Eugenio Colorni




Eugenio Pacelli




EURATOM

Comunità europea dell’energia atomica (CEEA)




Euro

“Euro” è la denominazione della moneta comune europea, in sostituzione della precedente Unità di conto europea (European currency unit, ECU). Questa denominazione fu decisa dal Consiglio europeo di Madrid, contestualmente al raggiungimento dell’accordo politico che dava il via, il primo gennaio 1999, alla terza fase dell’Unione economica e monetaria (UEM).

Già il Trattato di Maastricht nel 1992 aveva previsto entro il 1999 l’introduzione di un regime di cambi irrevocabilmente fissi tra le monete nazionali dei paesi aderenti. Solamente in un secondo momento, e comunque non oltre il 2002, si sarebbe invece realizzata la sostituzione delle monete nazionali con la nuova moneta comune.

Elemento fondamentale per il passaggio a questa nuova fase era la realizzazione della convergenza economica tra i paesi aderenti, resa necessaria dall’impossibilità di congelare i rapporti di cambio in presenza di differenziali importanti d’inflazione o di deficit pubblico.

Coerentemente con le disposizioni di Maastricht e quelle di Madrid, il Consiglio europeo di Dublino del 13 e 14 dicembre 1996 stabilito stabiliva quindi un accordo sul quadro giuridico per l’impiego della nuova moneta, sul patto di stabilità e di crescita destinato a garantire il rispetto della disciplina di bilancio e sulla struttura del nuovo meccanismo di cambio per gli Stati non aderenti all’euro (v. anche Bilancio dell’Unione europea). Nella stessa occasione furono presentati i modelli di banconote destinati a entrare in circolazione il 1° gennaio 2002.

Allo scopo di garantire che una volta introdotta la moneta unica venisse mantenuta la disciplina in materia di bilancio, il Consiglio di Amsterdam (16-17 giugno 1997) recepiva queste disposizioni adottando un Patto di stabilità e di crescita tra i paesi partecipanti, oltre a nuove regole sul contesto giuridico dell’euro e sul meccanismo di cambio.

Il Consiglio europeo di Lussemburgo (12-13 dicembre 1997) completava le disposizioni già adottate definendo i principi e le modalità di un coordinamento economico rafforzato nel corso della terza fase dell’UEM.

L’anno successivo il Consiglio europeo designava quindi gli undici Stati membri in grado di entrare a far parte della zona euro: Austria, Belgio, Germania, Spagna, Francia, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Finlandia. Al contrario, Regno Unito, Danimarca e Svezia sceglievano di non partecipare alla moneta unica, mentre la Grecia non era giudicata in possesso dei requisiti necessari. A seguito di un riesame dello stato di convergenza della sua economia, il paese poteva però entrare a far parte della terza fase dell’UEM a partire dal primo gennaio 2001.

L’adozione della moneta unica rendeva inevitabile anche la condivisione delle politiche monetarie de paesi partecipanti, che portò alla creazione della Banca centrale europea (BCE) e del Sistema europeo di banche centrali (SEBC).

Il processo di nascita dell’euro ebbe termine il 25 dicembre 1998, quando il presidente della Commissione Jacques Santer e il commissario Yves-Thibault de Silguy resero noti i tassi di conversione definitivi nelle undici monete nazionali, entrati in vigore il 1° gennaio 1999. Da quel momento, l’euro diventava una moneta a pieno titolo, con un valore esterno corrispondente a quello del paniere ufficiale dell’ECU, che cessava di esistere.

Nella prima fase transitoria, fu introdotto come moneta scritturale: le banconote e le monete metalliche in circolazione, cioè, continuarono a essere denominate nelle unità monetarie nazionali.

A partire dal luglio 1999 cominciata cominciò però la produzione di monete e banconote di euro, distribuite in banche e imprese a partire dal settembre 2001, il cosiddetto euro fiduciario.

Quest’ultimo passaggio avuto ebbe termine il 1° gennaio 2002, quando la moneta comune entrò ufficialmente in circolazione, transitoriamente affiancata alle monete nazionali, fino al loro completo ritiro e uscita fuori corso (entro il 28 febbraio 2003).

Flavia Zanon (2006)




Eurobarometro

Eurobarometro (EB) è il nome dato alla prassi ormai affermatasi dal 1974, dopo un test effettuato nei paesi del primo Allargamento della Comunità datato 1973 e alcuni altri sporadici precedenti, di effettuare sondaggi di opinione, generalmente con cadenza semestrale, promossi dalla Commissione europea sulla base sia di domande generali inerenti il processo di integrazione (v. Integrazione Teorie della; Integrazione, Metodo della), sia di questioni legate a problematiche specifiche e all’attualità europea.

Su sollecitazione del Parlamento europeo attraverso il Rapporto Schuijt (deputato olandese), che chiedeva l’istituzione di un meccanismo permanente per studiare l’opinione pubblica europea, fu Jacques-René Rabier, l’allora uscente direttore generale responsabile per l’informazione, a convincere il presidente della Commissione europea, Francois Xavier Ortoli, a conferirgli l’incarico di mettere a punto tale sistema. Nell’elaborare le domande fondamentali da porre ai cittadini, fu posta allora particolare attenzione nel trovare delle formulazioni da poter riproporre nel tempo per consentire la misura delle “tendenze”,  ossia delle evoluzioni di natura generale che riguardassero, in particolare, la percezione del singolo sul processo di unificazione europeo, sul grado di soddisfazione e le aspettative  sulla propria vita, nonché rispetto all’agire delle istituzioni europee ed al funzionamento delle politiche comuni (v. anche Istituzioni comunitarie).

Alle due edizioni regolari dell’Eurobarometro, nella primavera e nell’ autunno (Standard EB), si affiancarono poi, nel tempo, anche le serie degli Special EB e dei Flash EB, nonché gli “Studi qualitativi” che analizzano gruppi specifici. Tali nuovi modelli di rilevazione sono nati sulla base di esigenze particolari di natura occasionale, legate all’attualità politica europea o anche di richieste d’indagine avanzate dalle singole Direzioni generali della Commissione su determinate politiche comunitarie.

In tal modo, grazie a questo strumento di rilevazione della fiducia e degli orientamenti dei cittadini europei, sono state pubblicate nel tempo centinaia di sondaggi riguardanti, ad esempio, l’allargamento, l’Euro, le grandi riforme europee dei Trattati, la Politica ambientale, il Mercato unico europeo, la concorrenza (v. Politica europea di concorrenza), il ruolo dell’Unione a livello internazionale oltre che varie questioni di taglio più sociale e culturale.

A differenza delle statistiche trattate e pubblicate dall’Ufficio Eurostat (v. Ufficio statistico delle Comunità europee), che mirano ad analisi quantitative, con certezza di dati e coinvolgimento di tutta la popolazione in relazione ai vari fenomeni, i sondaggi di Eurobarometro rappresentano formulari per la misura della soddisfazione dell’operato comunitario, caratterizzati da maggiore flessibilità e rapidità nella raccolta dei dati dovuta all’uso del metodo del campione rappresentativo, intervistato sia in maniera diretta (face-to-face) che per via telefonica. Il sistema funziona attraverso diverse convenzioni stilate dalla Commissione con differenti centri di ricerca che gestiscono centrali di raccolta ed elaborazione dei dati a livello nazionale. L’esperienza più che trentennale dei meccanismi utilizzati e dei controlli previsti, permette una notevole credibilità scientifica delle ricerche svolte insieme ad una grande rapidità ed efficienza. Per l’Eurobarometro standard vengono utilizzati campioni composti in media da circa 1.000 individui per ogni paese con alcuni correttivi a secondo dell’entità della popolazione dello Stato esaminato.

I dati forniti da Eurobarometro trovano impiego anche in campo accademico, economico e persino di costume (ad esempio i rilievi sulle abitudini dei consumatori europei (v. anche Politica dei consumatori)) alimentando il dibattito pubblico, ma la loro finalità principale è indubbiamente quella di osservatorio delle istituzioni europee sul gradimento della loro attività e sulle aspettative e opinioni dei cittadini riguardo alle tematiche europee. In alcuni casi i sondaggi possono persino venire riconosciuti dalla normativa comunitaria (v. Diritto comunitario) quali strumenti di valutazione e sorveglianza utilizzabili dai funzionari o agenti della Commissione e quindi divenire un utile supporto sia alle funzioni esecutive che a quelle di predisposizione della normativa da parte della stessa Commissione europea. Anche nell’attività della Corte di giustizia delle Comunità europee, ricorrono casi di utilizzo di risultati dei sondaggi come rilevatori attendibili di comportamenti dei consumatori, sia come sostegni a motivazioni di sentenze, sia in qualità di mezzo istruttorio e probatorio.

Malgrado i Trattati non prevedano alcun esplicito riferimento a Eurobarometro, esso gode di un buon riconoscimento a livello istituzionale e viene utilizzato sempre più di frequentemente dai mass media per predisporre servizi e articoli che facciano riferimento alla comprensione da parte dei cittadini della costruzione europea. A questo contribuisce indubbiamente anche la massima trasparenza che si è voluta attribuire ai sondaggi di Eurobarometro che possono tutti essere visualizzati su internet (http://ec.europa.eu/public_opinion), anche se generalmente sono disponibili solamente in lingua inglese, francese e tedesca (v. Lingue).

Nel quadro della definizione di una rinnovata politica di comunicazione dell’Unione viene considerato come estremamente prezioso lo strumento di Eurobarometro in quanto capace di fornire elementi utili alla migliore comprensione dell’opinione pubblica ed all’elaborazione delle strategie più adeguate per ridurre il divario esistente tra l’Unione europea e i suoi cittadini (v. anche Opinione pubblica ed europa). In tale ambito esso sarebbe utilizzato sia come strumento d’ascolto delle esigenze dei cittadini e delle loro aspettative, che come strumento di valutazione dell’impatto delle campagne di informazione e comunicazione che di volta in volta saranno messe in opera.

Come strumento informativo sull’opinione pubblica europea, Eurobarometro allo stesso tempo costituisce un fattore in grado di sollecitare un ulteriore sviluppo di tale dimensione di opinione pubblica, evidenziando il formarsi di una vera e propria coscienza europea su molte questioni legate strettamente alla democrazia europea e alle future scelte politiche.

Stefano Milia

Eurobarometro (EB) è il nome dato alla prassi ormai affermatasi dal 1974, dopo un test effettuato nei paesi del primo Allargamento della Comunità datato 1973 e alcuni altri sporadici precedenti, di effettuare sondaggi di opinione, generalmente con cadenza semestrale, promossi dalla Commissione europea sulla base sia di domande generali inerenti il processo di integrazione (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), sia di questioni legate a problematiche specifiche e all’attualità europea.

Su sollecitazione del Parlamento europeo attraverso il Rapporto Schuijt (deputato olandese), che chiedeva l’istituzione di un meccanismo permanente per studiare l’opinione pubblica europea, fu Jacques-René Rabier, l’allora uscente direttore generale responsabile per l’informazione, a convincere il presidente della Commissione europea, Francois-Xavier Ortoli, a conferirgli l’incarico di mettere a punto tale sistema. Nell’elaborare le domande fondamentali da porre ai cittadini, fu posta allora particolare attenzione nel trovare delle formulazioni da poter riproporre nel tempo per consentire la misura delle “tendenze”, ossia delle evoluzioni di natura generale che riguardassero, in particolare, la percezione del singolo sul processo di unificazione europeo, sul grado di soddisfazione e le aspettative sulla propria vita, nonché rispetto all’agire delle istituzioni europee ed al funzionamento delle politiche comuni (v. anche Istituzioni comunitarie).

Alle due edizioni regolari dell’Eurobarometro, nella primavera e nell’autunno (Standard EB), si affiancarono poi, nel tempo, anche le serie degli Special EB e dei Flash EB, nonché gli “Studi qualitativi” che analizzano gruppi specifici. Tali nuovi modelli di rilevazione sono nati sulla base di esigenze particolari di natura occasionale, legate all’attualità politica europea o anche di richieste d’indagine avanzate dalle singole Direzioni generali della Commissione su determinate politiche comunitarie.

In tal modo, grazie a questo strumento di rilevazione della fiducia e degli orientamenti dei cittadini europei, sono state pubblicate nel tempo centinaia di sondaggi riguardanti, ad esempio, l’allargamento, l’Euro, le grandi riforme europee dei Trattati, la Politica ambientale, il Mercato unico europeo, la concorrenza (v. Politica europea di concorrenza), il ruolo dell’Unione a livello internazionale oltre che varie questioni di taglio più sociale e culturale.

A differenza delle statistiche trattate e pubblicate dall’Ufficio Eurostat (v. Ufficio statistico delle Comunità europee), che mirano ad analisi quantitative, con certezza di dati e coinvolgimento di tutta la popolazione in relazione ai vari fenomeni, i sondaggi di Eurobarometro rappresentano formulari per la misura della soddisfazione dell’operato comunitario, caratterizzati da maggiore flessibilità e rapidità nella raccolta dei dati dovuta all’uso del metodo del campione rappresentativo, intervistato sia in maniera diretta (face-to-face) che per via telefonica. Il sistema funziona attraverso diverse convenzioni stilate dalla Commissione con differenti centri di ricerca che gestiscono centrali di raccolta ed elaborazione dei dati a livello nazionale. L’esperienza più che trentennale dei meccanismi utilizzati e dei controlli previsti, permette una notevole credibilità scientifica delle ricerche svolte insieme ad una grande rapidità ed efficienza. Per l’Eurobarometro standard vengono utilizzati campioni composti in media da circa 1000 individui per ogni paese con alcuni correttivi a seconda dell’entità della popolazione dello Stato esaminato.

I dati forniti da Eurobarometro trovano impiego anche in campo accademico, economico e persino di costume (ad esempio i rilievi sulle abitudini dei consumatori europei (v. anche Politica dei consumatori) alimentando il dibattito pubblico, ma la loro finalità principale è indubbiamente quella di osservatorio delle istituzioni europee sul gradimento della loro attività e sulle aspettative e opinioni dei cittadini riguardo alle tematiche europee. In alcuni casi i sondaggi possono persino venire riconosciuti dalla normativa comunitaria (v. Diritto comunitario) quali strumenti di valutazione e sorveglianza utilizzabili dai funzionari o agenti della Commissione e quindi divenire un utile supporto sia alle funzioni esecutive che a quelle di predisposizione della normativa da parte della stessa Commissione europea. Anche nell’attività della Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea), ricorrono casi di utilizzo di risultati dei sondaggi come rilevatori attendibili di comportamenti dei consumatori, sia come sostegni a motivazioni di sentenze, sia in qualità di mezzo istruttorio e probatorio.

Malgrado i Trattati non prevedano alcun esplicito riferimento a Eurobarometro, esso gode di un buon riconoscimento a livello istituzionale e viene utilizzato sempre più di frequentemente dai mass media per predisporre servizi e articoli che facciano riferimento alla comprensione da parte dei cittadini della costruzione europea. A questo contribuisce indubbiamente anche la massima trasparenza che si è voluta attribuire ai sondaggi di Eurobarometro che possono tutti essere visualizzati su internet (http://ec.europa.eu/public_opinion), anche se generalmente sono disponibili solamente in lingua inglese, francese e tedesca (v. Lingue).

Nel quadro della definizione di una rinnovata politica di comunicazione dell’Unione viene considerato come estremamente prezioso lo strumento di Eurobarometro in quanto capace di fornire elementi utili alla migliore comprensione dell’opinione pubblica ed all’elaborazione delle strategie più adeguate per ridurre il divario esistente tra l’Unione europea e i suoi cittadini (v. anche Opinione pubblica ed Europa). In tale ambito esso sarebbe utilizzato sia come strumento d’ascolto delle esigenze dei cittadini e delle loro aspettative, che come strumento di valutazione dell’impatto delle campagne di informazione e comunicazione che di volta in volta saranno messe in opera.

Come strumento informativo sull’opinione pubblica europea, Eurobarometro allo stesso tempo costituisce un fattore in grado di sollecitare un ulteriore sviluppo di tale dimensione di opinione pubblica, evidenziando il formarsi di una vera e propria coscienza europea su molte questioni legate strettamente alla democrazia europea e alle future scelte politiche.

Stefano Milia (2009)




Eurocomunismo

Il termine “eurocomunismo” divenne familiare nella pubblicistica e nel dibattito politico europeo degli anni Settanta per indicare sinteticamente la linea di distinzione e autonomia tenuta in quel periodo da alcuni partiti comunisti dell’Europa occidentale (segnatamente quello italiano, quello spagnolo e quello francese) rispetto all’Unione Sovietica.

Uno dei fattori determinanti all’origine della tendenza “eurocomunista” risiedeva in realtà proprio nel mutamento delle relazioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica, che dai primi anni del decennio sembravano evolvere verso una nuova fase di “distensione”. Il relativo allentarsi della tensione tra i due blocchi dopo gli anni del Vietnam e dell’invasione sovietica della Cecoslovacchia offriva ai partiti comunisti che operavano nel campo occidentale una maggiore libertà di azione. La situazione generale dei sistemi liberaldemocratici europei appariva in quel periodo, più in generale, particolarmente favorevole per un avvicinamento all’area di governo anche delle sinistre non riconducibili alla tradizione socialdemocratica. Da un lato la fine, o l’imminente fine, dei regimi dittatoriali di destra nell’area dell’Europa mediterranea (Portogallo, Spagna, Grecia). Dall’altro, in paesi come la Francia e l’Italia, la lunga permanenza al potere di forze moderate che, in assenza di meccanismi regolari di alternanza, a fronte di schieramenti di sinistra influenzati da forti componenti comuniste, mostravano segni di un certo logoramento, soprattutto alla luce della crisi economica scatenata in tutto il mondo occidentale industrializzato dallo choc petrolifero seguito al conflitto arabo-israeliano del 1973.

Da qui, intorno alla metà del decennio, una serie convergente di prese di posizione da parte del Partito comunista italiano (PCI), del Partido comunista de España (PCE) e del Parti communiste français (PCF), che rivedevano sensibilmente gli atteggiamenti tradizionalmente propri dei partiti comunisti su temi come l’integrazione europea e le regole della democrazia pluralista. Temi in cui posizioni diverse dalla linea dell’URSS avrebbero trasceso l’ambito delle “vie nazionali al socialismo” rivendicate dai partiti comunisti europei già dalla fase post-staliniana, per configurare una vera e propria dissociazione strategica rispetto a Mosca: anche se non avrebbero alterato di per sé l’equilibrio della nuova distensione tra le superpotenze, fondato essenzialmente sul tacito riconoscimento dello status quo nelle reciproche zone d’influenza, a cominciare dall’Europa.

Innanzitutto le Istituzioni comunitarie, precedentemente sempre rifiutate come uno strumento di rafforzamento dell’alleanza occidentale egemonizzata dagli USA in funzione antisovietica, venivano rivalutate come mezzo per costituire in Europa uno spazio di coesione sociale e di riequilibrio delle tensioni internazionali: una revisione storica ben sintetizzata dalla scelta del Partito comunista italiano di far eleggere a Strasburgo, nella prima legislatura del Parlamento europeo, il padre del federalismo europeo Altiero Spinelli. Nello stesso senso, gli “eurocomunisti” manifestavano a più riprese il loro distacco dall’idea di una “dittatura del proletariato”, e comunque di regimi monopartitici, per collocare la prospettiva di una “transizione” al socialismo nella cornice delle istituzioni democratiche di modello occidentale, sia pure ancora nella ricerca di una “terza via” tra il comunismo sovietico e la tradizione socialdemocratica. Fino ad adombrare, come in una nota intervista di Enrico Berlinguer nel 1976, una preferenza per la collocazione dei loro paesi all’interno dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO), non più vista come un nemico ma addirittura come una garanzia per un programma socialista in una cornice democratica.

Certo, tali prese di posizione (salvo l’apertura alla NATO, mai peraltro organicamente sviluppata) non postulavano di per sé una autentica discontinuità rispetto all’obiettivo strategico di fondo della politica estera sovietica fin dall’epoca staliniana: favorire una tendenza alla progressiva “neutralizzazione” del continente europeo. E in questo senso sembravano andare ancora, in effetti, le tesi di politica internazionale sottoscritte nella Conferenza internazionale dei partiti comunisti europei convocata a Berlino nel 1976, in cui, dopo lunghe e logoranti trattative con gli emissari di Mosca, prevalse una visione “terzaforzista” dell’europeismo, che accantonava più esplicite adesioni al modello democratico occidentale.

Tuttavia, anche tali timidi aggiustamenti della linea dei comunisti europei dovevano apparire pericolosi all’URSS, e spinsero i dirigenti sovietici a decise azioni di scoraggiamento verso ogni successivo sviluppo su quella strada. Infatti, anche limitate manifestazioni di autonomia rispetto a Mosca – essi prevedevano, consapevoli del sempre minore grado di coesione interna al decadente sistema sovietico – potevano innescare la propagazione a catena di germi di dissenso in grado di minare fatalmente la stabilità del sistema degli stati “satelliti” e dello stesso edificio dell’URSS. Come ben comprendeva, dopo le rigidità di Richard Nixon e Gerald Ford, l’amministrazione Carter (v. Carter, James Earl), che specularmente, ispirata dal consigliere per la sicurezza nazionale Zbignew Brzezinski, mostrava di non considerare più come un grave pericolo l’ingresso dei partiti comunisti nei governi dei paesi europei di area NATO, se essa fosse avvenuta nel rispetto di una cornice di democrazia pluralista.

Conseguentemente, quando il segretario del PCE Santiago Carrillo si spinse fino a contestare apertamente la leadership e il modello politico sovietico sui comunisti europei, Mosca lanciò un’immediata controffensiva: appoggiandosi ai settori più filosovietici del partito spagnolo, mise in piedi una campagna di delegittimazione del segretario che ne indebolì sensibilmente la base di consenso interna. Il partito francese e quello italiano, soggetti ad analoghe pressioni da parte degli elementi di raccordo con il Partito comunista dell’Unione Sovietica (PCUS), prudentemente preferirono tenere un basso profilo ed evitarono di spingere l’acceleratore della polemica con Mosca. Sicché, verso la fine del decennio, si può dire che la manovra di contrasto da parte sovietica avesse ottenuto gli obiettivi che si prefiggeva. La breve stagione di una possibile, annunciata linea indipendente dei partiti comunisti “mediterranei” rispetto al PCUS e di un loro organico inserimento nella dialettica liberaldemocratica occidentale era già conclusa, strozzata nella culla ancor prima di dispiegarsi compiutamente: e la definitiva pietra tombale su di essa fu rappresentata dal fallimento della timida distensione di metà decennio e dal nuovo aggravarsi della contrapposizione sovietico-statunitense, dalla penetrazione sovietica in Africa orientale al dispiegamento dei missili nucleari SS-20 all’invasione dell’Afghanistan.

Il partito comunista italiano, che dal 1976 al 1979 aveva appoggiato i governi “della non sfiducia” e della “solidarietà nazionale” convergendo con i partiti del vecchio centro-sinistra su politiche di contrasto alla crisi economica e di lotta frontale al terrorismo di estrema sinistra, davanti a scelte di governo come l’adesione dell’Italia al Sistema monetario europeo e lo schieramento NATO dei missili statunitensi Pershing e Cruise contro gli SS-20 sovietici uscì dalla maggioranza e tornò a una opposizione intransigente, sposando posizioni pacifiste che erano nuovamente in piena convergenza con gli interessi sovietici. Il partito francese, invece, sarebbe entrato nella maggioranza di governo nella coalizione di François Mitterrand, ormai egemonizzata da un partito socialista di chiara impronta riformista. E quello spagnolo, “ibernato” dal riassorbimento nell’orbita filosovietica, sarebbe stato irrimediabilmente emarginato nella nuova stagione della democrazia dell’alternanza, dominata a sinistra dai socialisti di Felipe Màrquez González.

Eugenio Capozzi (2008)




Eurocorpo

Il 59° vertice franco-tedesco (La Rochelle, 21-22 maggio 1992) costituisce l’Eurocorpo quale «grande unità a vocazione europea» per fornire all’Unione europea (UE) una «capacità militare propria» (Déclaration sur la création d’un Corps d’Armée franco-allemand à vocation européenne). Ne era il nucleo la Brigata franco-tedesca, operativa dal 1991, e creata con l’istituzione del Consiglio di sicurezza e difesa franco-tedesco (22 gennaio 1988) dal presidente François Mitterrand e dal cancelliere Helmut Josef Michael Kohl. Il 16 ottobre 1991, questi avevano annunciato la volontà di rafforzare, aprendolo agli altri membri della Unione dell’Europa occidentale (UEO), quel dialogo strategico che risaliva al Trattato dell’Eliseo, firmato da Charles De Gaulle e Konrad Adenauer il 22 gennaio 1963 con la trasformazione della Brigata in Corpo d’armata europeo.

Il problema del rapporto operativo con l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO), venne risolto dal SACEUR Agreement (21 gennaio 1993), concluso fra i capi di Stato maggiore tedesco e francese e il comandante supremo delle forze alleate in Europa sulla base del rispetto della specificità di questa “forza multinazionale europea” e con l’impegno di adottare strutture e procedure NATO per facilitarne l’integrazione in caso di impiego comune. Con la Dichiarazione di Roma (19 maggio 1993) l’Eurocorpo era messo a disposizione della UEO per le Missioni di tipo “Petersberg” (dall’omonima Dichiarazione, 19 giugno 1992). Il 25 giugno, vi entrava così il Belgio, e il 24 settembre i tre membri concordavano sulla mobilitazione sotto il controllo politico della UEO. Il 1° ottobre, il primo comandante, il generale Helmut Willmann, assumeva l’incarico, ed il 5 novembre si insediava a Strasburgo il quartier generale (QG). Il 1° luglio 1994, vi aderiva la Spagna, ed il 14, sugli Champs Elysées ne sfilava una rappresentanza. Al termine della sua terza grande esercitazione, PEGASUS95 (18-30 novembre 1995), l’Eurocorpo era dichiarato operativo. Il 7 maggio 1996, il Lussemburgo ne era il quinto membro.

Secondo il quadro normativo delineato dai tre ultimi documenti citati e del Rapporto di La Rochelle, per decisione dei cinque Stati membri o su richiesta dell’Organizzazione delle nazioni Unite (ONU), NATO, UE, UEO o dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), l’Eurocorpo può essere impiegato, oltre che in combattimenti “ad alta intensità” per la difesa comune, in missioni umanitarie e di gestione delle crisi (peacekeeping o peacemaking). La decisione, presa con consenso, spetta all’organo politico-militare dal quale solo dipende l’Eurocorpo, e cioè il Comitato comune composto per ogni membro dal capo di Stato maggiore della Difesa e dal direttore politico del ministero degli Affari esteri.

Nel 1998 470 militari del QG partivano in quattro scaglioni per la Bosnia per rafforzare il QG della SFOR (Stabilisation force). Il 29 maggio 1999, il vertice franco-tedesco di Tolosa metteva l’Eurocorpo a disposizione dell’UE in caso di crisi, decisione accolta al Consiglio europeo di Colonia (3-9 giugno). Si avviava il processo che avrebbe portato la UEO a cedere le funzioni di “gestione di crisi” alla UE. In novembre, a Lussemburgo, i membri dell’Eurocorpo stabilivano le modalità per trasformare l’unità in forza di reazione rapida a disposizione di NATO e UE. Il 28 gennaio 2000, il Consiglio della NATO decideva che il QG dell’Eurocorpo divenisse il nucleo del QG della KFOR (Kosovo Force). Fra marzo e ottobre, in 350 erano a Pristina e Skopje. Nel 2001, si svolgeva l’esercitazione COBRA-01 nel sud della Spagna. In aprile, l’Eurocorpo si candidava come “Deployable high readiness force Headquarters” di UE e NATO, e lo diveniva l’anno successivo, con l’esercitazione “Common effort”. Con l’European operational rapid force (EUROFOR) e l’European maritime force (EUROMARFOR), l’Eurocorpo entrava così nelle Forces answerable to Western European Union (FAWEU).

Il 3 settembre 2002 i membri dell’UE e della NATO furono invitati a contribuire all’Eurocorpo o a inviare ufficiali al QG. Così hanno fatto Grecia, Polonia e Turchia. Gran Bretagna (v. Regno Unito), Paesi Bassi e Italia hanno distaccato un ufficiale di collegamento, e in tal senso è stato firmato un accordo con Austria e Finlandia (25 febbraio 2003). Il 14 luglio 2003, il generale Holger Kammerhoff era sugli Champs Elysées alla testa di 120 uomini dell’Eurocorpo con i rappresentanti di EUROFOR ed EUROMARFOR, mentre AMX italiani, Mirage 2000-5 francesi, Jaguar britannici, F18 spagnoli, F16 belgi e olandesi, Tornado tedeschi sfrecciavano per l’Euroairgroup.

Nelle sue due versioni operative, la Force d’intervention légère (FIL) e quella Mécanisée (FIM), oltre alla brigata franco-tedesca (a Müllheim), fanno parte dell’Eurocorpo (2004): per la Francia uno Stato maggiore con due brigate meccanizzate (Limoges); per la Germania la 10a divisione blindata (Sigmaringen); per la Spagna la 1a divisione meccanizzata (Burgos); per il Belgio il Comando operazioni terrestre (ComOpsLand) (Evere) con la 1a (Leopoldsburg) e la 7a brigata meccanizzata (Marche-en-Famenne) cui è integrata l’unità da ricognizione del Lussemburgo.

David Burigana (2005)




Eurojust

Nell’ambito della Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale prevista dal cosiddetto “terzo pilastro” (v. Pilastri dell’Unione europea) dell’Unione europea, il Consiglio europeo di Tampere dell’ottobre 1999, al fine di rafforzare la lotta contro le forme gravi di criminalità organizzata (v. anche Lotta contro la criminalità internazionale e contro la droga), spesso opera di organizzazioni transnazionali, ha previsto l’istituzione di un’unità destinata ad agevolare il coordinamento delle attività di indagine e delle azioni penali degli Stati membri.

Con la decisione 2002/187 del Consiglio Giustizia e affari interni (GAI) del 28 febbraio 2002 (“Gazzetta ufficiale delle Comunità europee” n. L 63 del 6/3/2002) è stata quindi istituita l’unità Eurojust, organo dell’Unione dotato di personalità giuridica, composta da un membro per ciascuno Stato membro avente titolo di magistrato del pubblico ministero, giudice o funzionario di polizia con pari prerogative; dal dicembre 2003 la sede è stata fissata a L’Aia, nei Paesi Bassi.

Eurojust è composta da ventisette membri nazionali distaccati da ciascuno Stato membro in conformità del proprio ordinamento giuridico; questi lavorano in condizioni di parità nell’ambito di una “tavola rotonda” e possono essere assistiti anche da più persone, ciascuna delle quali può ad essi sostituirsi; il finanziamento dell’organo è posto a carico del bilancio dell’Unione europea (v. Bilancio dell’Unione europea), a eccezione degli stipendi ed emolumenti dei membri nazionali e dei loro assistenti, che sono a carico dello Stato membro di origine.

L’Eurojust può esercitare le sue funzioni sia tramite il collegio, sia attraverso i suoi membri nazionali; il collegio, in particolare, interviene quando uno o più membri nazionali interessati al caso ne facciano richiesta, ovvero quando il caso riguardi indagini e azioni penali che abbiano un’incidenza a livello di Unione europea. In tali casi ciascun membro ha diritto a un voto e le decisioni del collegio sono prese a maggioranza dei due terzi.

Il regolamento interno dell’Eurojust, che stabilisce le disposizioni necessarie alla sua concreta operatività, è stato adottato all’unanimità dal Collegio dell’Eurojust nella riunione del 30 maggio 2002 e approvato dal Consiglio il 13 giugno 2002 (GUCE n. C 286 del 22/11/2002); il regolamento consente al Collegio di nominare un presidente e due vicepresidenti.

L’attività svolta è oggetto di una relazione annuale al Consiglio che contiene anche i problemi di politica anticrimine nell’Unione venuti alla luce grazie all’attività dell’Eurojust; nella relazione l’Eurojust ha anche il potere di formulare proposte atte a migliorare la cooperazione giudiziaria in materia penale. La relazione annuale, trasmessa dal Consiglio dei ministri al Parlamento europeo, è oggetto di pubblicazione.

Gli obiettivi del nuovo organo sono: stimolare e migliorare il coordinamento delle indagini e delle azioni penali tra le competenti autorità nazionali degli Stati membri; migliorare la cooperazione tra le stesse, agevolando la prestazione dell’assistenza giudiziaria e l’esecuzione delle domande di estradizione; prestare assistenza alle autorità competenti degli Stati membri, al fine di migliorare l’efficacia delle indagini e delle azioni penali.

La competenza dell’Eurojust riguarda i reati per i quali è competente l’Europol (v. Ufficio europeo di polizia) a norma dell’art. 2 della Convenzione Europol del 26 luglio 1995 (ossia traffico di stupefacenti, reati di terrorismo, tratta di esseri umani, organizzazioni clandestine di immigrazione, traffico di autoveicoli rubati, ecc.) e specifiche forme di criminalità (riciclaggio, frodi comunitarie, corruzione, criminalità informatica ed ambientale, partecipazione ad un’organizzazione criminale), nonché altri reati connessi o collegati.

L’Eurojust, con un atto motivato, può chiedere alle competenti autorità nazionali di valutare se avviare un’indagine penale, porre in essere un’attività di coordinamento, istituire una squadra investigativa comune e comunicare le informazioni necessarie per svolgere le sue funzioni.

È previsto che Eurojust operi in stretta cooperazione con l’Europol e che possa collaborare e si consulti con la Rete giudiziaria europea; sono altresì previsti rapporti di stretta cooperazione anche con l’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF, Office européen de lutte anti-fraude), istituito presso la Commissione europea, che può contribuire all’attività di coordinamento delle indagini e delle azioni penali concernenti la tutela degli interessi finanziari della Comunità economica europea svolta dall’Eurojust, e la possibilità di concludere accordi di collaborazione con paesi terzi e organismi internazionali.

Disposizioni rigorose regolano il corretto trattamento dei dati sensibili e la loro riservatezza rispetto all’accesso da parte dei titolari e delle altre strutture comunitarie e nazionali, garantiti con mezzi di ricorso a una apposita autorità di controllo comune indipendente, composta da giudici ad hoc.

I membri nazionali sono soggetti all’ordinamento interno dello Stato membro, per quanto riguarda il loro statuto, tanto che la durata del mandato dei membri nazionali è fissata dallo Stato membro d’origine e deve essere tale da permettere il buon funzionamento dell’Eurojust; resta nella competenza di ciascuno Stato membro la definizione della natura e la portata dei poteri giudiziari che conferisce al proprio membro nazionale sul proprio territorio. Per conseguire gli obiettivi dell’Eurojust, il membro nazionale ha accesso alle informazioni contenute nel casellario giudiziale nazionale o in qualsiasi altro registro del proprio Stato membro come previsto dall’ordinamento interno del suo Stato per un magistrato del pubblico ministero, un giudice o un funzionario di polizia con pari prerogative.

Ogni Stato membro può poi designare uno o più corrispondenti nazionali, le cui relazioni con il membro nazionale e con le altre autorità competenti degli Stati membri sono disciplinate dall’ordinamento interno.

La decisione istitutiva di Eurojust è entrata in vigore il giorno stesso della sua pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, ma non ne è stata prevista un’efficacia immediata, dovendo gli Stati membri recepire le complesse disposizioni normative in essa previste con gli opportuni provvedimenti di adattamento delle relative legislazioni nazionali.

L’Italia ha adottato dette disposizioni con la legge 14 marzo 2005, n. 41 (“Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana” n. 72 del 29/3/2005): il membro nazionale distaccato presso l’Eurojust è nominato con decreto del ministro della Giustizia tra i giudici o i magistrati del pubblico ministero che esercitano funzioni giudiziarie, o fuori del ruolo organico della magistratura, con almeno venti anni di anzianità di servizio; il magistrato che esercita funzioni giudiziarie è collocato al di fuori del ruolo organico della magistratura.

Ai fini della nomina il ministro della Giustizia, acquisite le valutazioni del Consiglio superiore della magistratura in ordine a una rosa di candidati nell’ambito della quale provvederà a effettuare la nomina stessa, richiede al medesimo Consiglio il collocamento del magistrato designato al di fuori del ruolo organico della magistratura o, nel caso di magistrato già in posizione di fuori ruolo, comunica al Consiglio superiore della magistratura la propria designazione; il ministro della Giustizia può, per il tramite del capo del Dipartimento per gli affari di giustizia, indirizzare al membro nazionale direttive per l’esercizio delle sue funzioni.

I mandati del membro di nomina italiana distaccato presso l’Eurojust e dei suoi assistenti, nel numero massimo di tre, hanno una durata di quattro anni e sono prorogabili per non più di due anni.

Corrispondenti nazionali dell’Eurojust sono stati designati l’Ufficio II della Direzione generale della giustizia penale del Dipartimento per gli affari di giustizia del Ministero della giustizia, la Direzione nazionale antimafia e le procure generali della Repubblica presso le corti di appello, ciascuno rispetto alle proprie attribuzioni.

Le prime relazioni annuali dell’Eurojust hanno posto in evidenza la sempre maggiore necessità di un tale organismo, ma anche le difficoltà operative derivanti dal rapporto con i diversi sistemi giudiziari degli Stati membri con cui l’Eurojust è chiamato a cooperare.

 Alberto Colabianchi (2007)




Europa a “cerchi concentrici”

Con l’espressione “cerchi concentrici” s’intende descrivere una particolare e originale modalità di sviluppo del processo d’integrazione comunitaria (v. Integrazione, teorie della). Fino dalle sue origini, l’integrazione è stata pensata come metodo graduale e progressivo per mettere in comune, tra gli Stati membri, con il tempo progressivamente aumentati a seguito di ben cinque allargamenti (v. Allargamento), determinate politiche e specifici ambiti di intervento (v. Integrazione, metodo della). Tale percorso, inizialmente, riguardava soltanto interventi inerenti a un modello economico, mentre, a partire per lo meno dall’Atto unico europeo, l’integrazione europea è intervenuta anche in altri settori di fondamentale importanza, come quello ambientale e altri, fino alla costruzione di un’unione politica.

Si è trattato, sotto diversi aspetti, di uno sviluppo molto rapido, che alcuni definiscono addirittura inaspettato: proprio siffatta considerazione è stata alla base della volontà di alcuni Stati membri di imprimere allo sviluppo del processo di integrazione una velocità ancora maggiore. È da qui, infatti, che nasce la volontà di far progredire l’integrazione anche limitatamente ad alcuni Stati membri e non necessariamente con riferimento a tutti gli Stati membri. È l’idea, variamente denominata, dell’Europa “a geometria variabile”, dell’Europa “a più velocità”: si tratta di permettere agli Stati che lo richiedono di poter imprimere un’accelerazione al processo di integrazione, che si deve intendere esteso anche agli altri ma soltanto successivamente, quando questi, appunto, si dimostreranno pronti.

Il problema di due velocità del processo di integrazione si pose per merito del Bundestag tedesco, il quale, in un documento del settembre del 1994, fece riferimento a un “Nucleo duro” di paesi pronti per la cooperazione, in particolare, nella Unione economica monetaria (UEM). Il documento – che destò un certo scalpore, poiché non prevedeva tra questi Stati l’Italia, Stato fondatore – fu subito seguito, nel novembre dello stesso anno, da una reazione francese, la quale prospettò appunto per prima il concetto di un’Europa a “cerchi concentrici”: il cerchio più piccolo avrebbe riunito gli Stati con possibilità e volontà di stretta cooperazione in materia monetaria e di difesa, il secondo cerchio avrebbe contenuto tutti gli Stati membri della Comunità economica europea e, infine, il terzo cerchio sarebbe stato quello della c.d. “grande Europa”, comprendente i paesi dell’Ovest e dell’Est definitivamente riuniti. Siffatto progetto, per problemi politici interni francesi, fu abbandonato nel breve periodo, ma già nel dicembre del 1995 l’idea fu ripresa da Helmut Josef Michael Kohl e Jacques Chirac, i quali indirizzarono una lettera in tal senso agli altri capi di Stato.

La previsione formale dell’Europa a cerchi concentrici si è avuta con le modifiche apportate dal Trattato di Amsterdam al Trattato sull’Unione europea (UE) (v. Trattato di Maastricht), in particolare, con la previsione di un apposito titolo VII recante “Disposizioni su una cooperazione rafforzata”, le quali, secondo molti commentatori, hanno definitivamente istituzionalizzato un processo di integrazione che si era utilizzato precedentemente, in specie, per quanto riguarda la Convenzione di Schengen.

Il principale problema legato a tale modalità di integrazione è che se è vero che non si possono deludere le speranze degli Stati membri che ritengono necessario procedere a una più stretta integrazione in determinati settori, non si possono però nemmeno sottovalutare i rischi di siffatto modo di procedere, in quanto pregiudicherebbero per lo meno uno sviluppo armonioso dello stesso processo di integrazione. In altre parole, ci si chiede se un processo di integrazione che si sviluppi a “cerchi concentrici” tra determinati Stati membri e in particolari materie possa un ruolo di traino per il prosieguo dello stesso percorso d’integrazione, come sembrerebbe dimostrare la prassi fino ad ora seguita (si pensi, soltanto per fare un esempio, all’introduzione dell’Euro, la moneta unica), oppure se potrà causare momenti di stallo nello stesso processo di integrazione. È questa la principale questione sulla quale occorre riflettere allorquando si discute di cerchi concentrici, concetto che, ad ogni modo, dopo lo stallo nel processo di ratifica della c.d. “Costituzione europea”, sembrerebbe aver trovato nuove prospettive di sviluppo.

Davide Galliani (2007)




Europa “a geometria variabile”

Con l’espressione “Europa a geometria variabile” si designa un modo di Integrazione differenziata che implica il permanere di asimmetrie nella struttura integrativa, e di conseguenza la realizzazione di una separazione permanente tra gruppi di Stati membri basata su differenti livelli di integrazione. A differenza, quindi, del concetto di Europa “a più velocità”, in questo caso non si prevede un obiettivo finale comune agli Stati “in” e a quelli “out” (v. anche Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

L’idea della geometria variabile, come tutte le altre appartenenti alla categoria dell’integrazione differenziata, è figlia di due sviluppi della costruzione europea prodottisi nel corso degli anni Settanta: la crisi economica e l’ingresso nella Comunità economica europea (CEE) del Regno Unito. Quando a Roma, nel maggio 1980, in un convegno organizzato da “Mondo Operaio”, Jacques Delors, a quell’epoca presidente della Commissione economica e monetaria del Parlamento europeo, introdusse l’idea di geometria variabile, non a caso fece riferimento al problema inglese, dichiarando che era preferibile la costruzione di un’Europa con differenti gradi di integrazione, piuttosto che assistere al prodursi di una frattura insanabile tra il Regno Unito e il resto del continente. Nello stesso senso si espresse poche settimane dopo Raymond Barre, a quell’epoca primo ministro, chiedendo sulle colonne di “Le Monde”: «Se noi auspichiamo una comunità organizzata, bisogna obbligare tutti gli Stati membri a fare tutto nello stesso tempo e nello stesso modo? All’interno dell’enorme entità della Comunità a dodici, è forse concepibile che possano esistere differenti raggruppamenti funzionali come lo SME [Sistema monetario europeo]?».

La fine dell’età dell’oro del sistema di produzione fordista e l’inizio di quella che è stata definita “la frana”, posero la Comunità economica europea di fronte ad una sfida inedita. I Sei individuarono ben presto la minaccia che il collasso del sistema dei cambi fissi e il ritorno alla fluttuazione (e in potenza alle svalutazioni competitive) comportava per il neonato mercato comune (v. Comunità economica europea) e per la PAC (Politica agricola comune), ma, a causa delle divergenti politiche di risposta alla crisi economica, non riuscirono ad organizzare un’efficace risposta comune. Vi fu così un fiorire in campo monetario di assetti a geometria variabile, a cominciare dal “Serpente monetario”, nato nel 1972 con l’obiettivo di mantenere bande più ristrette di oscillazione delle monete europee tra di loro rispetto a quelle in vigore relativamente al dollaro, che vide una membership sempre mutevole, con l’abbandono da parte dei paesi che soffrivano di una forte inflazione interna, come il Regno Unito, l’Italia, la Francia, mentre in contemporanea entravano nel sistema paesi che non erano neanche membri della CEE, come la Norvegia e la Svezia. Alla fine della sua esistenza, il “serpente” era ridotto in pratica alle monete facenti parte dell’area del marco. Anche lo SME, che pure nacque sul finire del decennio, in un periodo in cui si consolidava il consensus deflazionista predicato dalla Bundesbank, fu un esempio di sistema a geometria variabile: basti pensare al rifiuto, reiterato fino al 1990, da parte del Regno Unito di aderirvi. I negoziati di Maastricht (v. Trattato di Maastricht) hanno segnato il punto di maggior sviluppo della pratica della geometria variabile, con il rifiuto di aderire all’Unione economica e monetaria (UEM) da parte di chi non voleva perdere il proprio simulacro di sovranità monetaria (Regno Unito, Svezia, Danimarca) e la concessione al Regno Unito della clausola dell’opting-out anche per quanto riguardava il protocollo sociale (v. Protocollo sulla politica sociale) che il governo conservatore di John Major si rifiutava di firmare. Nel Trattato di Amsterdam, firmato nell’ottobre 1997, l’Europa a geometria variabile fatto faceva il suo ingresso ufficiale nel diritto comunitario, attraverso l’istituzione delle “cooperazioni rafforzate”, che saranno poi oggetto di revisione nel Trattato di Nizza firmato nel dicembre 2000.

Francesco Petrini (2007)