Fanfani, Amintore

F. (Pieve Santo Stefano, Arezzo, 1908-Roma 1999) compì i suoi studi tra Urbino, Treviso e Arezzo. Nel 1926 s’iscrisse alla facoltà di scienze economiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano diretta da padre Agostino Gemelli, dove studiò nel Collegio Augustinianum, entrando a far parte della Federazione universitaria cattolica romana (FUCI). Come molti all’epoca, anche tra i cattolici, aderì al fascismo. Il suo nome comparirà assieme a quello dei 330 firmatari che, nel 1938, appoggiarono il Manifesto della razza. Del regime F. condivise più che altro le scelte di politica economica, dimostrandosi un convinto sostenitore del corporativismo, nel quale riconobbe uno strumento provvidenziale per salvare la società italiana dalla deriva liberale o da quella socialista ed indirizzarla verso la realizzazione di quegli ideali di giustizia sociale suggeriti dalla Dottrina sociale della Chiesa. Aveva 25 anni quando pubblicò il volume Le origini del capitalismo in Italia, seguito l’anno dopo dal più organico Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo, nel quale propose una coraggiosa interpretazione dei fenomeni di genesi del capitalismo, con particolare riferimento al condizionamento dei fattori religiosi e in sostanziale disaccordo con le tesi, allora paradigmatiche, di Max Weber. Questi scritti valsero a F. nel 1936 la cattedra in Storia economica e l’ingresso a pieno titolo nel circuito del dibattito italiano e internazionale che l’opera di Weber aveva suscitato. L’opera di F., nella edizione del 1934, fu di fatto tradotta e pubblicata più volte in inglese e suscitò particolare interesse negli Stati Uniti: la citò Maritain, la studiò John Fitzgerald Kennedy. In questi primi scritti si ritrova anche quella visione neo-volontarista, basata sulla distinzione tra le cosiddette legge naturali del mercato e la necessità di un intervento dello stato correttivo e ispirato a valori etici, che rimarrà una costante nelle sue ricostruzioni storiche ed economiche, così come nella sua azione politica. Durante il periodo della guerra – trascorso a Milano e poi dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 da esule in Svizzera, dove fu incaricato con Colonnetti, Del Vecchio e Luigi Einaudi dalle università di Ginevra e di Losanna di organizzare corsi di studio per militari italiani internati – F. si avvicinò al gruppo antifascista della sinistra cristiana guidato da Giorgio La Pira, anche lui toscano e futuro sindaco di Firenze, e da Giuseppe Dossetti, emiliano e futuro sacerdote dopo una duplice esperienza di vicesegretario della DC. Sono i cosiddetti professorini (i dossettiani) che, nell’immediato dopoguerra, entreranno nella Democrazia cristiana, dando origine alla prima corrente organizzata, Cronache sociali, poi confluita, almeno in parte, in Iniziativa democratica, che criticherà da posizioni progressiste la leadership di Alcide De Gasperi (v. Capperucci, 2010).

Nel settembre 1945 F. fu chiamato a Roma da Dossetti per affiancarlo nella responsabilità del settore stampa e propaganda del partito (SPES). Nell’aprile 1946, dal primo Congresso nazionale della DC venne eletto componente del Consiglio nazionale e poi membro, fino all’ottobre 1946, della direzione centrale. Candidato alla Costituente nel collegio Siena-Arezzo-Grosseto (dove sarà rieletto fino al 1968), F. fu membro della Terza commissione, incaricata di affrontare le questioni relative ai diritti e doveri economico-sociali. Il suo apporto principale fu indirizzato verso il riconoscimento costituzionale di una revisione dei principi dell’economia capitalistica orientati verso una più equa distribuzione della ricchezza. Sua fu la sistemazione di articoli riguardanti la giustizia, la solidarietà politica e la partecipazione economica, così come la formula che si legge nel primo articolo della Costituzione: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro», la cui versione finale rappresentò un compromesso tra i sostenitori di “una Repubblica fondata sulle libertà” (Ugo La Malfa e altri esponenti delle correnti liberaldemocratiche) e i fautori di “una Repubblica di lavoratori” (Palmiro Togliatti e Pietro Nenni). Subito dopo la stagione della Costituente ebbe inizio quella di governo. Nel periodo compreso tra il 1947 al 1954 F. ricoprì gli incarichi di ministro del Lavoro e della Previdenza sociale (maggio 1947 – gennaio 1950), di ministro dell’Agricoltura (luglio 1951- luglio 1953) e di ministro degli Interni (luglio 1953- agosto 1953), prima di approdare, senza però ottenere la fiducia, alla presidenza del Consiglio (gennaio-febbraio 1954). Già in questa prima fase, F. si distinse per capacità organizzative non comuni e, soprattutto a partire dal varo di un vasto piano di edilizia popolare (il cosiddetto “Piano Fanfani”), per un grande attivismo, caratteristiche che più in là gli sarebbero valse gli epiteti di “motorino del secolo” e di “cavallo di razza” (per i detrattori pony, vista la bassa statura dello statista aretino) della DC. In quegli anni F. rappresentò, in virtù del suo ruolo di mediatore tra la maggioranza degasperiana e la corrente dossettiana, la sponda progressista di cui lo statista trentino aveva bisogno all’interno della sua compagine governativa.

Con l’avvio della crisi del centrismo, segnata dal fallimento della legge maggioritaria del 1953, definita dalle opposizioni “legge truffa”, e dal breve interludio dei governi di Giuseppe Pella e Mario Scelba, F. divenne il perno attorno al quale si compì il primo rinnovamento interno alla Democrazia cristiana. La sua elezione nel giugno 1954 alla segreteria del partito – carica a cui sarà confermato anche al successivo Congresso della DC nell’ottobre del 1956 e che deterrà fino al 1959 – sancì l’inizio di una nuova fase nella storia della Repubblica italiana, caratterizzata dall’affermazione di una nuova generazione di leader democristiani (tra cui Emilio Colombo, Aldo Moro, Mariano Rumor, Paolo Emilio Taviani). Fu del resto lo stesso De Gasperi a scorgere in lui il profilo dell’uomo politico democristiano più adatto a guidare il partito e il paese nella nuova congiuntura politica interna e internazionale, affidandogli, poco prima di morire, gli ultimi suggerimenti per la politica interna e internazionale.

Dalle memorie dei protagonisti e dalle fonti che man mano sono venute alla luce, emerge che il prezzo richiesto da De Gasperi per appoggiare F. come suo successore fu l’accettazione, da parte di quest’ultimo, di una linea di politica estera che risolvesse l’interesse nazionale nella congiunzione tra fedeltà atlantica, intesa in senso integrale, ed europeismo, fondato su un nucleo di potere politico condiviso, a sua volta irrorato da un forte sentimento identitario (v. Quagliariello, 2004, pp. 247-286). In questo contesto, si comprende la richiesta disperata dello statista trentino, allora già gravemente malato, al nuovo segretario della DC di condividere fino in fondo la sua battaglia per la Comunità europea di difesa (CED). La lettera che De Gasperi inviò da Sella Valsugana al segretario del partito F. il 9 agosto può in tal senso considerarsi un testamento politico: «La mia spina è la CED […]. Tu puoi appena immaginare la mia pena aggravata dal fatto che non ho la forza né la possibilità di levare la voce, almeno per allontanare dal nostro paese la corresponsabilità di una simile iattura».

La vicenda si sarebbe conclusa in un modo differente da quello auspicato da De Gasperi. Dal canto suo, F. fu tra quanti in Italia si mostrarono sensibili ai cenni di distensione che il contesto internazionale proponeva dopo la morte di Stalin. Nei diari del leader aretino accenni alla necessità di adeguare la politica estera italiana a un mondo in rapida evoluzione si trovano già a partire dal 1954. In tal senso, significativa appare una nota del suo diario del 1° luglio 1954 in cui F. riferisce di un colloquio avuto con l’allora ambasciatrice americana Claire Luce: «Mi chiama Luce e vuol sapere cosa succederà dopo Napoli, gli rispondo che spetta al cons. naz. decidere. Chiede se approvi la CED. Gli rispondo che bisogna risolvere il problema di Trieste. Dice che bisogna difendersi dal comunismo; gli dico che bisogna lasciare agli italiani la libertà e la iniziativa di difendersi. Non mi è sembrata molto lieta delle risposte».

D’altra parte, neanche se avesse voluto F. avrebbe potuto salvare la CED da quello che, almeno da un certo punto in poi, si profilò come un fallimento annunciato. Un’approvazione preventiva del trattato da parte dell’Italia, come auspicato da De Gasperi, non avrebbe certamente impedito la bocciatura del trattato da parte dell’Assemblea nazionale francese. Nel breve termine, però, lo scambio politico che fu alla base del primo ricambio generazionale nella storia della Repubblica italiana e soprattutto il richiamo che De Gasperi continuò ad esercitare anche su uomini a lui assai vicini per provenienza politica ebbe l’effetto di bloccare la ricerca, da parte di F., di nuove strade in politica estera, e, in particolare, di inedite soluzioni per l’affermazione dell’interesse nazionale. Si trattò, tuttavia, soltanto di un rinvio.

Morto De Gasperi e consolidatasi la transizione, la ricerca di un nuovo corso in politica estera riprese vigore e si concretizzò in quella politica denominata “neoatlantismo”. F. ne fu, insieme all’allora Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, uno dei principali interpreti. La stagione del neoatlantismo visse e si esaurì in un breve lasso di tempo: i suoi prodromi sono rinvenibili già nel 1954, il suo fallimento coincise con la fine del secondo governo F., agli inizi del 1959. Non di meno, essa rappresenta una delle pagine più interessanti della politica estera italiana del secondo dopoguerra. Fu sotto l’impeto di avvenimenti avvertiti come epocali, come l’avvento al potere di Chruščëv nell’Unione Sovietica, la decolonizzazione francese in Marocco e Tunisia, le due concomitanti crisi d’Ungheria e di Suez – eventi che ebbero peraltro l’effetto di favorire la prospettiva di un’apertura a sinistra preannunciata da F. al Consiglio nazionale di Vallombrosa nel luglio 1957 – che in Italia la politica del neoatlantismo iniziò a prendere forma attraverso l’assunzione di alcune iniziative e decisioni puntuali. Nel 1956 F., nelle vesti di segretario della Democrazia cristiana, giunse a condannare apertamente l’intervento franco-inglese in Egitto. Scorse, d’altro canto, nella tragedia ungherese il segnale di un possibile rinnovamento interno del mondo comunista che avrebbe dovuto trovare in Occidente interlocutori attenti quanto discreti. Queste posizioni implicavano che l’Italia, pur permanendo nel quadro dell’atlantismo, rafforzasse l’interlocuzione con i paesi dell’Europa Orientale e, soprattutto, ricercasse un ruolo più rilevante nella regione mediterranea, in particolare attraverso il rapporto con gli stati arabi del Medio Oriente. F., nell’esplicitare questa nuova prospettiva di politica estera, poté servirsi di almeno tre sponde: quella politica istituzionale offertagli dal Quirinale, quella economica e mediatica di Enrico Mattei dell’Eni e del quotidiano “Il Giorno”, infine, quella etico-morale e culturale di La Pira, il quale attraverso le ricadute del dialogo interreligioso, in particolare con il mondo musulmano, lavorò alla prospettiva di una rottura dello schema bipolare al fine di allargare lo spazio per politiche di integrazione culturale il più possibile autonome dalla logica dei blocchi. Grazie all’intraprendenza di Enrico Mattei e soprattutto al dinamismo di Giorgio La Pira, si sarebbe peraltro verificata all’inizio degli anni Sessanta anche un’importante sinergia in politica estera con le nuove aperture oltre cortina promosse dalla Chiesa cattolica del neoeletto papa Giovanni XXIII (v. Neglie, 2009). In alcuni casi i fautori del neoatlantismo riuscirono effettivamente a tracciare un’azione internazionale più incisiva che in passato. In particolare, memorabile nei ricordi dei diplomatici è rimasto il viaggio di F. negli Stati Uniti del luglio 1958, i cui esiti furono fruttuosi soprattutto per l’attestazione del ruolo chiave che avrebbe dovuto occupare l’Italia come interprete della strategia atlantica in Europa. Nel complesso, però, i risultati finali restarono ben al di sotto delle aspettative. La nuova politica estera incontrò numerosi e strenui avversari sia all’estero che all’interno del paese. Se, soprattutto nel 1956, guadagnò simpatie a sinistra, il nuovo corso di politica estera ruppe lo schieramento centrista: suscitò l’opposizione di quanti si mantennero invece fedeli all’impostazione degasperiana e, soprattutto, fece nascere avversioni profonde nell’ambito della diplomazia (tra cui Brosio, Quaroni, Zoppi) e scetticismo in parte dell’establishment americano. In particolare, i differenti orientamenti di politica estera interni alla DC emersero con grande nettezza durante il Consiglio nazionale dell’ottobre 1956. Dalle posizioni espresse da F. all’epoca della crisi di Suez si dissociarono Scelba, fortemente critico nei confronti di Nasser, Antonio Segni, deciso a ribadire l’importanza della solidarietà atlantica in quel momento di crisi, Pella, fermo nel censurare le ambiguità emerse nel governo sul ruolo dell’Italia, e Giulio Andreotti, preoccupato soprattutto delle conseguenze interne di un allentamento dei rapporti euro-atlantici rispetto all’ipotesi di un accordo di governo con i socialisti. Vi fu un momento, però, in cui i fautori del neoatlantismo trovarono improvviso slancio con la costituzione del secondo governo F., formato dalla DC e dal Partito socialdemocratico italiano (PSDI) con l’appoggio esterno del Partito repubblicano italiano (PRI). Le elezioni legislative del 25 maggio 1958 non determinarono la vittoria auspicata da F., tuttavia segnarono una significativa crescita della DC, che ottenne il 42,3% dei consensi, livello da allora mai più raggiunto. Il leader aretino sembrò prossimo all’instaurazione di una sorta di “monarchia”, allorché, conservando la segreteria del partito, formò un gabinetto nel quale cumulò le cariche di Presidente del Consiglio e di ministro degli Esteri. Le condizioni per l’annunziata svolta neoatlantica si sarebbero tuttavia rivelate assai meno favorevoli del previsto. Il regno fanfaniano durò infatti solo sette mesi, fino a quando cioè, all’interno della DC la diffusa insofferenza verso il presunto autoritarismo del Presidente del Consiglio e soprattutto i nodi tra i fautori e gli oppositori della cosiddetta apertura a sinistra non vennero al pettine, inducendo F. a farsi momentaneamente da parte. Costretto ad abbandonare la guida del governo, F. lasciò poco dopo anche la segreteria del partito. La progressiva dissoluzione del potere fanfaniano e la conseguente disarticolazione dello schieramento politico-economico che, con l’Ente nazionale idrocarburi (ENI) in testa, aveva salutato con favore la stagione del neoatlantismo contribuì a minare la coerenza interna del disegno di revisione della politica estera italiana, un progetto che in realtà sin dall’inizio si era sviluppato attraverso iniziative e lungo direttive spesso poco coordinate tra loro, a volte addirittura contraddittorie. Lo stesso F. oscillò tra il cosiddetto “occidentalismo conflittuale”, il sostegno a iniziative “terzomondiste” o “distensive” e posizioni più in linea con l’“atlantismo ortodosso”, come in occasione delle trattative che avrebbero portato il 26 marzo del 1959 alla stipula dell’accordo raggiunto con Washington, che condusse allo stazionamento nella penisola italiana di vettori con testata nucleare (i missili Jupiter) sulla base del principio della “doppia chiave”. Tali oscillazioni, che caratterizzarono soprattutto l’ultima fase del secondo governo F. (luglio 1958-febbraio 1959), furono anche il risultato di un tentativo, certamente ambizioso, ma al tempo stesso pretenzioso e velleitario, di volgere a proprio vantaggio contingenze internazionali, che in realtà si sarebbero rivelate tutt’altro che favorevoli al progetto di soppiantare la declinante presenza anglo-francese in Medio Oriente con un’intesa privilegiata con Washington (cfr. Galante, 1988).

A partire dall’estate 1958, l’esperimento neoatlantico fu chiamato innanzitutto a confrontarsi con la revisione degli equilibri internazionali provocata dal ritorno al potere di Charles de Gaulle in Francia. Al di là delle dichiarazioni formali di rinnovata amicizia con la Francia rese al Parlamento dopo l’insediamento a Palazzo Chigi, la sostanza della politica estera di F. segnò un crescendo di diffidenza e di ostilità nei riguardi del nuovo potere gollista. In particolare, si ritenne che il nuovo corso della politica estera francese si sarebbe per forza di cose riflettuto negativamente sullo status internazionale dell’Italia. La richiesta di una posizione privilegiata della Francia in seno all’Alleanza atlantica avrebbe portato ad una riduzione dello spazio italiano; l’accordo di collaborazione italo-franco-tedesco per la produzione di nuovi armamenti, concluso nel novembre del 1957, sarebbe stato senz’altro denunziato da de Gaulle, cosa che puntualmente si verificò; si temeva inoltre che la nuova politica gollista in Nord Africa avrebbe disturbato la politica filoaraba dell’Italia. In un primo momento F. scelse la via dello scontro frontale con Parigi. A fronte delle turbolenze che investirono la regione mediorientale – gli interventi britannici e statunitensi, rispettivamente in Giordania e in Libano, il colpo di stato in Iraq, la costituzione della Repubblica araba unita, il problema dei rifugiati palestinesi e della sicurezza di Israele, la crisi algerina – i primi atti del governo F. furono, infatti, diretti a scalzare le posizioni francesi, facendo forza sulla sponda americana. In questo contesto si inseriscono l’organizzazione dei “colloqui mediterranei”, che vide la partecipazione di due esponenti del Front de Libération nationale (FLN), gli accordi dell’ENI di Mattei con il Marocco e l’Egitto, la proposta agli Stati Uniti di varare un Piano Marshall per il Medio Oriente, il vasto movimento diplomatico, iniziato nel luglio 1958 e culminato con l’allontanamento dell’ambasciatore Rossi-Longhi da Parigi, e, infine, la visita di F. al Cairo nel gennaio 1959, la prima di un leader occidentale: iniziative che determinarono una vera e propria crisi nei rapporti tra l’Italia e la Francia (cfr. Russo, 2008).

In questo quadro, la Comunità economica europea (CEE) sembrò giocare, almeno inizialmente, una parte secondaria; in particolare il governo F. diede relativamente poca importanza alla messa in opera delle Istituzioni comunitarie, considerata forse un aspetto secondario di carattere strettamente diplomatico e burocratico. Ciò trovò conferma nelle nomine dell’Italia all’interno dei più importanti organismi comunitari. Alla Commissione europea, nata nel 1958, il governo di Roma inviò due esponenti democristiani, Piero Malvestiti e Giuseppe Petrilli. Il primo rappresentava una parte della DC delle “origini” destinata ormai ad uscire di scena. Il vecchio leader dei neoguelfi sarebbe rimasto alla Commissione CEE per solo un anno: nel 1959 venne indicato dall’Italia alla guida dell’alta Autorità della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) dove, tuttavia, la sua esperienza non suscitò particolare entusiasmo. Petrilli, esperto di questioni economiche e federalista convinto (v. Federalismo), ricoprì per soli due anni la carica di Commissario europeo, alla quale rinunciò nel 1960 per assumere la presidenza dell’IRI (v. Varsori, p. 164). L’Europa e gli affari comunitari tornarono invece a occupare una posizione centrale nella politica estera italiana all’inizio degli anni Sessanta, durante i governi F. III (luglio 1960-febbraio 1962) e IV (febbraio 1962-giugno 1963), allorché nel corso dei concomitanti negoziati per la realizzazione di un’Europa politica e per l’Allargamento della Comunità europea al Regno Unito, e sullo sfondo di nuovi inquietanti segni del riacutizzarsi della Guerra fredda, di cui i sintomi più gravi furono la costruzione del muro di Berlino e la crisi dei missili di Cuba, la prospettiva di un asse franco-tedesco in chiave di contrapposizione alle potenze anglosassoni iniziò ad assumere forme concrete (v. Quagliariello, 2006, pp. 17-48). In quello stesso periodo ebbe peraltro avvio una battaglia, poi vinta soprattutto grazie alla determinazione di F., affinché in territorio italiano avesse sede un’università europea. Per scongiurare l’ipotesi di un’Europa a più velocità imperniata sull’asse franco-tedesco, l’Italia di F. seguì sin da principio due strategie parallele, attestandosi su un difficile punto di equilibrio destinato a rompersi. Incrociando esigenze di politica interna e posizioni di politica estera, innanzitutto sostenne lealmente la candidatura di adesione della Gran Bretagna presso la Comunità europea e aderì con convinzione al progetto della Forza multilaterale avanzato da Kennedy. Impegnato nel progetto di apertura al partito socialista sin dalla metà degli anni Cinquanta, F. capì che il consenso dell’amministrazione americana sarebbe stato indispensabile per favorire il buon esito dell’operazione politica interna (v. Nuti, 1999). Dall’altro canto, nel corso dei negoziati per l’unione politica, l’Italia di F. si propose nel ruolo di mediatore tra i piccoli paesi del Benelux e il tandem Bonn-Parigi, ricevendo talvolta l’apprezzamento delle altre delegazioni, talvolta le accuse di doppiogiochismo, soprattutto da parte dei francesi. Nonostante i non facili rapporti con de Gaulle, vi era infatti piena consapevolezza da parte di F. dell’importanza per l’Italia del buon funzionamento del Mercato comune per scongiurare il rischio di una rottura definitiva con la Francia. Posto dinanzi al fallimento del Piano Fouchet e ai successivi viaggi trionfali di de Gaulle in Germania e di Konrad Adenauer in Francia, che preannunciarono l’intesa a due poi approdata al Trattato dell’Eliseo, il IV governo F. non esitò tuttavia ad imprimere alla politica estera una svolta in chiave filobritannica. La svolta venne ufficializzata in occasione di un discorso che il leader aretino pronunciò nel corso della riunione degli ambasciatori presso i paesi membri l’11 settembre 1962: con inedita chiarezza F. esplicitò il valore prioritario che egli intendeva accordare all’ingresso dei britannici nel Mercato comune anche rispetto alla prospettiva dell’unione politica. La crescente influenza dei socialisti e l’allontanamento di Segni dalla gestione degli Affari esteri contribuì d’altra parte non poco allo scivolamento di Roma sulle posizioni dei paesi del Benelux. Il discorso di F. lasciò peraltro intravedere una nuova disponibilità a sacrificare le istanze federaliste sull’altare dell’ingresso dei britannici nella Comunità europea. Anche per questo F. non conquistò la fama di europeista. Oltre alle diffidenze ereditate dal periodo dossettiano, il suo atteggiamento nei confronti dell’unificazione europea fu fortemente segnato dal timore costante che l’Italia venisse sopraffatta o marginalizzata dalla Francia e dalla Germania. Alla vigilia della firma del Trattato dell’Eliseo La Malfa, allora ministro del Bilancio dell’esecutivo guidato da F., promosse alcune iniziative finalizzate a realizzare un asse anglo-italiano da contrapporre a un eventuale blocco franco-tedesco. Tali tentativi s’infransero, tuttavia, non soltanto contro il rifiuto britannico, ma anche contro il tiepido sostegno ricevuto dallo stesso F., il quale preferì piuttosto arginare la prospettiva di un’Europa terza forza imperniata su l’asse franco-tedesco puntando sul “grande disegno” kennedyano di una sola Comunità atlantica. A fronte dell’importante calo di consensi registrato dalla Democrazia cristiana in occasione delle elezioni politiche del 1963, F. rassegnò le dimissioni.

Momentaneamente estromesso dagli incarichi istituzionali e ridimensionato in quelli di partito, sarà costretto ad accettare che la creatura (il centrosinistra) che aveva per primo immaginato passasse definitivamente nelle mani di Aldo Moro. Il suo allontanamento dai banchi del governo non sarebbe, tuttavia, durato a lungo. Dal 1965 al 1966 e dal 1966 al 1968 avrebbe ricoperto la carica di ministro degli Esteri, rispettivamente del secondo e terzo governo Moro. L’attenzione e l’impegno profusi a sostegno della politica estera italiana, finalizzati a rafforzare i legami con l’Europa e l’Alleanza atlantica, gli sarebbero valsi l’elezione, nel settembre del 1965, alla presidenza dell’Assemblea dell’ONU, incarico che avrebbe esercitato con grande prestigio, conservando, al contempo, salvo una breve parentesi, la titolarità del dicastero degli Esteri. Nel corso del biennio di presidenza, F. si sarebbe trovato ad affrontare alcuni dei nodi che le trasformazioni delle relazioni internazionali e l’emergere di nuove aree geopolitiche di interesse avevano portato al pettine. L’attenzione per il Terzo mondo e per il Medio Oriente avrebbero rappresentato solo alcune delle preoccupazioni di cui egli si sarebbe reso portavoce nel corso delle riunioni dell’Assemblea. Altrettanto centrale sarebbe stata l’attenzione rivolta al riconoscimento della Cina popolare e della sua rappresentanza all’Onu che lo avrebbe indotto a fissare un ruling procedurale che consentisse a Pechino, negli anni successivi, di raggiungere il quorum di voti necessari per sostituire Formosa nel consesso internazionale. Nella nuova veste internazionale, il 4 ottobre del 1965 F. accolse la visita all’Onu di Paolo VI. In quella occasione, sollecitato da Giorgio La Pira, il “teologo” del dialogo interreligioso, non avrebbe mancato di rendersi interprete con il pontefice di quelle esigenze di mediazione che l’aggravarsi della situazione in Vietnam rendevano non più procrastinabili. Nella sua agenda politica non sarebbero mancati, poi, riferimenti ai temi del disarmo, della proliferazione nucleare, dello sviluppo nei paesi dell’America latina, ai quali sin da giovane si era appassionato e che aveva avuto modo di visitare personalmente nel corso di un viaggio con il presidente Giuseppe Saragat dal 10 al 21 settembre del 1965. Negli anni successivi F. avrebbe continuato a ricoprire incarichi di rilievo tanto sul versante istituzionale quanto su quello partitico. Come si dirà, da questo momento in poi la sua azione politica perderà quel respiro europeo e internazionale che aveva caratterizzato la prima parte della sua carriera, per concentrarsi prevalentemente entro i confini nazionali. In ciò il percorso di F. ha qualcosa di emblematico. Rappresenta bene la parabola di una classe politica che, nella prima parte della storia repubblicana, riflette sui problemi del paese collocandoli nei grandi scenari internazionali in divenire, e che, da un certo punto in poi – conquistata l’apertura a sinistra – sembra invece ripiegare in una logica eminentemente interna, quasi a voler sfruttare fino in fondo quel margine faticosamente ritagliatosi nell’interazione tra equilibri politici nazionali e logiche della Guerra fredda.
La cornice di questo ripiegamento entro i confini nazionali fu quella segnata dalle profonde trasformazioni della società italiana degli anni Sessanta e Settanta e dalle sfide che, la contestazione prima e il terrorismo poi, avrebbero lanciato alla democrazia e alla governabilità del sistema.

Nelle vesti di presidente del Senato, dal giugno del 1968 al giugno del 1973, riceverà dal Presidente della Repubblica Giovanni Leone, la nomina, il 10 marzo del 1972, a senatore a vita per “aver illustrato la patria con altissimi meriti nel campo scientifico e sociale”. La ricerca di costanti mediazioni e soluzioni che consentissero ai partiti di reagire alla crisi di delegittimazione che sembrava investirli lo indusse ad attenuare alcuni degli aspetti più radicali che nei periodi precedenti avevano contraddistinto il suo carattere e la sua azione politica. La svolta “moderata”, tuttavia, non si sarebbe rivelata immune da insuccessi e difficoltà personali. Le vicende che avrebbero accompagnato il suo tentativo di salire al Quirinale ne offrono una prima conferma. Alla scadenza del mandato di Giuseppe Saragat la sua designazione incontrò forti opposizioni interne alla stessa DC. Di quel frangente è rimasto celebre un incontro tra il leader aretino e Moro, allora ministro degli Esteri, voluto dallo stesso F. nella speranza di sondare lo stato di avanzamento delle trattative per far convergere la maggioranza delle preferenze sul suo nome. Nel corso del colloquio con Moro, di ritorno da un viaggio a Bruxelles concluso con successo, accennò ad un problema ancora aperto che occorreva risolvere con urgenza. Deludendo le aspettative del suo interlocutore, si affrettò a chiarire che si trattava della regolamentazione della “pesca del merluzzo nelle acque norvegesi”. Il tema del Quirinale non venne nemmeno sfiorato e al Colle finì col salire Giovanni Leone. Non maggiore fortuna incontrò la battaglia condotta, come segretario politico della DC – carica che aveva riassunto nel giugno del 1973 lasciando la presidenza del Senato – a favore dell’abrogazione della legge sul divorzio, la Baslini-Fortuna, approvata nel 1970: privo dell’appoggio dei maggiori esponenti del suo partito (Rumor, Moro, Colombo, Cossiga), vincolato dalle pressioni del mondo cattolico ufficiale e fiancheggiato soltanto dal Movimento sociale italiano, F. dovette subire una evidente sconfitta: nei risultati del referendum svoltosi il 12 e 13 maggio 1974 i “sì” registrarono il 40,7% dei voti, i “no” il 59,3%. A costargli la perdita della guida del partito fu, però, l’esito delle elezioni amministrative del 15 e 16 giugno 1975, le prime che ammettevano al voto i diciottenni. La Democrazia cristiana registrava un evidente calo di consensi a fronte di un forte aumento del peso elettorale del PCI: il partito di Enrico Berlinguer, avviato sulla strada della revisione interna, premessa necessaria alla credibilità del compromesso storico, innescava nel partito dei cattolici la “paura del sorpasso”. Le politiche dell’anno successivo avrebbero ristabilito il primato democristiano, premiando la gestione di Benigno Zaccagnini, e consegnando nuovamente a F. la presidenza del Senato che mantenne fino al 1982. Nel corso del triennio che segnò la fine della conventio ad excludendum nei confronti del Partito comunista e che si sarebbe concluso con la tragica morte di Aldo Moro, F. non mancò di manifestare forti perplessità nei confronti della linea di apertura ai comunisti sostenuta dalla dirigenza del partito. Nel tentativo di rallentare il dialogo, durante il XIII Congresso nazionale della DC del marzo 1976, si pose alla guida, insieme ad Andreotti e ai dorotei di Piccoli e Bisaglia, di un cartello di correnti moderate opposte alla linea sostenuta dal segretario e denominato “DAF” (Dorotei-Andreotti-F.) e intenzionate a sostenere la candidatura di Arnaldo Forlani. Gli equilibri interni al partito e l’abile regia di Aldo Moro costrinsero le correnti del cartello, fatta eccezione per Andreotti, all’opposizione, offrendo a F. la carica di Presidente del Consiglio nazionale. Carica che mantenne per pochi mesi, preferendo, come accennato, tornare alla presidenza del Senato. Nel corso dei tre mesi, segnati da rapimento e dall’uccisione di Moro da parte delle Brigate rosse, fu tra i pochi esponenti della Democrazia cristiana a schierarsi a sostegno della trattativa, fino al punto di negare al governo in carica la sede deliberante – richiesta dallo stesso presidente Andreotti – sui provvedimenti di polizia proposti il giorno successivo a quello del sequestro.

La ricerca dei nuovi equilibri governativi che seguì la fine dell’esperienza della solidarietà nazionale lo videro prima confermare l’opposizione alla prosecuzione dell’apertura verso il PCI, ribadita con convinzione in occasione del XIV Congresso nazionale della DC del 1980, il congresso del cosiddetto “Preambolo”, poi tornare su posizioni di sinistra moderata, in occasione della successiva assise nazionale. La perdita della presidenza del Consiglio da parte della DC, nel 1981, avrebbe infatti innescato nuove tensioni all’interno della DC, mettendo nuovamente in discussione gli equilibri raggiunti nel 1980. Il XV Congresso nazionale si concludeva con la nomina alla segreteria politica di Ciriaco De Mita, il candidato sostenuto dalle sinistre e sul quale si sarebbe realizzata la convergenza di Andreotti, Piccoli e dello stesso F. (il cosiddetto PAF). Proprio il PAF avrebbe segnato la definitiva spaccatura tra i fanfaniani e dorotei che avrebbero sostenuto, risultando sconfitti, Arnaldo Forlani, il vecchio delfino di F. Dal 1982 al 1983 fu chiamato a presiedere, per la quinta volta, un esecutivo formato da DC, PSI, PSDI, PLI con l’appoggio esterno del PRI; dal 1985 al 1987 presiedette nuovamente il Senato, eletto grazie ad un’ampia maggioranza che comprendeva, oltre alle forze del “pentapartito” il PCI e il MSI. La sua ultima esperienza alla presidenza di Palazzo Chigi si concluse nel 1987 quando fu costretto a rimettere il mandato a seguito del mancato voto di fiducia della Camera dei deputati. F. non avrebbe, tuttavia, abbandonato i banchi del governo: fu ministro degli Interni nel governo Goria dal luglio 1987 all’aprile 1988 e ministro del Bilancio e della programmazione economica dall’aprile 1988 al luglio 1989 nel governo De Mita. Nel 1992, nel nuovo panorama politico segnato dalla fine della lunga stagione dei partiti, venne eletto presidente della Commissione permanente “Affari esteri” del Senato che mantenne fino al 14 aprile 1994. Di fronte alla diaspora che seguì la fine dell’unità politica dei cattolici e la scomparsa della Democrazia cristiana, F. scelse di aderire, nel 1994, al Partito popolare fondato da Mino Martinazzoli.

Gaetano Quagliariello (2012)




Faure, Edgar

La carriera politica di F. (Béziers 1908-Parigi 1988) è stata lunga e, al tempo stesso, sorprendentemente intensa. Basterà ricordare che è stato membro del Parlamento dal 1946 al 1988 (a eccezione del breve ritiro dalla vita pubblica nell’inverno 1958-1959 e dei suoi passaggi al governo sotto la V Repubblica), ha svolto funzioni ministeriali dal febbraio 1949, è stato Presidente del Consiglio a due riprese durante la IV Repubblica (dal gennaio al febbraio del 1952 e dal febbraio 1955 al gennaio 1956), ha esercitato importanti responsabilità sotto la V Repubblica (come ministro dell’Agricoltura e poi dell’Educazione nazionale, sotto il generale Charles de Gaulle, dal 1966 al 1969, in seguito come ministro di Stato incaricato degli Affari sociali, dal 1972 al 1973, sotto Georges Pompidou). L’aver occupato la carica più alta (vale a dire quella di presidente dell’Assemblea nazionale) dal 1973 al 1978 rappresenta una sorta di coronamento, a dispetto di tutte le delusioni, di questo cammino nell’universo del potere e degli onori.

Il nome di colui che è stato definito il «virtuoso della politica» (Raymond Krakovitch) è stato associato alla costruzione europea in occasione di tre momenti significativi. Durante un primo, breve passaggio a capo del governo al principio del 1952 F. fa votare dall’Assemblea nazionale – il 19 febbraio, al termine di discussioni confuse e complesse – il testo che permette l’apertura dei negoziati ufficiali che sfoceranno, qualche mese dopo, nella firma del trattato della Comunità europea di difesa (CED). Il suo secondo passaggio alla presidenza del Consiglio, nel 1955, è segnato dalla ratifica al Consiglio della Repubblica degli Accordi di Parigi, dalla Conferenza di Messina (1-2 giugno 1955) e dai lavori delle commissioni di esperti organizzate a Bruxelles dal luglio al novembre 1955, cioè da quello che la storia ha considerato il decollo del «rilancio europeo». Infine F., in qualità di ministro dell’Agricoltura del terzo governo Pompidou (gennaio 1966-luglio 1968), è uno di quelli che hanno portato il pesante fardello delle trattative per l’applicazione concreta dei meccanismi del Mercato comune agricolo, con uno sforzo immane che approderà alla firma, all’alba del 29 giugno 1968, di un accordo fondamentale in materia. In compenso, la sua partecipazione ai lavori del primo Parlamento europeo eletto a suffragio universale, dal 1979 al 1984, può essere considerata trascurabile (v. anche Elezioni dirette del Parlamento europeo). La candidatura dell’ex presidente dell’Assemblea nazionale nella lista guidata da Simone Veil obbedisce soprattutto a motivazioni di politica interna, in quanto l’obiettivo consiste nel perfezionare l’avvicinamento, messo in atto dal 1978, con la componente giscardo-centrista della maggioranza presidenziale.

A dispetto delle apparenze, l’episodio del 1955 non è senz’altro il più degno di attenzione nel percorso europeo di F. Il Presidente del Consiglio non è presente a Messina; non prova alcun entusiasmo particolare per la creazione di un grande mercato aperto ai soli paesi della Comunità dei Sei e ha dato disposizioni di essere prudenti (per iscritto o solo verbalmente? su questo punto il dibattito resta aperto) al suo ministro degli Esteri Antoine Pinay, anche lui piuttosto reticente. Ma soprattutto è preso da altre preoccupazioni (in primo luogo la spinosa questione marocchina) o, perlomeno, da altri problemi di natura internazionale (le relazioni Est-Ovest). A questo bisogna aggiungere che nel voto del 22 gennaio 1957 – vero e proprio nullaosta dato dall’Assemblea nazionale alla futura conclusione dei negoziati dei Trattati di Roma – la sua scelta è quella dell’astensione. In ultima analisi, il contributo di F. al rilancio europeo è legato soprattutto a due fattori: il suo impegno, molto risoluto, a favore della ratifica definitiva degli Accordi di Londra e di Parigi, senza i quali niente sarebbe stato possibile; il suo talento per sdrammatizzare i conflitti ed evitare che la questione, in particolare all’interno dell’équipe ministeriale, diventasse oggetto di discordia suscettibile di ipotecare l’avvenire.

A fronte di questo bilancio sfumato, è possibile sottoscrivere i giudizi che tendono a presentare F. come un «europeo senza passione» (Georgette Elgey) o un «europeo, ma con moderazione» (per riprendere l’eccellente formula del suo biografo più recente, Raymond Krakovitch). F., personalità assai duttile e mobile, dev’essere senz’altro inserito nella categoria degli europei “razionali”, che soppesano i vantaggi e gli inconvenienti di ordine pratico e rifiutano di agire nel segno della fede nelle virtù intrinseche della sovranazionalità. Sotto la IV Repubblica il deputato radical-socialista del Giura preferisce occupare, in particolare a partire dall’estate 1952, una posizione intermedia fra quella dei più accaniti avversari della CED (Edouard Daladier, che non amava, ed Edouard Herriot, per il quale professava una sincera ammirazione di vecchia data) e quella del clan degli “europeisti” propriamenti detti, raggruppati attorno a René Mayer, con il quale peraltro F. aveva dei rapporti molto tesi. Dal 1952 al 1953 la sua linea di condotta negli affari europei, malgrado evidenti differenze di stile, è abbastanza affine a quella del suo amico e vecchio mentore Pierre Mendès France: le convergenze sono particolarmente forti nel 1952 (in occasione, soprattutto, delle discussioni parlamentari del febbraio 1952 evocate in precedenza) e nel corso dell’estate 1954, vale a dire nelle settimane di grande tensione prima del fallimento della CED (per esempio, al momento della conferenza dell’ultima opportunità per salvare la CED, tenutasi a Bruxelles alla fine di agosto, conferenza in cui F., all’epoca ministro delle Finanze, segue e sostiene attivamente Mendès France).

Una decina di anni dopo lo stesso F., avendo aderito alla maggioranza della V Repubblica che appoggia il generale de Gaulle, non teme di manifestare la sua solidarietà con le posizioni, spesso molto controverse, assunte da quest’ultimo sul doppio capitolo dell’“indipendenza nazionale” e della politica europea. Uscito in libreria nel 1968 con il titolo di Prévoir le présent, l’ambizioso saggio politico di cui è autore difende, con rara vivacità, alcune tesi sulle quali un gollista di stretta osservanza non avrebbe avuto granché da eccepire. Certo, si potrebbe argomentare che il brillante studente della IV Repubblica, tornato al governo nel 1966, avesse tutto l’interesse ad “aderire” il più possibile all’azione del capo dello Stato e ai suoi orientamenti in materia di politica estera. Ma un esame attento consente anche di individuare alcuni elementi di continuità fra certi capitoli di Prévoir le présent (per esempio, il XIII capitolo dedicato alla questione europea) e la sostanza del rapporto presentato al congresso radicale di Bordeaux nell’autunno 1952, per il quale, se si presta fede alla testimonianza di Léon Noël, F. avrebbe chiesto l’opinione di de Gaulle.

A partire dal periodo a cavallo tra anni Sessanta e Settanta, F. – che non accorda più ai problemi di politica internazionale il carattere di priorità come aveva fatto nel 1966 – ha senz’altro modificato le sue posizioni in un senso più favorevole alla costruzione europea. Ma sarebbe sbagliato sopravvalutare l’importanza di quest’evoluzione, che rientra in un movimento molto generale che interessa una quantità di personalità un tempo ritenute ostili o semplicemente reticenti all’interno o all’esterno degli ambienti gollisti. F., che professa la religione dei fatti e si richiama, con sempre maggior insistenza, ad una concezione sperimentale della politica, come avrebbe potuto tenersi a distanza da un simile movimento di fondo?

L’immagine che prevale è senz’altro quella del pragmatismo. Tuttavia, l’uso di questa formula passe-partout, applicabile ad attori molto differenti come François Mitterrand o Georges Pompidou, aiuta ben poco a comprendere l’originalità del percorso di F. e, di conseguenza, a valutare correttamente l’importanza del suo contributo al successo dell’impresa europea. Il metodo migliore, a nostro avviso, consiste nel concentrarsi su due punti più circoscritti.

Per F. la costruzione europea, in particolare nel modo in cui è stata concepita e intrapresa nel quadro della “piccola Europa a Sei”, non ha mai costituito la priorità assoluta. In altri termini, perseguire quest’obiettivo, di per sé auspicabile, non doveva portare a trascurare altre questioni che potevano essere più importanti: la decolonizzazione, la creazione di rapporti di tipo nuovo con i paesi emergenti (compresa la Cina comunista), la distensione, le intese e la cooperazione (per riprendere il famoso trittico del generale de Gaulle), ecc. F. si è sempre richiamato ad una visione allargata delle relazioni internazionali, arrischiando nel 1966 l’espressione precorritrice di “mondialismo”.

In quest’ambito, come in molti altri, esiste un metodo F., fondato sulla volontà sistematica di sdrammatizzare i problemi e relativizzare l’importanza dei conflitti. Nel 1955, all’indomani del fallimento della CED, come pure nel 1965, in occasione dell’episodio della “sedia vuota” e dei rischi di un blocco delle Istituzioni comunitarie, questo conciliatore nato pensa, giustamente, che la crisi non poteva continuare in eterno e che sarebbero state trovate soluzioni di compromesso. F., parallelamente, non ragionò ragionato, come gran parte dei membri della “società degli europeisti”, in termini di opposizione fra un campo dei fautori della costruzione europea e un campo dei suoi presunti avversari. Nel 1955 arriva a costituire una équipe ministeriale che riunisce fautori della CED intransigenti (Pierre-Henri Teitgen, allora presidente del Mouvement républicain populaire, MRP), altri più consapevoli della necessità di certi accomodamenti (Robert Schuman, l’uomo del “partito” europeo, al quale si sentiva senz’altro più vicino), altri ancora fautori “razionali” (Antoine Pinay, nominato al Quai d’Orsay), europeisti non propensi alla CED (il suo amico Edouard Bonnefous) e altri decisamente avversi a essa (i ministri gollisti, in particolare Gaston Palewski e il generale Koenig). Qualche mese dopo il «delitto del 31 agosto» (il rifiuto della CED), era ormai dimostrato che un rilancio europeo, pur ancora molto timido, non avrebbe generato automaticamente nuovi drammi. In questo consiste senz’altro il contributo di F.: più che un attore della costruzione europea, nel senso forte del termine “attore”, egli fu un abilissimo sminatore del terreno politico e psicologico.

Gilles Le Beguéc (2012)




Faure, Maurice

F. (Azera, Dordogne 1922) non eredita la sua vocazione per gli affari internazionali ed europei dalle sue origini familiari. Le sue radici affondano nel Sud ovest, bastione del radicalismo, rendendolo un perfetto prodotto della meritocrazia repubblicana francese. Figlio di un maestro di scuola e di una direttrice di collegio, studia seguendo un doppio corso in lettere e in legge a Bordeaux e a Tolosa. Durante la Seconda guerra mondiale combatte contro i tedeschi nel Corpo franco di André Pommiès. Agrégé di storia e geografia, dottore in legge, dopo la guerra F. insegna a Tolosa, al Liceo Pierre-de-Fermat e all’Institut d’études politiques.

I suoi esordi in politica non sono in provincia con una funzione elettiva locale, bensì nelle vesti di addetto nel gabinetto di Yvon Delbos, ministro di Stato e deputato radicale della Dordogna, nel 1947. In seguito è capo di gabinetto di un altro deputato radicale del Sud-ovest, Maurice Bourgès-Maunoury, segretario di Stato alla presidenza del Consiglio (1950-1951). Nelle elezioni legislative del giugno 1951 guida la lista del Partito radicale nel Lot; è eletto deputato e conserverà il suo mandato fino al 1983. Si costruisce un solido feudo locale: dopo essere stato sindaco di Prayssac (1953-1965), ottiene nel 1957 l’incarico di consigliere generale di Salviac. Il più giovane deputato di Francia (29 anni) diventa veramente europeo sedendo nell’Assemblea nazionale. Membro della commissione Affari esteri, il 7 dicembre 1951 pronuncia un primo discorso che risveglia l’attenzione dell’emiciclo, in occasione del dibattito sulla ratifica del trattato che crea la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). F. difende l’idea che la CECA sia «una rivoluzione diplomatica che consiste nell’attuare a freddo, fuori dell’egemonia di uno solo, un’integrazione, limitata per il momento a due settori dell’economia, dei popoli dell’Occidente che nel corso della storia più si sono combattuti e contrapposti, le cui frontiere sono state più spesso sconvolte dalla forza e che oggi, per la prima volta, traggono una lezione dalle loro inutili e arcaiche rivalità».

L’adesione di F. al progetto comunitario è alimentata dall’incubo di un nuovo scontro franco-tedesco e dal timore del pericolo sovietico. Nel luglio 1952 è eletto dal gruppo radicale all’Assemblea della CECA. Si dimette a favore di René Mayer, prima di essere rieletto fino al febbraio 1956. Sostenitore precoce di un’Europa politica, si impegna con fervore a favore della Comunità europea di difesa (CED), ritenendo che l’esercito comune debba condurre in seguito a un governo comune. «L’ideale europeo sta regredendo», deplora dopo il voto del 30 agosto 1954 che affossa la CED. Nelle settimane precedenti aveva costituito un comitato informale che riuniva, fra gli altri, Guy Mollet e Christian Pineau, per tentare di organizzare la difesa della CED. Questo attivismo nel febbraio 1956 gli procura la nomina, da parte di Mollet, a segretario di Stato agli Esteri, funzione che manterrà nei gabinetti Bourgès-Maunoury e Gaillard (v. Gaillard, Félix) fino al 14 maggio 1958. Uno dei dossier di cui si occupa, oltre alle questioni marocchina e tunisina, è quello della Saar.

Convinto della necessità di riconoscere la sovranità tedesca sulla Saar in cambio della canalizzazione della Mosella e di forniture di carbone, F. conduce immediatamente i negoziati che sfociano nella soluzione definitiva della questione della Saar sulla base degli accordi di Lussemburgo nell’ottobre 1956. In occasione di questi dibattiti stringe un legame di amicizia con il suo interlocutore tedesco Walter Hallstein, ex rettore dell’Università di Lubecca, un’amicizia che si rivelerà preziosa al momento dei negoziati per i Trattati di Roma, avviati nel settembre 1956. Pur essendo fondamentalmente favorevole al Federalismo delle istituzioni europee, F. dà prova di pragmatismo. Si dimostra un abile negoziatore, a un tempo duttile e risoluto. In un primo momento dà il proprio consenso di principio alle proposte del Comitato Spaak, ma esprime alcune riserve, motivate dalla preoccupazione di preservare la legislazione sociale francese. Malgrado lo scetticismo di Paul-Henri Spaak, impone il suo metodo nelle discussioni settimanali che si tengono nel castello di Val Duchesse, nei dintorni di Bruxelles: «Ad ogni riunione arrivavo con un foglio di carta diviso verticalmente in diverse colonne. Nella colonna di sinistra scrivevo la nostra posizione di partenza, in quella di destra la posizione dei nostri partner. Fra le due, separavo sistematicamente i punti sui quali non potevamo cedere da quelli sui quali il dibattito era aperto […]» (v. Faure, Delacampagne, 1999).

L’obiettivo consiste nel giungere rapidamente a un accordo rispettando le esigenze fondamentali delle parti coinvolte. L’amministrazione francese, in particolare il Quai d’Orsay, è piuttosto ostile al progetto europeo, ma F. si appoggia a un gruppo di collaboratori fedeli ed efficienti costituito da Robert Marjolin, rappresentante del ministero degli Esteri, Jacques Donnedieu de Vabres, capo della delegazione interministeriale per i problemi economici, Georges Vedel, Jean François-Poncet e Pierre Moussa, rispettivamente incaricati della Comunità europea dell’energia atomica, del Mercato comune e dei territori d’oltremare. Alla fine delle discussioni – che durano sette mesi – Christian Pineau e F. firmano a Roma, in Campidoglio, il trattato che instaura l’Euratom. Di fronte ai deputati francesi F. difende il progetto di Comunità europea per l’energia atomica, non molto popolare tra i responsabili dell’esercito, insistendo sul fatto che essa avrebbe preservato la libertà della Francia nella decisione dei suoi programmi nazionali e della sua produzione militare, permettendo al tempo stesso una prospezione e uno sfruttamento razionale delle risorse minerarie. Pur consapevole della rivoluzione che il Mercato comune avrebbe rappresentato per la Francia, protezionista per tradizione, dove rimane forte l’impronta di Colbert, F. vede in esso una opportunità per risanare l’economia del paese. Eletto in un dipartimento rurale, sa apprezzare l’opportunità rappresentata da un mercato unificato di 160 milioni di abitanti, in grado di pesare nell’economia mondiale e di permettere agli agricoltori francesi di abbassare i costi di produzione e di conquistarsi sbocchi più ampi. F. insiste nel difendere con successo, oltre ai due principi della responsabilità finanziaria comune e della preferenza comunitaria, l’adozione progressiva della regola della Maggioranza qualificata, al termine di tre periodi consecutivi di quattro anni.

Come incaricato degli Affari tunisini e marocchini, vigila attentamente sull’organizzazione di relazioni costruttive e pacifiche tra la Francia e i paesi dell’Africa del Nord di recente indipendenza. Ministro dell’Interno (14-17 maggio 1958), poi delle Istituzioni europee (17 maggio-1° giugno 1958) nell’effimero governo di Pierre Pflimlin, vota nel giugno 1958 l’investitura del generale Charles de Gaulle e la revisione costituzionale che mette fine alla IV Repubblica. F. è rieletto deputato di Cahors, nel novembre 1958, e conserva questo mandato fino al settembre 1983, data della sua elezione al Senato. Rappresenta di nuovo la Francia nell’Assemblea europea dal gennaio 1959 al maggio 1967, poi dal giugno 1973 al luglio 1979, quindi partecipa al gruppo di lavoro per le elezioni europee, costituito all’interno della Commissione per gli Affari politici, ed è cofirmatario, nell’ottobre 1960, con Emilio Battista, Fernand Dehousse, Willem Schuijt e Ludwig Metzger, di un rapporto intitolato Vers l’élection directe de l’Assemblée parlementaire européenne, che difende l’elezione diretta dei parlamentari europei a suffragio universale diretto (v. anche Elezioni dirette del Parlamento europeo).

Dal 1961 al 1965 è presidente del Partito radicale, sempre più marginalizzato: F. è contrario alla pratica gollista del potere e favorevole a un’apertura a sinistra. La costituzione del gruppo Rassemblement démocratique, dopo le elezioni del 1962, dà corpo ai suoi auspici concretizzando nell’Assemblea l’alleanza fra la ventina di deputati radicali e gli eletti mitterrandiani dell’Union democratique et socialiste de la Resistence (UDGR). F. sostiene la candidatura del socialista Gaston Defferre alle presidenziali del 1965 e il raggruppamento di centrosinistra all’interno del progetto di “Grande federazione”, che spazia dalla Section française de l’Internationale ouvrière (SFIO) al Mouvement républicain populaire (MRP). La sconfitta della soluzione Defferre lo incoraggia a optare per una soluzione di centrodestra attorno al presidente del MRP, Jean Lecanuet. Ma deve rinunciare alla partecipazione al Centro democratico creato da Lecanuet, perché il Partito radicale ha deciso, su iniziativa del suo nuovo presidente René Billières, di aderire alla Fédération de la gauches démocrate et socialiste (FGDS) di François Mitterrand.

Alle elezioni legislative del 1967, in un primo tempo sostenuto dal Centro democratico, F. sollecita fra i due turni l’investitura della FGDS. Accettando il suo programma, diventa membro del suo comitato esecutivo nel 1968. Ritornato nel 1969 alla presidenza del Partito radicale, si oppone a Jean-Jacques Servan-Schreiber sulla strategia di alleanza a sinistra e sulla questione dell’intervento dello Stato. Nell’ottobre 1971 deve cedergli la guida del Partito. Nel luglio 1972 firma con Robert Fabre e René Billières un accordo elettorale con il Partito socialista che dà vita all’Union de la gauche socialiste et démocrate. La sua approvazione al programma comune di governo fra Partito socialista e Partito comunista francese determina la sospensione dal Partito radicale. La rottura diventa definitiva nell’autunno 1972, quando F. aderisce al Mouvement de la gauche radicale-socialiste, presieduto da René Billières, che riunisce più della metà delle federazioni dipartimentali del partito. Eletto al Parlamento europeo dal 1979 al 1981 nella lista socialista, F. è incaricato di reggere il ministero della Giustizia nel primo governo Mauroy (22 maggio-22 giugno 1981). Ministro di Stato e ministro delle Infrastrutture e degli alloggi nel 1988-1989, in seguito è nominato membro del Consiglio costituzionale (1989-1998).

La breve attività ministeriale di F. sotto la V Repubblica è ampiamente compensata dalla sua presenza su un doppio fronte: quello europeo e locale. Sindaco di Cahors (1965-1990) dopo esserlo stato di Prayssac, consigliere generale di Montcuq dal 1963 al 1994, a partire dal 1970 presiede l’assemblea dipartimentale. Vicepresidente del Consiglio regionale del Midi-Pyrénées, F. è una delle grandi figure del radicalismo francese del dopoguerra. Nato ed eletto in una regione roccaforte della sinistra repubblicana e radicale, questo brillante oratore incarna in modo perfetto la tradizione dei notabili radicali della III Repubblica. Tuttavia le sue scelte, alla fine degli anni Sessanta, manifestano la volontà di rinnovare un movimento politico oramai allo stremo. L’alleanza con il Partito socialista persegue quest’unico obiettivo, ma compromette l’identità di un radicalismo di sinistra la cui originalità stenta sempre di più ad affermarsi. A proposito del Trattato di Roma, F. scrive: «Questo negoziato è stato la grande opera della mia vita […], il mio contributo alla storia» (v. Faure, Delacampagne, 1999). Anche se svolgerà più un ruolo diretto nella costruzione europea dopo il 1957, rifiutando ogni responsabilità negli organismi di Bruxelles, F. resta un fervente sostenitore dell’unità europea.

Sabine Jansen (2012)




Federal Union

L’idea di una federazione europea conobbe, proprio in Gran Bretagna (v. Regno Unito), un breve periodo di intensa popolarità nell’intervallo tra il Patto di Monaco e il crollo della Francia, quando una parte rilevante della cultura e della pubblica opinione britannica sembrò essersi convertita al Federalismo costituzionale. In quei mesi fu prodotta una assai significativa pubblicistica federalista da parte di famosi esponenti del pensiero liberale e socialista, come Philip Kerr, marchese di Lothian, Lionel Robbins, Lionel Curtis, William Beveridge, Barbara Wootton, Arnold Toynbee, Kenneth Wheare, Lord Lugard, Henry Wickham Steed, Ivor Jennings, Norman Angell, George Keeton, Margaret Storm, Henry Harris, Julian Huxley, William Curry, Norman Bentwich, James Meade, John Boynton Priestley, Henry Noel Brailsford, George Douglas, Howard Cole, Ronald Gordon Mackay, Konni Zilliacus, Cyril Joad e Olaf Stapledon. Questa pubblicistica, che ebbe un forte influsso sul pensiero politico britannico del tempo, è stata oggi quasi interamente dimenticata in Gran Bretagna. È viceversa tenuta in grande considerazione da studiosi al di qua della Manica, dove, particolarmente in Italia, viene definita come la “scuola federalista anglosassone” e il più significativo contributo nella prima metà del XX secolo a una autonoma articolazione concettuale del pensiero federalista europeo.

Furono indubbiamente le circostanze storiche in cui, dopo Monaco, la Gran Bretagna si era venuta a trovare – a mezza via tra appeasement e riarmo, di fronte al pericolo di un’altra guerra europea e alla perdita dell’impero – a favorire lo sviluppo di quella letteratura federalista. Per comprendere un fenomeno così eccezionale nella storia del XX secolo, pare necessario far precedere allo studio di quella pubblicistica e all’analisi delle sue radici storico‑sociali e delle sue valenze ideologiche un esame dettagliato di Federal union, il primo movimento federalista europeo organizzato su base popolare e sorto nell’autunno del 1938, su iniziativa di tre giovani: Charles Kimber, Dereck Rawnsley e Patrick Ransome.

Il contributo di Federal union allo sviluppo del federalismo in Europa fu quello di esprimere e organizzare gli inizi di una nuova militanza politica, che non puntava alla conquista del potere nazionale, ma alla costruzione di un’istituzione sovranazionale, la federazione europea. Con Federal union il federalismo cessò di essere un’idea della ragione e si inserì in quel processo storico che, attraverso il superamento dello Stato nazionale sovrano, portò alla creazione dell’Unione europea. Federal union rappresenta l’incarnazione dell’idea federalista in movimento, e come tale ne rappresenta anche un passo decisivo. Ripercorrerne qui gli inizi, la crescita, le alterne vicende, i dibattiti e contrasti interni sino al momento di massimo fulgore prima del crollo, significa analizzare la formazione di idee e prese di posizione che dominarono i primi mesi della guerra, portando il progetto federalista a varcare le soglie del Foreign office e di Downing Street.

Tra l’inverno e la primavera del 1940, non solo gli intellettuali, ma anche alcuni tra i più significativi esponenti del mondo politico – Arthur Neville Chamberlain, Edward Halifax, Anthony Eden, Clement Attlee, Ernest Bevin, Archibald Sinclair, Leopold Amery – e della Chiesa anglicana – come l’arcivescovo di York William Temple – si schierarono apertamente a sostegno del progetto federalista. I maggiori quotidiani e settimanali nazionali – “Times”, “Daily Telegraph”, “Manchester Guardian”, “News Chronicle”, “Daily Express”, “Daily Herald”, “Daily Worker”, “Observer”, “Sunday Times” – ospitarono frequentemente un dibattito assai vivace dedicato al federalismo, arricchendolo spesso con editoriali e interventi qualificati.

Fu poprio questo acceso dibattito sul federalismo in generale, e in particolare sull’unione anglo‑francese, a spingere il governo e i suoi funzionari a interessarsi di dare una forma politica stabile alla collaborazione bellica. Jean Monnet, allora presidente del Comitato di coordinamento anglo‑francese – un organismo creato su suggerimento dello stesso Monnet per dare maggiore efficacia allo sforzo bellico – e residente a Londra, fu assai sorpreso di quel dibattito e ne rimase profondamente influenzato. Monnet ricorda, a questo proposito, di essersi persuaso della necessità di una federazione tra i due paesi leggendo proprio il “Times”, e di averne parlato, prima dell’offensiva tedesca di maggio, con lo stesso Chamberlain.

A partire dai primi di marzo del 1940, il Foreign office si era comunque impegnato a fondo nello studio di un “Atto di perpetua associazione tra il Regno Unito e la Francia”, insediando a tal fine un comitato interministeriale presieduto da Maurice Hankey, i cui lavori tuttavia non ebbero influsso alcuno sul governo. Fu invece proprio Monnet a ispirare la straordinaria proposta di Winston Churchill del 16 giugno al governo francese di un’“unione indissolubile”: «ci saranno grandi difficoltà da superare», commentava John Colville, segretario privato di Churchill, «ma dinnanzi a noi sta il ponte verso un mondo nuovo, i primi rudimenti di una federazione europea o magari mondiale». Quando uno scettico Churchill presentò al Gabinetto il documento redatto da Monnet, Arthur Salter e Robert Vansittart, fu sorpreso nel constatare il grado di sostegno che ricevette. Attlee, Bevin e Sinclair s’erano già dichiarati a favore degli obiettivi cui puntava Federal union e altri membri del Gabinetto erano stati persuasi da Lord Lothian, Curtis e Beveridge sulla necessità di creare una federazione delle democrazie nel corso della guerra. Il Gabinetto adottò il documento con qualche modifica di secondaria importanza e Charles de Gaulle, che lo giudicò uno strumento per mantenere la Francia impegnata nel conflitto, comunicò telefonicamente a Paul Reynaud il contenuto della dichiarazione, che prevedeva una unione con «organi comuni di difesa, di politica estera, finanziaria ed economica», una cittadinanza comune e un solo Gabinetto di guerra. La proposta, tuttavia, non venne accolta dal governo francese riunito a Bordeaux e la Francia preferì piegarsi alla volontà tedesca per la seconda volta nel giro di settant’anni.

Il fatto che il Foreign office prestasse attenzione al federalismo – per la prima volta nella storia dell’impero, allo scopo di disegnare una nuova struttura delle relazioni con la Francia – fu certamente dovuto al Royal institute of international affairs (più comunemente noto come Chatham House) e ai tenaci sforzi del suo principale architetto, Lionel Curtis. Ciò non sarebbe comunque accaduto senza il sostegno popolare che Federal union seppe organizzare attorno al progetto federalista. Fu Federal union infatti ad agire da catalizzatore di idee e comportamenti che già da alcuni decenni erano peraltro relativamente diffusi nella società civile britannica.

Nella storia del federalismo organizzato, Federal union rappresenta un salto di qualità rispetto alle precedenti esperienze. La forma matura del federalismo organizzato deve possedere tre caratteristiche fondamentali. Innanzitutto, essendo finalizzata a unificare tutti i sostenitori della federazione, indipendentemente dai loro credo politici e dalla loro appartenenza sociale, l’organizzazione federalista non deve costituirsi come partito politico, finalizzato alla conquista del potere nazionale e antagonista, all’interno della società, rispetto ad altre formazioni politiche. La lotta per il potere politico nazionale si pone infatti in netta contraddizione con il trasferimento a istituzioni sovrannazionali di porzioni sostanziali della sovranità nazionale. In secondo luogo, deve trattarsi di movimenti tesi a unire tutti i sostenitori della federazione al di là del loro lealismo nazionale, e a rafforzare un lealismo sovrannazionale in grado di generare un’azione politica a livello sovrannazionale. Infine, tale azione deve proporsi d’influire direttamente sulla pubblica opinione, indipendentemente dalle campagne elettorali nazionali, per agire sul processo di formazione della volontà politica sovrannazionale.

L’esistenza di movimenti con tali caratteristiche rappresenta tuttavia solo la condizione soggettiva per un’azione efficace. Sono necessarie anche condizioni oggettive, generate dalle crisi periodiche dei sistemi politici nazionali. In periodi di relativa stabilità, quando i governi nazionali sembrano in grado di risolvere con successo i problemi economici, politici e sociali, i movimenti per la federazione europea non sono in grado di esercitare un influsso efficace sui governi nazionali, perché la pubblica opinione tende a sostenere le politiche governative. Solo in periodi di crisi acute, quando i governi non sono in grado di far fronte alla pressione degli eventi, la pubblica opinione appare disposta a sostenere una soluzione diversa, sovrannazionale. Nel corso di queste crisi, i movimenti sono in grado – se ne hanno la forza – di mobilitare il sostegno a tali soluzioni e persuadere i governi ad adottarle.

Nel corso di crisi di questo genere, la scuola “moderata” ha adottato in Europa un approccio funzionalista (v. Funzionalismo), mentre la scuola “radicale” si è battuta per dare l’avvio a un processo costituzionale democratico, nel quale la responsabilità ultima, per definire la natura delle nuove istituzioni sovrannazionali, cade nelle mani dei rappresentanti del popolo europeo, sul modello della Convenzione di Filadelfia del 1787 e del successivo passaggio delle ratifiche nazionali.

L’esistenza di queste tre caratteristiche fondamentali si è manifestata per la prima volta nella storia del federalismo organizzato proprio in Federal union. I movimenti precedenti avevano avuto la caratteristica fondamentale di gravitare attorno al fondatore che ne aveva assunto un ruolo‑guida (come è nel caso di “Paneuropa” di Richard Coudenhove‑Kalergi), o di costituirsi come “leghe” al fine di conseguire un obiettivo politico specifico e quindi sciogliersi una volta raggiunto il medesimo o resasi manifesta l’impossibilità di conseguirlo (come nel caso della Imperial federation league e del Round table). I movimenti successivi a Federal union furono certo occasionalmente condizionati da capi carismatici – basti pensare ad Altiero Spinelli, Mario Albertini, Alexandre Marc, Hendrik Brugmans, Denis de Rougemont – ma continuarono a esistere anche dopo l’uscita di scena di quelle figure forti. Inoltre, tali movimenti identificarono sin dai primi passi la dimensione temporale della loro esistenza con lo stesso corso della storia, essendo la battaglia per la federazione europea una fase, e non certo la più critica, della lotta per la realizzazione del regno della legge nel mondo nel suo complesso. Si tratta infatti di movimenti che trovano la loro ragion d’essere nell’affermazione di un valore assoluto e, dunque, metastorico come la pace.

Se è vero che Federal union segna lo spartiacque tra una forma “arcaica” e una “matura” di federalismo organizzato, appare qui plausibile identificare con la nascita di Federal union l’anno zero del federalismo “militante”. Dal momento che non si può prescindere da Federal union per valutare il significato della prima azione politica sovrannazionale della storia contemporanea – tali infatti non si possono considerare i tentativi di riformare l’impero britannico o di creare una confederazione europea da parte di Aristide Briand – non si può neanche prescindere da Federal union per valutare il significato dell’emergere nella storia di un nuovo comportamento politico per cui il fine della lotta politica non è più la conquista del potere nazionale, ma la costruzione di un’istituzione sovrannazionale.

Federal union rappresenta un’esperienza paradigmatica anche per quanto concerne il manifestarsi di questo nuovo comportamento politico in due scuole, quella “moderata” e quella “radicale” appunto. Federal union fu, prevalentemente, espressione della scuola “radicale”, da Spinelli definita “costituzionale”, ma, come s’è visto, non mancarono sia all’interno del movimento stesso, sia nel vasto dibattito provocato dal movimento, prese di posizione della scuola “funzionalista”. In seguito all’insuccesso di giugno, fu proprio Monnet che, su ispirazione di David Mitrany, divenne il campione di quel funzionalismo che ha segnato la storia della costruzione europea del dopoguerra. La battaglia che i tre giovani fondatori di Federal union pensavano di poter vincere nello spazio di qualche mese si svilupperà nell’arco di oltre mezzo secolo, coinvolgendo più di una generazione. Giunta alle soglie della fase costituente, l’Unione europea molto deve a quei giovani intrepidi che, nell’autunno del 1938, si votarono all’impossibile, dimostrando al mondo che quell’impresa era considerata tale solo per non essere mai stata tentata.

Andrea Bosco (2009)




Federalismo

L’idea federale appare, sulle due sponde dell’Atlantico, pressappoco nello stesso periodo: il Federalist, nel quale vengono spiegate le ragioni per cui è bene che gli Stati Uniti d’America si diano una costituzione federale, viene pubblicato a New York nel 1788; il saggio Per la pace perpetua – nel quale si sostiene che per superare il problema della guerra è necessario creare una federazione di popoli – vede la luce a Königsgberg, in Prussia, nel 1795. Soltanto sette anni, quindi, separano l’opera di James Hamilton, John Jay e Alexander Madison da quella di Immanuel Kant.

Ma si tratta di una vicinanza temporale che permette di misurare tutta la distanza politica, storica e culturale che separa il Nuovo dal Vecchio mondo. Il Federalist è il commento e la difesa appassionata della nuova Costituzione varata dalla Convenzione di Filadelfia nel 1787; è scritto da uomini che hanno preso parte ai suoi lavori e che ora ne difendono l’esito in una battaglia elettorale dall’esito incerto, il cui scopo è l’approvazione della Costituzione stessa da parte dei vari Stati (vale la pena di ricordare che, pochi anni dopo, tutti gli autori del Federalist ricopriranno incarichi politici di rilievo e che uno di essi, James Madison, sarà eletto per due volte alla presidenza degli Stati Uniti). Costoro vivono in giovani e piccole repubbliche, relegate ai margini della politica mondiale, dove non esistono contrasti di potenza, né gravi conflitti socio-economici; il passato che hanno alle spalle non è lungo e molte cose (dalla recente guerra contro la Gran Bretagna (v. Regno Unito) alla lingua e alla religione) spingono i loro concittadini ad unirsi. Per una pace perpetua, invece, è l’opera di un grande filosofo (che al massimo, nel suo paese, poteva aspirare alla “libertà della penna”): essa è diretta a un pubblico ristrettissimo di persone colte ed è senza dubbio dotata di un grande valore ideale, ma rimarrà del tutto priva di efficacia storico-politica: la storia europea, infatti, non andava, in quegli anni, verso il superamento degli Stati nazionali, ma verso un loro deciso rafforzamento, in parte proprio a causa delle idee democratiche convulsamente affermatesi durante la Rivoluzione francese. Gli Stati nazionali europei erano grandi potenze, divise da una lunga storia di conflitti (politici e religiosi) e caratterizzati da società con forti diseguaglianze giuridiche e socio-economiche.

Un insieme di circostanze, insomma, fece sì che il federalismo nascesse negli Stati Uniti come Atena dalla testa di Giove, già armato di tutto punto: esso era un’articolata teoria politico-istituzionale sorta per risolvere un problema determinato, come unire le tredici ex colonie inglesi senza sacrificare la loro indipendenza. In Europa, invece, il federalismo rimase sino a tutto l’Ottocento una teoria filosofica o sociale in senso lato, volta a risolvere il problema generale della guerra, priva di elaborazione giuridico-istituzionale e di qualsiasi presa sulle vicende reali della politica. Bisognerà aspettare il dramma delle due guerre mondiali (e, in particolare, della seconda), perché nel vecchio continente il federalismo assuma il profilo concreto, ancorché minoritario, di un movimento politico, al quale gli italiani (da Luigi Einaudi ad Altiero Spinelli) daranno un contributo teorico di grande rilievo e che a partire dal 1945 sarà il “lievito” del difficile e lento processo di unificazione europea.

Le differenti circostanze storiche, insieme alle diverse sensibilità culturali (empiristico-pragmatica quella anglo-americana, razionalistico-teorica quella europea), hanno fatto sì che negli Stati Uniti il federalismo rimanesse essenzialmente una teoria dello Stato (certamente ispirata ad alcuni presupposti etico-politici, di tipo democratico, ma confinata nella sfera istituzionale), mentre in Europa ambisse al rango di concezione politica generale, fondata sul valore della pace, e mirante non solo a risolvere il problema della guerra, ma anche a porre le premesse per la soluzione di problemi sociali ed economici. L’obiettivo storico immediato del federalismo sviluppatosi nel vecchio continente era comunque il superamento degli Stati nazionali, ragion per cui esso è stato sinonimo – dai primi anni Quaranta sino alla fine degli anni Settanta – di europeismo. È soltanto a partire dagli anni Ottanta che il federalismo verrà declinato, in Europa, non soltanto nella direzione sovranazionale, ma anche in quella infranazionale, cioè all’interno dei singoli Stati, come rivendicazione di forti autonomie locali.

Il modello americano

Le colonie inglesi dell’America del Nord divennero, nel 1776, tredici repubbliche indipendenti e si costituirono in un’organizzazione internazionale regolata dagli Articles of confederation, che non limitavano in alcun modo l’indipendenza e la sovranità dei singoli Stati. Ma la struttura confederale rivelò ben presto gravi limiti, tra i quali spiccava la debolezza del governo centrale (che poi era, in sostanza, un Comitato degli Stati). Per rimediare a tali gravi difetti fu convocata la Convenzione di Filadelfia, la quale però andò al di là del suo mandato e varò, nel 1787, una nuova Costituzione, in base alla quale gli Stati Uniti si trasformavano in uno Stato federale. Questa soluzione inedita nacque da un compromesso tra coloro i quali volevano mantenere l’assetto confederale – e quindi la piena sovranità dei singoli Stati – e coloro i quali volevano fondere le tredici repubbliche in un unico Stato. Entrambi gli schieramenti erano “prigionieri”, per così dire, del modello dello Stato unitario e da questo punto di vista la soluzione federale fu, come è stato giustamente osservato, un «compromesso creativo» (v. Levi, 1994, p. 33). La sua novità consisteva nell’introdurre – accanto alla divisione funzionale tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario – una divisione territoriale tra il potere del governo centrale e quello dei singoli Stati. Tale divisione, di tipo “orizzontale” e quindi configurante una sorta di “co-sovranità”, aveva lo scopo di mantenere stabilmente l’Unione (dando la necessaria forza al governo centrale) e, al tempo stesso, di assicurare a ogni Stato membro un’ampia sfera di indipendenza.

Al governo centrale spettavano competenze esclusive in materia di politica estera, difesa e moneta; alcune competenze erano comuni (come quelle giudiziarie, fiscali e di bilancio, ma sempre in ambiti chiaramente distinti) e infine tutto il resto spettava ai governi dei singoli Stati. Un ruolo di decisiva importanza era stato conferito al potere giudiziario, chiamato a decidere sui conflitti di attribuzione tra governo federale e governi degli Stati: in tal modo si evitava che tali conflitti fossero risolti dalle parti in causa, cioè dal potere centrale (come accade negli Stati unitari) o da quelli locali (come avviene nelle confederazioni). La magistratura si configurava pertanto come una sorta di potere intermedio tra governo federale e singoli Stati, assumendo un rilievo sconosciuto al costituzionalismo sei-settecentesco. L’equilibrio costituzionale federale si rifletteva anche nella composizione del legislativo, nel quale un ramo (il Congresso) rappresentava il popolo della federazione in misura proporzionale al numero degli elettori e l’altro ramo (il Senato) rappresentava i popoli dei singoli Stati in modo eguale, indipendentemente dalla popolazione: così le leggi dovevano ottenere la maggioranza non solo di tutto il popolo dello Stato federale, ma anche dei popoli dei singoli Stati. Questa complessa articolazione dei poteri faceva sì che nello Stato federale la stessa maggioranza non potesse mai controllare contemporaneamente il governo centrale e i governi degli Stati e ciò rendeva il popolo, come scrisse Hamilton, «padrone del proprio destino».

La nascita dello Stato federale americano agì potentemente sulla cultura politica e sull’immaginario europei: per la prima volta veniva realizzata una repubblica in uno Stato di grandi dimensioni (cosa che tanto Montesquieu quanto Jean-Jacques Rousseau avevano giudicato impossibile) e ciò era stato reso possibile da un innovativo assetto istituzionale che permetteva di combinare i vantaggi dei piccoli Stati con quelli dei grandi. A soli quattro anni dalla sua apparizione il Federalist venne tradotto in francese: e tra il 1792 e il 1795 apparvero altre due traduzioni dell’opera di Hamilton, Jay e Madison. Il modello americano, tuttavia, non venne affatto imitato: anzi la Francia, grazie ai prefetti napoleonici, perfezionò – nei primi anni dell’Ottocento – il modello dello Stato unitario e accentrato, che non riconosceva alcuna autonomia ai poteri locali. Soltanto Benjamin Constant, nel suo grande trattato inedito sui Principi di politica (terminato nel 1806 e dove più volte aveva citato l’esempio della giovane repubblica americana), scrisse che «il governo di un grande paese dovrebbe sempre improntare gran parte della sua natura al federalismo» (v. Constant, 1806, p. 428): ma le sue tesi, circoscritte all’ambito costituzionale e ribadite nei testi pubblicati sotto la Restaurazione, erano destinate a non avere seguito.

Il federalismo nell’Europa dell’Ottocento

Il testo dal quale si è soliti datare la nascita dell’idea federale in Europa è, come abbiamo visto, Per la pace perpetua di Kant. In quest’opera il filosofo tedesco si poneva il problema di superare l’anarchia che continuava a regnare nei rapporti tra gli Stati e che, in caso di controversie incomponibili, li conduceva inevitabilmente alla guerra. La soluzione kantiana consisteva nel legare il problema della pace alla costituzione interna degli Stati: una volta che si fossero diffusi i regimi di tipo repubblicano – i regimi, cioè, basati sulla divisione dei poteri e sui principi di eguaglianza, libertà e indipendenza – la guerra sarebbe stata sempre più difficile, perché in tali regimi, a differenza di quanto avveniva negli Stati assoluti, era necessario il consenso dei cittadini per intraprendere la guerra. Gli Stati possono aspirare alla pace perpetua, concludeva Kant, soltanto dandosi una costituzione repubblicana e poi costituendosi in una federazione di popoli. Come gli individui, nell’impostazione giusnaturalistica, escono dallo stato di natura (dove la loro libertà, priva di ogni limite, conduce all’anarchia e alla violenza) tramite un patto, dal quale sorge lo Stato, così i popoli escono dallo stato di natura in cui ancora si trovano i rapporti internazionali e tramite un accordo fondano una lega della pace (foedum pacificum) il cui scopo non è porre termine a una determinata guerra, ma a tutte le guerre e per sempre.

In Kant manca del tutto la nozione di un assetto istituzionale di tipo federale. E infatti egli nega che si possa parlare di una federazione di Stati: nei suoi scritti l’idea della federazione è pensata come una delle “vie” per risolvere il problema della guerra. Per Pierre-Joseph Proudhon invece – che scrive a metà dell’Ottocento ed è uno degli esponenti del pensiero socialista – l’idea federale si contrappone all’accentramento tipico dello Stato moderno, nonché al collettivismo statalista che si fa strada in alcune correnti del socialismo. Il vizio capitale di ogni sistema politico, secondo Proudhon, sta nell’unità e indivisibilità del potere, che va superata tramite il principio federale delle autonomie locali. Proudhon, inoltre, si batte contro l’ipotesi socialista di una proprietà collettiva dei mezzi di produzione, perché è convinto che la concentrazione del potere politico ed economico nelle stesse mani conduca alla dittatura in ogni ambito della vita sociale. Egli teorizza quindi una sorta di federalismo “agricolo-industriale”, basato sulla compresenza di associazioni di liberi produttori (imprese autogestite, comuni rurali) proprietarie dei mezzi di produzione.

Quanto all’Italia, il maggiore pensatore di ispirazione federalista fu Carlo Cattaneo, il quale auspicò la nascita, in Italia, di uno Stato federale e, in Europa, di una federazione: «Avremo pace vera – scrive nelle sue Memorie sull’insurrezione del 1848 – quando avremo gli Stati Uniti d’Europa». Il suo costante riferimento è alla Svizzera e agli Stati Uniti: ma nei suoi testi si cercherebbe invano una teoria giuridico-politica del federalismo. Anche nel nostro paese il federalismo fu per tutto l’Ottocento una dottrina per pochi, per intellettuali, e non un principio d’azione politica.

La Prima guerra mondiale e le prime iniziative concrete

La Grande guerra esasperò, per un verso, i sentimenti nazionalistici, spegnendo il dibattito sulla federazione europea avviato da alcuni isolati protagonisti negli ultimi decenni dell’Ottocento (tra di essi, Charles Lemmonier, che nel 1872 lanciò una rivista intitolata “Les États Unis d’Europe” e Johann Kaspar Bluntschli, un giurista svizzero che nel 1881 propose l’unione di diciotto Stati europei); ma, per altro verso, la guerra – soprattutto quando divennero evidenti le proporzioni della catastrofe – suscitò sentimenti opposti, aprendo la strada alla speranza in un nuovo ordine internazionale, fondato sull’autodeterminazione dei popoli e sul diritto internazionale. Di qui – per impulso del presidente americano Woodrow Wilson – la nascita della Società delle Nazioni, che prese la forma di una confederazione.

Ed è proprio alla natura confederale della Società delle Nazioni che Luigi Einaudi rivolse le sue penetranti critiche, attraverso una serie di lettere scritte per il “Corriere della Sera” tra il 1917 e il 1919, firmate con lo pseudonimo di Junius e che sarebbero poi state raccolte in volume, sotto il titolo di Lettere politiche, nel 1920. Einaudi prendeva le mosse proprio dalla storia americana, ricordando come la prima Costituzione statunitense, quella confederale, avesse dato luogo a disordini, anarchia ed egoismi, mentre l’adozione di una Costituzione federale, nel 1788, avesse conferito stabilità all’Unione e creato le premesse per la sua straordinaria ascesa politica ed economica. Analogamente, l’unico modo per far sì che la Società delle Nazioni non rimanesse un vuoto nome ma trasformasse realmente il tessuto sociale e politico dell’Europa, era che gli Stati nazionali rinunciassero al «dogma della sovranità assoluta» ed entrassero nell’ordine di idee di possedere soltanto «una sovranità relativa», limitata dall’esistenza di altri Stati sovrani e dalla necessità di cooperare con essi. Einaudi sapeva che l’idea di una federazione europea avrebbe incontrato molteplici resistenze politiche e psicologiche e ipotizzò una prima fase in cui si sarebbero create federazioni “omogenee”, composte da nazioni latine, germaniche e slave. Ma al di là della possibile estensione di una federazione europea, egli aveva le idee chiare sul metodo per crearla: l’organismo economico creato dagli Alleati a Londra per sovrintendere all’acquisto delle materie prime durante la guerra doveva essere tenuto in vita e trasformato in comitato esecutivo per la ricostruzione economica dell’Europa. Occorreva poi stringere intorno all’Europa una fitta rete di trattati economici e sociali (protezione dei lavoratori immigrati, ripartizione delle materie prime per la ricostruzione, disciplina della navigazione fluviale, utilizzazione dei porti per i paesi senza sbocchi sul mare, lotta all’evasione fiscale), che avrebbe condotto al superamento del dogma della sovranità assoluta degli Stati nazionali.

Di lì a pochi anni (1923-24) si avviò, per iniziativa del conte austriaco Richard Coudenhove-Kalergi, la prima iniziativa concreta per la costituzione di un’Unione paneuropea (v. “Paneuropa”); il nobile austriaco inviò ai parlamentari francesi una lettera nella quale sosteneva che gli Stati europei dovevano unirsi in un patto federale, al fine di raggiungere una dimensione paragonabile a quella delle tre grandi potenze destinate a dominare la scena mondiale (Unione Sovietica, Impero britannico, Stati Uniti). L’iniziativa suscitò il consenso di molti uomini politici e grandi intellettuali. L’adesione più utile venne da Aristide Briand, a lungo ministro degli Esteri della Francia, il quale propose nel 1929 che tra gli Stati europei si stabilisse una specie di vincolo federale, anzitutto sul piano economico e poi, pur non intaccando la sovranità dei singoli Stati, sul piano politico e sociale. Una conferenza cui parteciparono i rappresentanti di 27 paesi incaricò Briand di redigere un questionario, che fu sottoposto alle capitali nel 1930. Era la prima volta che l’idea federale faceva la sua comparsa sui tavoli delle cancellerie europee: ma le risposte dei governi furono reticenti ed evasive.

Nel 1939 nasceva infine in Inghilterra la Federal union, il primo movimento europeistico ispirato agli ideali del federalismo: ad esso aderirono importanti teorici come Lionel Robbins, Philip Henry Kerr (noto come Lord Lothian) e Barbara Wootton, le cui opere – scritte in uno stile chiaro ed incisivo – mettevano in evidenza come la causa ultima dell’anarchia internazionale e della guerra non fosse di tipo economico (il capitalismo) o ideologico (il nazionalismo), ma di tipo istituzionale (l’esistenza di Stati nazionali che non riconoscevano alcuna autorità al di sopra della propria).

Il Manifesto di Ventotene e il Movimento federalista

Le idee federalistiche che videro la luce nel primo dopoguerra – e che rimasero patrimonio di alcune minoranze isolate – diedero frutto vent’anni più tardi, durante la Seconda guerra mondiale. Nel 1939 Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, due giovani antifascisti che si trovavano al confino nell’isola di Ventotene, ebbero modo di leggere le Lettere politiche di Einaudi. Incuriosito, Rossi chiese l’autorizzazione di scrivere ad Einaudi e da questi ricevette alcuni studi dei teorici inglesi del federalismo, tra i quali Lionel Robbins (il direttore della London School of Economics che, tra il 1937 e il 1939, aveva pubblicato Economic planning and international order e The economic causes of war). Da queste letture e dalle discussioni che Rossi e Spinelli ebbero con Eugenio Colorni, un giovane socialista, nacque nel 1941 il Manifesto per l’Europa libera e unita, noto come Manifesto di Ventotene, dapprima fatto circolare clandestinamente e poi pubblicato a Roma nel gennaio del 1944.

I suoi estensori intendevano segnare una svolta, nella storia del federalismo europeo, perché non si limitavano ad enunciare una teoria, ma proponevano un programma concreto, da realizzarsi tramite l’azione politica. Il distacco dalle elaborazioni ottocentesche era netto: i punti di riferimento non erano più Giuseppe Mazzini e Carlo Cattaneo, ai quali veniva riservato un rapido omaggio di maniera, ma gli scritti di Robbins e il modello della Federal Union. L’idea centrale che ispirava il Manifesto era che «la contraddizione essenziale, responsabile delle crisi, delle guerre, delle miserie e degli sfruttamenti […] è l’esistenza di Stati sovrani […] consideranti gli altri Stati come concorrenti e potenziali nemici, viventi gli uni rispetto agli altri in una situazione di perpetuo bellum omnium contra omnes» (v. Rossi e Spinelli, 1943, p. 31). Non si trattava di un’idea nuova (Einaudi e i teorici della Federal union l’avevano già espressa con chiarezza), ma il contesto in cui veniva enunciata era profondamente mutato, sia perché l’internazionalismo democratico e quello socialista avevano rivelato i loro gravi limiti, sia perché la Seconda guerra mondiale – a soli vent’anni dalla prima – le aveva fornito una drammatica evidenza. La guerra faceva sì che l’idea di una federazione europea, sino a pochi anni prima del tutto utopistica, fosse ora, secondo gli estensori del Manifesto, a portata di mano: «Il crollo della maggior parte degli Stati del continente sotto il rullo compressore tedesco – essi affermavano – ha già accomunato la sorte dei popoli europei, che o tutti insieme soggiaceranno al dominio hitleriano, o tutti insieme entreranno, con la caduta di questo, in una crisi rivoluzionaria in cui non si troveranno irrigiditi e distinti in solide strutture statali. Gli spiriti sono già ora molto meglio disposti che in passato ad una riorganizzazione federale dell’Europa. La dura esperienza degli ultimi decenni ha aperto gli occhi anche a chi non voleva vedere, ed ha fatto maturare molte circostanze favorevoli al nostro ideale» (v. Rossi e Spinelli, 1943, p. 48).

I federalisti ritenevano superato l’internazionalismo d’ispirazione liberal-democratica o socialista, che legava il superamento del problema della guerra all’affermazione, all’interno dei singoli Stati, dei rispettivi ordinamenti politico-sociali; di conseguenza, essi non accettavano la tradizionale divisione politica tra destra (conservatrice/liberale) e sinistra (riformatrice/socialista) e miravano a sostituirla con la divisione tra restauratori dei vecchi Stati nazionali e fautori delle nuove istituzioni federali, ritenendo che soltanto la soluzione federale avrebbe permesso di sanare la contraddizione di fondo che aveva segnato il mondo moderno, quella tra una sempre più estesa interdipendenza tra le varie regioni del mondo e la permanenza di istituzioni politiche di tipo nazionale.

A questa riflessione di fondo si accompagnava una riflessione sulla strategia politica da perseguire, sviluppata soprattutto da Spinelli. Il problema che i federalisti si sarebbero trovati di fronte era che i governi sarebbero stati i protagonisti di qualsiasi tentativo di unificazione europea e, al tempo stesso, gli ostacoli principali sul suo cammino, giacché qualsiasi potere dato ad istituzioni europee sarebbe stato sottratto a quelle nazionali. Di qui la necessità di due scelte ben precise: la prima era costituire una forza federalista autonoma dai governi e dai partiti nazionali, che doveva includere tutti coloro i quali si riconoscevano negli ideali federalisti, avere una struttura sovranazionale e instaurare un rapporto diretto con l’opinione pubblica (pur senza partecipare alle elezioni nazionali). La seconda era che il processo di costruzione di un’Europa federale doveva avvenire per via democratica, cioè attraverso un’assemblea costituente eletta direttamente dai cittadini europei.

Il Movimento federalista europeo – nato nell’agosto del 1943 a Milano (v. anche Rollier, Mario Alberto) e dal quale nel dopoguerra sarebbe nata l’Unione europea dei federalisti (che riuniva tutti i gruppi federalisti formatisi nei vari paesi europei) – voleva essere ciò che noi oggi definiremmo un movimento “trasversale”. Senza identificarsi in alcun partito (e superando, come abbiamo visto, la tradizionale dicotomia destra/sinistra) voleva penetrare in ciascuno di essi al fine di fare del problema del superamento degli Stati nazionali l’angolo visuale dal quale guardare ai problemi politici, economici e sociali. Gli obiettivi concreti cui miravano i federalisti erano la creazione di un esercito unico, l’unità monetaria, l’abolizione delle barriere doganali e degli ostacoli ai movimenti delle persone, la rappresentanza diretta dei cittadini nei consessi federali, una politica estera unica; per tutto il resto, ogni Stato doveva conservare un’ampia autonomia.

Uno dei primi ad aderire al Movimento federalista fu Einaudi, il quale, dopo un incontro in Svizzera con Rossi e Spinelli, accettò di scrivere un saggio sui Problemi economici della federazione europea. In questo testo, Einaudi riprese e sviluppò le tesi esposte nel primo dopoguerra: la sovranità assoluta degli Stati nazionali, spingendo ciascuno di essi a perseguire l’autosufficienza economica, conteneva l’anacronistico principio dell’autarchia. Soltanto una federazione avrebbe creato le condizioni per quella libertà economica che Einaudi considerava presupposto indispensabile della libertà politica. A chi obiettava che un mercato sovranazionale avrebbe danneggiato l’economia dei singoli Stati, Einaudi ribatteva che la libera concorrenza e la libera circolazione delle merci avrebbe arrecato grandi vantaggi ai popoli europei. E a chi paventava la nascita di grandi potentati economici che avrebbero nuociuto alla vitalità spirituale delle culture nazionali, Einaudi rispondeva sostenendo che la creazione della federazione avrebbe abbassato considerevolmente le spese militari e liberato risorse ed energie per una più estesa partecipazione alla vita politica e culturale.

Era la ricetta di un liberale, convinto assertore dell’economia di mercato: Einaudi, come Rossi, vedeva nella libera concorrenza su scala continentale una garanzia di libertà e prosperità. Diverso era l’approccio di Colorni e Spinelli, provenienti dall’esperienza socialista e comunista e delusi dall’internazionalismo proletario, che guardavano alla federazione europea come ad una nuova via per realizzare i loro ideali antinazionalisti. Ma se la strada era stata diversa, l’approdo fu comune e questo approdo fu un federalismo che faceva tutt’uno con l’europeismo.

Il ruolo del federalismo nella costruzione europea

Inutile negare che i generosi seguaci del Movimento federalista, nonostante il loro atteggiamento anti-dottrinario, continuavano in realtà a nutrire molte illusioni. Anzitutto sulla capacità del movimento di condizionare e “guidare”, in qualche modo, i partiti tradizionali, le cui organizzazioni politiche erano ben altrimenti solide e si occupavano di problemi molto più “concreti”, legati agli interessi immediati dei cittadini. In secondo luogo, sulla capacità di influire sulla pubblica opinione: le idee federaliste, nella loro specifica e concreta articolazione, rimasero confinate ad alcune “minoranze attive” e non riuscirono mai a suscitare le passioni e le mobilitazioni o il silenzioso ma solido consenso che le vecchie ideologie erano ancora in grado di provocare. Infine, nonostante la catastrofe della guerra e una predisposizione mai esistita prima a guardare con benevolenza verso un’Europa unita (predisposizione, però, accentuata soprattutto nei paesi sconfitti o minori), la ricostruzione materiale e morale sarebbe avvenuta essenzialmente entro il quadro degli Stati nazionali, i quali non avrebbero rinunciato affatto alle loro prerogative: tra gli estremi del federalismo da un lato e del confederalismo dall’altro (l’Europa delle patrie cara a Charles de Gaulle), il metodo che in concreto ha presieduto alla lenta e difficile costruzione delle Istituzioni comunitarie è stato il Funzionalismo.

E tuttavia l’azione del federalismo europeo è stata un importante stimolo, sia perché ha tenuto sempre viva l’idea di un’Europa unita, sia perché ha ispirato alcuni passaggi decisivi dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), come il tentativo di creare un esercito (v. Comunità europea di difesa) e istituzioni politiche comuni (v. Comunità politica europea) (tentativo fallito, nel 1954, per responsabilità francese), l’istituzione di un Parlamento europeo eletto direttamente dai cittadini europei (le cui competenze sono rimaste tuttavia modeste) e la nascita della moneta unica (vera competenza federale, che ha sottratto il rilevante potere sulla moneta ai singoli Stati) (v. Unione economica e monetaria; Banca centrale europea; Euro). Se è vero, come ha scritto Sergio Romano (v., 2000, p. 363), che l’Europa è una potenza “zoppa” perché ha un mercato unico (v. Mercato unico europeo), una moneta unica e persino, dopo gli accordi di Schengen, un’unica frontiera, ma continua ed essere priva di un ministro degli Esteri, dell’Economia, degli Interni e della Giustizia – e il suo ministro della Difesa è l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO), nella quale il ruolo americano è preponderante – va riconosciuto che la gamba sana deve molto all’impegno dei federalisti.

Paradossalmente, l’attuale successo dell’Unione europea rende più difficilmente realizzabile, nel breve periodo, l’ipotesi federalista: l’Allargamento del numero dei paesi aderenti, soprattutto dopo il crollo dei regimi comunisti dell’Est europeo, e la richiesta di adesione da parte di altri paesi (da quelli della penisola balcanica a quelli del sud est europeo, sino alla Turchia) testimonia della capacità di attrazione delle Istituzioni comunitarie, ma rende sempre più variegato il tessuto dell’Unione, accentuando le differenze economico-sociali e politico-culturali tra i diversi paesi che la compongono. In questo quadro un’Europa veramente federale – con un parlamento, un governo e una corte di giustizia comuni – rimane più un ideale regolativo, per dirla col vecchio Kant, che un progetto realizzabile a breve scadenza.

Stefano De Luca (2009)




FEI

Fondo europeo per gli investimenti (FEI)




Felice Ippolito




Felipe González Márquez




Félix Gaillard




FEOGA

Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia (FEOGA)