Figeľ, Ján

Dopo la formazione del governo Dzurinda (v. Dzurinda, Mikuláš), in seguito alle elezioni parlamentari slovacche del 1998, F. (Caklova 1960) diventò il volto e il protagonista del processo di Adesione della Slovacchia all’Unione europea. Quest’uomo modesto, dai toni pacati, condusse con successo le trattative che culminarono nell’adesione della Slovacchia all’UE nel maggio 2004.

L’educazione di F. fu influenzata dalla profonda religiosità dei genitori, i quali nutrivano anche forti sentimenti anticomunisti. Dopo gli studi di ingegneria all’Istituto tecnico di Košice, F. lavorò come scienziato fino al crollo del regime comunista nel 1989. Nel 1990 il suo interesse per la politica e la sua fede religiosa lo spinsero a diventare uno dei membri fondatori del Movimento cristiano democratico (Kresťanskodemokratické hnutie, KDH). Eletto nel 1992 al Consiglio nazionale slovacco (Parlamento) nella lista dei candidati del KDH, grazie alla sua padronanza della lingua inglese gli vennero affidati incarichi in seno alla Commissione per gli Affari esteri e in varie commissioni dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. Nel 1998, in seguito al successo elettorale della Coalizione democratica slovacca (Slovenská demokratická koalícia, SDK) di cui il KDH era parte integrante, il nuovo primo ministro, Mikuláš Dzurinda, nominò F. segretario di Stato (l’equivalente di viceministro) del ministero per gli Affari esteri e capo delegazione per i negoziati di adesione all’UE.

F., convinto tanto della capacità della Slovacchia di tenere il passo con i paesi vicini, che avevano iniziato le trattative quasi due anni prima, quanto della necessità del paese di aderire all’UE, si impegnò per tradurre in atto le parole positive di Dzurinda da un lato e quelle dell’UE dall’altro (v. Bilčík, 2001).

Spinto anche dal desiderio di rimediare al danno provocato all’immagine del paese ai tempi del primo ministro Mečiar, F. applicò una tattica negoziale basata su fiducia e apertura, unitamente a una marcata disponibilità al compromesso. Diversamente da altri negoziatori di Stati candidati, F. richiese pochi periodi di transizione. Tuttavia, F., attento alla politica interna e premuto dal leader del suo partito Čarnogurský e dal primo ministro Dzurinda, garantì anche la difesa degli interessi nazionali slovacchi. Grazie, in misura non trascurabile, al lavoro di F. e della sua squadra, la Slovacchia fu in grado di tenere il passo con i paesi confinanti e venne invitata ad aderire all’UE al Consiglio europeo di Copenaghen del dicembre 2002 (v. Figeľ, Adamiš, 2003).

Durante l’adesione, nella scena politica interna mancava una leadership in grado di concettualizzare e mettere in pratica un’idea concreta di Europa (v. Lukáč, 2004). L’idea di F. sul ruolo della Slovacchia nell’UE si fondava sulla convinzione che l’adesione non dovesse essere considerata un risultato raggiunto, ma una sfida costante. L’unione offriva ai suoi cittadini opportunità da non perdere, ma richiedeva conoscenze, iniziativa e partecipazione.

Quando si trattò di assegnare l’incarico di membro della Commissione europea, F. si rivelò la scelta naturale grazie alla sua conoscenza degli affari europei e all’abilità mostrata durante i negoziati di adesione. Nel 2004 divenne Commissario europeo per l’istruzione, la cultura, la formazione e il multilinguismo.

Tim Haughton, Jana Shepperd (2009)




Filippo Maria Pandolfi




Fini, Gianfranco

F. (Bologna 1952) è un uomo politico italiano. Laureato in psicologia e giornalista professionista, assume nel dicembre 1987 la segreteria nazionale del Movimento sociale italiano-Destra nazionale (MSI-DN). Nel 1995 assume la carica di presidente di Alleanza nazionale. Parlamentare dal 26 giugno 1983, è stato dal 2001 al 2006 vicepresidente del Consiglio dei Ministri nel II e nel III Governo di Sivio Berlusconi. Dal 30 aprile 2008 è presidente della Camera dei Deputati.

Con riferimento ai temi dell’integrazione europea nel gennaio del 2002 è stato nominato rappresentante dell’Italia alla Convenzione europea per la redazione del progetto di Trattato costituzionale (v. Costituzione europea). Dal novembre del 2004 al maggio del 2006 ha ricoperto l’incarico di ministro degli Affari Esteri.

La visione di F. sui temi dell’integrazione europea ha trovato espressione innanzitutto nei documenti che, su proposta della Presidenza, l’Assemblea dei delegati di Alleanza nazionale ha approvato nelle due occasioni congressuali sin qui tenute: Fiuggi, gennaio 1995 e Bologna aprile 2002 (v. anche Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

Nel primo caso le tesi politiche presentate da F. dal titolo “Pensiamo l’Italia il domani c’è già, Valori, idee e progetti per l’Alleanza Nazionale” tratteggiavano un «Allargamento dell’Unione europea dall’Atlantico agli Urali, a condizione che tutti gli Stati membri rispettino i principi democratici» in cui l’Italia deve perseguire «il disegno di una costruzione europea non ridotta alla sola dimensione economico-monetaria, ma saldamente ancorata ai grandi ideali dei Padri fondatori come Konrad Adenauer, Alcide De Gasperi, Jean Monnet, Robert Schuman, nello spirito del precursore Richard Coudenhove-Kalergi che con “Paneuropa” preconizzò l’unità europea già dal 1923. L’idea dell’“Europa delle Patrie”, propria del gollismo degli anni ’60, può garantire, attraverso un intelligente adeguamento, quell’unità storica degli Stati Nazionali che è peculiare caratteristica della civiltà del continente».

E l’appello, fin dalla Conferenza intergovernativa (CIG) (v. Conferenze intergovernative) prevista per l’anno successivo al Congresso fondativo di Alleanza nazionale, affinché l’Italia si schierasse «con coloro che vogliono […] la revisione del Trattato di Maastricht» per «dotare l’Unione di Istituzioni che abbiano le competenze necessarie e possano essere in grado di gestire democraticamente le politiche degli Stati membri, nel rispetto del Principio di sussidiarietà». L’altra priorità per la Conferenza intergovernativa doveva essere secondo la Presidenza di Alleanza nazionale quella di «operare affinché l’Unione si faccia carico della politica mediterranea in modo convincente e duraturo» e di «promuovere una forte politica adriatica tesa a riaffermare il suo ruolo». In questo senso la trattativa per l’adesione della Slovenia e della Croazia andava «condotta su basi forti, fuori dalla logica di “Osimo” (che può ben dirsi superato e decaduto per l’estinzione di uno dei contraenti) e collegando all’esito positivo di tale trattativa l’assenso all’ingresso delle due nuove repubbliche nell’Unione Europea». In concreto prioritario risultava «ottenere la restituzione – non il semplice indennizzo – agli espulsi giuliano-dalmati (e loro discendenti) dei beni espropriati dal regime comunista jugoslavo» e «agire per affermare la tutela reale della minoranza italiana oggi vivente in queste terre […], nella sua unitarietà e specificità».

Così sintetizzava F. in conclusione: «Come forza politica presente in Europa intendiamo lavorare per il raggiungimento di un’Unione che nei prossimi anni si occupi non solo e non tanto di unificazione monetaria, ma di politiche comuni per alcuni grandi temi, quali: 1) politica estera comune, 2) politica di difesa e esercito europeo, 3) lotta comune alla grande criminalità organizzata, 4) lotta coordinata al radicarsi di qualsiasi tipo di fondamentalismo, da qualsiasi parte provenga, 5) difesa delle identità europee, come modo per preservare le identità anche dei Paesi terzi, 6) potenziamento della ricerca scientifica e tecnologica, in particolare nei campi della salute e dei mezzi di comunicazione, 7) piano comune per l’energia e per la tutela del territorio, 8) politica per il Mediterraneo, in identità di vedute con quanto espresso su questo punto dal premier francese Édouard Balladur (…), 9) politica per i giovani, in sintonia con quanto esposto da Jacques Chirac in uno dei suoi ultimi lavori. A questi punti programmatici va aggiunto il problema della Cittadinanza europea, riconosciuta, è vero, dal trattato di Maastricht, ma che deve essere resa effettiva attraverso una serie di misure sul piano civico e sul piano culturale ed educativo (piani di studio coordinati, insegnamento delle lingue, storia dei nostri Paesi vista in un più ampio contesto europeo, informazione comunitaria)».

Il Congresso di Bologna del 2002 si collocava invece nella cornice post 11 settembre e vedeva F. nella nuova veste di vicepresidente del Consiglio dei Ministri e membro designato del governo italiano alla Convenzione europea. La sfida dell’assise tenutasi dal 4 al 7 aprile 2002 nel capoluogo emiliano aveva una forte caratterizzazione sui temi dell’Unione Europea fin dal titolo “Vince la Patria, nasce l’Europa”.

In tal senso si ricordava in apertura come «la convenzione e la successiva conferenza intergovernativa contribuiranno a sciogliere numerosi nodi»; infatti «è giunto per l’Europa il momento di superare una ambiguità nata nel periodo post bellico e che si è perpetuata nei decenni successivi, portando ad un vero e proprio deficit democratico delle istituzioni comunitarie, oggi finalmente ammesso da tutti. Fin dal dibattito tra i padri fondatori si sono infatti confrontate due idee di Europa. La prima è quella di una Europa tecnocratica, connubio tra tecnoelitismo e dirigismo. La seconda ritiene al contrario che l’Europa non possa essere una “entità socialista sopranazionale” […]. Oggi ci troviamo alle prese con un continente bifronte, a due velocità: quella dell’euro, grande conquista. Quella della politica, enigmatico ectoplasma. È arrivata al termine una parabola che percorre un cinquantennio. Dall’Europa sintesi delle visioni illuminate di Monnet (l’Unione come obiettivo politico che precede i mezzi) e di Schuman (collaborazioni in settori concreti da cui scaturisce l’unione) all’Europa paralizzata dall’interminabile dibattito tra euro hegeliani ed euro kantiani (come li chiama Ralf Dahrendorf). I primi profeti di un super stato, i secondi pragmatici differenziatori di Competenze. Da questa analisi parte la sfida di Alleanza nazionale: un’Europa politica più unita e consapevole perché somma armonica delle sovranità. Un’Europa più democratica, che sappia: approfondire per allargare, consolidare per agire, fondare per tutelare. “Approfondire per allargare”, significa dar vita a cooperazioni rafforzate su temi strategici per l’Unione lasciando che su basi meno impegnative accedano i Paesi candidati. “Consolidare per agire” significa dare potere effettivo all’alto rappresentante per la Politica estera e di sicurezza comune (PESC), al Commissario per le relazioni internazionali ed alla Presidenza di turno nei loro ruoli di rappresentanza dinnanzi alle crisi internazionali in cui l’Europa deve poter intervenire (v. Presidenza dell’Unione europea). Per questo non è più procrastinabile la creazione già decisa a Helsinki di una forza militare europea di reazione rapida. “Fondare per tutelare” significa porre le basi, anche attraverso la Carta costituzionale dell’Europa, di una piena integrazione anche nel delicato terzo pilastro della giustizia e degli affari interni» (v. Pilastri dell’Unione europea).

Più avanti F. tratteggiava «un progetto di sovranità concentriche imperniato sulle istituzioni nazionali legittimate dal voto popolare e su istituzioni europee più democratiche e trasparenti. In una Europa che gestisce da Bruxelles più della metà delle decisioni che incidono sulle politiche nazionali, con punte significative nel settore economico e agricolo, è indispensabile garantire la massima partecipazione dei cittadini. Il futuro dell’Europa non può essere l’uniformità nel centralismo, ma l’unità nelle diversità. Nell’Europa riunificata emergerà ancor più evidente l’esigenza di un effettivo riconoscimento del principio di sussidiarietà. All’Unione spettano tutte le competenze che traggono chiaro vantaggio da una trattazione a livello Europeo: la politica estera e di sicurezza, la stabilità monetaria e le regole commerciali, l’immigrazione e il diritto di asilo, la lotta al terrorismo e alle organizzazioni criminali internazionali, la politica agricola, la ricerca e l’innovazione.

Edmund Stoiber, riprendendo un concetto espresso da Tony Blair, ha sintetizzato con grande efficacia: “integrazione ove è necessario, decentramento ove è possibile”. La sussidiarietà ed il maggior coinvolgimento dei cittadini rappresentano la strada maestra per aprire spazi di democrazia. Oggi ancora troppe decisioni dell’Unione, lungi dall’essere adottate in sede parlamentare, scaturiscono dalle riunioni del Consiglio dei ministri e sono attuate dagli organi della Commissione europea. Il primo decide in segreto, la seconda attua in maniera politicamente non responsabile. Questi due evidenti paradossi, in chiara contraddizione con lo spirito democratico di cui l’Europa è stata nei secoli portatrice, devono essere prontamente superati».

Come detto dal gennaio del 2002 tali visioni si concretizzarono nella partecipazione di F. alla Convenzione europea quale delegato del governo italiano. Il contributo del presidente di Alleanza nazionale ha preso le mosse dalla consapevolezza che «la revisione in senso Costituzionale dei Trattati rappresenta l’occasione per portare finalmente a compimento il processo di integrazione, costruendo un’Unione che sia al tempo stesso una comunità di valori e di diritti, uno spazio economico e monetario unificato ed una potenza in grado di costituire un arco di volta del nuovo sistema di relazioni internazionali del 21° secolo». In tal senso F. ha orientato la propria azione su un ventaglio di priorità:

  1. relativa al metodo: La Convenzione, nel suo complesso, doveva consentire di superare i veti incrociati che avevano frenato le precedenti Conferenze Intergovernative e creare un “discorso pubblico” aperto e trasparente. Essenziale in tal senso l’aver stabilito un forte legame con il Presidium affinché la presidenza italiana del Consiglio UE (secondo semestre 2003) potesse assumere un testo consolidato e far sì che il nuovo Trattato costituzionale venisse firmato prima delle Elezioni dirette del Parlamento europeo (giugno 2004), in modo da fare di quest’ultime un momento di verifica dell’adesione dei cittadini europei alla nuova Costituzione.
  2. relativa ai contenuti: obiettivo del rappresentante del governo italiano alla Convenzione fu quello di consegnare alla successiva CIG un testo che segnasse il «superamento della complessa struttura a pilastri dei vigenti Trattati» e aprisse «alla ripartizione di competenze basata sul principio di sussidiarietà e sulla rafforzata partecipazione dei Parlamenti nazionali; alla tipizzazione degli atti e degli strumenti giuridici e finanziari, con l’introduzione di una gerarchia delle norme; alla creazione di un Ministro degli Esteri europeo; all’estensione del processo di Codecisione; alla razionalizzazione e miglioramento delle disposizioni sulla politica estera, sulla difesa e sullo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia; al rafforzamento di tutti e tre i principali organi dell’Unione – Commissione, Consiglio e Parlamento Europeo – che non altera l’equilibrio di fondo del triangolo istituzionale». In più rilevava l’acquisizione di Personalità giuridica dell’Unione europea e l’attribuzione di valore giuridico alla Carta dei diritti di Nizza, senza divenire un “super Stato” e neppure uno “Stato federale” (v. anche Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea). Ad avviso di F. «il metodo della Cooperazione rafforzata, sulla scorta di un complesso articolato ma ragionato di interessi convergenti», rappresentava «il miglior strumento di elaborazione di una crescita armoniosa ed organica della società europea, nel rispetto del patrimonio dello sviluppo sociale dei singoli gruppi nazionali». L’individuazione del ministro degli Affari Esteri dell’Unione destinato a raccogliere in una sorta di “unione personale” (“doppio cappello”) le competenze degli attuali “Alto rappresentante” e Commissario responsabile per le Relazioni esterne andava a rappresentare la metafora del principio più volte ribadito da F. dell’“equilibrio istituzionale”. La creazione di un “ministro degli Esteri-doppio cappello” era peraltro una riformulazione della idea italiana della “ibridazione”. Sorte meno fortunata ebbe l’emendamento presentato da F. all’articolo 2 del progetto del trattato, quello sui valori dell’Unione, sul rispetto della dignità umana, della libertà e della democrazia. La proposta italiana di prevedere la menzione delle «comuni radici giudaico-cristiane come valori fondanti del suo patrimonio» non trovò una maggioranza favorevole e venne rigettata.

Durante il mandato di ministro degli Esteri F. è intervenuto sovente sul tema della costruzione europea affrontando dossier di estrema delicatezza: in primis quello relativo al bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) per gli anni 2007-2013 imperniato sul tema del rebate britannico versus la piattaforma Juncker. F. in quel contesto ribadì come vi siano «due questioni che l’Italia ritiene pregiudiziali. La prima è che non si può ridurre nemmeno di un centesimo, rispetto alla proposta lussemburghese, lo stanziamento europeo per la Politica di coesione, cioè fondi per il nostro Mezzogiorno». «Secondo paletto non aggirabile – per F. – che i costi dell’allargamento siano sulle spalle di tutti, in misura proporzionale a quello che è il prodotto interno lordo. In altri termini il Regno Unito non può continuare ad avere un rimborso, come trattamento di favore, che fu strappato 20 anni fa da Margaret Thatcher, e che, cosa che pochi sanno, per un quarto paghiamo noi».

In quegli anni prese forma anche una involuzione sui temi della concorrenza (v. Politica europea di concorrenza): F. ebbe a stigmatizzare alcune scelte compiute da paesi membri dell’UE non rispettose del libero mercato, in particolare sul caso Enel. Parimenti F. ebbe a confrontarsi con l’impasse europea a seguito della bocciatura del Trattato da parte di Francia e Paesi Bassi nonché con i nuovi equilibri di forze venutisi a creare in seno all’Autorità nazionale palestinese dopo la vittoria di Hamas nelle elezioni e la necessità di chiara stigmatizzazione da parte UE.

Nei mesi successivi al cambio di Governo, F. ebbe a proporre una nuova pagina all’interno di Alleanza nazionale attraverso il documento “Ripensare il Centrodestra nella prospettiva europea” (luglio 2006). Si enfatizzava in particolare il concetto di accoglienza; «accoglienza, nella logica delle massime opportunità nei servizi, in una Europa finalmente (e veramente) liberalizzata; accoglienza in un’Unione europea che sappia optare decisamente per “campioni continentali” nei settori high tech e dell’energia che siano da traino alla realizzazione degli obiettivi di Lisbona ed alla progressiva riduzione del divario tecnologico transatlantico (con una particolare attenzione all’energy security tema delicatissimo per l’Europa che passa per una politica comune negli approvvigionamenti, la liberalizzazione del mercato, il completamento dei Trans-European Energy Networks, il sostegno alle energie rinnovabili, al nucleare e all’idrogeno); accoglienza di nuovi paesi in un’Europa che si amplia geograficamente e politicamente, a cominciare dai vicini prossimi dove massima è la proiezione italiana (Europa sud-orientale e balcanica)».

Significativamente il primo atto compiuto due anni dopo, appena eletto presidente della Camera, nel discorso inaugurale di mercoledì 30 aprile 2008 sarebbe stato un «vivo auspicio che il futuro Governo invii sollecitamente alle Camere il disegno di legge di ratifica del nuovo Trattato europeo di Lisbona, perché l’Italia, Paese fondatore dell’Unione, deve esercitare anche in questa occasione un deciso ruolo di impulso e di stimolo». Il 31 luglio 2008 il Parlamento italiano completava l’iter per l’approvazione del Trattato di Lisbona.

Federico Eichberg (2008)




Finlandia

La Finlandia aderì all’Unione europea nel 1995 assieme alla Svezia e all’Austria. Il paese aveva partecipato attivamente all’integrazione europea sul piano economico sin dall’inizio di questo processo, ma istituzionalmente aveva mantenuto una posiziona distaccata (v. Integrazione, metodo della). Gli unici accordi formali furono quelli associativi con l’Associazione europea di libero scambio (EFTA) nel 1961, seguiti dall’adesione a pieno titolo nel 1986 e da un accordo di libero scambio con la Comunità economica europea (CEE) conclusosi nel 1973. Nel 1989 la Finlandia aderì al Consiglio d’Europa.

L’adesione all’UE rappresentò un cambiamento radicale nella storia della Finlandia indipendente. Persino alla fine degli anni Ottanta, quando la Guerra fredda stava volgendo alla fine, la piena adesione alla Comunità era nella migliore delle ipotesi una visione utopistica e per vari motivi una scelta non fattibile per il paese. L’adesione all’Unione è stata associata a una rapida trasformazione della posizione internazionale del paese, alla fine della Guerra fredda, alla dissoluzione dell’Impero sovietico, all’evoluzione della CE in UE e alla crisi dell’economia finlandese.

Il corso della politica di integrazione finlandese venne subito definito nel secondo dopoguerra. La Finlandia partecipò economicamente alla ripresa e alla ricostruzione europea postbellica attraverso il settore principale delle esportazioni, le industrie forestali. Queste industrie contavano fortemente sull’accesso ai loro tradizionali mercati dell’Europa occidentale del legno segato, della cellulosa e della carta, le cui esportazioni negli anni Quaranta e Cinquanta raggiunsero il picco massimo dell’80% delle esportazioni complessive. Per quanto riguarda le importazioni, il paese dipendeva dai fornitori occidentali di beni di investimento, di macchinari e di prodotti tecnologici. Aveva un’economia tipicamente piccola e aperta, dove il commercio estero generava una parte consistente del reddito nazionale. I cambiamenti del regime economico e commerciale europeo influirono quindi direttamente sulle sue fortune economiche. La dipendenza economica dall’Europa occidentale creò un motivo valido per garantire l’accesso ai suoi mercati tradizionali nonché per mantenere la competitività contro i principali concorrenti in Svezia e in Norvegia, dove l’industria forestale rappresentava analogamente un settore importante delle esportazioni.

Malgrado forti fattori economici legassero la Finlandia all’Europa occidentale, sul fronte istituzionale la sua leadership dovette tenere conto della posizione geopolitica del paese all’interno della sfera di interesse sovietica. L’influenza sovietica nella politica estera, e in certa misura in quella interna, si stabilì come diretta conseguenza del conflitto mondiale. Tuttavia, la Finlandia rimase un’economia di mercato di stile occidentale con un sistema politico democratico e non seguì lo stesso percorso dell’Ungheria e della Cecoslovacchia nella transizione a una democrazia popolare (v. Repubblica Ceca; Slovacchia). Ciò nonostante, il paese rimase sotto l’influenza sovietica e dovette di conseguenza adeguare la sua politica estera. Questo era lo scenario in cui, nell’estate del 1947, la Finlandia fu invitata a partecipare alle discussioni che portarono al Piano Marshall. Dopo un intervento sovietico nel decision-making del governo finlandese, il paese dovette declinare l’invito, in linea con gli altri paesi all’interno della sfera sovietica.

La Finlandia non ricevette quindi gli aiuti previsti dal Piano Marshall e non partecipò all’attività dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE). Non divenne pertanto membro dell’Unione europea dei pagamenti, meccanismo istituito nel 1950 per agevolare il commercio multilaterale tra i paesi appartenenti all’OECE, né tanto meno partecipò al programma di liberalizzazione degli scambi della stessa. A causa di questi fattori, non poté mantenere una politica commerciale del tutto protezionistica e le restrizioni alle importazioni fino al 1961, quando si associò all’EFTA.

A livello mondiale, nel 1948 la Finlandia aderì alle istituzioni di Bretton Woods, ovvero al Fondo monetario internazionale (FMI) e al predecessore della Banca mondiale, la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (BIRS). Attraverso la BIRS ottenne i prestiti per la ricostruzione che compensarono in misura limitata gli aiuti mancati del Piano Marshall. Nel 1950 aderì inoltre all’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT) partecipando quindi alle sessioni successive per la riduzione delle tariffe doganali e la liberalizzazione del commercio. L’Unione Sovietica non si oppose all’adesione finlandese a tali istituzioni, considerato che erano tutte riunite sotto l’organizzazione ombrello delle Nazioni Unite, a cui la Finlandia aderì infine nel 1956. Sembra che le obiezioni sollevate dall’Unione Sovietica riguardo all’associazione occidentale, oltre alle ovvie preoccupazioni per questioni in materia di difesa, riguardassero soprattutto gli aspetti economici dell’integrazione europea e in particolare le sue forme istituzionali.

Nel 1944-1952, la Finlandia corrispose all’Unione Sovietica un cospicuo risarcimento dei danni di guerra (circa 570 milioni di dollari americani in valuta del 1952). Ciò gravò pesantemente sul suo sviluppo economico, che fu tuttavia compensato dal commercio fiorente e costante con i precedenti avversari. Nel 1947 un accordo commerciale stabilì i principi fondamentali del commercio finno-sovietico. La Finlandia concesse all’Unione Sovietica il trattamento della nazione più favorita, ad ampio raggio e “incondizionato e illimitato”, che avrebbe creato complicazioni al paese nei successivi negoziati con l’EFTA e con la CEE.

Il commercio finno-sovietico si basava su scambi bilaterali sotto forma di compensazione e baratto, in cui il rublo non convertibile era utilizzato come moneta di scambio e dal 1944 al 1991 rappresentò in media circa il 16% del commercio estero complessivo della Finlandia. Il resto del suo commercio era soprattutto con l’Europa occidentale. Dal 1950 in poi gli scambi di beni economici finno-sovietici vennero regolamentati all’interno di accordi quadro quinquennali e di protocolli annuali più dettagliati. Il sistema di compensazione bilaterale si concluse nel 1990-1991, anni di ristagno e agitazione economici nell’Unione Sovietica. Dal 1991 i paesi commerciarono in valute convertibili.

Durante la Guerra fredda, la Finlandia fu tra i principali partner commerciali dell’Unione Sovietica. Le imprese finlandesi beneficiarono di un accesso preferenziale e relativamente facile ai mercati sovietici dei beni lavorati, dei macchinari e dei prodotti dell’industria pesante, dell’elettronica, dell’alta tecnologia e dei beni di consumo. Mentre il commercio finlandese con i paesi occidentali e orientali era anticiclico, quello con l’Unione Sovietica bilanciò la sua economia rispetto alle recessioni in Occidente e aprì ampi mercati di esportazione alle industrie finlandesi nascenti e alle aziende che non erano competitive in Occidente. Il commercio sovietico fornì ai finlandesi un regime commerciale protezionistico limitato e stabile, mentre la liberalizzazione avanzò in Occidente influendo sul ruolo della Finlandia nell’economia globale.

Il commercio fornì un incentivo economico ad ambo le parti per mantenere relazioni amichevoli anche sul piano politico tra i vari paesi. Lo scenario delle relazioni e degli obiettivi politici, a sua volta, influenzò le realtà economiche. Le relazioni commerciali con un piccolo paese capitalista e con un grande paese socialista vennero utilizzate a scopo di propaganda, soprattutto nell’Unione Sovietica, ma anche in Finlandia i vantaggi derivanti dalle sue relazioni economiche con l’Unione Sovietica servirono da sostegno per attente politiche estere e di integrazione verso l’Occidente.

Sotto il profilo economico, si potrebbe quindi affermare che la Finlandia si sia integrata sia con l’Est che con l’Ovest, allora in Guerra fredda, anche se a livello di commercio e di investimenti la parte occidentale predominò. Dal punto di vista politico, tuttavia, le sue relazioni con l’Unione Sovietica determinarono i limiti entro cui il paese poteva sviluppare relazioni con nuove ed emergenti forme di integrazione dell’Europa occidentale. Negli anni Cinquanta emersero anche forti tendenze protezionistiche che contrastarono la partecipazione ai progetti di integrazione occidentale, ma dagli anni Sessanta in poi tali tendenze divennero minoritarie.

In risposta alla liberalizzazione commerciale in tutta l’Europa occidentale, la Finlandia soppresse i controlli dei tempi di guerra e i regolamenti amministrativi del suo commercio estero nel 1957 e si orientò verso una politica commerciale più liberale con l’Occidente. La vera svolta, tuttavia, avvenne con l’associazione all’EFTA, il cosiddetto accordo finno-EFTA, che implicò anche un impegno politico per tenere il paese al passo con i principali piani di liberalizzazione commerciale regionale in Europa occidentale.

L’accordo finno-EFTA confermò la partecipazione economica del paese all’integrazione regionale ma per preoccupazioni di politica estera, sarebbero state necessarie disposizioni istituzionali speciali. La Finlandia escluse qualsiasi forma di cooperazione politica o sovranazionale. Per il paese l’integrazione europea si limitava all’integrazione economica e più specificamente al libero scambio dei beni lavorati.

L’Unione Sovietica acconsentì all’associazione della Finlandia all’EFTA, ma guardò con sospetto alla piena adesione a tale organismo. Nemmeno i finlandesi vi ambivano, considerato che l’accordo di associazione comprendeva già alcuni vantaggi, quali un più graduale piano di riduzione dei dazi all’importazione. Grande importanza rivestirono le concessioni accordate al paese dagli altri membri dell’EFTA per mantenere inalterato il suo regime commerciale con l’Unione Sovietica. Nei negoziati finno-sovietici dell’autunno del 1960 si concordò che in base al principio della nazione più favorita stabilito nell’accordo commerciale finno-sovietico del 1947, la Finlandia dovesse accordare le stesse preferenze commerciali all’Unione Sovietica di quelle date ai membri dell’EFTA. Secondo i regolamenti del GATT, la Finlandia non aveva la necessità di estendere le preferenze per i membri dell’EFTA anche ai membri del GATT e ciò significò che l’Unione Sovietica ricevette un trattamento speciale dalla Finlandia.

Molti paesi dell’EFTA vi si opposero temendo che l’Unione Sovietica potesse rivolgere loro le stesse richieste. Inoltre ciò violava le norme GATT, ma alla fine, non furono degli obiettivi di politica economica strettamente definiti a giocare in favore dell’accettazione dell’accordo tariffario finno-sovietico del 1960. Le potenze occidentali, quali il Regno Unito, gli Stati Uniti nonché la Svezia, paese non allineato, miravano a mantenere collegamenti più forti possibili con la Finlandia per interessi generali di politica di sicurezza ed estera. Il timore era che se la Finlandia non avesse stabilito relazioni con l’EFTA e non avesse partecipato alla sua integrazione commerciale, l’influenza sovietica sull’economia e sulla vita politica finlandesi sarebbe aumentata e la nazione sarebbe ricaduta nel blocco sovietico. Nello scenario della Guerra fredda, ciò avrebbe rappresentato un chiaro ostacolo per le potenze occidentali in Europa.

Box 1 → Il non allineamento militare della Finlandia nell’Unione

In Finlandia, le riduzioni tariffarie dell’EFTA vennero attuate nel 1961-1967. Ciò diede un forte impulso al commercio della Finlandia con i paesi dell’EFTA, la cui quota nel commercio estero finlandese registrò un aumento. Le relazioni economiche con i paesi scandinavi, in particolare con la Svezia, si rafforzarono. Nel 1969-1974, la Svezia fu il maggior partner commerciale della Finlandia, più del Regno Unito, dell’Unione Sovietica e della Germania Ovest. In seguito, gli effetti della liberalizzazione dell’EFTA si equilibrarono e il rincaro del petrolio, il bene di importazione più importante per la Finlandia, aumentò la partecipazione del commercio orientale. Al contempo, tuttavia, le esportazioni si diversificarono e ben presto si sviluppò il commercio intra-industriale. Furono avviati programmi di investimenti industriali su larga scala e migliorò anche la competitività delle industrie del mercato interno.

Ciò creò i presupposti per i negoziati della Finlandia del 1968-1970 sul potenziamento proposto di una cooperazione economica nordica e di un’unione doganale, il cosiddetto Piano Nordek. In termini economici, l’integrazione nordica era una soluzione interessante, poiché le relazioni commerciali e gli investimenti all’interno della regione nordica si erano intensificati a seguito della creazione dell’EFTA negli anni Sessanta, e tale tendenza era ritenuta vantaggiosa per il paese. Nei negoziati per il Piano Nordek, la Finlandia si batté per ottenere condizioni simili a quelle raggiunte nell’accordo con l’EFTA: la struttura istituzionale nordica proposta avrebbe dovuto essere puramente economica senza contenere alcun aspetto di cooperazione politica. I negoziati portarono a un progetto di trattato pronto da essere firmato all’inizio del 1970.

Il piano alla fine fallì per la decisione del governo finlandese di non firmare il trattato nel marzo del 1970. Si verificò nuovamente quanto era successo con l’invito ad aderire al Piano Marshall nell’estate del 1947: l’intervento sovietico nel decision-making finlandese. Prima che i finlandesi prendessero la loro decisione finale sul trattato, la leadership sovietica espresse il suo dissenso all’adesione della Finlandia al Piano Nordek. Ciò creò una barriera politica, che i finlandesi avrebbero potuto sormontare, ma pagando un alto prezzo politico e a rischio di reazioni del tutto imprevedibili da parte del vicino orientale. Nemmeno il governo inoltre era compatto riguardo all’accettazione del Piano Nordek. All’interno della coalizione di governo, il Partito di centro era meno entusiasta del Partito socialdemocratico. Persino il Presidente della Repubblica Urho Kekkonen (1956-1981) non intendeva sfidare i sovietici a tal riguardo. Il piano venne abbandonato con grande disappunto di uno dei suoi più accaniti sostenitori, il primo ministro socialdemocratico Mauno Koivisto, che in seguito prese il posto del presidente Kekkonen (1981-1994).

La rinuncia al Piano Nordek coincise con nuove aperture sul fronte principale europeo. Dopo il Vertice CE dell’Aia, svoltosi nel dicembre del 1969, le porte della comunità vennero aperte a nuovi membri. Altro fattore che contribuì al fallimento del Piano Nordek fu l’intenzione della Danimarca e della Norvegia di perseguire l’adesione alla CE, avendo i finlandesi ribadito che il prerequisito per il successo dei negoziati sarebbe stato che nessuna parte parlasse di adesione con la CE.

Box 2 → La “dimensione nordica”

Nel corso degli anni Sessanta la politica condotta dal presidente Charles de Gaulle di ostacolare il cammino del Regno Unito verso la CEE si adattò perfettamente alla Finlandia, poiché il paese assicurò che l’accordo con l’EFTA del 1961 sarebbe stato sufficiente per far raggiungere alle esportazioni finlandesi i più grandi mercati del Regno Unito. Nel corso del decennio, la Finlandia seguì una politica di integrazione particolarmente prudente e attendista, e non promosse altra iniziativa se non quella nel 1968 di diventare membro dell’Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa (OCSE) (v. anche Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa), che ebbe scarsa rilevanza politica. L’Allargamento della CE, tuttavia, pose una sfida ai finlandesi, poiché limitò l’utilità dell’accordo con l’EFTA. E lo stesso effetto ebbe lo sviluppo della politica commerciale comunitaria e delle tariffe esterne. L’Unione Sovietica guardava alla CE con un sospetto maggiore di quello mostrato verso l’EFTA e la leadership finlandese era ben consapevole dei problemi inerenti all’apertura di negoziati con la Comunità.

La Finlandia definì i suoi obiettivi e le sue strategie di negoziato con la CE nel corso del 1970. Mirò a un accordo di natura “puramente economica”, che assicurasse benefici simili a quelli dell’accordo con l’EFTA. Diversamente dalla Svezia, la Finlandia non nutrì mai alcuna speranza di un’adesione a pieno titolo. Anche un’associazione venne ritenuta impossibile a causa delle clausole del trattato di Roma e del presupposto che i paesi associati sarebbero alla fine diventati membri della Comunità (v. anche Trattati di Roma). La Finlandia perseguiva il libero scambio di beni industriali ma nessun accordo istituzionale, e non intendeva aprire alcuna discussione sul settore agricolo.

I negoziati iniziarono alla fine del 1970 e si conclusero a Bruxelles nel 1971-1972. La Finlandia negoziò insieme alla Svezia e all’Austria, che per ragioni personali avevano deciso di non perseguire la piena adesione alla comunità. Nei negoziati, la Finlandia dovette fare una serie di concessioni e accettare dazi aggiuntivi alle esportazioni di carta, poiché soprattutto i francesi cercavano di proteggere le loro cartiere dalle più competitive imprese nordiche. Le tendenze protezionistiche emersero dovunque, anche all’interno della Comunità e soprattutto nel Regno Unito, che precedentemente aveva condotto una politica liberale per le importazioni verso le industrie forestali nordiche. La Comunità a sua volta accettò una serie di misure protettive temporanee da parte dei finlandesi, ma il bilancio complessivo dell’accordo fu a favore della comunità. Alla fine, l’importanza dell’accordo di libero scambio per i finlandesi era cosa ben nota e la CE non evitò di sfruttare uno scenario di negoziato asimmetrico a proprio vantaggio.

Nell’estate del 1972 una bozza di accordo per il libero scambio di beni industriali tra la Finlandia e la comunità era pronto per essere firmato. A differenza di altri governi, che erano disposti ad andare avanti, il governo finlandese decise di rimandare la firma. Bisognò attendere fino all’autunno del 1973 perché venisse finalmente firmato e ratificato l’accordo con la CE, che entrò in vigore all’inizio del 1974, un anno dopo rispetto a quanto avvenne con gli altri paesi.

I motivi del posticipo della firma vennero discussi all’epoca e anche successivamente in Finlandia. Anche se la Finlandia non perseguiva l’adesione alla Comunità, l’accordo di libero scambio era in sé una questione fortemente contestata nell’ambito della politica interna. Diversamente da altri precedenti accordi, il GATT o l’accordo con l’EFTA, lo spettro del libero scambio CE portò l’opinione pubblica e gli esperti economici a soppesare vantaggi e svantaggi della linea politica adottata. La Nuova sinistra che dal 1966 in poi aveva guadagnato terreno, condusse una campagna molto attiva contro l’accordo di libero scambio. I socialdemocratici che erano al governo, si divisero su tale questione, e l’ala sinistra del partito e gli attivisti più giovani fecero pressioni sulla leadership più europeista affinché non accettasse il trattato. Il partito socialdemocratico finì col richiedere una legislazione protettiva che conferisse al governo poteri speciali per intervenire nell’economia nazionale qualora, ad esempio, il libero scambio con la CE originasse disoccupazione o altri problemi di adeguamento. La legislazione interventista venne contrastata dai partiti di destra, che alla fine dovettero approvarla per poter garantire la realizzazione dei fondamentali accordi di libero scambio. La legislazione concernente le cosiddette “leggi di salvaguardia” venne attuata negli anni 1972-1976.

Gli ambienti imprenditoriali sostennero fortemente il trattato, ma ebbero difficoltà a trovare misure adeguate per contrastare la campagna antieuropeista presso l’opinione pubblica, e si concentrarono quindi sugli attori politici. Il Partito di centro, un tempo Lega agraria e forza principale della politica finlandese, si espresse in principio a favore del trattato poiché non incideva sul settore agricolo, da cui attingeva una quota consistente di voti. Molti elettori del Partito di centro nutrivano anche un legittimo interesse nel settore forestale fortemente europeista, poiché guadagnavano una parte sostanziosa del loro reddito dalla vendita di materie prime (legno tondo) alla principale industria di esportazione. A complicare la situazione intervenne il presidente Kekkonen, che era arrivato a ricoprire tale carica dalle file della Lega Agraria, e che presumibilmente associò la sua rielezione come presidente alla tabella di marcia dell’accordo con la CE. Kekkonen, che non aveva sfidanti politici credibili, decise ciò nonostante di candidarsi a un quarto mandato come capo di Stato non attraverso regolari elezioni ma con una votazione in Parlamento. Ottenere la maggioranza necessaria dei 5/6 al parlamento non fu cosa facile e incontrò anche l’opposizione da parte della destra, ma l’associazione tra l’importante questione della politica di integrazione e la sua stessa carica giocò a suo favore. I sostenitori di destra del trattato CE accettarono con riluttanza questo costo aggiuntivo allo stesso modo in cui fecero con le richieste legislative dei social-democratici.

A rendere la situazione finlandese ancora più complessa furono le posizioni mutevoli dell’Unione Sovietica. Fino alla primavera del 1972, la leadership finlandese sperava che l’accordo con la CE non creasse difficoltà con i sovietici. Posto che tale accordo seguiva essenzialmente i principi stabiliti nell’accordo con l’EFTA del 1961, non influendo quindi sulle relazioni commerciali con l’Unione Sovietica, i finlandesi speravano che l’Unione Sovietica lo avrebbe accettato come naturale sviluppo dell’integrazione economica del paese con altri paesi dell’Europa occidentale.

Quando il progetto di trattato venne terminato, nell’estate del 1972, i sovietici, tuttavia, assunsero un atteggiamento più critico. Nelle comunicazioni personali con il presidente Kekkonen espressero il loro desiderio che i finlandesi rimandassero la firma dell’accordo. Seguirono una serie di difficili trattative tra Kekkonen e i leader sovietici in cui il presidente finlandese si batté duramente per far accettare il trattato negoziato ai sovietici. A seguito di negoziati prolungati e di continue rassicurazioni da parte di Kekkonen sulla natura prettamente commerciale dell’accordo e sull’importanza che esso rivestiva per il paese, e poiché i comunisti e le forze di sinistra finlandesi non erano stati capaci di promuovere una maggiore opposizione nazionale, nell’autunno del 1973 l’esito negoziato venne alla fine accettato dai sovietici.

Rimane ancora un mistero il motivo per cui l’Unione Sovietica nel 1972-1973 esercitò simili pressioni sulla Finlandia. Il presidente Kekkonen aveva ottimi rapporti di lavoro e di fiducia con i leader sovietici, a partire da Nikita Chruščёv fino a Leonid Brežnev. I sovietici probabilmente si preoccuparono di garantire la sua rielezione e sperarono che le pressioni interne avrebbero convinto i finlandesi stessi ad accantonare l’accordo con la CE. Anche le relazioni finno-sovietiche attraversarono un momento di crisi dopo l’intervento sovietico in Cecoslovacchia nel 1968. Mosca guardò con maggiore sospetto agli sviluppi esteri e nazionali finlandesi. Un’altra spiegazione plausibile è che l’Unione Sovietica mirasse in quel momento a una più ampia struttura commerciale per l’intera Europa che avrebbe favorito il commercio e il trasferimento di tecnologia tra Est e Ovest aiutando il paese a risolvere i propri problemi economici. Può darsi che il rinvio dell’accordo della Finlandia con la CE fosse una mossa strategica e difensiva per assicurarsi che nessun paese verso il quale l’Unione Sovietica nutriva particolari interessi finisse sotto la maggiore influenza della CE mentre altri negoziati erano in corso.

L’accordo di libero scambio con la CE stabilì le relazioni della Finlandia con la Comunità fino al 1994, quando l’accordo sullo Spazio economico europeo entrò in vigore. Le ultime tariffe doganali per i beni industriali vennero abolite nel 1985. La Finlandia bilanciò il libero scambio con la CE con le rassicurazioni che questo non avrebbe influito sulla sua politica estera di neutralità e che le sue relazioni bilaterali con l’Unione Sovietica sarebbero proseguite su queste linee prestabilite. Il mandato del presidente Kekkonen venne esteso fino al 1978, quando fu rieletto per l’ultima volta. Inoltre, nel 1973 la Finlandia concluse un accordo di cooperazione con il Consiglio di mutua assistenza economica (COMECON) dei paesi socialisti e nel 1974-1976 negoziò nuovi accordi commerciali bilaterali con i paesi europei socialisti minori. Sul piano economico questi trattati ebbero poca importanza ma misero in evidenza in modo simbolico la particolare posizione della Finlandia verso il blocco sovietico.

Negli anni Ottanta la politica di integrazione finlandese fu contrassegnata dalla prudenza e dell’attendismo, e i finlandesi non lanciarono altre iniziative. La piena adesione all’EFTA nel 1986 fu una mera formalità, poiché già dal 1961 il paese era di fatto anche se non giuridicamente membro dell’organizzazione. I programmi di cooperazione settoriale (v. anche Programmi comunitari), come il programma europeo per la tecnologia EUREKA, vennero ritenuti allettanti dai finlandesi, cosicché il paese vi aderì nel 1985. Al contempo, le società finlandesi investirono fortemente nell’alta tecnologia, nella ricerca e lo sviluppo e nei partenariati con imprese europee. Negli anni Ottanta le dimensioni degli investimenti diretti esteri della Finlandia crebbero fino a raggiungere livelli senza precedenti, facendo sospettare alcuni analisti che gli imprenditori ritenessero ormai inadeguata la cauta politica di integrazione del paese. Sul piano economico, la Finlandia mantenne e rafforzò al massimo il suo coinvolgimento in Europa, ma gli assetti istituzionali erano saldamente bloccati dal contesto della Guerra fredda. Le preoccupazioni espresse negli ambienti imprenditoriali finlandesi si scontrarono con una tradizione di decision-making consensuale nella politica commerciale e di integrazione, e la politica attendista predominante non poteva essere facilmente contrastata. Per nuovi sbocchi, gli attori economici dovevano attendere l’iniziativa dei responsabili politici o dei cambiamenti nel contesto esterno di così vasta portata da imporre loro un simile cambiamento.

La politica di integrazione finlandese iniziò a cambiare nel 1989. L’ Atto unico europeo del 1986 spinse i paesi dell’EFTA a rivalutare l’utilità dei tradizionali accordi di libero scambio qualora e quando si fosse istituito in Europa un mercato comune più integrato e a più ampio raggio. Dopo un’iniziativa lanciata del Presidente della Commissione europea, Jacques Delors nel gennaio del 1989, si avviarono i negoziati intesi a creare uno Spazio economico europeo tra la CE e i paesi dell’EFTA. L’obiettivo era ottenere un mercato comune europeo più ampio, che tuttavia avrebbe rispettato le norme e le autorità preposte al Processo decisionale della Comunità.

Nel 1989 il governo finlandese stabilì la realizzazione del SEE come obiettivo prioritario della propria politica di integrazione e il parlamento approvò una serie di relazioni governative che definivano le nuove condizioni e i nuovi obiettivi della politica di integrazione del paese. Al contempo, la Guerra fredda giunse al termine e il blocco sovietico si dissolse. La politica estera finlandese era ormai libera dai vincoli imposti dai sovietici e nel 1989-1990 apparve evidente uno spazio di manovra più ampio nella politica estera e di sicurezza finlandese.

Nel 1990, il governo svedese annunciò improvvisamente la propria intenzione di perseguire l’adesione a pieno titolo alla CE. Non essendone al corrente, la leadership finlandese e soprattutto il presidente Koivisto furono colti alla sprovvista e costretti a riconsiderare la possibilità dell’opzione SEE per il loro paese. La decisione svedese, tuttavia, non determinò subito una revisione degli obiettivi dichiarati. Prima ancora, nel 1989, l’Austria aveva dichiarato di voler perseguire l’adesione alla Comunità senza pur tuttavia influenzare la politica finlandese. Considerate le tradizioni e la risaputa saggezza della politica di integrazione finlandese, per la leadership del paese fu sufficiente una soluzione minima come il SEE, che mirava a garantire interessi economici vitali. Prima del 1991, solo un esiguo gruppo di esperti o di politici prevedeva la piena adesione della Finlandia alla Comunità.

Soltanto dopo il colpo di Stato fallito a Mosca nell’agosto del 1991 il presidente Koivisto rivide le sue scelte e, in privato, stabilì l’adesione a pieno titolo alla CE come obiettivo principale della Finlandia. Nel governo, le posizioni dei partiti della coalizione conservatrice si erano orientate a favore dell’adesione alla CE già all’inizio del 1991. Anche il principale partito di opposizione, il Partito socialdemocratico, stava virando verso una posizione europeista. Nel corso del 1991 fu la volta dell’altro partito della coalizione dei conservatori, il Partito di centro, e della sua leadership. Nel marzo del 1992, il parlamento approvò il progetto di legge che consentiva al governo di avviare i negoziati di adesione con la CE/EU.

Il nuovo orientamento delle posizioni e della linea politica avvenne rapidamente, soprattutto in considerazione della cospicua eredità della politica attendista che era stata tipica nel pieno della Guerra fredda. Fu altrettanto importante il fatto che quando si prese finalmente la decisione di puntare verso l’adesione a pieno titolo, questa ricevette immediatamente un ampio consenso dal governo e dall’opposizione e fu fortemente appoggiata anche dalla generalità dei media.

La decisione finlandese di candidarsi alla CE può essere spiegata da diverse angolature. Potrebbero facilmente rintracciarsi motivi economici dietro l’obiettivo dell’adesione a pieno titolo e il fatto che una forte lobby economica la sostenesse. Tuttavia, perché avvenisse il cambiamento, furono necessarie la trasformazione dello scenario geopolitico in Europa e la rimozione dei vincoli alla politica di sicurezza che impedirono ai finlandesi di considerare prima di allora la piena adesione. L’instabilità nell’Unione Sovietica e la sua incerta transizione dal socialismo verso un’economia di mercato e una democrazia traballante influirono altresì sulla politica finlandese. La tabella di marcia dei negoziati di adesione alla CE con Svezia e Austria spinse i finlandesi a cambiare idea, poiché negoziare contemporaneamente con tutti e tre i paesi senza attendere il successivo round di allargamento dell’UE avrebbe procurato diversi vantaggi.

All’epoca della decisione, la Finlandia attraversava una grave crisi economica di uguale entità della grande depressione dei primi anni Trenta. Tutte le decisioni concernenti la politica di integrazione furono prese in un contesto dominato da una crisi economica forte e in rapida ascesa. Per i finlandesi, collocati come erano lungo la storica e classica linea di confine tra Scandinavia e Russia, tra Est e Ovest, la CE e l’UE rappresentavano anche un ideale di comunità occidentale. L’adesione all’Unione non era priva di significato ideologico e di identità politica.

Box 3 → The “Dilemma Two Plates”

I negoziati SEE si svolsero principalmente nel 1990-1991 e le parti restanti vennero concluse nella primavera del 1992. Fu in quella occasione che vennero risolte anche le maggiori questioni di natura economica dell’adesione finlandese all’UE. I negoziati, quindi, durarono solo un anno, da marzo del 1993 fino a marzo del 1994.

Un prerequisito dei negoziati di adesione fu l’accettazione del diritto comunitario vigente e degli obiettivi definiti nel Trattato di Maastricht, che la Finlandia accettò. Il paese dovette anche modificare l’interpretazione della sua tradizionale politica di neutralità in “non-allineamento militare” per renderla più consona alle aspirazioni di una politica estera comune dell’UE. Le principali difficoltà furono i sussidi agricoli e l’applicazione delle politiche regionali (v. Politica di coesione) e strutturali dell’UE nelle particolari condizioni geografiche e climatiche della Finlandia. Tali questioni causarono problemi lungo tutto il cammino fino alle ultime fasi dei negoziati. La svolta avvenne nel marzo del 1994, con il ruolo guida svolto dalla Germania risoluzione nel superamento dei rimanenti ostacoli. Nel maggio del 1994, il Parlamento europeo e il governo finlandese accettarono l’esito dei negoziati e il 24 giugno dello stesso anno venne firmato a Corfù il Trattato di adesione della Finlandia.

Durante i negoziati del 1993, si mise in discussione anche il consenso nazionale e il Partito di centro si divise su tale questione. Alla fine, il governo riuscì a gestire la crisi e con l’appoggio dell’opposizione dei socialdemocratici, la maggioranza delle forze parlamentari mantenne il sostegno alla candidatura all’adesione. Anche le potenti lobby agricole criticarono fortemente l’adesione, ma furono controbilanciate da lobby imprenditoriali e industriali altrettanto forti e da un movimento sindacale europeista.

Box 4 → Gran commissione del Parlamento

Già nel 1992, il governo finlandese si era impegnato a indire un referendum consultivo sul Trattato di adesione. Si votò nell’ottobre del 1994. Dopo una intensa campagna di entrambe le parti, lo schieramento del “sì” ottenne il 57% dei voti e il parlamento successivamente approvò il progetto di legge per l’adesione a novembre, che fu firmata dal Presidente della Repubblica l’8 dicembre 1994.

Il 1° gennaio 1995, la Finlandia, dopo decenni di complessa contrattazione politica e di speciali accordi istituzionali, entrò nell’UE come membro entusiasta e con un approccio costruttivo e positivo di fronte alle sfide affrontate dall’Unione, quali il Trattato di Amsterdam e la realizzazione della fase finale dell’Unione economica e monetaria (UEM).

Juhana Aunesluoma (2008)




Finlandia nell’Unione europea: sviluppi politici e costituzionali

The “Dilemma Two Plates”




Fiscal Compact

“Fiscal Compact” è la denominazione con cui è noto il “Trattato sulla Stabilità, sul Coordinamento e sulla Governance nell’Unione Economica e Monetaria” (TSCG). Il termine “Fiscal Compact” – proposto dal Presidente della Banca Centrale Europea (BCE), Mario Draghi – è più propriamente da riferire alle disposizioni contenute nel Titolo III del TSCG, sul “Patto di bilancio” (si veda oltre).

Il TSCG è stato firmato a Bruxelles il 2 marzo 2012 ed è entrato in vigore il 1° gennaio 2013. Si tratta di un trattato di diritto internazionale, frutto di un accordo intergovernativo definito al di fuori del quadro giuridico dell’Unione Europea (UE), anche se per la propria applicazione fa ampio riferimento alle istituzioni e alle normative dell’Unione.

Origini e obiettivi

Il TSCG nasce come una delle risposte dei Paesi dell’UE, e in particolare di quelli dell’Eurozona, alla crisi economica e finanziaria che – partita nel 2008 dagli Stati Uniti – colpisce l’Europa, dove assume la forma anche di crisi del debito sovrano. Il nuovo Trattato raccoglie e coordina norme e vincoli introdotti in precedenza per rafforzare stabilità e sostenibilità delle finanze pubbliche degli Stati membri, anzitutto dell’area euro.

Con il Trattato di Maastricht e l’introduzione dell’euro, l’Unione Economica e Monetaria (UEM) dispone di una moneta e una politica monetaria uniche, cui sovrintende la BCE, istituzione indipendente e, di fatto, federale. Le politiche economiche e di bilancio rimangono di competenza nazionale. La necessità di mantenere un’adeguata sorveglianza sui criteri alla base dell’UEM – rapporto deficit/PIL inferiore al 3%; rapporto debito/PIL inferiore al 60%, o comunque tendente ad esso – nei paesi che adotteranno la moneta unica, portò all’introduzione del Patto di Stabilità e Crescita (PSC), nel giugno 1997, che entrò in vigore in parallelo al varo dell’euro, il 1° gennaio 1999.

Il PSC prevede per gli Stati membri sia regole “preventive”, di sorveglianza dei bilanci pubblici, vincolati a un “obiettivo a medio termine” concordato, sia misure “correttive”, in risposta a eventuali disavanzi oltre i livelli previsti, con l’eventuale attivazione di una “procedura per deficit eccessivo”. È stato recepito nella normativa dell’Unione con il Trattato di Lisbona, in vigore dal 1° dicembre 2009, e in particolare negli artt. 121 e 126 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE).

La crisi del debito sovrano – e dei sistemi bancari – di alcuni Stati membri ebbe la sua manifestazione più grave con quella della Grecia, a partire dal maggio 2010, che innescò una spirale di sfiducia reciproca fra i paesi della zona euro. Ad essa si rispose con l’introduzione di una serie di nuove normative e strumenti: da un lato, per mettere a disposizione aiuti finanziari per i Paesi in difficoltà; dall’altro, per rendere ancor più stringenti la sorveglianza e il coordinamento tra le finanze pubbliche degli Stati membri. Interventi in parte emergenziali, che però ridisegnarono elementi sostanziali dell’assetto normativo e istituzionale dell’area euro.

Nel maggio 2010 gli Stati membri dell’Eurozona danno vita al Meccanismo Europeo di Stabilizzazione Finanziaria (MESF) e al Fondo Europeo di Stabilità Finanziaria (FESF), per il sostegno finanziario a Paesi in difficoltà. MESF e FESF confluiscono poi nel Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), istituito con un trattato intergovernativo che entra in vigore nel luglio 2012. L’accesso all’assistenza finanziaria del MES sarà subordinata alla ratifica del TSCG da parte del Paese membro del MES interessato, ad evidenziare la complementarietà fra i due nuovi Trattati.

Regole e meccanismi previsti dal PSC vengono rafforzati con un insieme di norme note come “six-pack”. Il “pacchetto”, entrato in vigore nel dicembre 2011, comprende cinque regolamenti comunitari e una direttiva. Essi fissano una serie di obblighi di convergenza per deficit e debito pubblici degli Stati membri, con un meccanismo “automatico” di sanzioni e nuove regole per la loro approvazione. Norme che confluiranno nell’art. 3 del TSCG, che costituisce il nucleo fondamentale del “patto di bilancio” (si veda oltre).

Per sistematizzare e rendere cogenti le suddette indicazioni, anche al fine di ristabilire un quadro di fiducia reciproca, il 9 dicembre 2011 i capi di Stato o di governo degli Stati membri della zona euro convengono – come si legge nella loro dichiarazione congiunta ­– di dar vita a “un nuovo ‘patto di bilancio’ ed un coordinamento notevolmente rafforzato delle politiche economiche nei settori di interesse comune”. Come poi indicato nelle premesse del nuovo Trattato, si ritiene necessario introdurre una “regola del pareggio di bilancio” nelle legislazioni nazionali e “un meccanismo automatico per l’adozione di misure correttive”.

A fine novembre 2011, la Commissione aveva predisposto due altri regolamenti, nel cosiddetto “two-pack”, intesi a rafforzare ulteriormente la sorveglianza di bilancio nella sola zona euro, con la definizione di un calendario e di regole di bilancio comuni e un esame preventivo dei progetti di bilancio degli Stati membri affidato alla Commissione. I due regolamenti, in vigore dal 30 maggio 2013, hanno di fatto riportato entro l’ordinamento dell’Unione alcune delle previsioni del TSCG.

Ratifica e struttura

La mancanza di un accordo unanime fra gli Stati membri dell’UE, per l’opposizione del Regno Unito – cui si era aggiunta la Repubblica Ceca –, aveva reso impossibile incorporare nel quadro giuridico dell’Unione le nuove norme, ad esempio con un emendamento al TFUE. Si decise così di procedere con un trattato internazionale, ovvero un accordo intergovernativo che venne firmato, il 2 marzo 2012, da 25 Stati membri (all’epoca la Croazia non era membro dell’UE, e ad oggi – fine 2017 – non ha firmato il TSCG).

Il Trattato è stato ratificato da tutte le “parti contraenti” (i 19 Stati membri della zona euro e sei al di fuori di essa), sulla base delle rispettive procedure nazionali. L’adesione si considera perfezionata con la notifica della ratifica: primo a notificarla fu, significativamente, la Grecia, il 10 maggio 2012; l’Italia la notificò il 14 settembre 2012.

Il TSCG non prevede – per la prima volta nella storia dell’integrazione europea – la regola dell’unanimità per la sua entrata in vigore. L’art. 14.2 indica che “Il presente trattato entra in vigore il 1° gennaio 2013, a condizione che dodici parti contraenti la cui moneta è l’euro abbiano depositato il loro strumento di ratifica, o, se precedente, il primo giorno del mese successivo al deposito del dodicesimo strumento di ratifica di una parte contraente la cui moneta è l’euro”. Il Trattato è entrato in vigore alla data indicata dopo la notifica della ratifica da parte della Finlandia, dodicesimo tra i paesi della zona euro, avvenuta il 21 dicembre 2012.

Il TSCG si compone di un preambolo e di 16 articoli, suddivisi in sei Titoli: I. Oggetto e ambito di applicazione; II. Coerenza e rapporto con il diritto dell’Unione; III. Patto di bilancio; IV. Coordinamento delle politiche economiche e convergenza; V. Governance della zona euro; VI. Disposizioni generali e finali.

Il Titolo I ne definisce l’oggetto e indica che il TSCG “si applica integralmente alle parti contraenti la cui moneta è l’euro”. Le altre parti contraenti possono applicare in tutto o in parte quanto previsto dai Titoli III e IV (come indicato dall’art. 14 del Trattato).

Il Titolo II specifica che “le parti contraenti applicano e interpretano il presente trattato conformemente ai trattati su cui si fonda l’Unione europea” e che esso si applica “nella misura in cui è compatibile con i trattati su cui si fonda l’Unione europea e con il diritto dell’Unione europea”.

Il Titolo III è, come detto, quello in cui si concentra il “patto di bilancio”: all’art. 3 stabilisce che la posizione di bilancio della pubblica amministrazione di una parte contraente deve essere in pareggio o in avanzo, regola rispettata se il suo “saldo strutturale (…) è pari all’obiettivo di medio termine specifico per il paese, quale definito nel patto di stabilità e crescita rivisto, con il limite inferiore di un disavanzo strutturale dello 0,5% del prodotto interno lordo ai prezzi di mercato”. Se da un lato “le parti contraenti assicurano la rapida convergenza verso il loro rispettivo obiettivo di medio termine”, dall’altro “il quadro temporale per tale convergenza sarà proposto dalla Commissione europea tenendo conto dei rischi specifici del paese sul piano della sostenibilità”; deviazioni temporanee sono consentite “solo in circostanze eccezionali” definite successivamente. Se il rapporto debito pubblico/PIL è “significativamente inferiore al 60% e i rischi sul piano della sostenibilità a lungo termine delle finanze pubbliche sono bassi” è consentito un disavanzo strutturale massimo dell’1% del PIL. Per deviazioni significative dall’obiettivo di medio termine o dal percorso di avvicinamento ad esso “è attivato automaticamente un meccanismo di correzione”.

Le suddette misure “producono effetti nel diritto nazionale delle parti contraenti al più tardi un anno dopo l’entrata in vigore del presente trattato tramite disposizioni vincolanti e di natura permanente – preferibilmente costituzionale – o il cui rispetto fedele è in altro modo rigorosamente garantito lungo tutto il processo nazionale di bilancio”. Vanno istituiti a livello nazionale sia il suddetto meccanismo di correzione sia istituzioni indipendenti responsabili per il controllo delle regole del patto di bilancio. L’Italia vi ha ottemperato con la legge costituzionale promulgata il 20 aprile 2012 (“Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale”) e la legge 243/2012 (“Disposizioni per l’attuazione del principio del pareggio di bilancio ai sensi dell’articolo 81, sesto comma, della Costituzione”), in vigore dal 30 gennaio 2013, che ha tra l’altro istituito un “Ufficio parlamentare di bilancio”, con sede presso le Camere (ma da esse indipendente).

Quanto al rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo di una Stato membro firmatario del Trattato, se esso supera il valore di riferimento del 60% del PIL, la parte contraente deve operare “una riduzione a un ritmo medio di un ventesimo all’anno come parametro di riferimento (…)”.

Se la parte contraente è “soggetta a procedura per i disavanzi eccessivi” deve predisporre “un programma di partenariato economico e di bilancio che comprenda una descrizione dettagliata delle riforme strutturali da definire e attuare per una correzione effettiva e duratura del suo disavanzo eccessivo”, da presentare al Consiglio dell’Unione europea e alla Commissione europea. Le proposte o le raccomandazioni presentate dalla Commissione per uno Stato membro la cui moneta è l’euro che essa ritiene abbia violato il criterio del disavanzo, possono essere respinte solo da una maggioranza qualificata degli altri Stati membri (“maggioranza inversa”).

In caso di mancata ottemperanza a quanto previsto dalle misure correttive, il TSCG definisce le condizioni a cui una o più parti contraenti possono adire la Corte di Giustizia dell’Unione europea, la cui sentenza è vincolante per le parti del procedimento. Ulteriori norme regolano l’intervento della Corte di Giustizia in caso di mancato rispetto della sentenza precedente della Corte stessa.

Il Titolo IV, sul coordinamento delle politiche economiche e convergenza fra le parti contraenti, indica in particolare che “le parti contraenti sono pronte ad avvalersi attivamente, se opportuno e necessario, di misure specifiche agli Stati membri la cui moneta è l’euro, come previsto all’articolo 136 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea, e della cooperazione rafforzata (…) nelle materie essenziali al buon funzionamento della zona euro, senza recare pregiudizio al mercato interno”.

Il Titolo V riforma la governance dell’area euro con l’istituzionalizzazione delle “riunioni del Vertice euro”, in cui “I capi di Stato o di governo delle parti contraenti la cui moneta è l’euro si incontrano informalmente (…) insieme con il presidente della Commissione europea”. Il presidente del Vertice euro “è nominato a maggioranza semplice dai capi di Stato o di governo delle parti contraenti la cui moneta è l’euro nello stesso momento in cui il Consiglio europeo elegge il proprio presidente e con un mandato di pari durata”. Il Vertice euro è convocato “quando necessario, almeno due volte all’anno”. Inoltre “l’organismo incaricato di preparare e dar seguito alle riunioni del Vertice euro è l’Eurogruppo”.

L’art. 13 prevede il coinvolgimento del Parlamento europeo e dei parlamenti nazionali delle parti contraenti in una “conferenza dei rappresentanti delle pertinenti commissioni del Parlamento europeo e dei rappresentanti delle pertinenti commissioni dei parlamenti nazionali ai fini della discussione delle politiche di bilancio e di altre questioni rientranti nell’ambito di applicazione” del TSCG.

Chiude il Titolo VI, con le disposizioni sulla entrata in vigore del TSCG e sulla incorporazione del contenuto del Trattato “nell’ordinamento giuridico dell’Unione europea”.

Applicazione e sviluppi

L’art. 16 del TSCG prevede che “Al più tardi entro cinque anni dalla data di entrata in vigore del presente trattato, sulla base di una valutazione dell’esperienza maturata in sede di attuazione, sono adottate in conformità del trattato sull’Unione europea e del trattato sul funzionamento dell’Unione europea le misure necessarie per incorporare il contenuto del presente trattato nell’ordinamento giuridico dell’Unione europea”. È quindi entro il 1° gennaio 2018 che le parti contraenti dovrebbero dare seguito a tali disposizioni.

Nella dichiarazione dei capi di Stato o di governo del 9 dicembre 2011 sul nuovo Trattato si indicava che “l’obiettivo resta quello di incorporare il prima possibile tali disposizioni nei trattati dell’Unione”. Il Parlamento europeo, con una risoluzione del 18 gennaio 2012, chiese un esplicito limite temporale per l’incorporazione: “il nuovo accordo deve sancire, in forma giuridicamente vincolante, l’impegno delle parti contraenti a compiere tutti i passi necessari per garantire che il contenuto dell’accordo verrà integrato nei trattati al più tardi entro cinque anni”.

Il Fiscal Compact ha dato luogo a un ampio dibattito politico e teorico. Il nuovo Trattato è stato visto come un passo necessario per contrastare la crisi del debito sovrano europeo e ristabilire un circuito fiduciario nella zona euro fra Paesi “creditori” del Nord Europa e Paesi “debitori” del Sud Europa. Altri hanno sottolineato i rischi di pro-ciclicità di un approccio basato su regole rigide anziché sulla discrezionalità ritenuta necessaria per affrontare una fase di recessione di ampie dimensioni. Un diverso approccio ha evidenziato la necessità di accentuare gli elementi di flessibilità del PSC e, soprattutto, di dotare il livello europeo di una “capacità fiscale” (“fiscal capacity”), ovvero di risorse proprie per un bilancio dell’Eurozona, o una linea nel bilancio dell’Unione dedicata all’Eurozona, ai quali affidare interventi anti-ciclici in presenza di Stati membri impegnati nel risanamento delle finanze pubbliche.

Fra gli sviluppi successivi va ricordata la Comunicazione della Commissione europea, del 13 gennaio 2015, “Sfruttare al meglio la flessibilità consentita dalle regole vigenti del Patto di Stabilità e Crescita”. Al fine di contemperare disciplina di bilancio e orientamento alla crescita, la Commissione ha evidenziato i margini di flessibilità e discrezionalità disponibili per ciascun Stato membro, a norme invariate, su tre fronti: i contributi dello Stato membro agli investimenti, dopo l’istituzione del Fondo Europeo per gli Investimenti Strategici, nel quadro del Piano di Investimenti per l’Europa, approvato nel dicembre 2014; l’impatto delle riforme strutturali, che può giustificare deviazioni temporanee dall’obiettivo a medio termine (o dal percorso di avvicinamento ad esso); la situazione del ciclo economico, in modo che nel percorso verso l’obiettivo a medio termine lo sforzo di bilancio sia maggiore in una fase congiunturale positiva e minore in una negativa.

La Commissione ha proceduto, nel febbraio 2017, a una verifica sulla trasposizione delle previsioni del TSCG nelle legislazioni nazionali dei 25 Stati firmatari, che doveva avvenire entro il 1° gennaio 2014, un anno dopo la firma del Trattato. Tutti hanno ottemperato a quanto richiesto, anche se solo alcuni (tra i quali l’Italia) hanno fatto ricorso ad atti e norme di tipo costituzionale.

Il passo successivo compiuto dalla Commissione, il 6 dicembre 2017, ha visto la presentazione di una tabella di marcia e di un pacchetto di proposte per il completamento dell’UEM. Tra di esse vi è anche quella per l’incorporazione del TSCG nel diritto e nel quadro istituzionale dell’Unione, sulla base del suddetto art. 16 del Trattato. Essa prevede una proposta di direttiva del Consiglio “che stabilisce disposizioni per rafforzare la responsabilità di bilancio e l’orientamento di bilancio a medio termine negli Stati membri”.

La proposta di direttiva, secondo la Commissione, integra nel diritto dell’Unione il contenuto del “patto di bilancio” compreso nell’art. 3 del TSCG – si è peraltro rilevato che essa, rispetto al Trattato, accentua l’attenzione sul vincolo del debito pubblico. Questo “consentirà di semplificare il quadro giuridico e permetterà un monitoraggio migliore e continuo nell’ambito del quadro di governance economica globale dell’UE”. Allo stesso tempo, la proposta della Commissione tiene conto della flessibilità insita nel PSC già evidenziata nel gennaio 2015.

Una valutazione del contenuto effettivo della proposta di direttiva, da parte delle istituzioni europee e degli Stati membri, dovrà prendere in considerazione “l’esperienza maturata in sede di attuazione” del TSCG (come indica l’art. 16), l’insieme delle nuove iniziative messe in cantiere dalla Commissione (che includono la trasformazione del MES in un Fondo Monetario Europeo) e gli elementi ancora mancanti per approdare a una compiuta Unione politica, economica e monetaria.

Flavio Brugnoli (2018)




Fischer, Joschka

“Joschka” F. (Gerabronn, Baden-Wüttenberg 1948) nel 1965 si trasferisce con la famiglia a Fellbach, nei pressi di Stoccarda e inizia un apprendistato come fotografo, che presto interrompe. Nel 1966 inizia una serie di viaggi che lo portano nel Regno Unito, in Francia, Spagna, Italia, Grecia, Turchia e Kuwait. Dal 1967, anno in cui si sposa per la prima volta, partecipa con la moglie all’attività del movimento studentesco e dell’opposizione extraparlamentare (Außerparlamentarische Opposition, APO). Nel 1968 F. si trasferisce a Francoforte sul Meno dove segue le lezioni di Theodor W. Adorno, Jürgen Habermas e Oskar Negt. In questo periodo inizia la sua formazione intellettuale che spazia dai classici della filosofia tedesca (Hegel) ai protagonisti della politica contemporanea (Mao Zedong), guadagnandosi da vivere con lavori occasionali. Nel movimento studentesco stringe amicizia con Daniel Cohn-Bendit e lavora nella rivista “Neue Kritik”, mentre all’interno del gruppo Revolutionärer Kampf (RK), nel quale milita fino al 1975, prende parte a dimostrazioni e proteste di piazza e a scontri con la polizia.

Dopo circa sei mesi di lavoro presso lo stabilimento automobilistico della Opel AG a Rüsselsheim viene licenziato nel 1971 per aver cercato di mobilitare politicamente i lavoratori. Dal 1976 al 1981 svolge diversi lavori saltuari (operaio, traduttore di romanzi) e diventa tassista. Nel 1977, il rapimento e la morte del presidente dell’associazione nazionale dei datori di lavoro, Hanns-Martin Schleyer, per mano della Rote armee fraktion (RAF), causano in F. un ripensamento sui fini e sui metodi della lotta rivoluzionaria che lo porta a prendere le distanze dai gruppi politici radicali.

Nel 1982, dopo aver continuato ad essere un rappresentante del gruppo della sinistra non tradizionale “spontaneista” (Sponti) e aver dato vita all’Arbeitskreis Realpolitik di Francoforte con Cohn-Bendit, entra nel partito ecologista dei Verdi (Die Grünen), fondato nel 1980. Nel 1983 i Verdi raggiungono la percentuale del 5,6% dei voti alle elezioni per il Parlamento e riescono a entrare, come prima nuova forza politica nel secondo dopoguerra, nel Bundestag. In quell’occasione anche F. diventa deputato, mantenendo questa carica fino al 1985 quando lascia a metà mandato per rispettare il principio di rotazione stabilito come regola per gli eletti verdi. F. è membro del comitato interno del partito e capogruppo dei Verdi al Bundestag, dove si fa subito notare per la brillante capacità oratoria e come esponente della componente più pragmatica dei “Realos”, contrapposta all’ala più radicale e intransigente dei “Fundis”. Nel 1984 pubblica il libro Von Grüner Kraft und Herrlichkeit, e tra il 1985 e il 1987 è il primo esponente verde ad assumere un incarico di governo diventando ministro del Land dell’Assia per l’Ambiente e l’Energia nella prima coalizione formata dal Partito socialdemocratico tedesco (Sozialdemokratische Partei Deutschlands, SPD) e dai Grünen a livello regionale. Durante questo incarico, grazie al quale è anche membro del Bundesrat, F. si imbatte in diverse difficoltà nella realizzazione del programma politico ecologista che prevede, in particolare, la chiusura delle centrali nucleari e l’elaborazione di un programma di smaltimento dei rifiuti. Il trasferimento dei rifiuti tossici della fabbrica chimica Hoechst nel deposito di Schönberg nella Repubblica Democratica Tedesca (RDT) provoca una denuncia legale da parte della cittá di Lubecca e la prima dimostrazione dei Verdi contro un ministro del loro partito. A seguito della decisione dei Verdi di vincolare la partecipazione al governo del Land alla condizione di rivedere il permesso concesso all’impresa nucleare Alkem di Hanau, il presidente socialdemocratico Holger Börner provoca le dimissioni di F., che continua la sua azione politica dall’opposizione come capogruppo dei Verdi nel Parlamento regionale.

Dopo la pesante sconfitta elettorale dei Verdi alle elezioni del primo parlamento della Germania unita nel dicembre 1990, determinata dal mancato superamento dello sbarramento del 5%, F. si impegna in una riforma strutturale del partito incentrata sulla soppressione della rotazione per le cariche elettive, sull’elezione di un presidente del partito e sulla previsione del doppio mandato per un ristretto gruppo di rappresentanti regionali e nazionali.

Nel 1991, grazie al successo dei Verdi alle elezioni del Parlamento regionale dell’Assia che raggiungono l’8,8%, viene ricostituita una coalizione governativa rosso-verde al cui interno F. è nominato ministro vicepresidente e ministro per l’Ambiente, l’Energia e per le Questioni federali e in tale veste consegue alcuni importanti risultati: l’introduzione di imposte sui rifiuti tossici, la chiusura parziale della fabbrica degli elementi combustibili Siemens e il blocco del raffinamento di uranio ad Hanau, ottenuto nonostante il conflitto intercorso con il ministro federale per l’ambiente, il cristiano-democratico Klaus Töpfer. Nel 1993, dopo una serie di incidenti nello stabilimento Hoechst AG di Francoforte, F. e il ministro per l’Ambiente Töpfer richiedono a tutta l’industria non solo il rispetto del programma di sicurezza, ma anche la certificazione della cosiddetta “affidabilità del gestore”, clausola introdotta proprio in quell’occasione.

Nell’ottobre 1994 F. si dimette dal suo incarico regionale per dedicarsi all’attività politica a livello federale ed è rieletto al Bundestag dove diventa coportavoce del gruppo parlamentare verde. F. propone pubblicamente la possibilità di creare una coalizione “semaforo” (rosso-giallo-verde) fra i socialdemocratici (SPD), i liberali (Freie demokratische Partei, FDP) e i Verdi (Bündnis 90/Die Grünen), condizionandone la realizzazione al rispetto di alcune condizioni programmatiche: la rinuncia a continuare ad impiegare l’energia atomica e il rifiuto di utilizzare forze armate nelle crisi internazionali. Nel luglio 1995 F. elabora un documento programmatico circa l’intervento difensivo militare delle zone protette ONU in Bosnia, provocando un dissidio molto aspro tra i Verdi e nel settembre dello stesso anno, in un documento strategico, chiede al partito di aprire una discussione sul cambiamento di linea per la politica economica e sulla questione di adottare una “politica verde per le piccole e medie imprese”. La posizione di F. nei confronti della gravità delle conseguenze della guerra in Bosnia Erzegovina lo spinge, nel novembre 1995, a schierarsi per la necessità di un intervento militare ONU finalizzato ad impedire la continuazione del genocidio in atto, suscitando una profonda spaccatura interna all’interno dei Verdi.

Consolidata la sua posizione di leader verde a discapito delle componenti fondamentaliste, progressivamente uscite o ridotte in forte minoranza all’interno del partito, nell’aprile 1996 F. propone un patto di collaborazione fra i Verdi ed SPD per le successive elezioni parlamentari federali per sostenere un unico candidato del centro-sinistra alla cancelleria. Alla fine dello stesso anno, dopo un viaggio nella ex Iugoslavia, F. – resosi conto della drammaticità della situazione – si dichiara favorevole all’invio di truppe tedesche nella missione dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO) in Bosnia, contravvenendo alla decisione presa dal suo stesso partito. Tra il 1997 e il 1998 F. sviluppa ulteriormente le posizioni già espresse: conferma il suo favore sia alla linea filo occidentale della politica estera tedesca, sia al prolungamento dell’impegno militare in Bosnia, e inoltre appoggia l’allargamento della NATO ai paesi dell’Est.

Nell’ottobre 1998, a seguito delle elezioni del Bundestag, F. viene nominato vice cancelliere e ministro per gli Affari esteri nel neoeletto governo rosso-verde, diretto dal cancelliere Gerhard Schröder della SPD. A novembre F. causa una crisi diplomatica nella coalizione, richiedendo la rinuncia alla dottrina del primo impiego delle armi nucleari. Tuttavia la sua azione nella coalizione si concentra su altri temi rilevanti di politica estera, in particolare sullo sviluppo dell’integrazione europea (v. anche Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) e sull’Allargamento dell’Unione europea (UE) e sulla riforma dell’ONU, mentre la sua popolarità in Germania e in Europa cresce nel corso degli anni.

Nel gennaio 1999, all’inaugurazione della presidenza tedesca del Consiglio dell’UE (v. Presidenza dell’Unione europea), F. espone quali obiettivi principali da perseguire a breve termine nella politica europea l’implementazione dell’“Agenda 2000”, riguardante lo sviluppo della riforma della Politica agricola comune (PAC) e quella finanziaria dell’UE, e la conclusione della guerra scoppiata nel Kosovo. Nell’aprile dello stesso anno, F. propone un piano di pace che prevede la spedizione di forze armate con il mandato ONU in Kosovo dopo la tregua. Malgrado le difficoltà diplomatiche, egli riscuote un ulteriore successo nella politica estera: il piano di pace per il Kosovo, in gran parte attribuibile allo stesso F., riesce a trovare il consenso dei ministri degli Esteri dei G8 riuniti a Bonn il 6 maggio 1999. Inoltre il 10 giugno i G8 stipulano il Patto di stabilità per i Balcani, iniziativa di cui F. era stato il promotore (v. Partecipazione dell’Unione europea a organizzazioni e conferenze internazionali). Il giorno seguente il parlamento tedesco autorizza l’invio di 8500 soldati della Bundeswehr (esercito) per partecipare alla missione di pace in Kosovo. L’attuazione delle proposte di F., che aveva dichiarato di non aderire a qualsiasi formula aprioristica di pacifismo, e che aveva appoggiato l’intervento armato in Kosovo, sulla base sia del dovere morale di intervenire in caso di crimini contro l’umanità, sia della necessità di bloccare la possibile escalation del nazionalismo, non è comunque facile per le tensioni presenti all’interno dei Verdi. Al congresso del partito tenutosi nel maggio 1999 nella città di Bielefeld, F. riesce a ottenere l’appoggio della maggioranza dei Verdi, ma è fortemente contestato da una minoranza pacifista e antimilitarista e suscita proteste anche violente per la sua scelta interventista, finendo per subire anche il ferimento ad un orecchio prodotto dal lancio di vernice rossa indirizzato verso il palco.

In quei mesi la sua attività di governo è rivolta anche al perseguimento dell’abbandono dell’energia nucleare, perseguito con il ministro verde all’Ambiente Jürgen Trittin: nel luglio 1999 F. incontra a Francoforte sul Meno i capi delle imprese per la produzione energetica Veba, RWE ed EhBW per discutere i termini e la programmazione di un piano per realizzare questo obiettivo che porterà successivamente alla previsione della chiusura di diverse centrali entro il 2020.

F. prende posizione sugli sviluppi dell’integrazione e dell’allargamento dell’UE. Durante una visita ufficiale in Turchia nel 1999, F. sottolinea il suo appoggio all’ingresso di questo paese nell’UE. Il 20 ottobre 1999 il Consiglio di sicurezza tedesco approva l’invio del carrarmato Leopard II alla Turchia – malgrado il voto contrario di F. e del ministro socialdemocratico per la cooperazione e lo sviluppo economici, Heidemarie Wieczorek-Zeul.

Con il suo primo discorso alla riunione ONU a New York, F. dichiara di appoggiare il potenziamento del sistema ONU per la prevenzione dei conflitti e il rafforzamento dei sistemi di sicurezza regionali: il 22 settembre 1999, alla riunione del Consiglio generale delle Nazioni Unite a New York, F. propone di modificare le procedure per il diritto di veto dei membri del Consiglio di sicurezza e di introdurre il dovere a motivare le decisioni sul voto.

L’impegno della Germania nelle operazioni internazionali umanitarie trova l’appoggio di F. e il 7 ottobre 1999 il Parlamento federale tedesco autorizza l’invio richiesto da F. di soldati a Timor Est per aiuti medici.

Significativo risulta anche lo sforzo di F., in qualità di ministro degli Esteri, di trovare una soluzione al conflitto arabo-israeliano, che egli ritiene una delle cause principali del dilagare del terrorismo arabo. Durante una missione di pace in Medio Oriente condotta nel luglio 2001, riesce ad ottenere una dichiarazione di assenso per una tregua immediata da parte del leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP) Yasser Arafat. F. si afferma come un esponente di primo piano della diplomazia europea nel processo di pace in Medio Oriente poiché riesce a mantenere contemporaneamente rapporti diretti e collaborativi con Arafat e con il ministro degli Esteri israeliano Shimon Peres. Per tale attività, volta a prevenire conflitti armati nella regione e a convincere le autorità palestinesi e israeliane ad attuare la “Road map”, un progetto di pacificazione elaborato sotto l’egida dell’ONU e degli Stati Uniti, F. è insignito del titolo di Dottore honoris causa all’Università di Haifa il 29 maggio 2002 e, in tale occasione afferma la piena responsabilità dell’Europa nella ricerca della pace nel Medio Oriente indicando i fini auspicabili per una possibile convivenza duratura: l’esistenza di due Stati (Israele e Palestina); la tregua perpetua; un piano per un definitivo accordo sulle rivendicazioni territoriali; la disponibilità dei due Stati a scendere a compromessi; la garanzia della comunità internazionale data dal controllo dell’adempimento degli impegni reciproci assunti dalle controparti. Più tardi, il 9 marzo 2003, come ulteriore riconoscimento ufficiale F. riceve anche la medaglia Buber-Rosenzweig dalla Società per la collaborazione cristiano-ebraica.

A partire dal 2000, l’azione politica di F. si è soprattutto concentrata sull’elaborazione di nuovi assetti istituzionali volti a rafforzare il processo di integrazione europea in una prospettiva di sviluppo di tipo federale (v. Federalismo) e a consentire un allargamento equilibrato della futura UE. Questo impegno si è manifestato congiuntamente alle proposte riguardanti la costruzione di una capacità di difesa europea multilaterale in stretta cooperazione e sinergia con la NATO e con l’ONU. Rappresentativo di questo duplice focus del pensiero e dell’attività politica di F. è il discorso Vom Staatenverbund zur Föderation (“Dalla lega di Stati alla federazione”), tenuto presso l’Università von Humboldt a Berlino il 12 maggio 2000, che ha avuto una vasta eco internazionale e ha avuto il merito di riaprire un vivace dibattito politico e culturale sul futuro dell’integrazione europea. Secondo F., la Francia e la Germania devono assumersi il compito fondamentale di rafforzare le istituzioni dell’UE, con l’obiettivo di realizzare il duplice processo di allargamento verso Est e verso Sud e di una maggiore integrazione dell’UE onde evitare che un’Europa disunita faciliti il trasferimento dei conflitti etnici e nazionalisti dall’Europa dell’Est a tutto il resto del continente. Dopo la riforma del Trattato di Maastricht e la nascita dell’UE il processo di integrazione europea deve quindi concretamente proseguire su tre linee: l’integrazione tramite l’elaborazione di un diritto comune a tutti i paesi europei (v. anche Diritto comunitario); lo sviluppo di una politica di sicurezza comune e di difesa europea (v. Politica estera e di sicurezza comune; Politica europea di sicurezza e difesa); l’allargamento dell’UE. I nodi da risolvere per arrivare ad affrontare adeguatamente tali compiti sono, secondo il ministro tedesco, essenzialmente di carattere politico-istituzionale e riguardano la composizione della Commissione europea, la ponderazione dei voti nel Consiglio dell’UE (v. Ponderazione dei voti nel Consiglio) e le procedure per il voto di maggioranza (v. Maggioranza qualificata). Il fine ultimo dei processi paralleli di integrazione e di allargamento dell’UE è rappresentato, per F., dal «passaggio dall’associazione di Stati dell’Unione alla piena parlamentarizzazione della federazione europea, che Robert Schuman ha appoggiato già 50 anni fa» che consiste nel prevedere «almeno un Parlamento europeo e un governo europeo che esercitino effettivamente e legalmente il potere esecutivo all’interno della Federazione» la quale necessariamente «si deve fondare su una Costituzione» (v. Fischer, 2000, p. 24). Il principio che deve sovrintendere alle relazioni fra gli stati nazionali europei e l’UE è il. Principio di sussidiarietà, in base alla quale il Parlamento europeo è chiamato a rappresentare sia l’Europa degli Stati nazionali, sia l’Europa dei cittadini (ibid., p. 27). La decisione su quali materie di legislazione debbano essere affidate alla competenza nazionale (v. anche Competenze) oppure a quella europea deve essere decisa, per lo statista tedesco, costituzionalmente. F. è quindi uno dei primi e più convinti assertori di una Costituzione europea, insieme ad altri politici francesi (tra i quali Francois Bayrou – che si è pronunciato in tal senso alle elezioni europee del 1999 europee –, Alain Juppé, Philippe Seguin, Jacques Chirac) e tedeschi (come il ministro della Baviera Edmund Stoiber, il cancelliere Schröder (v. Schröder, Gerhard), e il Presidente della Repubblica Johannes Rau, oltre al compagno di partito, amico ed europarlamentare verde Cohn-Bendit). Infatti egli afferma che la «nuova fondazione dell’Europa» deve avvenire proprio «attraverso la realizzazione del progetto di una Costituzione europea, il cui nucleo principale deve consistere nel consolidamento dei diritti umani fondamentali e di cittadinanza, nell’equilibrata suddivisione di poteri tra le istituzioni europee, e nella delimitazione precisa del livello di competenza nazionale-statale e di quello europeo» (ibid., p. 31). Secondo questa visione, il metodo funzionalista (v. Funzionalismo) utilizzato da Jean Monnet è ormai in crisi e deve essere superato: a tal scopo F. propone la formazione di un’avanguardia di Stati membri, e cioè di un “centro di gravità” europeo capace di consentire il proseguimento del processo di integrazione europea e avente come fulcro centrale l’asse franco-tedesco. Per giungere alla costituzione della Federazione europea F. individua, in sintesi, tre tappe: la costituzione di rapporti di collaborazione fra quegli Stati che desiderino cooperare più strettamente in materie quali l’unione politico-economica, le politiche ambientali (v. Politica ambientale), la Lotta contro la criminalità internazionale e contro la droga, la politica dell’immigrazione e di asilo (v. Politiche dell’immigrazione e dell’asilo); la creazione di un “centro di gravità”, fondato su un patto fondamentale, nucleo della futura Costituzione della Federazione, con proprie istituzioni (governo, parlamento, presidente eletto a suffragio universale) e sui principi di trasparenza e di apertura alla partecipazione di tutti paesi i membri dell’UE e dei Paesi candidati all’adesione (v. anche Adesione); l’esito finale del processo di costruzione istituzionale con la nascita della Federazione europea (ibid., pp. 35-39).

Questo progetto elaborato da F. circa il futuro dell’UE fornisce il fil rouge per l’interpretazione della sua azione politica successiva nell’ambito dei lavori della Convenzione europea, convocata per la prima volta il 28 febbraio 2002, e di cui F. è membro designato dal governo tedesco. Le proposte di F. si muovono lungo due direttrici principali: il rafforzamento di una politica estera e di difesa comuni e la risoluzione di problemi istituzionali quali il meccanismo di voto e la rappresentanza dei paesi membri in seno alla Commissione europea.

In merito al primo argomento il progetto presentato congiuntamente da F. e dal ministro degli esteri francese Dominique de Villepin il 22 novembre 2002 alla Convenzione sulla politica europea di sicurezza e difesa (Gemeinsame Deutsch-französische Vorschläge für den Europäischen Konvent zum Bereich Europäischer Sicherheits- und Verteidigungspolitik, CONV 422/02, contrib. 150, in http://register.consilium.eu.int/pdf/de/02/cv00/00422d2.pdf) prevede la cooperazione delle forze militari dei paesi membri dell’UE e l’istituzione di un’Agenzia europea degli armamenti, in modo da attivare una politica europea comune in tale settore. F. e Villepin auspicano, altresì, che nella futura Costituzione europea sia inserita una parte su “Solidarietà e sicurezza comune” nel paragrafo dedicato ai “Valori”, e inoltre, che venga elaborata una dichiarazione politica con lo stesso titolo per identificare tutti i mezzi per il controllo dei rischi e per la sicurezza (in particolare per quanto concerne la lotta al terrorismo). In tal modo essi mirano al rafforzamento della cooperazione fra gli Stati membri in tre ambiti: l’implementazione delle forze di combattimento internazionali sotto una guida integrata, le decisioni circa gli armamenti e le capacità militari e, infine, l’organizzazione delle risorse umane e l’elaborazione di dottrine di sicurezza comuni. Riguardo a tale cooperazione F. ritiene che le modalità decisionali debbano essere rese certe e sicure – attraverso l’adozione della maggioranza qualificata – e snelle – attraverso la riduzione del numero minimo di Stati partecipanti previsti per renderla operativa. F. definisce la sicurezza globale come un concetto allargato (erweiterer Sicherheitsbegriff) che trova il suo impiego nella risoluzione preventiva delle crisi. La politica di sicurezza europea si pone come complementare all’azione della NATO e non concorrente rispetto ad essa. Secondo la Dichiarazione del governo tedesco al Bundestag sul Consiglio europeo dell’11 dicembre 2003, presentata da F., il fallimento della proposta della Convenzione avrebbe prodotto la distinzione dell’Europa “a più velocità” con l’emergere di un nucleo – la cosiddetta Kerneuropa, formata da Germania, Francia e dai paesi che accettano di proseguire la formazione di un’Europa federale e fondata sulla Costituzione europea, che diventerebbe l’avanguardia del processo di integrazione.

Riguardo al secondo tema, F. propone di adottare il principio della Duplice maggioranza per il Consiglio dei ministri dell’UE, in modo da permettere, tanto agli Stati quanto alla popolazione europea, di incidere nelle decisioni dell’UE attraverso un meccanismo in base al quale una deliberazione è approvata se raccoglie il consenso della maggioranza degli Stati e del 60% della popolazione europea. I vantaggi della doppia maggioranza sono individuati sia nella capacità di rappresentare l’Europa dei cittadini – e quindi non solo l’Europa degli Stati –, sia nel permettere di raggiungere l’equilibrio fra paesi grandi e piccoli, sia, infine, nel ridurre le possibilità di bloccare le procedure decisionali (v. Processo decisionale). Inoltre F. appoggia la riduzione dei componenti della Commissione, i cui membri devono essere limitati a 15 attraverso l’uso di procedure di rotazione, al fine di impedire l’espressione per ogni paese di un commissario con diritto di voto (proposta di Valéry Giscard d’Estaing, presidente della Convenzione).

Le proposte più controverse, discusse sia durante il Vertice dei ministri degli Esteri europei a Napoli il 28 novembre 2003, sia al Vertice dei capi di Stato (v. Vertici) e di governo sul Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa (v. anche Trattati), tenutosi a Bruxelles l’11 e il 12 dicembre 2003 sono le seguenti: l’inserimento di un riferimento esplicito alle radici cristiani dell’Europa nel Preambolo della Costituzione europea; la procedura per assumere decisioni in politica estera (maggioranza qualificata oppure con Voto all’unanimità); la creazione di un Consiglio degli Affari esteri presieduto dal ministro degli Esteri dell’UE; il coordinamento e l’organizzazione della difesa comune attraverso cooperazioni strutturate permanentemente (art. III-213 della bozza); la clausola di mutua difesa; le clausole di revisione costituzionale; la composizione della Commissione (riduzione dei membri); la doppia maggioranza; la riduzione dei poteri di bilancio del Parlamento europeo (v. Bilancio dell’Unione europea). In merito a queste questioni F. manifesta il suo appoggio al principio di sussidiarietà, al criterio della doppia maggioranza, alla proposta di Giscard d’Estaing sulla rotazione dei membri della Commissione ed anche all’elezione, da parte del Consiglio dell’UE, di un presidente europeo che svolga esclusivamente il suo incarico (v. anche Presidenza dell’Unione europea). Inoltre F. è il più convinto assertore della necessità di istituire un ministro degli Esteri europeo, supportato dalle competenze nazionali dei servizi esteri, e che coordini unitariamente la politica estera europea. Tale figura, secondo il ministro tedesco, potrebbe essere prevista anche sulla base dei precedenti accordi “Berlin-plus” fra la NATO e UE, originati dall’emergenza dei conflitti nei Balcani, e non presiederebbe soltanto al coordinamento delle risorse e delle operazioni militari e civili europee, ma rivestirebbe anche un ruolo indispensabile nella prevenzione dei conflitti.

Il vertice dei capi di Stato e di governo del dicembre 2003 non è riuscito ad ottenere il consenso di tutti i paesi sulla questione della doppia maggioranza: Spagna e Polonia si sono opposti alla riduzione del potere decisionale che avevano ottenuto con il Trattato di Nizza, che consente loro di avere 27 membri – solo 2 in meno di Francia e Germania. La divisione dell’Europa in un’UE a due velocità è stata posta con vigore da F. e da Chirac, ma rifiutata dagli altri paesi. Viceversa il progetto caldeggiato da F. di istituire una politica di difesa e sicurezza comune con a capo un ministro degli Esteri europeo è stato accolto e inserito nel Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa e adesso si ritrova, con le medesime competenze ma privato della denominazione con il ritorno alla qualifica di Alto rappresentante, nel Trattato di Lisbona firmata nel 2007 e in corso di ratifica.

Le ragioni che F. indica per invocare la necessità della costituzione di istituzioni europee comuni per la difesa e per la sicurezza sono legate a recenti avvenimenti internazionali, tra i quali risultano emblematici, in un primo momento, l’impotenza manifestata dall’UE nelle recenti guerre consumatesi nei Balcani, e poi l’attacco terroristico alle Torri gemelle e al Pentagono dell’11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti. La posizione politica di F., che appoggia la spedizione militare a guida statunitense in Afghanistan in risposta alla guerra al terrorismo internazionale inaugurata dal presidente statunitense Gorge W. Bush, si rafforza, a seguito di questi cambiamenti, nella convinzione di avviare una politica estera e di difesa. Nell’ambito del dibattito sul ruolo delle Nazioni Unite in questo conflitto, nel suo discorso del 12 novembre 2001 all’Assemblea generale dell’ONU, F. afferma il ruolo essenziale delle Nazioni Unite in Afghanistan, rivolto a creare le condizioni per l’avvio di un processo di pacificazione. Nel dicembre successivo, durante la conferenza internazionale sull’Afghanistan svoltasi a Bonn, pur continuando a sostenere l’intervento militare americano, F. si pronuncia per l’elaborazione di un piano di pace in cui vengano coinvolte tutti gruppi etnici presenti nel paese.

Le reazioni all’attentato terroristico a New York dell’11 settembre 2001 peraltro inaugurano peraltro una nuova e difficile fase diplomatica fra gli Stati Uniti e l’UE. È proprio in questo contesto, in concomitanza anche con una fase di estrema delicatezza e difficoltà delle relazioni fra il mondo occidentale e i paesi arabi, che F. svolge la sua attività più intensa. Sostenitore di una politica estera non in contrasto con la NATO e con la politica internazionale statunitense, F. auspica e persegue parallelamente la formazione di un blocco di Stati europei capaci di allearsi con l’ONU per convincere l’amministrazione Bush dell’utilità del negoziato con l’Iraq e distoglierlo dai preparativi di una guerra. Le ragioni del rifiuto della guerra da parte di F. sono sia umanitarie che geopolitiche. Un’alta probabilità di perdite umane e soprattutto di uccisioni di civili, il rischio di destabilizzazione nell’area mediorientale e, inoltre, la constatazione che, secondo il diritto internazionale, soltanto l’ONU è legittimata ad avviare un intervento armato sono per F. gli elementi essenziali che lo spingono ad assumere una posizione contraria alla guerra in Iraq. A proposito di questo intervento militare F. dichiara infatti che la coalizione internazionale contro il terrorismo non deve tradursi in alcuna «carta bianca per un’invasione di qualsiasi paese». F. cerca una via alternativa alla guerra e propone una soluzione diplomatica che eviti il conflitto armato: nel discorso tenuto di fronte all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 14 settembre 2002 a New York Per un sistema di sicurezza globale cooperativa, sostiene che il sistema di sicurezza internazionale deve basarsi non solo sulla forza militare, ma anche sulla democrazia, sui diritti umani, sull’economia e sulla cultura e sulla risoluzione globale dei problemi di guerra e di povertà.

Alle elezioni nazionali del settembre 2002 i Verdi raggiungono un successo senza precedenti raccogliendo l’8,6% dei voti espressi e ottenendo 55 seggi nel Bundestag. Il 22 ottobre 2002 F., principale fautore del successo ecologista, viene rinominato vicecancelliere e ministro degli Esteri in una riproposta coalizione governativa rosso-verde guidata nuovamente dal socialdemocratico Schröder.

Di fronte alla volontà statunitense di attaccare l’Iraq, nel marzo 2003, durante una conferenza a Parigi, congiuntamente ai ministri degli Esteri francese Villepin e russo Igor Ivanov, F. elabora una dichiarazione comune in cui Francia, Germania e Russia rifiutano la risoluzione che autorizza l’uso della forza. La frattura fra le posizioni dei tre paesi e le decisioni del governo americano di iniziare la guerra in Iraq è resa esplicita. Tuttavia questa iniziativa non è sufficiente a impedire l’inizio delle ostilità. La necessità che l’Europa si presenti compatta come un interlocutore di pari livello rispetto agli Stati Uniti è ribadita nel discorso L’Europa e il futuro delle relazioni transatlantiche pronunciato all’Università di Princeton il 19 novembre 2003. I presupposti di una globalizzazione positiva, che permetta la convivenza di culture e religioni diverse, sono individuati da F. nella diffusione della democrazia e nel multilateralismo che può efficacemente realizzarsi in un’azione concordata tra l’ONU, gli Stati Uniti e l’UE. Solo così, per F., può essere garantita la sicurezza comune e per fare ciò è fondamentale, secondo il ministro tedesco, che anche l’Europa elabori una comune strategia della sicurezza, poiché la stabilizzazione dell’Europa presenta anche per gli Stati Uniti innegabili vantaggi geopolitici. I rapporti transatlantici dovrebbero essere fondati, secondo il ministro verde, sul radicamento di valori basilari (diritti umani, libertà, tolleranza, democrazia, economia sociale di mercato, rispetto del diritto) all’interno degli Stati occidentali, sul rispetto e sul riconoscimento dell’ordine internazionale comune e delle regole giuridiche, i valori comuni, la cooperazione e gli accordi che lo sostengono, e infine, sulla capacità di decisione politica comune e sul ricorso all’impiego di forze militari comuni. In questa visione va inserita la proposta di costituire un quartiere generale militare europeo, indipendente dalla NATO, elaborata nell’aprile 2003 a Bruxelles da Francia, Germania, Belgio e Lussemburgo, in concomitanza con l’inizio della guerra in Iraq, allo scopo di programmare e coordinare gli interventi bellici e di sicurezza. Con le sue proposte, che in parte hanno trovato un significativo riscontro nelle riforme della politica estera europea, sostanzialmente riaffermate anche nel Trattato di Lisbona succeduto alla mancata ratifica da parte di Francia e Paesi Bassi del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, F. si è affermato come un esponente politico di spicco della storia europea contemporanea. Inoltre il suo percorso politico evidenzia l’originalità di un leader che, divenuto il secondo ministro degli Esteri tedesco più longevo del secondo dopoguerra, ha permesso al partito verde tedesco di emergere come forza politica protagonista nella storia politica del suo paese e di quella europea.

Lasciato l’incarico ministeriale nell’ottobre 2005 dopo le elezioni tedesche che hanno portato alla nascita di una “grande coalizione” tra cristiano-democratici e socialdemocratici e hanno visto il ritorno all’opposizione dei Verdi, nelle cui liste è stato rieletto al Bundestag, F. si è dimesso dalla carica di deputato nel 2006. Successivamente F. è docente ospite di politica economica internazionale presso la Woodrow Wilson School of Public and international affairs dell’Università di Princeton negli Stati Uniti tra il 2006 e il 2007 e svolge attività di consulente e negoziatore politico in diversi centri di ricerca e think tank internazionali sulla sicurezza come l’International crisis group, l’European council on foreign relations e The Albright group LLC, costituito dall’ex segretario di Stato statunitense Madeleine K. Albright, oltre che a collaborare con interventi mensili a Project Sindacate, un’associazione internazionale di giornali e riviste volta alla diffusione dell’informazione di qualità (http://www.project-syndicate.org/series/38/description/1).

Patricia Chiantera-Stutte (2007)




Fischler, Franz

Dopo gli studi di agraria all’Università di Vienna, F. (Absam, Innsbruck 1946) nel 1973 cominciò a lavorare come assistente di Economia agraria in questa stessa università dove rimane, dopo aver conseguito il dottorato nel 1978, sino all’anno seguente. Il suo primo coinvolgimento nelle questioni europee risale agli anni Settanta. Quando ancora era studente universitario a Vienna, F. organizzò alcuni incontri per discutere le idee di Sicco Mansholt sulle sovvenzioni all’agricoltura (v. anche Politica agricola comune). Nel 1968 Mansholt, in un memorandum noto come “progetto Mansholt” (v. Piano Mansholt), aveva individuato due obiettivi prioritari: la modernizzazione delle aziende agricole e il miglioramento della trasformazione e della commercializzazione dei prodotti agricoli. In uno di questi dibattiti, in presenza di Günther Tiede, che allora era a capo dell’ufficio di statistica agraria a Bruxelles, gli studenti espressero le loro perplessità sul progetto Mansholt. Ritenevano che l’idea di fornire sovvenzioni solo ad aziende agricole “abbastanza grandi” avrebbe decretato la fine dell’agricoltura alpina. Divenuto responsabile delle questioni relative all’agricoltura sul piano europeo F. si sarebbe “convertito” alle idee di Mansholt (v. Fischler, Hagspiel, 2000, p. 16), ma le regioni alpine gli resteranno sempre particolarmente a cuore.

Lasciata l’università, F. divenne vicedirettore alla Camera dell’agricoltura del Tirolo, occupandosi di cultura e istruzione, di progettazione e di protezione ambientale. In vista dell’ingresso dell’Austria nell’Unione europea nel 1987, l’allora ministro dell’Agricoltura Joseph Riegler – in seguito successore di Alois Mock a capo del Partito popolare (Österreichische Volkspareti, ÖVP) – avviò alcune riforme politiche. Secondo F. le riforme erano solo un modesto punto di partenza che scalfiva appena la struttura estremamente antiquata rimasta in vita durante il dopoguerra. La riforma cercava di ridurre le eccedenze incoraggiando gli agricoltori ad astenersi volontariamente dal fornire interamente le loro quote, compensando i mancati redditi con sovvenzioni dirette – una caratteristica dell’agricoltura peraltro ben nota ai paesi europei. Fino al 1992 la garanzia dei redditi in Europa fu assicurata dalla politica dei prezzi: si cercava di proteggere il livello elevato dei prezzi interni, in modo che la produzione interna non risentisse negativamente dei bassi prezzi delle importazioni. L’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT) – (v. Organizzazione mondiale del commercio) aveva imposto una riduzione delle sovvenzioni interne, dei dazi esterni e delle esportazioni sovvenzionate.

Nel 1985 F. divenne direttore della Camera dell’agricoltura del Tirolo e conservò quest’incarico fino al 1989, quando fu nominato ministro dell’Agricoltura e delle foreste. F. riteneva che dopo le timide riforme avviate dal suo predecessore fossero necessarie decisioni di portata più ampia. Comunque il suo compito principale consistette nel preparare gli agricoltori austriaci all’Adesione all’Unione europea. Specialmente durante il periodo precedente al referendum F. si adoperò per convincere gli agricoltori della positività di questa scelta, esercitando pressioni e negoziando con gli agricoltori per indurli ad accettare riforme molto più radicali al fine di rendere l’agricoltura austriaca idonea ai requisiti dell’Unione europea.

In Austria gli agricoltori potevano contare su un ampio sostegno del resto della popolazione, a differenza di quanto accadeva in altre parti d’Europa. Quindi il referendum austriaco fu deciso in buona parte nella convinzione che l’agricoltura non solo non avrebbe subito perdite, ma sarebbe stata persino avvantaggiata dall’adesione all’Unione europea (UE). Restare fuori all’Unione peraltro sarebbe stato rischioso. Infatti, in caso di insuccesso del referendum, gli agricoltori non solo si sarebbero trovati ad affrontare le rappresaglie del mondo industriale (che voleva fortemente l’adesione), ma anche il malumore del Partito socialdemocratico al governo. Il governo avrebbe potuto sospendere le ingenti sovvenzioni per le eccedenze di produzione se gli agricoltori non avessero più dato il loro sostegno ai socialdemocratici.

Parte degli accordi “interni” riguardava quindi la crescita del PIL atteso dalle organizzazioni industriali, le più favorevoli all’ingresso dell’Austria nell’Unione europea. Di conseguenza F. negoziò una “ridistribuzione” dell’atteso aumento del PIL a favore degli agricoltori, allo scopo di persuaderli a votare per il referendum. Un altro accordo riguardava l’avanzamento della riforma per la trasformazione del latte, un punto molto sensibile. Occorreva cambiare le regolamentazioni in vigore del mercato, il che richiedeva una maggioranza dei due terzi del Parlamento. Quindi si trattava di una sfida molto delicata, dal momento che in Austria l’influente coalizione sociale formata dai rappresentanti delle Camere di commercio, dai presidenti delle Camere dell’agricoltura, dalle Camere del lavoro e dai sindacati aveva preso per anni le decisioni necessarie più o meno al suo interno. In qualità di ministro F. riteneva che le loro decisioni di solito scavalcassero gli intenti del ministero. Nondimeno, di regola, era lui a coordinare tali decisioni insieme al ministro delle Finanze. Il mercato austriaco era organizzato in modo tale per cui gli agricoltori nel corso di decenni avevano prodotto per un mercato interno protetto senza assumersi alcun rischio, mentre ora la riforma esigeva che rinunciassero a questi vantaggi. Malgrado facessero di tutto per opporsi – a quanto pare esisteva anche un progetto segreto per sbarazzarsi di F. – i loro tentativi falliranno.

L’Austria entrò a far parte della UE durante la presidenza alla Commissione europea di Jacques Santer (v. anche Presidente della Commissione europea), che in quel periodo cercava un commissario per l’agricoltura e lo sviluppo rurale. Il capo gabinetto di Santer, Jim Cloos, che conosceva F., propose il suo nome. In principio F. era titubante, preoccupato soprattutto da una burocrazia gestita in una lingua straniera, ma alla fine accettò la proposta, diventando quindi nel 1995 il primo commissario europeo di nazionalità austriaca. Da allora in poi (F. sarà confermato anche sotto la presidenza di Romano Prodi, dopo le dimissioni della Commissione guidata da Santer) conserverà il suo incarico di membro della Commissione europea per l’agricoltura, lo sviluppo rurale e, fino al 1999, anche per la pesca.

Dopo l’ingresso nell’Unione europea dell’Austria si verificarono importanti cambiamenti riguardanti il mercato, la politica dei prezzi e dello sviluppo, l’organizzazione dei mercati agricoli e i rapporti di concorrenza (v. anche Politica europea di concorrenza). Innanzitutto i prezzi diminuirono, in parte più di quanto ci si aspettasse (i prezzi di produzione erano superiori del 40% rispetto a quelli dell’UE), circostanza che penalizzava particolarmente gli agricoltori in quanto l’Austria non aveva avuto un periodo di adattamento. Secondo il resoconto del ministro dell’Agricoltura il prezzo di produzione del latte era diminuito di un terzo (era quindi inferiore a quello della Baviera, che comunque aveva un’industria del latte più efficiente), il prezzo del grano era diminuito della metà rispetto al prezzo precedente, la carne di maiale del 20% e quella di manzo del 17%. Questi divari furono coperti con pagamenti diretti attinti da vari fondi europei. A differenza di quanto avveniva nel sistema austriaco, in genere le aziende di maggiori dimensioni e più avvantaggiate ricevono sussidi maggiori, e ciò favorisce in particolare l’area orientale del paese. Agli occhi degli agricoltori della regione alpina (per la maggior parte nei territori occidentali) ciò appare un paradosso: la distribuzione della spesa agricola va infatti a tutto vantaggio delle aree più ricche e delle aziende più forti. Prima dell’ingresso nella UE i finanziamenti nazionali erano strutturati in senso spiccatamente regionale in ragione delle difficili condizioni di produzione, non in ragione del reddito, al fine di evitare l’abbandono delle zone svantaggiate. Per queste aree tuttavia l’Austria riuscì a ottenere uno speciale aiuto annuale, la cosiddetta “indennità compensativa”, a compenso appunto dei maggiori costi derivanti dalle più difficili condizioni naturali di produzione. Le aziende delle zone montane avrebbero potuto ricevere sovvenzioni per una produzione rispettosa dell’ambiente, ma anche in questo caso indipendentemente dalle dimensioni delle superfici coltivate e senza limiti massimi di produzione.

Assieme ai colleghi austriaci F. cercò di accentuare i criteri sociali e le indennità fondamentali e di ottenere condizioni di favore per gli agricoltori della regione alpina. In contrasto con la tendenza generale a considerare l’agricoltore come un imprenditore, gli agricoltori alpini in quest’ottica sono ritenuti meritevoli di aiuti economici non solo per la loro attività integrativa nell’interazione fra natura e società, ma anche per il loro ruolo nella preservazione del modello di vita del villaggio rurale alpino; si mette quindi in risalto l’importanza multifunzionale degli agricoltori. Poiché nella UE le aree agricole svantaggiate ammontano al 56%, gli aiuti finanziari sono distribuiti in modo generalizzato, senza distinzioni e specificazioni. Tuttavia secondo F. i fondi dovrebbero andare alle regioni realmente svantaggiate attraverso gli aiuti diretti, aboliti nel periodo delle eccedenze. Anche in questo caso, tuttavia, occorre perseguire la modernizzazione e l’incremento di valore delle aziende agricole, in quanto i prezzi non possono essere indipendenti da quelli del mercato globale. I cambiamenti strutturali dovranno portare alla creazione di medie e piccole imprese in quelle regioni, in modo da frenare la disoccupazione agricola con la creazione di nuovi posti di lavoro. Un’altra fonte di reddito alternativo potrebbe essere offerta dal turismo integrato. Secondo F., l’ingresso dell’Austria nella UE non ha portato svantaggi agli agricoltori, anzi a partire dal 1995 i loro redditi hanno avuto un’evoluzione positiva.

Uno dei primi obiettivi della Comunità economica europea è stato quello di creare un mercato comune. Il Mercato unico europeo riguardava specialmente l’agricoltura e il potenziale economico del suo settore alimentare, come dichiarava il Rapporto Cecchini (1985). Ciononostante la politica agraria nei vari paesi si conformava a modelli di mercato di matrice ottocentesca; occorreva quindi procedere ad una armonizzazione degli ordinamenti dei mercati per garantire competitività al mercato unico. Ma i criteri di una Politica agricola comune (PAC) furono concepiti nel 1962, quando la fame e la povertà erano un ricordo ancora molto vivo in Europa, ed erano quindi caratterizzati dalla tendenza ad acquistare tutta la produzione agricola, al fine di assicurare un ampio approvvigionamento di generi alimentari. Ma questo sistema divenne del tutto obsoleto quando gli agricoltori cominciarono a produrre eccedenze che non potevano essere consumate (in particolare di burro e di latte); inoltre esso incoraggiava negli agricoltori la tendenza a non assumere rischi e a non investire nell’innovazione.

Si imponeva urgentemente una riforma della PAC. Nel 1992 la Commissione varava una riforma destinata a far piazza pulita di strutture ormai inadeguate, in parte responsabili delle eccedenze fuori controllo degli anni Ottanta. Si procedette quindi a una riduzione dei prezzi dei prodotti agricoli per adeguarli ai prezzi mondiali. Le conseguenti perdite di profitti sarebbero state compensate da pagamenti diretti. In questo modo si teneva conto anche delle esigenze dei nuovi paesi membri, diversificate a seconda del clima, della conformazione del suolo, della compagine politica e via dicendo. La riforma era quindi un importante passo in avanti nella politica agricola dell’Unione. Ma i prezzi mondiali permanevano molto più bassi rispetto a quelli della UE, per cui secondo alcuni critici (v. Gardner, 1996) la riforma si sarebbe limitata a tamponare il problema delle eccedenze incontrollate degli anni Ottanta. F. tuttavia ribatteva che il principio guida della riforma, consistente nel separare la politica dei prezzi dalla politica del reddito, si era dimostrato giusto, soprattutto per quel che riguardava il reddito degli agricoltori. Non va peraltro dimenticato che all’interno della UE il reddito degli agricoltori è rappresentato per il 40% da pagamenti diretti dell’Unione.

Non appena F. assunse il suo incarico di commissario a Bruxelles si trovò ad affrontare una grave emergenza, connessa all’epidemia di encefalopatia spongiforme bovina (BSE) collegata alla sindrome di Creutzfeld-Jacob (CJD; v. Fischler e Hagspiel, 2000, p. 32). L’agente infettivo dell’encefalopatia spongiforme era stato scoperto solo nel 1990, ed era convinzione diffusa che si trattasse di una forma analoga alla scrapie, una malattia degli ovini nota da oltre due secoli. Poiché fino ad allora la scrapie non si era dimostrata trasmissibile all’uomo, si presumeva che anche l’infezione bovina non fosse contagiosa per l’uomo. Nel 1996 il comitato scientifico britannico pubblicò il suo famoso rapporto sull’encefalopatia spongiforme in cui si affermava che molto probabilmente era causa di una nuova malattia, nota come sindrome di Creutzfeld-Jacob. Questa notizia naturalmente fu un’autentica bomba. I media dipinsero uno scenario apocalittico, prefigurando la morte di 100.000 persone e di 12 milioni di capi di bestiame. Tuttavia il vero problema era quello di stabilire la quantità necessaria perché gli esseri umani fossero infettati. A Charles Weissmann, esperto di prioni, venne chiesto di organizzare le ricerche scientifiche per scoprirlo.

Dietro suggerimento di F., la Commissione vietò l’esportazione di carne del Regno Unito, misura che ebbe come conseguenza una nuova “crisi della sedia vuota”. Nonostante la tempestività delle misure adottate, la loro applicazione richiese più tempo di quanto non si prevedesse e alla fine il divieto di esportazione rimase in vigore per tre anni. La Commissione pubblicò due rapporti sull’encefalopatia spongiforme: First Bi-annual BSE follow-up report – COM(1998) 282 final – e Second bi-annual BSE follow-up report – COM(1998)589 –, con i contributi del vertice di Firenze (1996), in larga parte formulati dallo stesso F.

Il primo Rapporto concerneva l’attività di ricerca necessaria per trovare un test valido per la BSE, nonché le misure da intraprendere a livello europeo per evitare che qualsiasi materiale infetto entrasse nella catena alimentare. La causa della malattia era imputata all’uso delle farine animali nell’alimentazione dei bovini. Si provvide quindi a mettere al bando definitivamente questa pratica nell’Unione europea, evitando, in questo modo, il riciclaggio dell’agente infettante attraverso l’utilizzo di carcasse di bovini malati nella produzione di farine di carne ed ossa destinate all’alimentazione animale. Venne inoltre disposta la distruzione del materiale specifico a rischio per encefalopatie spongiformi bovine e delle proteine animali ad alto rischio. Per quanto riguarda gli aiuti alle vittime, si dovette tener conto delle differenze nazionali. In alcuni paesi erano riconosciuti solo i casi confermati, in altri erano riconosciute malattie simili, in altri erano presi in considerazione solo casi di malattia denunciabili alle autorità sanitarie. Nell’arco di due anni i casi aumentarono anche in seguito ad un’accresciuta consapevolezza tra i medici. Inoltre furono scoperte nuove varianti di CJD (nvCJD), che contribuirono ad accrescere il numero di persone interessate al contagio.

Particolarmente illuminanti risultano i rapporti sull’adempimento del Diritto comunitario. Ovviamente si rendevano necessarie numerose ispezioni e anche procedure che violavano la sovranità degli Stati membri al fine di stabilire un’azione comune prendendo provvedimenti contro la BSE e quindi contro violazioni del diritto comunitario in materia di BSE. Le irregolarità riguardanti il commercio di carne non in regola furono un problema di coordinamento non tanto fra la polizia e le dogane quanto piuttosto fra servizi veterinari e dogane nazionali. L’inefficienza nell’applicare le decisioni (v. Decisione) della Comunità da parte degli uffici veterinari nazionali fu uno dei motivi principali della scarsa incisività della battaglia contro la BSE nei casi in cui la carne contaminata entrò di fatto nella catena alimentare. L’Ufficio europeo per la lotta antifrode per due volte ordinò controlli sul posto da parte del Food and veterinary office (FVO).

Il 27 marzo 1996 la Commissione impose un divieto assoluto di esportazione di animali bovini vivi, delle loro carni e dei prodotti di carne, sego e gelatina, e di alimenti derivati da carne e ossa di mammiferi provenienti dalla Gran Bretagna. L’11 giugno 1996 le esportazioni furono riprese a rigide condizioni. Il 18 marzo 1998 furono esclusi gelatina, fosfati di calcio, collagene, sego, prodotti di sego, e prodotti derivati da sego prodotto in Gran Bretagna da animali macellati in questo paese, vietandone l’uso nella catena alimentare umana ed animale o nella manifattura di prodotti cosmetici, medici o farmaceutici. Furono promulgate leggi per individuare gelatina e altri prodotti, imponendo condizioni più severe in materia di etichettatura, marchi e certificazioni. Nel maggio 1998 fu compiuto il primo passo per revocare il divieto contro la Gran Bretagna. Il bestiame dell’Irlanda del Nord poteva essere esportato dal momento che tutte le condizioni erano state ottemperate e che inoltre era stato creato un sistema informatizzato di rintracciabilità.

Nel secondo Rapporto si dichiarava che l’eliminazione del “materiale specifico a rischio” dagli alimenti e dalla catena alimentare non era stata coronata da successo in quanto era stata ostacolata dal Consiglio dei ministri, che non aveva trovato un accordo su un approccio comune. Di conseguenza le raccomandazioni erano rimaste inefficaci in rapporto alla prevenzione del rischio su base comunitaria. Furono esercitate forti pressioni per un test BSE post mortem e i risultati dei test di convalidazione erano attesi per l’inizio del 1999. Comunque l’emergenza avrebbe contribuito a rendere operanti nuove strutture per i comitati scientifici e sistemi di controlli da parte del FVO, incoraggiando altresì l’ottimizzazione delle strutture esistenti.

Già nel 1993, con il Trattato di Maastricht (art. 129), si era cominciato ad affrontato il tema della tutela della salute pubblica. In un contesto internazionale, insieme con l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) gli accordi Sanitary and phytosanitary measures (SPS) servirono a bloccare le misure protezionistiche in nome del diritto alla tutela della salute. In generale, la sicurezza alimentare diventerà un problema della Comunità piuttosto che dei paesi membri. In seguito al Rapporto Ortega, alcuni mesi dopo il divieto di esportazione per la carne britannica, nel maggio 1997, la Commissione pubblicò un Libro verde (v. Libri verdi) sui principi generali delle normative alimentari nell’Unione europea che faceva tesoro dell’esperienza della BSE. All’epoca del primo Rapporto erano stati raccolti pareri al fine di stabilire azioni future concernenti la normativa alimentare. Nel novembre 1997 fu organizzata insieme al Parlamento europeo una conferenza sulle politiche e sulle normative relative alla sicurezza degli alimenti. F. riteneva che nei consumatori si fosse ingenerata la sfiducia non solo nei confronti della carne bovina, ma più in generale anche nei confronti dei prodotti geneticamente modificati; di conseguenza uno degli obiettivi primari avrebbe dovuto essere quello di riconquistare la fiducia dei consumatori puntando alla sicurezza alimentare. Come si legge nel Rapporto Böge del 1997, la «sicurezza alimentare è più che mai una questione di interesse pubblico vitale, e si deve fare di tutto per recuperare la fiducia dei consumatori, gravemente scossa dalla crisi dalla conseguente alla BSE».

Il problema acquistò ulteriore evidenza a seguito dello “scandalo della diossina” nel 2000. Il successivo Libro bianco (v. Libri bianchi) sulla sicurezza alimentare impose 80 misure relative al cibo animale, alla salute e al benessere, all’igiene, alle contaminazioni, agli alimenti nuovi, agli additivi, agli aromi e all’imballaggio. Era prevista un’Autorità europea per la sicurezza alimentare. Tutte le questioni relative alla sicurezza alimentare sarebbero diventate responsabilità della direzione generale Salute e tutela dei consumatori (SANCO) in Irlanda.

L’Unione europea è la maggiore importatrice e la seconda maggiore esportatrice al mondo nel settore agricolo. A seguito degli accordi raggiunti nell’ottavo incontro dell’Uruguay round del 1993 si rendeva necessario compiere nuovi passi. Di conseguenza l’“Agenda 2000” proponeva ulteriori riforme da attuare entro il 2006. Nell’ambito dell’“Agenda 2000” F. suggeriva nuove misure, indicando nello sviluppo delle aree rurali un secondo obiettivo chiave della PAC.

Per definire l’area rurale fu elaborato un nuovo modello che non faceva riferimento solo alla densità della popolazione ma anche alle unità funzionali e amministrative. Furono definite tre regioni: area rurale integrata, area rurale intermedia, area rurale remota. In queste aree meno favorite (Less favoured areas, LFA) il PIL è più basso dell’8-30% rispetto alla media nazionale, la popolazione è costantemente in calo e la disoccupazione tende ad essere elevata. Dove la popolazione è troppo vecchia, la disoccupazione evidente e la società rurale a rischio, i fondi strutturali avrebbero cercato di creare nuove opportunità di occupazione per gli agricoltori, specialmente nel settore terziario.

F. suggerì ulteriori riforme, proponendo di focalizzare l’attenzione non tanto sulle misure quantitative, quanto piuttosto su quelle qualitative, come la protezione ambientale, la protezione degli animali, la qualità dell’alimentazione, la preservazione delle aree culturali. Queste misure aiutato avrebbero aiutato specialmente le aziende agricole di piccole dimensioni come quelle delle regioni alpine. Tuttavia, queste proposte sollevarono numerose proteste fra le associazioni degli agricoltori. Le sovvenzioni svincolate dalla produzione avrebbero trasformato gli agricoltori in beneficiari della “carità” di Bruxelles, rendendoli troppo dipendenti dalle decisioni politiche della Comunità.

Un’altra sfida per la politica agricola europea era legata all’Allargamento verso Est. F. aveva formulato una strategia presentata nel 1995 al Consiglio europeo di Madrid (Agricultural strategy paper 1995: COM(95) 607), in cui ribadiva che il prezzo dell’integrazione (v. anche Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) sarebbe stato elevato e avrebbe richiesto sacrifici da entrambe le parti, «perché in questo caso non si può agire limitandosi ad inviare esperti e qualche aiuto economico» (v. Fischler, 2000), ma che comunque si trattava di un obiettivo possibile. Nel documento si esprimeva anche la volontà di favorire la coesione sociale ed evitare il divario fra Est e Ovest. Per aiutare i nuovi futuri membri all’adeguamento prima dell’adesione, veniva approntato il programma Special accession programme for agriculture and rural development (SAPARD).

Nei nuovi dieci paesi Central and Eastern European countries (CEEC) il 22% della forza lavoro (9,5 milioni di persone) è occupata nell’agricoltura, contro il 5% nell’Unione europea (8 milioni di persone). Le terre coltivate si amplieranno del 55% aggiungendo all’area agricola dell’Unione quasi 200 milioni di ettari. Le prevedibili eccedenze avrebbero due conseguenze principali: il divario fra il livello dei prezzi della UE e il mercato mondiale resterebbe significativo e i vincoli imposti dall’Organizzazione mondiale del commercio sulle esportazioni sovvenzionate potrebbero impedire all’Unione allargata di vendere le sue eccedenze a mercati terzi. Quindi occorre procedere a una modernizzazione onerosa (in termini di disoccupazione degli agricoltori) per ridurre l’eccesso di capacità produttiva.

Secondo lo Strategy paper del 1995 occorreva ristrutturare le economie rurali in vista della diversificazione. Un aspetto importante sarebbe stata la riduzione del divario dei prezzi e il sostegno al processo di adeguamento strutturale. Di conseguenza, invece di pagamenti diretti una quota significativa della spesa sarebbe stata destinata alle riforme strutturali e allo sviluppo rurale. La politica della PAC sarebbe stata riorientata verso i redditi diretti al fine di rispondere alle esigenze dei candidati, ma anche di evitare una sovracompensazione (e possibili tensioni sociali), in quanto era prevedibile un aumento dei prezzi (e dei redditi) nei Paesi candidati all’adesione dell’Europa centrale e orientale. Un ostacolo a questo processo era costituito dalla sistemazione definitiva dei diritti di proprietà, l’allineamento della legislazione e delle infrastrutture amministrative, i vincoli sul capitale e l’inefficienza del settore a valle.

Nel 1999 la competenza per il settore della pesca si trasferì alla direzione dell’Agricoltura e quindi divenne responsabilità di F. L’equivalente della PAC per la pesca è la Politica comune per la pesca (PCP) e i loro obiettivi sono simili: incremento del reddito e garanzia di uno standard di vita dignitoso per i lavoratori del settore, come pure prezzi regolati garantiti dalla stabilità e dall’approvvigionamento del mercato, sostegno alla non discriminazione fra gli Stati membri e speciale attenzione alla componente ambientale, con particolare riguardo allo sviluppo sostenibile. Entrata in vigore nel 1992, la PCP sarebbe stata operativa con lo schema previsto sino al 2006, con il finanziamento dei fondi strutturali incluso lo Strumento finanziario di orientamento della pesca (SFOP).

Il Libro verde della Commissione metteva in luce una serie di problemi al fine di sollecitare le decisioni necessarie per una migliore gestione del settore. Si riscontra qui un conflitto di obiettivi: sono indispensabili progressi nel settore, ma al tempo stesso occorre mirare a uno sfruttamento sostenibile delle risorse. L’esigenza di modernizzazione si scontra con i vincoli imposti alla pesca e la riduzione della capacità delle flotte non si concilia con la salvaguardia dell’occupazione. Inoltre, l’obiettivo di incrementare il reddito appare difficile da realizzare dovendo ridurre la produzione aumentando parallelamente le importazioni. Lo sfruttamento sostenibile delle risorse acquatiche pone il problema più grave: gli stock ittici, in particolare i merluzzi, hanno superato i limiti biologici di sicurezza, e si rende necessario un mutamento radicale nella gestione della pesca.

Le ragioni sono varie: la sovracapacità delle flotte, il progresso della tecnologia nautica che consente di pescare più del previsto (dal momento che le quote sono applicate alla potenza del motore e al tonnellaggio), la scarsa coordinazione nella gestione delle flotte e delle attività di pesca, l’inefficace applicazione delle decisioni. Inoltre, le quote annuali sono troppo elevate (sono organizzate in base a tetti e misure tecniche delle reti) e sono state anche estese dagli Stati membri al di là dei limiti raccomandati dalla Commissione. Tuttavia non tutti i problemi dipendono da uno sfruttamento eccessivo delle risorse ittiche. L’inquinamento delle acque causato dall’industria e dall’intervento antropico e i cambiamenti climatici si aggiungono ai problemi già esistenti. Si rende quindi assolutamente necessario un programma di salvaguardia delle risorse ittiche, ma il controllo e le sanzioni sono in mano agli Stati membri piuttosto che alla Commissione.

Questo sembra essere il problema principale: la distribuzione di responsabilità fra Stati membri e Commissione. I sistemi di supervisione e di controllo non sono unificati e provocano discrepanze all’interno dell’Unione, specialmente per quanto concerne le sanzioni. Le modalità e l’entità delle sanzioni variano ampiamente all’interno dell’Unione. Le regolamentazioni sono estremamente complesse, il che ne ostacola l’applicazione. Inoltre i controlli sono difficili a causa della dimensione delle maglie delle reti e della cattura contemporanea di varie specie.

Sia i pescatori che gli attori politici non si sentono abbastanza coinvolti nella gestione della pesca, che vedono influenzata dai consiglieri scientifici, e quindi seguono le decisioni molto fiaccamente. La loro esperienza e le loro opinioni devono comunque essere integrate in modo molto più ampio nei programmi di gestione della pesca per garantire fiducia e cooperazione.

Più di ogni altra cosa è necessario un sistema unificato per assicurare parità tra gli Stati membri. Il tentativo di attribuire più poteri ai funzionari della Commissione per il controllo sono stati respinti dagli Stati membri. Le sanzioni in questo modo non possono essere efficaci. Tutto questo significa che alla Commissione è stata assegnata una competenza, ma non il personale né la giurisdizione necessari.

Un aspetto trascurato è la dimensione sociale nell’ambito della pesca. Il bilancio annuale della pesca ammonta a 1,1 milioni di miliardi di Euro e copre investimenti diretti e acquacolture (v. anche Bilancio dell’Unione europea). Inoltre i fondi strutturali sono destinati alle regioni caratterizzate da sottosviluppo e sviluppo adattivo. La PCP avrebbe dovuto aiutare i pescatori ad adattarsi a possibili redditi alternativi, ma non ha avuto successo su larga scala. La Commissione ha dovuto prendere atto del fatto che gli investimenti in sovvenzioni dei decenni precedenti sono stati in certa misura controproducenti. La sovracapacità ha conseguenze negative sul reddito, sulla modernizzazione e sulla competitività. In ogni caso gli aiuti finanziari sono stati immessi in un mercato sovracapitalizzato, con la conseguenza di abbassare artificialmente i costi d’investimento e il rischio. In questo modo la competitività risulta distorta, in quanto negli stessi territori di pesca si trovano a competere flotte sovvenzionate e non sovvenzionate.

Il settore della pesca risulta in costante declino. La diminuzione complessiva del 13% significa una perdita di 60.000 posti di lavoro. Dal 1990-1997 le riduzioni nell’attività di produzione e di trasformazione hanno toccato il 19%. Per contro l’acquacoltura ha mostrato una tendenza all’incremento (+22%), trasformandosi in una fonte di reddito alternativa. Tuttavia, a causa delle condizioni ambientali i prezzi di produzione sono aumentati, riducendo la quota dei fondi destinata alla commercializzazione. La dipendenza dalla pesca è più elevata nelle regioni senza possibilità di redditi alternativi, e secondo alcuni gli investimenti potrebbero aver aumentato questa dipendenza.

La lavorazione del pesce nell’Unione europea soffre di gravi inefficienze. Le aziende sono in gran parte di piccole e medie dimensioni e non si adeguano agli standard richiesti per le materie prime. Alcune aziende si fondono o vengono incorporate da grandi società alimentari che operano a livello regionale o europeo. Questi sviluppi hanno determinato una serie di cambiamenti strutturali che consentono un livello più elevato delle attività di trasformazione e un incremento di valore.

Senza misure e idee nuove le prospettive future e la capacità di sopravvivenza della pesca europea sono destinate a un costante declino. Perciò nel settore della pesca si rende necessario uniformare e aggiornare le regolamentazioni e le sanzioni, assicurando un maggior coordinamento dei controlli. Occorre sviluppare una equa ripartizione delle responsabilità, obiettivi più chiari e regole di gestione efficaci, al fine di rafforzare la considerazione del fattore ambientale ai sensi dell’articolo 174 (CE) sulla tutela dell’ambiente (v. anche Politica ambientale). Ma è necessaria anche una maggior informazione sull’interazione fra ecosistemi e pesca, ed è previsto un piano d’azione per la varietà biologica – COM(99) 363.

Il dicembre 2002 ha rappresentato una svolta significativa per la riforma delle politiche comuni per la pesca. Sono stati decisi piani di gestione pluriennali per garantire redditi più stabili ai pescatori. Sono stati altresì elaborati piani di ricostituzione e misure di conservazione che limitano la quantità massima di pesce che può essere catturata da uno stock specifico nell’arco di un determinato periodo di tempo. Controlli efficaci, trasparenti e armonizzati devono essere messi in atto contro la pesca illegale. Sono state previste altresì misure per fronteggiare il problema della sovracapacità delle flotte. Gli interessati, in particolare i pescatori, dovranno inoltre partecipare maggiormente al processo di gestione della PCP. Un altro piano d’azione è stato messo a punto per vietare sia l’uso di navi con bandiere ombra, sia l’attracco nei porti senza gli adeguati controlli al fine di combattere la pesca di frodo.

Anche dopo le riforme del 1992 la PAC continua a essere oggetto di critiche, poiché incide per quasi il 50% sul bilancio dell’Unione europea, mentre contribuisce solo per il 3% circa al suo PIL. Contro queste critiche F. ritiene che la situazione può essere considerata soddisfacente e che senza la riforma le condizioni degli agricoltori sarebbero peggiori. Si rende tuttavia necessario uno schema di orientamento per il futuro. Con il disegno di legge per l’agricoltura varato dagli Stati Uniti, che fa un passo avanti in direzione dell’abolizione dell’intervento statale nel settore agricolo, si prospetta un’ulteriore liberalizzazione e si preannunciano altri incontri dell’OMC. La separazione della politica dei prezzi dalla politica dei redditi è stato un passo nella direzione giusta, ma l’Europa piuttosto che guardare al GATT dovrebbe concentrarsi sull’obiettivo di rendere competitivi i suoi prodotti agricoli.

Margaret Mantl (2008)