uniti avevano a loro disposizione per migliorare la difesa dell’Occidente. In breve, inserito nell’ambiente parigino in un momento critico per il futuro dell’integrazione europea, E. risentì profondamente dell’influenza di quel milieu franco-americano (in particolare le personalità di David Bruce e Jean Monnet) che dette un contributo fondamentale alla definizione di un’Europa unita saldamente inserita nell’alleanza atlantica.

Nel luglio del 1952 E. lasciò l’incarico di SACEUR per partecipare alla campagna elettorale negli Stati Uniti. Sollecitato dal movimento “draft Eisenhower”, che raccoglieva firme a livello popolare per proporne la candidatura, accettò alla fine la proposta del partito repubblicano: a più riprese avrebbe poi ammesso di averlo fatto anche, se non soprattutto, per evitare il successo di quei candidati dell’ala radicale del partito che avrebbero voluto imprimere una marcata svolta alla politica estera degli Stati Uniti. Erano gli anni della virulenta e demagogica campagna anticomunista del senatore McCarthy, che minacciava di scuotere dalle fondamenta il mondo politico americano, e la candidatura di E. doveva servire anche a mantenere il partito repubblicano su posizioni più moderate.

Una volta presidente, E. iniziò una approfondita revisione della politica estera seguita dagli Stati Uniti fino a quel momento. Condivideva la scelta di Truman di contenere l’Unione Sovietica, ma non la decisione di farlo con spese militari apparentemente inesauribili per sostenere un apparato di forze convenzionali sempre più grandi; né riteneva strategicamente importante continuare a combattere in Corea, una guerra che rischiava di logorare il potenziale bellico del paese senza conseguire risultati decisivi. Nel corso del 1953 vari gruppo di analisti, politici, diplomatici e militari dettero vita all’operazione Solarium, un’analisi delle scelte possibili che la nuova amministrazione avrebbe potuto attuare. Il risultato fu definito tra la fine del 1953 (quando fu emanata la direttiva 162/2 del National security council, che autorizzava i militari americani a prevedere l’uso delle armi atomiche nella loro pianificazione) e l’aprile del 1954, quando il neosegretario di Stato John Foster Dulles, in un celebre discorso al Council for foreign relations, ne espresse pubblicamente i principi. In breve, la nuova amministrazione sceglieva di mantenere la politica di contenimento dei sovietici, ma di attuarlo riducendo le spese per le forze convenzionali e potenziando invece quelle per le armi nucleari, il cui impiego avrebbe potuto aver luogo in maniera indiscriminata (con una “rappresaglia massiccia”) per sanzionare nuove aggressioni da parte dell’avversario. Il new look dell’amministrazione repubblicana, come fu prontamente ribattezzato, sfruttava dunque il temporaneo, enorme vantaggio in termini di armi nucleari di cui gli Stati Uniti godevano nei confronti dell’URSS per tenere i russi sotto scacco minacciandoli di ritorsioni violentissime e sproporzionate all’eventuale aggressione da loro perpetrata.

Nel contesto della nuova strategia, l’integrazione europea svolgeva un ruolo fondamentale. Uno dei motivi di fondo che aveva spinto E. a concepire il new look era la sua ferma determinazione a mantenere salda nel lungo periodo la stabilità economica degli Stati Uniti, riducendo le spese per la difesa, sacrificando l’apparato militare convenzionale e scommettendo sulle potenzialità dell’arsenale nucleare. Un’Europa saldamente integrata e parzialmente autosufficiente dal punto di vista militare, oltre a risolvere le tensioni interne al vecchio continente, avrebbe senz’altro favorito il contenimento dell’Unione Sovietica sia riducendone i costi complessivi per gli Stati Uniti, sia compensando con il proprio riarmo convenzionale l’inversione delle spese militari a favore delle armi nucleari che E. intendeva attuare. La nuova amministrazione non fece perciò mistero del proprio incondizionato sostegno per la creazione della Comunità europea di difesa (CED) e più in generale per la causa di un’Europa federale, vista come l’unica soluzione che avrebbe potuto offrire agli Stati Uniti un alleato forte e coeso, un “terzo grande blocco”: come dichiarò qualche anno dopo lo stesso E., se l’Europa si fosse riarmata e federata, gli Stati Uniti avrebbero potuto «in qualche modo ritirarsi e rilassarsi. Per contribuire a realizzare tale sviluppo essi devono dimostrare a tutti i paesi dell’Europa occidentale che ciascuno di essi beneficerebbe dell’unione di tutti e che nessuno avrebbe nulla da perdere»” (discorso tenuto al National security council il, 21 novembre 1955). Questo incondizionato appoggio a una visione federale dell’Europa era però destinato a scontrarsi con le resistenze di una parte delle classi dirigenti francesi, restie a portare fino alle estreme conseguenze l’idea implicita nella CED di un’Europa federale. Le pressioni americane generarono perciò crescenti risentimenti nella IV Repubblica, che però restava strettamente dipendente dagli Stati Uniti non solo per la sua politica di sicurezza ma anche per il crescente supporto fornito da Washington alla guerra che la Francia conduceva per mantenere il controllo sulle sue colonie in Indocina. Dulles arrivò a minacciare una “revisione lacerante” della politica americana verso Parigi se il trattato istitutivo della CED non fosse stato ratificato dall’Assemblea nazionale francese, ma senza nessun effetto.

La mancata ratifica della CED nell’agosto del 1954 aprì non solo una crisi nelle relazioni franco-americane, ma generò anche un parziale ripensamento nell’atteggiamento americano verso l’integrazione europea. Durante i successivi negoziati che risolsero il problema del riarmo della Germania federale mediante la creazione dell’Unione europea occidentale, gli Stati Uniti manifestarono un blando interesse nei confronti di una formula che giudicavano strettamente intergovernativa (v. Cooperazione intergovernativa) e quindi inadeguata a risolvere in maniera strutturale i problemi dell’Europa. Quando poi a partire dal 1955 i sei stati membri della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) iniziarono a discutere la possibilità di un rilancio dell’integrazione europea, gli Stati Uniti mostrarono un rinnovato interesse sia per la possibilità di un mercato comune sia di un’organizzazione volta a sfruttare a fini pacifici l’energia nucleare, come dimostra la precedente citazione dello stesso E.; al tempo stesso però decisero di adottare nei confronti delle trattative un atteggiamento pubblico di basso profilo per evitare che si ripetesse l’equivoco della CED, e che anche le nuove iniziative potessero apparire all’opinione pubblica e alle forze politiche europee come un progetto esclusivamente di matrice americana. Dietro le quinte, perciò, gli Stati Uniti si adoperarono per favorire la nascita delle nuove comunità, soprattutto nel caso della Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom), ma nel complesso la loro posizione per tutto il periodo tra il 1955 e il 1957 sembrò decisamente più sfumata che in passato. Paradossalmente, E. influenzò comunque l’andamento delle trattative, sia pure in maniera involontaria. L’atteggiamento ostile tenuto dalla sua amministrazione nei confronti delle scelte effettuate dai governi di Londra e Parigi durante la crisi di Suez dell’estate-autunno del 1956, infatti, suscitò un profondo malumore in molti governi europei, e in particolare nei primi ministri francese e tedesco Guy Alcide Mollet e Konrad Adenauer, spingendoli ad accelerare le trattative per la nascita delle due nuove comunità in modo da bilanciare il peso degli Stati Uniti all’interno dell’Alleanza atlantica mediante la creazione di un’Europa più integrata.

E. fu rieletto presidente per un secondo mandato nel novembre del 1956, dopo un periodo di salute malferma che lo aveva allontanato per alcuni mesi dalla presidenza. Nel suo secondo periodo alla Casa Bianca, le relazioni con l’Europa occidentale furono caratterizzate da crescenti difficoltà, a causa sia della necessità di superare l’eredità negativa di Suez sia di contrastare la sfiducia diffusasi all’interno dell’alleanza atlantica a seguito dei successi conseguiti nel 1957 dall’URSS in ambito strategico con il lancio del primo satellite orbitale, lo Sputnik, e del primo missile balistico intercontinentale (ICBM). Le implicazioni di entrambi quegli avvenimenti minavano infatti alla radice la credibilità della dottrina della rappresaglia massiccia, dal momento che gli Stati Uniti non potevano più impunemente minacciare un’eventuale ritorsione nucleare americana a difesa dell’Europa occidentale contando sulla pressoché totale invulnerabilità del proprio territorio nei confronti di un analogo attacco da parte sovietica. I successi sovietici lasciavano perciò intravedere una potenziale frattura tra la difesa degli Stati Uniti e quella dell’Europa, a meno che non si fosse scelto o di rivedere la dottrina strategica della rappresaglia massiccia, o di rassicurare gli alleati sull’effettiva volontà di far ricorso alle armi atomiche per tutelare la loro sicurezza. Fu su quest’ultimo punto che negli ultimi anni dell’amministrazione di E. si verificò un acceso dibattito con gli europei, che vedevano in una crescente condivisione dell’arsenale nucleare americano l’unico strumento che garantisse loro la piena efficacia dell’Alleanza atlantica. E. si mostrò moderatamente disponibile nei confronti delle richieste degli alleati, e pur nei limiti impostigli dal McMahon Act, la legge del 1946 che impediva agli Stati Uniti di condividere con terzi i propri segreti nucleari, si sforzò di avviare vari progetti in ambito NATO che consentissero di rivitalizzare l’alleanza e di tranquillizzare i propri partner. In particolare, tra il 1957 e il 1960, gli Stati Uniti promossero lo schieramento in Europa occidentale di missili balistici a raggio intermedio (IRBM), per ribadire il proprio impegno a difesa dell’alleanza.

Al tempo stesso, E. cercò di contenere le possibili spinte che dall’interno stesso dell’Europa minacciavano la solidità della struttura euro-atlantica, sia mostrando scarso apprezzamento per i tentativi inglesi di dar vita a una zona di libero scambio che poteva indebolire i primi passi delle nuove Comunità, sia rifiutandosi di accettare le proposte di Charles de Gaulle di creare un direttorio tripartito (Francia, Regno Unito e Stati Uniti) che prendesse in mano la direzione strategica della NATO. Fino al termine del suo mandato, E. rimase convinto che un’Europa coesa sarebbe rimasta il miglior alleato possibile su cui gli Stati Uniti potessero contare, ma le tendenze emerse nel sistema internazionale alla fine del decennio gli impedirono di raggiungere un simile obiettivo. E. rimane comunque uno dei politici americani più importanti per il contributo offerto alla genesi e al rafforzamento delle Istituzioni comunitarie negli anni Cinquanta.

Leopoldo Nuti (2010)