Fohrmann, Jean

F. (Dudelange 1904-Esch-sur-Alzette 1973) dopo aver concluso gli studi scolastici impara il mestiere di fabbro nelle Aciéries Réunies de Burbach-Eich-Dudelange (ARBED), a Dudelange, e lavora nelle ferriere di Glabecq in Belgio fra il 1924 e il 1925.

Fin dalla giovinezza F. è membro del Partito operaio, futuro Partito socialista operaio del Lussemburgo (Parti ouvrier socialiste luxembourgeois, POSL) e aderisce al sindacato dei metallurgici. Nel 1924 entra in contatto con i dirigenti del sindacato operaio, grazie ai quali può iscriversi alla scuola operaia superiore di Bruxelles nel 1925-1926 per studiare economia politica e storia dei movimenti operai.

Tornato nel Granducato, si occupa per sei anni a tempo pieno della segreteria sindacale che ha sede a Esch-sur-Alzette, poi a Rumelange e a Dudelange. Dal 1933 è amministratore delegato della nuova società cooperativa operaia, una carica che manterrà fino al 1938.

Dopo le elezioni legislative del giugno 1934 siede alla Camera dei deputati e assume la carica di sindaco di Dudelange dal 1935, che lascerà al presidente del Consiglio operaio di Dudelange. Come deputato partecipa al dibattito sulla definizione della politica estera del Lussemburgo negli anni Trenta: ritiene che il paese debba rafforzare la sua posizione internazionale ricorrendo al principio della difesa passiva, in quanto la neutralità non lo protegge a sufficienza dalla minaccia di una nuova guerra (v. Kayser, 1997, p. 230). Al tempo stesso F. si sforza di conciliare, senza grande successo, i sindacati operai con la Chiesa cattolica che si oppone strenuamente a questi ultimi. Vota anche contro la legge “museruola”, un progetto avanzato dal governo nel 1937 che si propone di limitare considerevolmente la libertà d’opinione per mantenere l’ordine politico e sociale.

Nel 1937 è nominato segretario della Confédération générale du travail, incarico che manterrà fino al 1954. Comincia anche la sua attività di resistente contro il regime nazista. F. entra così in contatto con la resistenza tedesca e stringe rapporti con il capitano Archen dei servizi segreti francesi, riuscendo a soccorrere un numero considerevole di emigrati social-democratici e di sindacalisti.

Dopo l’invasione del Lussemburgo è imprigionato dai nazisti e il 10 maggio 1940 è evacuato con la famiglia in Francia, ma nel luglio dello stesso anno rientra in Lussemburgo. Nel settembre 1942 è deportato con la famiglia a Leubus in Slesia e a Boberstein. Sarà imprigionato nel campo di concentramento di Gross-Rosen.

Al ritorno dalla prigionia, nel maggio 1945, F. è nominato membro dell’Assemblea consultiva della Camera dei deputati lussemburghesi, e riprende anche la sua attività sindacale.

Alle elezioni del 1946 è eletto trionfalmente al primo posto nella lista socialista: da allora assomma le cariche di deputato e di sindaco di Dudelange fino al 1965. In questo stesso anno è nominato sindaco onorario di Dudelange, che nel corso del suo mandato si è sviluppata diventando una roccaforte socialista.

Mentre è presidente del gruppo parlamentare del POSL, dal 1951 al 1959, F. comincia la sua attività a livello europeo. Partecipa ai negoziati per la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), in seguito è membro e vicepresidente nell’Assemblea consultiva della CECA fra il 1952 e il 1965.

Nel 1953 è nominato direttore del quotidiano socialista “Tageblatt”, incarico che manterrà fino al 1964 e che associa a quello di vicepresidente della Luxembourg American society dal 1954. Sotto la sua direzione il giornale realizza importanti investimenti e si assicura dal 1960 il contributo del giornalista americano Walter Lippmann, restando fedele ai principi socialisti e battendosi contro gli orientamenti antisociali del governo di coalizione cristiano-sociale e liberale dal 1959 al 1964. Nel 1964 F. si dimette per lasciare spazio alle forze nuove del POSL; gli succederà Jacques Poos.

Assume la carica di commissario dell’Alta autorità della CECA, fra il 1965 e il 1967, come rappresentante delle organizzazioni sindacali a livello europeo, succedendo al defunto Paul Finet. Nel 1964 è presidente del gruppo per i problemi sociali, del gruppo politico economico e di riconversione industriale.

Dopo il suo mandato europeo e la fusione degli esecutivi nel 1967, F. torna a proporsi agli elettori lussemburghesi che gli rinnovano la fiducia nelle elezioni del 15 dicembre 1968. Siede di nuovo nel Parlamento europeo e ne diviene vicepresidente. Come deputato lussemburghese continua a occuparsi di politica estera e fa parte della commissione Affari esteri della Camera dei deputati dal 1969.

Difensore convinto e risoluto dell’unità del suo partito, F. entra in conflitto con alcuni dei suoi amici sindacalisti in occasione della crisi e della scissione del POSL nel 1970. Questa scissione – provocata in particolare dalle elezioni nazionali del 1968, in seguito alle quali il POSL rifiuta di partecipare al governo a causa del programma sociale, giudicato insufficiente, e dalle elezioni comunali del 1969, dopo le quali il comitato direttivo del partito chiede di non costituire una coalizione con i comunisti a livello comunale – è di natura ideologica e sfocia nell’abbandono dell’ala moderata del partito, detta pragmatica e realista.

Nel corso della sua vita F. è stato insignito di numerose onorificenze (Grand officier de la Couronne de chêne, Commandeur de la Couronne de Belgique, Commendatore dell’Ordine al merito della Repubblica italiana, di ufficiale dell’Ordine di Orange Nassau, Gran croce dell’Ordine al merito della Repubblica federale di Germania).

Corinne Schroeder (2012)




Fondazione Friedrich Ebert

L’attività svolta da molti think tank e ONG con base in Slovacchia mirata a costruire una democrazia vitale e contribuire all’adesione della Slovacchia all’Unione europea, è stata sostenuta sia sul piano finanziario che a livello di risorse umane da organismi internazionali. Negli ultimi quindici anni la Fondazione società aperta, la Fondazione per lo sviluppo della società civile, il Fondo tedesco Marshall, la Fondazione per l’istruzione “Jan Hus”, il Fondo inglese per il know-how, il Fondo del Canada, l’Istituto internazionale repubblicano e il Servizio informazioni degli Stati Uniti si sono tutti impegnati attivamente, promuovendo progetti in tutto il paese (v. Bútora, Demeš, 1999). Una tra le più attive è stata la Fondazione Friedrich Ebert (Friedrich Ebert Stiftung, FES).

La FES, creata nel 1925 in memoria di Friedrich Ebert, il primo presidente tedesco socialdemocratico e democraticamente eletto, ha tre obiettivi principali: promuovere l’educazione politica e sociale dei cittadini nello spirito della democrazia e del pluralismo; sostenere, attraverso borse di studio, lo studio e la ricerca dei giovani; incoraggiare la comprensione e la cooperazione internazionale. Con un budget di più di cento milioni di euro e sedi operative in più di cento paesi nel mondo, la FES è stata un organismo influente non soltanto in Slovacchia, ma in tutto il mondo.

Dai propri uffici di Bratislava fondati nel 1990, la FES ha cercato di promuovere buone relazioni bilaterali con la Germania e di assistere la Slovacchia (e precedentemente la Cecoslovacchia) nell’adesione alle istituzioni europee (v. anche Istituzioni comunitarie) e transatlantiche, specialmente all’UE. Le radici socialdemocratiche della FES si sono rivelate importanti. Infatti, la Fondazione ha stretto saldi legami con l’Alleanza della sinistra democratica (Sojusz lewicy demokratycznej, SDL), erede del Partito comunista. L’attività della FES unitamente ai forti legami personali tra Peter Weiss, leader dell’SDL dal 1990 al 1996, e i socialdemocratici tedeschi, hanno contribuito a elaborare un programma socialdemocratico per il partito.

La FES, tuttavia, non si è solo limitata a promuovere gli interessi socialdemocratici, bensì è diventata uno dei più influenti finanziatori di seminari e conferenze, molte delle quali hanno avuto come risultato pubblicazioni utili nella diffusione di idee dirette a un pubblico più vasto. L’impatto della FES si è colto soprattutto nella sua volontà a collaborare con altre ONG, specialmente con organizzazioni slovacche formatesi in patria. Collaborava, ad esempio, con altre ONG quali l’Alleanza delle donne e l’Associazione Alexander Dubček, ma ha anche finanziato la Comunità accademica. Negli anni 1998-2002, la conferenza annuale dell’Associazione slovacca di scienze politiche, che ha avuto tra i suoi relatori accademici stranieri di alto profilo, è stata possibile grazie soprattutto agli aiuti della FES. Allo stesso modo, ha contribuito alla formazione della generazione futura di eurocrati slovacchi, provvedendo alle borse di studio degli studenti impegnati in studi sull’Europa presso istituzioni come l’Accademia Istropolitana Nova. Inoltre, si è adoperata per promuovere buone relazioni con i paesi confinanti, attraverso una serie di tavole rotonde come quella slovacco-ungherese a Dunajská Streda nel febbraio 1999.

Per assistere la Slovacchia nel cammino verso l’UE, le due collaborazioni più proficue sono state quelle con l’Associazione slovacca per la politica estera (Slovak foreign policy association, SFPA) e con i dipartimenti governativi. Dalla metà degli anni Novanta in poi, la FES ha finanziato diversi seminari dell’SFPA. Alcuni di questi erano diretti ai politici, come il discorso del primo ministro portoghese António Guterres, intitolato “Il futuro dell’Europa”, tenuto a Bratislava nel 2001. Altri seminari avevano lo scopo di informare un pubblico spesso trascurato, soprattutto fuori Bratislava. Ne è esempio un forum tenutosi a Prešov nell’aprile 1998, nel quale si prendeva in esame l’impatto che l’allargamento dell’UE avrebbe potuto avere sulle relazioni tra Slovacchia e Ucraina.

La FES e il suo impegnato direttore a Bratislava, Michael Petráš, hanno intrecciato buone relazioni con il governo, specialmente dopo il 1998 anche grazie alla presenza nel governo dei politici dell’SDL. In questo caso l’impatto della FES è stato più limitato. Durante i primi due anni di mandato del governo, la FES ha organizzato seminari soltanto nei ministeri guidati da politici dell’SDL, in particolare presso il ministero della Difesa, dove si sono svolti tre seminari sul tema dell’allargamento dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO). L’unica eccezione a questa tendenza è stata una tavola rotonda organizzata nel 2001 con il vice primo ministro per gli Affari delle minoranze, Pál Csáky. Durante le ultime fasi dell’adesione (v. Criteri di adesione), la FES, pur trattando temi più generali, ha anche organizzato seminari specialistici. Nel 2002, ad esempio, la FES ha finanziato seminari sul “Monitoraggio europeo” e sulle implicazioni giuridiche della trasposizione dell’acquis comunitario.

È difficile valutare con precisione l’impatto delle attività della FES, ma si può affermare che è stata una delle ONG più attive in Slovacchia. Alla luce dei numerosi seminari (circa cento soltanto dal 1998 al 2004) e pubblicazioni (un’analoga quantità nello stesso periodo), sarebbe inverosimile pensare che durante il processo di adesione tutto questo non abbia aiutato gli slovacchi sia a comprendere meglio l’UE, che a prepararsi nel migliore dei modi.

Tim Haughton (2012)




Fondazione per lo sviluppo della società civile

Lo sviluppo della società civile nella Repubblica Ceca è stato frenato dall’eredità comunista. La Repubblica aveva avuto nella Charta 77 un importante movimento d’opposizione civile, come era accaduto in Polonia con Solidarność. Comunque le organizzazioni civili nel periodo di transizione non erano numerose. La costruzione o la promozione della società civile divennero in seguito parte della politica del governo e degli strumenti di preadesione all’Unione europea (v. anche Strategia di preadesione; Criteri di adesione). Inizialmente lo sviluppo della società civile dipese in gran parte da donazioni di fondazioni dell’Europa occidentale, legate talvolta a partiti politici oppure a finanziatori privati come George Soros. Come ha osservato Leigh (v., 2003, p. 91), «gli sforzi di queste fonti di sostegno internazionali, inclusa l’Unione europea, sono apparsi in certi momenti nella Repubblica ceca come un sostituto della società civile». Anche la Commissione europea ha svolto un ruolo attivo nella creazione della società civile ceca. Questo ruolo è stato recentemente criticato, in quanto avrebbe reso di fatto la società civile dipendente dai fondi della Commissione. In tal modo lo sviluppo e il controllo della società civile rischiano di diventare una funzione dello Stato che esercita il suo controllo sulla distribuzione delle risorse e quindi del bilancio, oppure di essere prevalentemente guidati dall’esterno attraverso la dipendenza dai fondi di attori stranieri, come le fondazioni occidentali e più direttamente la Commissione europea.

La NROS è stata fondata nella primavera del 1993 come ente giuridico o fondazione. La maggior parte delle attività svolte dalla fondazione consiste nell’assegnare sovvenzioni nel quadro di programmi di stanziamenti individuali per organizzazioni non governative no profit registrate nella Repubblica Ceca, come per esempio associazioni civiche, società pubbliche di beneficenza o istituzioni ecclesiastiche. Per questi programmi la Fondazione riceve risorse sia dall’interno che dall’estero, e si propone di rafforzare lo sviluppo del settore no profit, filantropico e del volontariato, contribuendo al tempo stesso allo sviluppo della società civile e all’integrazione europea. Fin dall’inizio della sua attività la NROS ha amministrato uno dei programmi PHARE (v. Programma di aiuto comunitario ai paesi dell’Europa centrale e orientale) nella Repubblica Ceca – il Civil society development programme – finanziato dai fondi dell’Unione europea. Dal 1993 al 2002 la fondazione ha valutato circa 7300 richieste, tra cui ha sostenuto quasi 2700 progetti con finanziamenti per un ammontare complessivo di oltre 12 milioni di Euro. I progetti finanziati erano soprattutto a lungo termine, introducevano nuove forme di servizi e si concentravano su gruppi di cittadini fino a quel momento trascurati, che venivano coinvolti attivamente nella soluzione di vari problemi. Nei suoi primi anni di vita la Fondazione ha sostenuto un’ampia gamma di attività di organizzazioni no profit. L’obiettivo fondamentale non era soltanto quello di fornire supporto sostegno finanziario a progetti specifici di utilità sociale nelle sfere menzionate, ma soprattutto di rafforzare e sviluppare il settore no profit nella Repubblica Ceca. Per questa ragione la NROS ha focalizzato l’attenzione al sostegno di attività d’informazione e alla formazione di dipendenti e volontari nel settore no profit.

Attualmente NROS si pone quattro obiettivi da realizzare nel quadro dei suoi programmi. Il primo è quello dello sviluppo della società civile e del settore no profit. Si tratta di una priorità fondamentale della fondazione, tradizionalmente finanziata soprattutto dalle risorse dell’Unione europea nel contesto del programma PHARE. Queste risorse finanziano progetti che si pongono l’obiettivo di migliorare i servizi d’informazione e la formazione nella sfera delle organizzazioni no profit.

Il secondo obiettivo riguarda la tutela dei diritti umani e l’integrazione della comunità rom. Il programma è tuttora sostenuto in misura rilevante dall’Unione europea attraverso il programma PHARE. Inoltre, la Fondazione è riuscita ad aggiudicarsi il contributo assegnato dal Fondo della proprietà nazionale, che ogni anno sovvenziona con le sue entrate progetti nell’ambito in questione. La tutela dei diritti umani è diventato un elemento permanente del programma d’attività della fondazione.

I programmi per l’infanzia e i giovani costituiscono la terza priorità del Fondo, che ha assunto un ruolo sempre più significativo in questo campo, ricevendo a questo scopo finanziamenti da fonti sia locali che straniere. Il programma “Help the children!” è oggi la campagna di raccolta di fondi più conosciuta della Repubblica Ceca, e ogni anno riesce a fornire risorse per dozzine di organizzazioni no profit di tutto il paese che si occupano di bambini svantaggiati e maltrattati. Nel quadro del programma “Gabriel”, finanziato dalla fondazione tedesca Robert Bosch, vengono sostenuti progetti che sviluppano le attitudini e le capacità di bambini e giovani e li incoraggiano a investire il proprio tempo libero in modo attivo e costruttivo.

Infine, la Fondazione coopera con una serie di organizzazioni no profit, istituti di istruzione superiore, istituzioni governative, mondo dei media e degli affari. Oltre a essere uno dei membri fondatori del Forum ceco dei donatori, la NROS è rappresentata nel Consiglio governativo per le organizzazioni non governative no profit.

Christian C. van Stolk (2012)




Fondo di coesione

Il Fondo di coesione della Comunità economica europea (CEE) è stato istituito nel 1993 (regolamento CE n. 1164/94 del Consiglio, del 16 maggio 1994; “Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee” L 130 del 25 maggio1994) a favore dei quattro Stati membri dell’Unione europea meno prosperi (Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna) per finanziare progetti in materia d’ambiente e nei settori delle infrastrutture e dei trasporti. Con questi interventi il Fondo contribuisce allo sviluppo sostenibile degli Stati interessati e al rafforzamento della coesione dell’Unione europea. Attualmente il Fondo è disciplinato dal regolamento CE del Consiglio n. 1264/99 del 21 giugno 1999 (che modifica il regolamento CE n. 1164/1994) e dal regolamento CE del Consiglio n. 1265/1999 del 21 giugno 1999 (che modifica l’allegato II del regolamento CE n. 1164/1994; GUCE L 161 del 26 giugno 1999), la cui vigenza è prevista sino al 31 dicembre del 2006.

Nel periodo 1993-1999 i quattro paesi citati hanno beneficato complessivamente di un aiuto di 16,7 miliardi di Euro. Nel periodo 2000-2006 il Fondo di coesione dispone di 18 miliardi di euro. Le percentuali di finanziamento assegnate a ciascun paese membro sono le seguenti: per la Grecia dal 16% al 18%; per l’Irlanda dal 2% al 6%; per il Portogallo dal 16% al 18%; per la Spagna dal 61% al 63,5%.

Per usufruire delle risorse del Fondo di coesione gli Stati membri devono avere un PIL inferiore al 90% della media comunitaria e seguire un programma volto a soddisfare le condizioni di convergenza economica di cui all’articolo 104 del Trattato che istituisce la Comunità europea (v. Trattati di Roma).

Le domande di aiuto per i progetti, trasmesse dagli Stati membri alla Commissione europea, devono contenere l’indicazione dell’organismo responsabile, la descrizione del progetto, i costi, l’ubicazione e la tempistica del progetto e la valutazione dell’impatto sull’occupazione e sull’ambiente. I progetti devono garantire vantaggi sociali ed economici ed essere conformi alle politiche comunitarie.

I progetti sono adottati dalla Commissione di concerto con lo Stato membro beneficiario di regola entro 3 mesi dalla ricezione della domanda. Il tasso di cofinanziamento comunitario dei progetti, che in generale oscilla tra l’80% e l’85% delle spese pubbliche, può essere ridotto per tenere conto della capacità del progetto di generare entrate o del principio “chi inquina paga”.

Silvia Vaccaro  (2008)




Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia

Il Fondo europeo agricolo di orientamento e di garanzia (FEOGA) è lo strumento di bilancio dell’UNIONE EUROPEA destinato al finanziamento della POLITICA AGRICOLA COMUNE (PAC). Istituito nel 1962, l’anno di avvio della PAC, il Fondo costituisce una parte considerevole del bilancio comunitario dell’Unione (v. BILANCIO DELL’UNIONE EUROPEA). È gestito dalla COMMISSIONE EUROPEA assistita da un apposito comitato nel quale sono rappresentati gli Stati membri. I pagamenti delle spese vengono effettuati da “organismi pagatori” designati dalle autorità nazionali. La Commissione mette a loro disposizione i mezzi finanziari necessari mediante il versamento di anticipi mensili calcolati sulla base degli esborsi effettuati in un periodo di riferimento. Per quanto riguarda l’ITALIA, l’organismo pagatore è l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura (AGEA) del ministero per le Politiche agrarie e forestali.
Il FEOGA è suddiviso in due sezioni: la sezione “garanzia” e la sezione “orientamento”. La sezione garanzia finanzia innanzitutto le tre categorie di misure che sono contemplate dalla prima delle due grandi componenti in cui si articola la PAC, cioè dalla “politica dei prezzi e dei mercati”. Le misure in questione sono: gli aiuti diretti agli agricoltori; i sussidi all’esportazione di prodotti agricoli verso i paesi terzi (restituzioni); gli interventi volti a regolarizzare e a riequilibrare i mercati (ad esempio, l’acquisto ad opera di speciali organismi pubblici di quantitativi eccedentari di prodotti quali cereali, carne bovina, burro o latte in polvere; gli aiuti allo stoccaggio privato di questi e di altri prodotti; la distillazione dei vini in eccesso, i sussidi a talune industrie alimentari affinché acquistino materie prime agricole ottenute nell’Unione e corrispondano ai produttori livelli di prezzo convenienti).
Entrambe le sezioni del Fondo partecipano invece al finanziamento della vasta gamma di misure che rientrano nel quadro della seconda grande componente della PAC, cioè della “politica di sviluppo rurale”. In particolare, la sezione garanzia finanzia le “indennità compensative” di cui beneficiano le aziende situate in montagna e nelle zone svantaggiate; il ritiro anticipato degli agricoltori al di sopra dei 55 anni di età; i programmi agro-ambientali diretti a promuovere pratiche agricole rispettose dell’ambiente. Dal canto suo, la sezione orientamento finanzia l’iniziativa comunitaria LEADER, il programma sperimentale di sviluppo delle aree rurali lanciato nel 1991 e giunto ormai alla sua terza edizione, programma che mira a valorizzare l’intero tessuto socioeconomico di queste aree facendo leva sul coinvolgimento degli organismi locali privati e pubblici sin dalla fase di scelta delle azioni da realizzare.
Inoltre, le due sezioni del Fondo si ripartiscono a seconda dei territori le spese per le misure restanti di questa seconda componente della PAC. Si tratta degli aiuti a favore degli investimenti nelle aziende agrarie e per il miglioramento delle attività di trasformazione e di commercializzazione, dei sussidi all’installazione dei giovani agricoltori e ai servizi di formazione, degli aiuti al settore forestale, degli aiuti volti a migliorare la qualità dei prodotti e le condizioni di allevamento degli animali, a promuovere le attività non agricole connesse all’agricoltura quale, ad esempio, il turismo rurale. La sezione orientamento finanzia queste azioni nelle regioni in ritardo di sviluppo (nel caso dell’Italia, in gran parte del Mezzogiorno); la sezione garanzia, invece, nei territori rimanenti dell’Unione. Inoltre, questa sezione finanzia talune azioni nel settore veterinario (programmi di eradicazione e di monitoraggio di malattie animali, ad esempio) e nel settore fitosanitario.
È da osservare che mentre le spese originate dalle predette tre categorie di misure della “politica dei prezzi e dei mercati” sono a totale carico del FEOGA, per le spese legate alle misure previste dalla POLITICA DI SVILUPPO RURALE nonché per quelle veterinarie e fitosanitarie il finanziamento comunitario è solo parziale e varia a seconda delle misure e delle aree fra il 15% e il 75%.
Alla metà degli anni Ottanta il FEOGA assorbiva oltre il 70% del bilancio comunitario. Nel corso dei due decenni successivi questa aliquota è venuta diminuendo grazie alla cosiddetta “disciplina di bilancio”, istituita dal CONSIGLIO EUROPEO di Bruxelles del 1988 e tuttora in vigore, che impone ai ministri dell’Agricoltura di mantenere il tasso di aumento della spesa agricola al di sotto del tasso di crescita del bilancio generale dell’Unione. Il volume di risorse attribuite al FEOGA ha comunque mantenuto la sua posizione di assoluta preminenza (v. tab. I).

Tabella I. Il FEOGA nel quadro finanziario dell’Unione per il periodo 2000-2006.
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2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006
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bilancio generale (miliardi di euro)

89,60 91,11 98,36 101,59 100,80 101,60 103,84

di cui, PAC/FEOGA (miliardi di euro)

40,92 42,80 43,90 43,77 42,76 41,90 41,66

PAC/FEOGA su bilancio generale

45,7% 47,0% 44,6% 43,1% 42,4% 41,3% 40,1%
______________________________________________________________________

Fonte: Consiglio europeo di Berlino, Conclusioni della Presidenza, marzo 1999.

Come si vede, l’agricoltura assorbe ogni anno ben oltre 40 miliardi di euro anche se il suo peso nel bilancio generale si situa ormai al di sotto del 45%. E la parte largamente preponderante di tale enorme volume di risorse finanziarie del FEOGA viene assorbita dalla sua sezione garanzia per fronteggiare i bisogni della sola componente “prezzi e mercati” della PAC:

Tabella II. Ripartizione delle spese FEOGA tra politica dei prezzi e dei mercati e politica di sviluppo rurale.
(periodo 2000-2006)
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2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 totale
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sezione garanzia-prezzi e mercati (miliardi di euro)

36,62 38,48 39,57 39,43 38,41 37,57 37,29 267,37

sezioni garanzia e orientamento-sviluppo rurale (miliardi di euro)

4,30 4,32 4,33 4,34 4,35 4,36 4,37 30,37

totale PAC (miliardi di euro)

40.920 42.800 43.900 43.770 42.760 41.930 41.600 297.64

% prezzi e mercati su totale PAC

89,5 89,9 90,1 90,0 89,8 89,6 89,5 89,8
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Fonte: Consiglio europeo di Berlino, Conclusioni della Presidenza, marzo 1999.

Per il periodo 2000-2006 le prospettive finanziarie dell’Unione assegnavano dunque alla componente “prezzi e mercati” il 90% del totale delle risorse della PAC. Nell’esercizio 2004 la spesa effettiva per questa componente è coincisa nella sostanza (38,3 miliardi di euro) con quella prevista indicata nel quadro qui sopra e si è così ripartita fra le tre categorie di misure: aiuti diretti, 29,8 miliardi di euro (77,8% del totale); interventi sui mercati, 5,1 miliardi di euro (13,3%); restituzioni all’esportazione, 3,4 miliardi di euro (8,9%).
Gli aiuti diretti assorbono dunque più dei tre quarti del totale della spesa agricola. Ma quello che mette conto rilevare è che le grandi colture a seminativo (i cereali, essenzialmente) sono le grandi beneficiarie di questo enorme flusso di risorse.
L’apporto di queste colture al volume complessivo della produzione agricola comunitaria è dell’ordine del 14%. Ebbene, dei 29,8 miliardi distribuiti nel 2004 sotto forma di aiuti diretti ben 17,1 sono andati a questo comparto produttivo. In altre parole, le grandi colture a seminativo ricevono il 57% del volume di risorse destinate agli aiuti diretti ovvero il 45% dell’intera spesa della componente “prezzi e mercati agricoli”. Ancora, questo significa che solo per i cereali e i semi oleosi l’Unione spende oltre il 15% del suo bilancio generale. Il secondo grande beneficiario degli aiuti diretti è il comparto della carne bovina: 7,8 miliardi di euro nel 2004, ovvero il 25% del totale, mentre la sua aliquota nella produzione agricola complessiva dell’Unione supera di poco il 10%.
Come era da attendersi, la forte posizione di preminenza delle grandi colture a seminativo e della carne bovina nella distribuzione degli aiuti diretti, si riflette sulla ripartizione fra i vari paesi delle risorse finanziarie del FEOGA, avvantaggiando i paesi che forniscono l’apporto più elevato al totale comunitario di questi comparti. Il caso della FRANCIA è al riguardo esemplare. L’agricoltura francese si vede assegnata la frazione più alta dell’intera spesa del FEOGA – 9,3 miliardi di euro su un totale di 44,8 miliardi nel 2004 – ma è anche l’agricoltura che fornisce in assoluto l’apporto più elevato al volume totale dei prodotti in questione: 35% del frumento comunitario, 37% del mais, oltre il 40% dei semi oleosi, 20% dell’orzo e poco meno del 30% della carne bovina. Allo stesso modo, non deve sorprendere il fatto che l’Italia si situi solo al quarto posto nella distribuzione del flusso di spesa del FEOGA (5,0 miliardi di euro nel 2004) anche se il paese è preceduto solo dalla Francia per quanto riguarda il suo contributo alla produzione complessiva dell’agricoltura dell’Unione. Il fatto è che l’agricoltura italiana appare relativamente debole proprio nell’apporto ai due comparti che si dividono l’80% degli aiuti diretti, cioè di quello che a seguito della riforma della PAC del 1992 è diventato di gran lunga il più importante capitolo della spesa agricola comunitaria. L’Italia, infatti, produce il 10% del frumento e dei semi oleosi, il 4% dell’orzo, il 13% della carne bovina dell’Unione.
Si è ricordato all’inizio che il FEOGA è lo strumento mediante il quale l’Unione finanzia la sua Politica agricola comune. A decorrere dal I° gennaio 2007, le due sezioni del FEOGA hanno dato vita a due Fondi distinti: un Fondo europeo agricolo di garanzia (FEAGA) e un Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale (FEASR).

Claudio Guida (2008)




Fondo Europeo di Sviluppo

Il Fondo europeo di Sviluppo è uno degli strumenti della politica comunitaria di cooperazione allo sviluppo il cui scopo è quello di sostenere la crescita economica dei c.d. “paesi in via di sviluppo”, ossia di quei paesi in cui il livello del prodotto nazionale lordo non è sufficiente a generare un’accumulazione di capitale tale da procedere allo sviluppo dei diversi settori economici.

Il FES fu introdotto nel Trattato istitutivo della Comunità economica europea del 1957 (v. Trattati di Roma), agli articoli 131 e 136, con l’obiettivo specifico di fornire aiuti tecnici e finanziari ai paesi africani, all’epoca ancora colonizzati, e con i quali alcuni Paesi membri hanno avuto legami storici.

Inizialmente rivolta quasi esclusivamente agli ex territori coloniali degli Stati firmatari dei trattati istitutivi delle Comunità (ex possedimenti francesi, belgi, italiani e olandesi), la Politica europea di cooperazione allo sviluppo (e, nello specifico, il FES) si è progressivamente ampliata a pressoché tutti gli Stati dell’Africa sub sahariana, Caraibi e Pacifico (ACP), nonché ai paesi delle Regioni ultraperiferiche dell’Unione europea (RUP), (c.d. PTOM). Questi ultimi dipendono costituzionalmente da quattro Stati dell’Unione europea (Danimarca, Francia, Paesi Bassi e Regno Unito), ma non fanno espressamente parte del territorio comunitario. Per la loro particolare posizione geografica e politica, beneficiano di un’Associazione stretta alla Comunità fin dalle origini. Il particolare regime di associazione che lega la Comunità ai paesi e territori d’oltremare è dettato dalla Decisione 2001/822 CE del Consiglio, in vigore fino al 2011.

Il FES non fa parte del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) generale, sebbene, dietro esplicita richiesta del Parlamento europeo, dal 1993 al FES è stato riservato un apposito titolo nel bilancio.

Il FES è finanziato dagli Stati membri della Comunità, dispone di regole finanziarie proprie ed è diretto da un comitato specifico.

Il bilancio del FES viene deciso in sede di Consiglio, attraverso appositi accordi che devono poi essere ratificati dai singoli Parlamenti nazionali degli Stati membri. Ciascun FES ha una durata di circa cinque anni. Dalla conclusione della prima Convenzione di partenariato con i Paesi ACP nel 1964, i cicli del FES hanno seguito la durata degli accordi o delle convenzioni di partenariato stesse. Storicamente, si sono avuti i seguenti FES:

– primo FES: 1959-1964;

– secondo FES: 1964-1970 (Convenzione di Yaoundé I) (v. Convenzioni di Yaoundé);

– terzo FES: 1970-1975 (Convenzione di Yaoundé II);

– quarto FES: 1975-1980 (Convenzione di Lomé I) (v. Convenzioni di Lomé);

– quinto FES: 1980-1985 (Convenzione di Lomé II);

– sesto FES: 1985-1990 (Convenzione di Lomé III);

– settimo FES: 1990-1995 (Convenzione di Lomé IV);

– ottavo FES: 1995-2000 (Convenzione di Lomé IV e sua revisione IV bis).

Nell’ambito del primo FES, gli interventi comunitari prevedevano un regime di associazione – basato su accordi bilaterali – destinato a promuovere lo sviluppo economico degli ex territori coloniali e a sostenerli nel loro cammino verso l’indipendenza tramite i finanziamenti a fondo perduto del FES destinati alla realizzazione di progetti infrastrutturali. Successivamente, nel 1963 e nel 1969, gli stati africani e malgascio associati concludevano una convenzione di associazione alla Comunità (Convenzione di Yaoundé I), sostituita nel 1975 dalla I Convenzione di Lomé, rinnovata nel 1979 (II Convenzione di Lomé), nel 1984 (III Convenzione di Lomé) e nel 1989 (IV Convenzione di Lomé). Il sistema istituito dalla Convenzione di Lomé, per come rinnovata nel tempo, si basava su strumenti diversi, che andavano dalla cooperazione commerciale (basata su agevolazioni tariffarie), a quella finanziaria (con strumenti che assicuravano un contributo della Comunità ai paesi ACP per il tramite del FES) e tecnica (basata su incentivi vari), nell’ambito di un regime di reciprocità di impegni fra Comunità e paesi ACP (regime preferenziale).

Tra i vari strumenti finanziari elaborati nel FES e previsti dalle singole convenzioni di partenariato, vi erano anche STABEX e SYSMIN, programmi volti ad aiutare, rispettivamente, i settori agricolo e minerario, ad oggi soppressi, dopo la firma dell’Accordo di Cotonou.

Scaduta nel 1999 la IV Convenzione di Lomé, il 23 giugno del 2000 è stato infatti firmato a Cotonou un nuovo accordo tra Comunità e Stati membri, da una parte, e Paesi ACP, dall’altra parte, entrato in vigore il 1° aprile 2003 per una durata ventennale, sebbene siano previste revisioni ogni cinque anni.

Tale accordo rappresenta una fase di svolta nella regolamentazione dei rapporti fra Comunità e paesi ACP, introducendo importanti innovazioni rispetto al passato.

Alla luce dei comprovati limiti del metodo di gestione delle risorse finanziarie delle precedenti convenzioni e vista soprattutto la necessità di adattarsi agli sviluppi internazionali quali la globalizzazione e l’evoluzione tecnologica, nonché ai profondi cambiamenti sociali intervenuti nei paesi ACP, l’Accordo di Cotonou punta a creare un approccio per la cooperazione completamente nuovo, perseguendo gli obiettivi della riduzione e, in prospettiva, l’eliminazione della povertà e la progressiva integrazione dei paesi ACP nell’economia mondiale, nel pieno rispetto di uno sviluppo sostenibile. Il nuovo approccio dell’Accordo di Cotonou punta altresì a rafforzare la dimensione politica, nonché a garantire agli Stati ACP una nuova flessibilità, attribuendo loro maggiori responsabilità.

I punti principali dell’Accordo di Cotonou con i paesi ACP sono:

  1. il rafforzamento del dialogo politico basato sul rispetto dei Diritti dell’uomo, dei principi democratici e dello stato di diritto e sul buon governo;
  2. la promozione della partecipazione della società civile e degli attori del settore economico e sociale;
  3. la previsione di strategie di sviluppo per la riduzione della povertà;
  4. l’intensificazione della cooperazione economica e commerciale: il regime delle preferenze sarà progressivamente sostituito da nuovi accordi basati sull’abolizione progressiva e reciproca degli ostacoli agli scambi commerciali al fine di creare grandi aree regionali di libero scambio con esclusione dei paesi ACP più poveri.
  5. La riforma della cooperazione finanziaria, attraverso una revisione degli strumenti del FES.

Con riferimento all’ultimo punto, va osservato che contestualmente alla firma dell’Accordo di Cotonou (2000/483 CE), è stato concluso il nono FES (2000-2005), il quale si è dotato di un importo di 13,5 miliardi di Euro per un periodo di cinque anni, a cui vanno ad aggiungersi le rimanenze dei FES precedenti, che ammontano a oltre 9,9 miliardi di euro, con l’obiettivo finale di integrare le economie dei paesi ACP nell’economia mondiale.

 

Al fine di semplificare e rendere più flessibili i finanziamenti, l’Accordo di Cotonou introduce una razionalizzazione degli strumenti della cooperazione, con particolare riferimento al FES.

I vari strumenti di cui era composto il FES sino alla scadenza della IV Convenzione di Lomé (gli aiuti non rimborsabili, i capitali a rischio, i prestiti al settore privato, strumenti specifici quali STABEX e SYSMIN) vengono ridotti a due, semplificando notevolmente la materia:

  1. Aiuti non rimborsabili; questi aiuti in totale ammontano a 11,3 miliardi di euro del nono FES, di cui 1,3 miliardi sono riservati ai programmi regionali. Sono gestiti congiuntamente dalla Commissione europea e dagli Stati beneficiari. Ogni paese riceve un importo forfetario e rientrano, tra i potenziali beneficiari, accanto agli ACP, anche i paesi e territori d’oltremare;
  2. Fondo investimenti; questo nuovo strumento, che dispone di 2,2 miliardi di euro del nono FES, sarà gestito dalla Banca europea per gli investimenti (BEI), la quale potrà investire sotto forma di prestiti, di fondi propri e di quasi fondi propri, e fornire garanzie a sostegno di investimenti privati interni ed esteri.

Anche il sistema di programmazione degli aiuti concessi dalla Comunità viene con l’Accordo di Cotonou completamente rivisto, accrescendo la responsabilità degli Stati ACP, in termini di definizione degli obiettivi, delle strategie, degli interventi e nella gestione e selezione dei programmi.

Con l’entrata in vigore dell’Accordo di Cotonou, il processo di programmazione si basa essenzialmente sui risultati. Gli aiuti finanziari non rimborsabili precedentemente concessi non sono più un diritto automatico, ma vengono assegnati in base a una valutazione delle effettive necessità e delle prestazioni di un determinato paese. In quest’ottica, sulla base di criteri precedentemente negoziati e concordati fra Comunità e Stati ACP/PTOM, si valuterà il maggiore o minore progresso di quel Paese in termini, ad esempio, di riforma istituzionale o di riduzione della povertà, al fine di valutare il maggiore o minore merito dell’aiuto.

Per la programmazione degli aiuti non rimborsabili è stata introdotta la “strategia di cooperazione nazionale” (SCN); tale strategia verrà elaborata per ogni Stato dalla Commissione europea e dallo Stato stesso. La SCN fisserà un orientamento generale per l’utilizzo degli aiuti economici e sarà accompagnata da un programma operativo, che specificherà le singole operazioni e il loro calendario di esecuzione. Ogni anno sarà effettuata una revisione della strategia di cooperazione e del programma operativo, che eventualmente suggerisca i necessari aggiustamenti. Il volume delle risorse assegnate al paese interessato può quindi essere adeguato di conseguenza.

In tempi recenti, in vista della revisione del bilancio comunitario e della definizione delle prospettive finanziarie per il periodo 2007-2013, la Commissione europea ha raccomandato in diverse occasioni l’opportunità di iscrivere nel bilancio dell’Unione europea gli aiuti concessi ai paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico, nonché ai paesi e territori d’oltremare nel quadro del Fondo europeo di sviluppo. Ciò permetterebbe, secondo quanto affermato dalla Commissione, «di aumentare il controllo pubblico, la trasparenza e l’efficacia degli aiuti e di renderli più flessibili e adattabili alle realtà sul campo» (COM 2003/590 def.).

Sempre secondo quanto affermato dalla Commissione, a sostegno della propria tesi, «con l’estensione delle relazioni esterne dell’Unione, la conclusione di accordi di cooperazione con numerose altre regioni e l’aumento dell’importo di bilancio destinato agli aiuti esterni, un finanziamento separato per i paesi ACP non costituisce più un privilegio ma piuttosto un inconveniente». In quest’ottica, «con l’iscrizione in bilancio del FES, il finanziamento della cooperazione UE-ACP diventerebbe più indipendente rispetto a contributi volontari soggetti a punti di vista nazionali e fornirebbe migliori prospettive di continuità. Per gli Stati membri, ciò significa che la cooperazione finanziaria con i paesi ACP avverrà realmente a livello comunitario». Infine, vi sarebbe anche maggiore legittimità degli aiuti comunitari, evidenza la Commissione, laddove l’estraneità del FES al bilancio comunitario, oggi, esclude tale voce di spesa dal controllo esercitato dal Parlamento europeo.

Raffaele Torino (2009)




Fondo europeo di sviluppo regionale

Introduzione

Il Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR) è uno strumento finanziario comunitario istituito nel 1975 con il compito di contribuire alla correzione dei principali squilibri esistenti nella Comunità economica europea, partecipando allo sviluppo e all’adeguamento strutturale delle regioni in ritardo di sviluppo nonché alla riconversione delle regioni industriali in declino.

Per circa dieci anni il FESR ha operato nel tentativo di ridistribuire alle regioni meno sviluppate e prospere della Comunità europea una parte dei contributi finanziari degli Stati membri. Tuttavia, la mancanza di una politica specifica finalizzata alla coesione economica e sociale, coordinata e coerente con le altre politiche comunitarie, ha reso poco efficace l’opera del Fondo strutturale.

L’Atto unico europeo del 28 febbraio 1986 (“Gazzetta ufficiale delle Comunità europee” L 169 del 29/06/87) ha posto le basi di un’effettiva Politica di coesione destinata a controbilanciare i vincoli del Mercato unico europeo nei paesi del Sud dell’Europa e nelle altre regioni meno prospere. Al FESR l’Atto unico attribuisce il ruolo di principale strumento finanziario finalizzato al conseguimento di uno sviluppo armonioso dell’insieme della Comunità.

Per conseguire l’obiettivo della coesione economica e sociale il Consiglio europeo di Bruxelles del febbraio 1988 ha stabilito di modificare i meccanismi di funzionamento del FESR. Tale revisione è stata realizzata con i regolamenti CEE del Consiglio n. 2052/88 del 24 giugno 1988 (GUCE L 185 del 15/7/88), n. 4253/88 e n. 4254/88 del 19 dicembre 1988 (ibid., L 374 del 31/12/88). Adottati nel luglio del 1988, tali regolamenti sono stati modificati nel 1993 con i regolamenti CEE del Consiglio n. 2081/93, n. 2082/93 e n. 2083/93 del 20 luglio 1993 (ibid., L 193 del 31/07/1993) e nel 1999 con il regolamento CEE del Consiglio n. 1260/1999 del 21 giugno 1999 (ibid., L 161 del 26/06/1999) e il regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio dei ministri n. 1783/1999 del 17 maggio 1999 (ibid., L 160 del 26/06/1999). La riforma del 1999 ha definito gli obiettivi e le modalità di funzionamento del FESR per un periodo di sette anni, dal 2000 al 2006. Le risorse attribuite al FESR per questo periodo sono destinate a finanziare gli investimenti produttivi finalizzati a creare o salvaguardare posti di lavoro durevoli; gli investimenti nelle infrastrutture per sviluppare nelle aree meno prospere dell’Unione europea l’economia locale e integrare le regioni, in particolare quelle periferiche, nel quadro delle Reti transeuropee (trasporti, telecomunicazioni, energia) e per diversificare le zone d’insediamento economico e le zone industriali in declino; rinnovare le aree urbane degradate e rilanciare e integrare le zone rurali e le zone dipendenti dalla pesca. Il Fondo è destinato altresì a promuovere e a sostenere le iniziative di sviluppo locale e le seguenti attività: creazione di servizi alle imprese (gestione, studi e ricerche di mercato e servizi comuni a varie aziende); trasferimento tecnologico (raccolta e diffusione dell’informazione, organizzazione comune di imprese e istituti di ricerca nonché attuazione dell’innovazione aziendale); facilitazione dell’ accesso delle aziende al finanziamento e al credito; creazione di infrastrutture di dimensioni ridotte destinate ai servizi locali; aiuti agli investimenti; sviluppo di strutture di servizi per la creazione di nuovi posti di lavoro.

I settori che il FESR contribuisce a finanziare sono i seguenti: l’ambiente produttivo locale (soprattutto in termini di infrastrutture) per sviluppare la produttività e la competitività delle piccole e medie imprese e aumentare la capacità locale di attrarre investimenti produttivi; la ricerca e lo sviluppo tecnologico; lo sviluppo della società dell’informazione; il turismo e gli investimenti culturali; la protezione e il miglioramento dell’ambiente; lo sviluppo delle reti locali, regionali e transeuropee nei settori dei trasporti, delle telecomunicazioni e dell’energia; la parità occupazionale tra uomini e donne.

Nell’ambito delle regioni comunitarie in ritardo di sviluppo il FESR cofinanzia anche investimenti per l’istruzione e la sanità e interventi in tutto il territorio dell’Unione riguardanti la cooperazione transfrontaliera, transnazionale e interregionale – nell’ambito del programma Interreg III (v. Programma d’iniziativa comunitaria) – nonché il risanamento economico e sociale delle città e delle zone suburbane in crisi (nell’ambito del programma Urban II).

Il FESR finanzia infine azioni di assistenza tecnica e azioni innovatrici (studi, progetti pilota e scambi di esperienze) nel campo dello sviluppo regionale o locale.

I principi su cui si fonda l’azione del FESR

L’azione del Fondo si basa sui seguenti principi: concentrazione, programmazione, partenariato e addizionalità.

Il primo principio risponde all’esigenza di evitare finanziamenti a pioggia, concentrando le risorse comunitarie disponibili su un numero limitato di obiettivi e di priorità d’intervento. Per il periodo di programmazione 2000-2006 la normativa comunitaria concentra le azioni del FESR su due obiettivi prioritari: l’Obiettivo 1 e l’Obiettivo 2.

L’Obiettivo 1 è finalizzato alla promozione dello sviluppo e all’adeguamento strutturale delle regioni meno prospere dell’Unione europea. Si tratta della principale priorità della Politica di coesione sulla quale sono concentrate i 2/3 delle risorse a disposizione del FESR. Rientrano in questo Obiettivo le regioni con un prodotto interno lordo pro capite inferiore al 75% della media comunitaria; le regioni della Finlandia e della Svezia; le regioni ultraperiferiche (dipartimenti francesi d’oltremare, isole Canarie, Azzorre, Madera). Per il periodo 2000-2006 sono interessate dall’Obiettivo 1 una cinquantina di regioni comunitarie, di cui sei italiane (Sardegna, Sicilia; Calabria, Basilicata, Puglia, Campania. Al Molise, che ha superato la soglia del 75% del PIL comunitario, è stato attribuito per il periodo 2000-2006 un sostegno transitorio).

L’Obiettivo 2 intende promuovere la riconversione economica e sociale delle aree comunitarie, siano esse industriali, rurali, urbane o dipendenti dalla pesca, che presentano difficoltà strutturali. Queste zone, pur appartenendo a regioni il cui livello di sviluppo si colloca attorno alla media comunitaria, presentano vari tipi di difficoltà socioeconomiche e spesso anche alti tassi di disoccupazione. Queste difficoltà possono essere originate da un mutamento di settori dell’industria o dei servizi, da un declino delle attività tradizionali nelle zone rurali, da una situazione di crisi dell’ambiente urbano, oppure ancora da una situazione di crisi nel settore della pesca.

L’Obiettivo 2 riguarda complessivamente il 18% della popolazione europea e il 13% di quella italiana. Per individuare le aree interessate dall’Obiettivo 2 si utilizzano vari criteri. Per le zone industriali, i parametri sono un tasso di disoccupazione superiore alla media comunitaria, una percentuale di occupazione industriale superiore alla media comunitaria e una flessione dell’occupazione industriale. Per le zone rurali, almeno due dei seguenti quattro criteri combinati: una densità di popolazione inferiore a 100 abitanti/km2 o un tasso di occupazione in agricoltura uguale o superiore al doppio della media comunitaria, un tasso di disoccupazione superiore alla media comunitaria o una diminuzione della popolazione. Per le zone urbane si fa riferimento a uno dei seguenti cinque requisiti: un tasso di disoccupazione di lunga durata superiore alla media comunitaria, un elevato livello di povertà, un ambiente particolarmente degradato, un elevato tasso di criminalità, un basso livello di istruzione. Per le zone dipendenti dalla pesca, infine, si utilizza come criterio un tasso di occupazione elevato nel settore della pesca e una forte diminuzione dei posti di lavoro nello stesso settore.

Con il principio della programmazione si intende garantire che la scelta degli interventi da attuare sia il risultato di un’attenta attività di pianificazione che consenta di definire le strategie d’intervento e di individuare gli obiettivi, le risorse e le linee d’intervento da inserire in specifici programmi. Tutti gli elementi contenuti in ciascun programma devono essere coerenti tra loro e con la finalità dello sviluppo economico e sociale.

La programmazione del FESR ha inizio con la presentazione, da parte degli Stati membri, di Piani di sviluppo o di riconversione. I Piani devono essere trasmessi alla Commissione europea entro 4 mesi dalla definizione dell’elenco delle zone ammissibili.

Ogni Piano deve comprendere un’analisi della situazione regionale relativa all’obiettivo considerato, un’analisi delle esigenze prioritarie, la strategia e le priorità di azione, un piano finanziario indicativo.

Il Piano viene redatto dalle autorità responsabili designate dallo Stato membro, previa consultazione di tutti i partner istituzionali e socio-economici interessati.

Per tutte le regioni che rientrano nell’Obiettivo 1 la Commissione europea definisce, sulla base del piano presentato dallo stato membro, un Quadro comunitario di sostegno (QCS).

il QCS comprende la strategia e gli assi prioritari d’intervento, gli obiettivi specifici (quantificati per quanto possibile), la valutazione dell’impatto atteso, un piano finanziario indicativo (con separata dotazione per le zone in sostegno transitorio), le disposizioni di attuazione, comprese la designazione dell’autorità di gestione e le disposizioni per la partecipazione delle parti economiche e sociali.

Il QCS è di norma attuato da Programmi operativi (PO), ognuno dei quali deve comprendere gli assi prioritari d’intervento del Programma stesso, gli obiettivi specifici quantificati per quanto possibile, la valutazione dell’impatto atteso, la descrizione sintetica delle misure previste, un piano finanziario indicativo e, infine, le disposizioni per l’attuazione del PO, in particolare, la designazione dell’autorità di gestione, le modalità di gestione del Programma, la descrizione delle modalità di controllo e di valutazione, le procedure di circolazione delle risorse.

Il finanziamento alle regioni dell’Obiettivo 2 è concesso tramite Documenti unici di programmazione (DOCUP). Il DOCUP, che assicura il coordinamento dell’insieme degli aiuti strutturali comunitari, contiene la descrizione della strategia e degli assi prioritari d’intervento, la valutazione dell’impatto atteso, una descrizione sintetica delle misure previste per realizzare le priorità, un piano finanziario indicativo e le disposizioni di attuazione del DOCUP (autorità e modalità di gestione, sistemi di monitoraggio e valutazione, circolazione delle risorse finanziarie).

Ogni autorità responsabile adotta infine un documento, denominato Complemento di programmazione, il quale comprende le misure di attuazione delle priorità d’azione, la valutazione ex ante con i relativi indicatori di sorveglianza, i beneficiari finali delle misure, il piano finanziario per misura e il tasso di partecipazione del Fondo, le modalità di finanziamento dello stesso, le modalità previste per garantire la pubblicità del programma e la descrizione delle modalità per lo scambio informatizzato di informazioni utili al monitoraggio fra lo Stato membro e la Commissione europea.

Modalità di intervento finanziario

Il FESR può finanziare spese connesse a un insieme di lavori economicamente indivisibili il cui costo superi i 50 milioni di Euro. Questa tipologia d’intervento è denominata “grande progetto”.

Lo Stato membro che prevede la partecipazione del FESR a un “grande progetto” deve rivolgersi alla Commissione europea, comunicando l’organismo responsabile dell’attuazione e descrivendo l’investimento e il piano finanziario, i tempi di esecuzione, i costi/benefici, l’impatto ambientale, gli elementi necessari alla valutazione del rispetto delle regole della concorrenza. Nel caso di interventi infrastrutturali, vanno fornite anche indicazioni relative alle norme comunitarie (v. anche Diritto comunitario) sugli appalti pubblici, mentre nel caso di investimenti produttivi deve essere allegata l’analisi delle prospettive di mercato del settore interessato. In entrambi i casi, vanno specificati gli effetti diretti e indiretti sulla situazione occupazionale.

Un’altra modalità d’intervento è rappresentata dalla “sovvenzione globale”. Si tratta di un intervento la cui attuazione e gestione possono essere affidate a uno o più intermediari (enti locali, organismi di sviluppo regionale, organizzazioni non governative, ecc.) da utilizzare prevalentemente per iniziative di sviluppo locale. Lo Stato membro che decide di fare ricorso alla sovvenzione globale, d’intesa con la Commissione europea, deve definirne le modalità di utilizzazione sulla base di un accordo con l’organismo intermediario interessato. L’intermediario deve soddisfare le seguenti condizioni: essere presente o rappresentato nella zona in questione, essere investito di una missione di interesse pubblico, essere dotato della solvibilità e della capacità amministrativa e finanziaria necessarie, avere una esperienza pluriennale nei settori in questione e coinvolgere in maniera adeguata gli ambienti socioeconomici direttamente interessati alle misure previste. Nell’ambito dell’accordo citato vengono specificati le misure da attuare, i criteri di scelta dei beneficiari, le condizioni e l’aliquota di contributo del FESR, le modalità di sorveglianza, valutazione e controllo finanziario e l’eventuale ricorso a una garanzia bancaria.

Il principio del partenariato implica una stretta concertazione tra la Commissione, lo Stato membro, le autorità regionali e locali e le altre autorità competenti, le parti economiche e sociali e gli altri organismi competenti (compresi gli organismi attivi nel capo dell’ambiente e della promozione della parità tra uomini e donne) nell’attività di preparazione e realizzazione degli interventi di sviluppo. Spetta a ciascuno Stato membro, nell’ambito del proprio sistema istituzionale, giuridico e finanziario, scegliere e designare le parti più rappresentative a livello nazionale, regionale e locale o altro e provvedere a un loro pieno coinvolgimento al pertinente livello territoriale. Il partenariato è condotto nel pieno rispetto delle competenze istituzionali, giuridiche e finanziarie di ciascuno dei partner.

La concertazione si sviluppa in tutte le fasi del processo: dalla preparazione al finanziamento alla sorveglianza alla valutazione degli interventi. Gli Stati membri infatti presentano i piani dopo aver consultato i partner, inserendo nei piani stessi le loro valutazioni e le disposizioni adottate per associarli. A sua volta la Commissione europea tiene conto dei pareri espressi dai partner. QCS e DOCUP devono prevedere disposizioni per l’associazione dei partner, mentre i PO devono indicare i ruoli e le responsabilità dei partner nel monitoraggio e nella valutazione degli stessi programmi.

La concertazione si realizza anche nell’ambito dei Comitati di sorveglianza, organismi previsti per ciascun Quadro comunitario di sostegno, Documento unico di programmazione e Programma operativo. Ogni Comitato ha il compito di assicurare l’efficacia e la qualità dell’attuazione dell’intervento, di deliberare gli orientamenti strategici e le priorità di intervento e assicurarne la coerenza con le politiche nazionali e comunitarie, di esaminare i risultati dell’attuazione a livello di misure e di realizzare la valutazione intermedia, nonché di proporre la revisione dell’intervento.

Il Comitato di sorveglianza è composto dall’Autorità responsabile dell’attuazione degli interventi (Autorità di gestione) che lo presiede, dai partner che partecipano al finanziamento (e che hanno diritto di voto), dagli altri partner (senza diritto di voto), da rappresentanti della Commissione europea, anch’essi con un ruolo consultivo e senza diritto di voto.

Infine, il principio dell’addizionalità è finalizzato ad assicurare un reale impatto economico degli stanziamenti del FESR, che non devono sostituirsi alle spese a finalità strutturale pubbliche o assimilabili dello Stato membro. Per fare ciò, Commissione e Stato membro stabiliscono il livello di tali spese che lo Stato membro deve mantenere nel corso del periodo di programmazione. Il livello deve essere pari almeno all’importo delle spese medie annue raggiunto nel periodo precedente di programmazione e tenere conto delle condizioni macroeconomiche generali e di situazioni economiche specifiche. Per quanto riguarda le regioni interessate dall’Obiettivo 1, tale livello si riferisce alle spese a finalità strutturale, mentre per quanto attiene l’Obiettivo 2 la Commissione e lo Stato membro interessato stabiliscono il livello delle spese da destinare alla politica attiva a favore del mercato del lavoro da mantenere a livello nazionale nel corso del periodo di programmazione 2000-2006. I diversi livelli sono stabiliti prima delle varie decisioni della Commissione di approvazione dei vari Documenti di programmazione (QCS e DOCUP). Nel corso del periodo di programmazione per l’Obiettivo 1 l’addizionalità viene sottoposta a una verifica ex ante, a una verifica intermedia e a una verifica finale da svolgersi entro il 31 dicembre 2005.

Gli interventi strutturali sono finanziati contestualmente (cofinanziamento) dal FESR e da risorse nazionali, pubbliche e private. La partecipazione del FESR è modulata in funzione di alcuni elementi: la gravità dei problemi specifici (in particolare regionali o sociali), la capacità finanziaria dello Stato membro, l’interesse che gli interventi e gli assi prioritari rivestono dal punto di vista comunitario, nazionale o regionale, le caratteristiche proprie del tipo di intervento, l’impiego ottimale delle risorse finanziarie nei piani di finanziamento.

La partecipazione rispetta comunque alcuni limiti: per quanto riguarda le regioni dell’Obiettivo 1, il 75% al massimo del costo totale ammissibile e, di norma, almeno il 50% delle spese pubbliche ammissibili. Per quanto riguarda invece le zone dell’Obiettivo 2 il tetto è fissato al 50% al massimo del costo ammissibile e, di norma, almeno al 25% delle spese pubbliche ammissibili. Nel caso di investimenti nelle imprese, la partecipazione del FESR rispetta i massimali di intensità dell’aiuto e di cumulo decisi in materia di aiuti di Stato: in ogni caso, tale partecipazione non può superare il 35% del costo totale ammissibile nelle regioni dell’Obiettivo 1 e il 15% del costo totale ammissibile nelle zone dell’Obiettivo 2. Una maggiorazione fino a un massimo del 10% può essere concessa per investimenti nelle piccole e medie imprese, ma in caso di forme di finanziamento diverse dagli aiuti diretti. Nel caso di investimenti in infrastrutture generatori di entrate nette consistenti, la partecipazione non può superare il 40% del costo totale ammissibile nelle regioni dell’Obiettivo 1, e il 25% del costo totale ammissibile nelle zone dell’Obiettivo 2.

Gestione finanziaria degli interventi

La gestione finanziaria degli interventi cofinanziati dal FESR si effettua tramite impegni e pagamenti, sulla base della decisione relativa alla partecipazione dello stesso Fondo. Gli impegni per gli interventi di durata pari o superiore a due anni sono assunti annualmente: il primo impegno è assunto quando l’esecutivo comunitario adotta la decisione di approvazione dell’intervento, mentre quelli successivi sono assunti di norma entro il 30 aprile di ogni anno. La quota di un impegno che non è stata liquidata mediante acconto o che è sprovvista di domanda di pagamento ammissibile è disimpegnata automaticamente dalla Commissione. Quest’ultima informa comunque in tempo utile lo Stato membro ogniqualvolta sussista il rischio di applicazione del disimpegno automatico. Il pagamento, da parte della Commissione è eseguito in conformità dei corrispondenti impegni di bilancio e ha come destinataria l’autorità di pagamento incaricata dallo Stato membro. Tale pagamento può assumere la forma di acconto di pagamento intermedio o di saldo: gli ultimi due si riferiscono alle spese effettivamente sostenute, confortate da adeguati documenti giustificativi. All’atto del primo impegno, la Commissione versa all’autorità di pagamento un acconto pari al 7% della partecipazione del Fondo all’intervento medesimo. Per i successivi pagamenti intermedi, l’Esecutivo comunitario rimborsa le spese effettivamente sostenute e certificate dall’autorità di pagamento. Gli Stati membri fanno in modo di raggruppare (per quanto possibile) le domande di pagamento intermedio inoltrandole alla Commissione tre volte l’anno; l’ultima domanda dell’anno deve essere presentata entro il 31 ottobre. Il saldo viene erogato in presenza di una dichiarazione certificata (da parte dell’autorità di pagamento) delle spese effettivamente pagate, della approvazione da pare della Commissione della relazione finale di esecuzione e della trasmissione da parte dello Stato membro all’esecutivo comunitario di tutta la documentazione necessaria per il controllo finanziario.

Per il periodo di programmazione 2007-2013 la Commissione europea ha avanzato una serie di proposte di riforma del funzionamento del FESR che puntano a migliorare due settori principali. In primo luogo, si provvede a rafforzare la dimensione strategica della politica di coesione per integrare meglio le priorità comunitarie nei programmi di sviluppo nazionali e regionali. In secondo luogo, si intende favorire un maggiore impegno in loco a favore della politica di coesione attraverso un dialogo intensificato nell’ambito dei partenariati tra Commissione, Stati membri e regioni e una condivisione più chiara e decentrata delle responsabilità in settori quali la gestione e il controllo finanziario. Le proposte mirano altresì a una suddivisione più precisa delle competenze tra Commissione, Stati membri e Parlamento.

Le proposte della Commissione europea mantengono i principi basilari su cui si basa l’intervento del FESR: una programmazione pluriennale che garantisca una sufficiente durata e concentrazione a livello comunitario, un ampio ed efficace partenariato tra soggetti che intervengono a differenti livelli, l’addizionalità e il cofinanziamento fondato sulla complementarità tra aiuti comunitari e nazionali, la valutazione del rendimento e della qualità in tutte le fasi del processo.

Priorità e obiettivi del FESR: convergenza, competitività, cooperazione

Per quanto riguarda la concentrazione degli interventi, le proposte della Commissione individuano tre obiettivi prioritari sui quali il FESR è chiamato ad intervenire: l’obiettivo “Convergenza”, l’obiettivo “Competitività regionale e occupazione” e l’obiettivo “Cooperazione territoriale europea”.

L’obiettivo Convergenza, simile all’attuale Obiettivo 1, mira ad accelerare la convergenza economica delle regioni meno avanzate e a creare condizioni più propizie alla crescita e all’occupazione, favorendo gli investimenti nelle persone e nelle risorse fisiche, lo sviluppo dell’innovazione e della società della conoscenza, l’adattabilità ai cambiamenti economici e sociali, la tutela dell’ambiente e l’efficienza amministrativa. Questo obiettivo svolgerà un ruolo indispensabile soprattutto nei nuovi Stati membri, in cui si registrano divari di sviluppo senza precedenti nella storia dell’Unione.

L’obiettivo Convergenza riguarderà le regioni con un prodotto interno lordo pro capite inferiore al 75% della media dell’Unione europea allargata. Tale situazione interesserà principalmente la maggior parte dei nuovi Stati membri. Al fine di consolidare i progressi conseguiti nell’ambito dei precedenti periodi di programmazione del FESR, sino al 2013 è previsto un sostegno transitorio specifico, a carattere decrescente, per le regioni che supereranno la soglia del 75% del prodotto interno lordo a causa dell’effetto statistico dell’Allargamento.

Per l’obiettivo Competitività regionale e occupazione la Commissione propone un duplice approccio. Si tratterà, da un lato, di rafforzare la competitività e l’attrattiva delle regioni attraverso programmi di sviluppo regionale, anticipando i cambiamenti economici e sociali e sostenendo l’innovazione, la società della conoscenza, l’imprenditorialità, la protezione dell’ambiente e la prevenzione dei rischi. Dall’altro, mediante programmi nazionali o territoriali di livello adeguato, si tenderà a potenziare l’adattabilità dei lavoratori e delle imprese nonché a garantire lo sviluppo di mercati del lavoro per rafforzare l’inclusione sociale, in linea con la strategia europea per l’occupazione. L’obiettivo Competitività svolgerà un ruolo essenziale per evitare l’insorgere di nuovi squilibri a svantaggio di regioni che, altrimenti, verrebbero penalizzate da fattori socioeconomici sfavorevoli senza poter contare su sufficienti aiuti pubblici.

Le regioni non ammissibili ai programmi di convergenza potranno beneficiare dell’obiettivo Competitività. Gli Stati membri dovranno stilare la lista delle regioni per le quali intendono presentare un programma da cofinanziare a titolo del FESR; la precedente ripartizione in zone dell’attuale Obiettivo 2 sarà pertanto soppressa. Le regioni dell’attuale Obiettivo n. 1 che nel 2007 non saranno più ammissibili all’obiettivo Convergenza in virtù dei loro progressi economici fruiranno di un sostegno transitorio specifico a carattere decrescente, erogato a titolo dell’obiettivo Competitività sino al 2013, per consolidare i risultati raggiunti.

Nell’ambito dell’obiettivo Cooperazione territoriale europea, che trae spunto dall’esperienza dell’iniziativa comunitaria Interreg, la sfida consiste nell’intensificare la cooperazione a tre livelli: cooperazione transfrontaliera mediante programmi congiunti; cooperazione a livello delle zone transnazionali; reti di cooperazione e di scambio di esperienze sull’intero territorio dell’Unione. L’obiettivo Cooperazione favorirà uno sviluppo equilibrato, armonico e sostenibile del territorio europeo. La cooperazione transfrontaliera interesserà le regioni situate lungo i confini terrestri interni e talune frontiere terrestri esterne, nonché alcune regioni ai confini marittimi.

Rispetto ai singoli assi prioritari dei programmi operativi, il contributo del FESR alla spesa pubblica, che non potrà essere inferiore al 20%, sarà limitato ai seguenti massimali: 75% nell’ambito dell’obiettivo Convergenza, 50% nel quadro dell’obiettivo Competitività, 75% per l’obiettivo Cooperazione.

La proposta, tuttavia, introduce anche una serie di importanti innovazioni volte a garantire una maggiore efficacia della politica di coesione. In primo luogo, viene adottato un approccio più strategico in materia di programmazione, incentrato sugli “Orientamenti strategici della Comunità per la coesione”, sulle priorità della Commissione e sui nuovi “Quadri nazionali di riferimento strategico”. Questi documenti di riferimento sostituiranno gli attuali Quadri comunitari di sostegno (QCS), i documenti unici di programmazione (DOCUP) e i complementi di programmazione. Ognuno di essi, descrivendo in modo sintetico la strategia dello Stato membro e le principali operazioni che ne derivano, costituirà un documento politico per l’elaborazione dei programmi operativi e la gestione degli interventi sarà effettuata esclusivamente a livello di tali programmi.

In materia di gestione finanziaria saranno introdotti tre importanti elementi di semplificazione. In primo luogo, i pagamenti e la gestione finanziaria saranno effettuati a livello delle priorità e non più a livello delle misure. Inoltre, il contributo comunitario sarà calcolato esclusivamente in base alla spesa pubblica. Infine, le norme di ammissibilità delle spese saranno soggette in larga misura alle disposizioni nazionali e non più comunitarie, ad eccezione di un numero limitato di aree quali l’IVA, che continuerà a non essere ammissibile. Per quanto riguarda i controlli, verrà accordata maggiore fiducia ai sistemi nazionali di controllo finanziario e di certificazione delle spese qualora gli Stati membri siano i principali contribuenti finanziari e la Commissione abbia ottenuto la garanzia dell’affidabilità di tali sistemi, in particolare affidandosi al parere di un ente revisore indipendente. Questo nuovo Principio di proporzionalità consentirà alla Commissione di ridurre il numero di controlli e di revisioni contabili a suo carico. I meccanismi di correzione finanziaria ad opera della Commissione saranno applicati in modo progressivo. In caso di dubbi sul corretto funzionamento dei sistemi di gestione e controllo o sulla regolarità delle operazioni, il termine di pagamento potrà essere sospeso e sui versamenti intermedi potrà essere applicato un diritto di ritenzione del 20%; nei casi di maggiore gravità, i pagamenti potranno essere sospesi in parte o integralmente. Gli Orientamenti strategici della Comunità per la coesione, i Quadri di riferimento strategici nazionali e i programmi operativi saranno soggetti a valutazione. Il regolamento generale definisce le specifiche responsabilità degli Stati membri e della Commissione per le valutazioni ex ante ed ex post.

Sulla base delle proposte presentate dalla Commissione europea, l’Italia ha elaborato un primo Documento strategico che individua le principali priorità di sviluppo per il periodo di programmazione 2007-2013, al cui finanziamento dovrà partecipare anche il Fondo europeo di sviluppo regionale.

Un primo asse di intervento riguarda quattro priorità determinanti per tutte le aree del paese e a cui la politica regionale può dare un contributo essenziale: ricerca e innovazione, capitale umano, ambiente, modernizzazione dei mercati e delle istituzioni pubbliche. Meritocrazia, selettività/valutazione, forte legame fra ricerca/innovazione e istruzione/formazione sono le parole chiave di questa linea di intervento esposte nel documento. In particolare, nei confronti delle imprese sarà necessario promuovere la formazione e il rinnovamento organizzativo.

Un secondo asse di intervento riguarda due priorità indispensabili per il Mezzogiorno, perché necessarie a un balzo del suo sviluppo, ma la cui attuazione deve essere primariamente affidata alla politica nazionale, ordinaria, potendo la politica regionale, aggiuntiva, integrarla e rafforzarne l’impatto, non certamente sostituirla: la sicurezza e l’inclusione sociale, nonché le reti infrastrutturali e logistiche.

Il Documento nazionale propone un terzo asse d’intervento che riguarda le tre dimensioni territoriali dell’azione pubblica: città, sistemi produttivi, aree rurali.

Il Documento sostiene la necessità di rilanciare la vocazione e l’attuazione territoriale della politica regionale, comunitaria e nazionale assicurando una forte integrazione fra scale diverse di programmazione: locale, di area vasta, nazionale e internazionale, aprendo il livello locale all’apporto di competenze esterne forti (università, banche, gestori di multi-utilities, mediatori di flussi internazionali di turismo), e infine assicurando una maggiore e più efficace mobilitazione del partenariato e delle avanguardie locali attorno a obiettivi monitorabili.

Silvia Vaccaro (2007)




Fondo europeo per gli investimenti

Il Fondo europeo per gli investimenti (FEI), con sede in Lussemburgo, è un organismo di diritto comunitario istituito nel 1994, al quale partecipano la Banca europea per gli investimenti (BEI, socio di maggioranza), la Comunità economica europea (CEE, rappresentata dalla Commissione europea) e un certo numero di istituti bancari degli Stati membri. La natura comunitaria di questo organismo può essere desunta dai seguenti elementi. La sua costituzione è stata prevista dall’art. 30 dello statuto della BEI, ossia da una norma comunitaria di rango primario. Inoltre, esso beneficia delle immunità e dei privilegi concessi dal relativo Protocollo (n. 36) allegato al Trattato istitutivo della Comunità europea (v. Trattati di Roma) (in seguito denominato il Trattato). Infine, la Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) è competente a giudicare in merito alle dispute relative alle misure adottate dagli organi del Fondo.

Il FEI è stato integrato nell’ordinamento giuridico comunitario (v. Diritto comunitario) per mezzo di un processo decisionale sui generis, costituito da tre successivi atti volitivi di natura diversa. In primo luogo, la previsione contenuta nel suddetto art. 30, che ha autorizzato la sua costituzione e che deve essere equiparata ad una norma del Trattato (v. anche Trattati). In secondo luogo, la deliberazione del consiglio dei governatori della BEI, che ha deciso la costituzione del Fondo e ha approvato il relativo statuto. Infine, l’atto formale di costituzione dell’organismo, rappresentato dall’accordo societario sottoscritto dai suoi membri.

Si tratta cioè di un complesso di atti che solo in parte rivestono il carattere di norma comunitaria, poiché il consiglio dei governatori della Banca non ha poteri legislativi. Pertanto, il processo di costituzione del FEI è il risultato di una commistione di aspetti istituzionali di natura pubblica e privata che impedisce di collocare con precisione l’organismo nel contesto degli ordinamenti degli Stati membri. In particolare, è difficile determinare l’ambito di applicabilità delle norme nazionali nei confronti dei limiti di responsabilità previsti dallo statuto del Fondo. Invece, è legittimo supporre che a questo siano applicabili i principi comuni ai diritti degli Stati membri.

In conclusione, in base al suddetto art. 30 il FEI è dotato di personalità giuridica sia di Diritto comunitario sia di diritto interno, anche se non è definito l’ambito di rispettiva competenza dei due sistemi normativi. Inoltre, lo stesso art. 30 riconosce al Fondo una piena autonomia finanziaria. Per contro, considerato che la compagine associativa non è composta da Stati, si deve ritenere che il Fondo non ha il carattere di organismo internazionale.

Lo statuto stabilisce i compiti, l’assetto patrimoniale, la struttura organizzativa e le regole di comportamento del Fondo, con una particolare attenzione alla sua relazione nei confronti della BEI. Poiché non si tratta di norme comunitarie, eventuali modifiche dello statuto non richiedono complesse procedure legislative. Tuttavia, non è del tutto chiaro se a tal fine vale la regola del menzionato art. 30, secondo la quale spetta al consiglio dei governatori della Banca di stabilire lo statuto del Fondo, oppure quella prevista dall’art. 34 dello statuto del FEI, che delega all’assemblea generale la competenza in materia di modifiche statutarie. Comunque, è interessante osservare che la versione aggiornata dello statuto è stata approvata dall’assemblea generale il 19 giugno 2000 (“Gazzetta ufficiale delle Comunità europee” del 10/8/2001 n. C 225/0).

Il FEI ha il compito di contribuire al perseguimento di obbiettivi comunitari negli Stati membri, nei paesi in attesa di aderire all’Unione europea e nei paesi limitrofi, attraverso la concessione di capitale di rischio o di garanzie intese a facilitare il ricorso al credito bancario. Per adempiere a questo compito, esso opera, con fine di lucro, sulla base di sani principi commerciali. I fondi all’uopo necessari sono forniti dal capitale versato oppure sono reperiti sul mercato. Il capitale non versato svolge invece una funzione di garanzia nei confronti delle obbligazioni vantate dai creditori del Fondo. Pertanto, il versamento del capitale sottoscritto e non ancora versato può avvenire solo nella misura necessaria per far fronte alle suddette obbligazioni. Inoltre, lo statuto avverte che i membri del FEI non rispondono di tali obbligazioni al di là del capitale non versato.

La qualità di membro del FEI dipende dalla partecipazione al suo capitale. La misura di tale partecipazione determina le prerogative spettanti a ciascun membro nella gestione dell’attività dell’organismo. In questo senso, la BEI svolge un ruolo centrale nella struttura sociale. In particolare, la sua posizione dominante è evidente nell’ambito dei poteri decisionali spettanti agli organi deliberativi del Fondo. L’influenza determinante che la Banca esercita su tale processo indica che essa è un membro necessario del FEI. Senza la BEI il Fondo non potrebbe più funzionare.

Il Fondo è amministrato da propri organi con diverso livello di competenza: l’Assemblea generale, il Consiglio di amministrazione e l’amministratore unico. Inoltre, un collegio sindacale composto di tre sindaci (ma il numero può essere portato ad un massimo di cinque) nominati dall’Assemblea generale, verifica ogni anno la contabilità del Fondo.

La giurisprudenza competente è costituita dalla Corte di giustizia delle Comunità europee e dai giudici degli Stati membri. Ai sensi dell’art. 30, par. 6, dello statuto della BEI, la prima istanza ha competenza esclusiva per le vertenze relative a misure adottate dagli organi del Fondo. La seconda è invece chiamata a dirimere le vertenze con i beneficiari dei suoi finanziamenti (art. 35, par. 1, dello statuto). Tenuto conto della natura comunitaria dell’organismo, si può inoltre ritenere che, pur nel silenzio di entrambi gli statuti, la Corte abbia giurisdizione esclusiva ai sensi del Trattato anche per altre materie, in particolare sia per i litigi riguardanti la responsabilità extracontrattuale del FEI (ex art. 235) e il suo personale (art. 236), sia per quelli dipendenti da una clausola compromissoria (art. 238).

Inoltre, poiché un vuoto giurisdizionale non è concepibile, si deve supporre che le istanze nazionali (anche di paesi extracomunitari) siano il giudice naturale, ai sensi del diritto internazionale privato e delle relative convenzioni, per tutte le situazioni contenziose che riguardano le altre controparti, a qualunque titolo, del FEI. Infine, lo statuto (art. 35, par. 2) prevede la possibilità di una procedura arbitrale. Tuttavia tale procedura può essere attuata nei limiti in cui è ammessa dalla giurisdizione nazionale competente a dirimere il contenzioso sottoposto all’arbitrato.

Luigi Marchegiani (2008)




Fondo sociale europeo

Introduzione

Presente fin dalla versione originaria del Trattati di Roma, il Fondo sociale europeo (FSE) è stato il primo dei fondi strutturali della Comunità economica europea (CEE), ed è tutt’oggi il principale strumento della Politica sociale comunitaria.

Già il Trattato Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) (v. Trattato di Parigi) prevede l’istituzione di un “fondo di riadattamento”, col compito di finanziare il ricollocamento della manodopera che perda l’impiego a causa delle nuove condizioni di concorrenza stabilite dal mercato comune carbosiderurgico. Creato soprattutto grazie alle pressioni italiane e belghe, a partire dal 1953 esso effettua numerosi interventi, contribuendo alle spese di trasferimento e di riqualificazione professionale di un numero crescente di lavoratori di tutti e sei gli Stati membri.

È anche grazie a tale precedente che, al momento del “rilancio europeo” durante la Conferenza di Messina, la proposta di istituire uno strumento analogo nell’ambito della futura Comunità economica europea trova ampi consensi. Il suo principale sostenitore è comunque il governo di Roma che, oltre alla funzione di ammortizzatore sociale, vede nel nuovo fondo di riadattamento una possibile fonte di risorse finanziarie per lo sviluppo e la lotta alla disoccupazione del Mezzogiorno, obiettivi che lo “schema decennale” del ministro del Bilancio Ezio Vanoni ha appena iscritto ufficialmente nell’agenda politica.

Superata qualche ritrosia dei partner (soprattutto da parte tedesca), tale visione viene sostanzialmente soddisfatta: l’articolo 123 del Trattato CEE prevede infatti l’istituzione di un Fondo sociale europeo, con la missione di migliorare le opportunità d’impiego e di favorire la mobilità geografica e professionale dei lavoratori. A seguito di ulteriori discussioni, iniziate poco dopo l’entrata in vigore del Trattato e protrattesi per oltre due anni, viene approvato un regolamento per il nuovo strumento finanziario che, nominato un comitato di gestione composto di rappresentanti dei governi e delle Parti sociali, nel settembre 1960 può finalmente entrare in attività.

Come previsto dall’articolo 125, il fondo contribuirà alle spese per la rieducazione professionale dei lavoratori licenziati dopo l’entrata in vigore del Trattato e ai costi di trasferimento di chi, fra di essi, sarà costretto a cambiare residenza per lavorare di nuovo. Gli aiuti saranno erogati a titolo di rimborso per spese già effettuate, e subordinati a una dimostrazione della loro indispensabilità ai fini del ricollocamento, vale a dire all’ottenimento in tempi rapidi, da parte della manodopera interessata, di un impiego stabile nel settore di nuova formazione o nella nuova località di residenza.

È presto evidente che tale condizione, stabilita per garantire efficienza alle azioni del fondo, avvantaggia nettamente i paesi più ricchi e con maggiori opportunità di impiego, laddove le risorse per organizzare corsi di formazione sono più facilmente reperibili e, grazie anche alla fase di alta congiuntura degli anni Sessanta, è decisamente più semplice trovare un nuovo lavoro. È così che, dopo pochi anni di attività, la Repubblica Federale Tedesca (v. Germania) comincia ad assumere una posizione di beneficiario netto del fondo, che la porterà progressivamente ad ottenere più risorse di qualsiasi altro paese membro, Italia compresa.

Sviluppi dell’istituzione comunitaria

Nonostante il riequilibrio dei divari territoriali di sviluppo non figuri fra gli obiettivi ufficiali del FSE – mentre rappresenterà lo scopo primario del Fondo europeo di sviluppo regionale (FESR), attivato nel decennio successivo –, fin dall’inizio è ampiamente condivisa l’idea che la sua attività debba concentrarsi prevalentemente nelle zone più povere, prima fra tutte il Mezzogiorno d’Italia. Anzi, al momento della firma del trattato CEE, i sei Stati membri si sono impegnati a favorire un particolare utilizzo delle sue risorse proprio nella lotta alla disoccupazione strutturale del Sud della penisola. I risultati dei primi anni rappresentano quindi una delusione, oltretutto impossibile da correggere a causa del totale “automatismo” del sistema, che impedisce qualsiasi azione di indirizzo politico. Ai difetti propri del fondo si aggiunge infine l’inadeguatezza delle autorità italiane, che in più occasioni si rivelano incapaci di sfruttare le opportunità finanziarie offerte dalla Comunità, omettendo di segnalare situazioni passibili di intervento o non rispettando le forme e i tempi previsti per la presentazione delle domande, e contribuendo così a determinare la distribuzione “distorta” delle risorse del fondo.

Questo insieme di problemi fa sì che, a partire dalla metà degli anni Sessanta, inizino a levarsi voci favorevoli a una riforma dei suoi meccanismi, voci che trovano appoggi crescenti via via che, anche a causa della progressiva implementazione del mercato comune (v. Comunità economica europea), le economie dei paesi CEE cominciano a presentare esigenze di tipo nuovo. A seguito della lunga fase di crescita, che ha permesso di raggiungere tassi di occupazione spesso non lontani dal pieno impiego, emergono infatti problemi legati alla carenza di manodopera qualificata e al declino delle aree industriali specializzate in settori oramai obsoleti, come il tessile.

Nonostante discussioni ufficiali prendano avvio fin dal 1967, le numerose divergenze fra gli Stati membri permettono di raggiungere un accordo sulla riforma del fondo soltanto quattro anni dopo. Secondo il compromesso finale, al “secondo” Fondo sociale europeo, entrato in vigore nel 1972, sono affidati compiti di due tipi: tamponare le ripercussioni sociali delle politiche comunitarie, sulla base di priorità che il Consiglio dei ministri stabilirà di volta in volta, e intervenire a sostegno dell’occupazione nei settori e nelle regioni con maggiori difficoltà, al fine di eliminare un serio ostacolo allo sviluppo armonioso delle politiche comuni.

Il secondo aspetto intende sia dare una risposta ai processi di deindustrializzazione in atto, sia accontentare il governo di Roma, che nel corso delle discussioni non ha mai cessato di richiamare l’attenzione sui problemi del Mezzogiorno. È, anzi, proprio a seguito delle insistenze italiane, che per i primi anni si decide di destinare almeno il 50% delle risorse del nuovo FSE alla lotta contro la disoccupazione strutturale nelle regioni in ritardo di sviluppo.

Il fondo riformato sembra inoltre garantire maggiore efficacia grazie anche all’introduzione di una serie di novità normative. Ad esempio l’istituzione, nel 1970, di un sistema di Risorse proprie della Comunità, eliminando la dipendenza dai finanziamenti degli Stati membri, permette di abolire ogni automatismo nell’erogazione dei contributi, sottoponendoli invece all’approvazione della Commissione europea. Altra novità di rilievo è l’estensione del diritto a richiedere i finanziamenti, dalle sole autorità pubbliche, come nel primo FSE, agli operatori privati. Per avere un’idea dell’incremento di efficacia ottenuto con i nuovi meccanismi, basti pensare che in soli due anni di attività il secondo FSE supera la cifra di 420 milioni di unità di conto (equivalenti a dollari USA) erogata dal predecessore in più di un decennio.

I primi a beneficiare dei suoi aiuti, sulla base di una decisione del Consiglio, sono i lavoratori dei settori agricolo e tessile. Nel primo caso gli interventi mirano alla riqualificazione di chi abbandona l’agricoltura per cercare lavoro nell’industria, nel secondo a formare la manodopera delle imprese in difficoltà per effetto della crescente concorrenza internazionale. Ma sempre più spesso, negli anni successivi, i destinatari degli aiuti saranno individuati in base non al settore economico di provenienza, ma alla loro appartenenza a categorie sociali con oggettive difficoltà di inserimento sul mercato del lavoro. Così, ad esempio, saranno via via destinatari degli interventi del FSE i lavoratori migranti, i portatori di handicap, i disoccupati con meno di 25 anni, le donne. Parallelamente prendono avvio le misure di intervento strutturale, le quali, non essendo in relazione con la realizzazione di politiche comuni, non richiedono alcuna decisione del Consiglio, e possono contribuire a finanziare le azioni avviate dai singoli Stati membri nel quadro delle politiche per l’occupazione nazionali.

Il FSE di fronte alla crisi petrolifera degli anni Settanta e all’allargamento della CEE negli anni Ottanta

Gli effetti della crisi petrolifera, e il conseguente aumento del fabbisogno di risorse, spingono il Consiglio ad approvare, nel dicembre 1977, una nuova decisione che amplia ulteriormente la capacità di azione del fondo e l’articola su quattro direttrici: l’aggiornamento della manodopera ai cambiamenti tecnologici, gli interventi per i lavoratori di settori in difficoltà a causa di nuove condizioni di produzione o di commercializzazione, le misure per favorire l’inserimento dei portatori di handicap sul mercato del lavoro, la formazione della manodopera disoccupata o sottoccupata nelle regioni in ritardo di sviluppo o in declino industriale. Quest’ultimo rappresenta in sostanza il lato “risorse umane” della neonata politica regionale comunitaria (v. anche Politica di coesione), nel cui quadro il Fondo europeo di sviluppo regionale provvede invece allo sviluppo infrastrutturale. Le regioni ammesse a tale tipo di intervento sono infatti le stesse per i due fondi.

Dato il numero crescente di domande, il cui ammontare spesso eccede le risorse disponibili, la Commissione inizia inoltre a fissare scale di priorità, per cui determinate operazioni (generalmente quelle ammesse al finanziamento di più fondi strutturali, o quelle realizzate congiuntamente da più Stati membri) hanno la precedenza, e solo se dopo il loro completamento vi è ulteriore disponibilità di risorse, possono essere finanziati interventi di tipo diverso. Un’ulteriore novità sta infine nell’applicazione delle norme del fondo anche ai lavoratori autonomi, che fino a quel momento ne sono rimasti esclusi. È facilmente comprensibile come, pur rimanendo sostanzialmente nel quadro giuridico stabilito nel 1971, dopo i cambiamenti del 1977 si parli di “terzo” Fondo sociale europeo.

Ma ben presto neanche le nuove regole sono più sufficienti. Alla crisi di metà anni Settanta si aggiungono sia gli effetti dello shock petrolifero di fine decennio, sia le difficoltà strutturali causate dalla concorrenza sempre più agguerrita dei paesi di nuova industrializzazione. Ne deriva un incremento dei divari di sviluppo fra le regioni europee, accompagnato da un aumento del tasso di disoccupazione medio fino a oltre il 10% (livello che l’Europa non registra da decenni), concentrato soprattutto nelle fasce più giovani della popolazione (il 40% dei disoccupati ha meno di 25 anni). Nella nuova situazione, i programmi di lotta alla disoccupazione giovanile prontamente varati dalla Comunità si rivelano rapidamente insufficienti, e l’esigenza di una nuova riforma del fondo si pone in modo pressante.

Nell’ottobre 1983 nasce così il “quarto” FSE, il cui regolamento da una parte stabilisce che almeno il 40% delle risorse totali debba essere impiegato nelle cosiddette “regioni a priorità assoluta” (Mezzogiorno d’Italia, Grecia, Irlanda, Irlanda del Nord, Groenlandia e Dipartimenti francesi d’Oltremare; dal 1° gennaio 1986 vi si aggiungeranno il Portogallo e nove regioni spagnole, e la percentuale sarà elevata al 44,5%), dall’altra, nel quadro di un’azione generale per l’inserimento lavorativo delle categorie più svantaggiate, destina alla lotta contro la disoccupazione giovanile i ¾ delle disponibilità del fondo, riservando la quota rimanente agli altri gruppi sociali (le donne, i disoccupati di lunga durata, i migranti, ecc.).

Il nuovo fondo esercita un’azione d’indubbia efficacia, contribuendo a finanziare la formazione di oltre due milioni di lavoratori all’anno. Ma ancora una volta l’enorme quantità di domande crea difficoltà di gestione e determina una costante scarsità di risorse, alla quale la Commissione risponde riducendo sistematicamente le somme da erogare rispetto alle richieste. A fine decennio è quindi necessaria l’ennesima riforma, anche allo scopo di adeguare il fondo alle novità introdotte dall’Atto unico europeo, i cui obiettivi esigono un maggior coordinamento fra i fondi strutturali della Comunità.

Nel 1988 si ha quindi una profonda revisione dell’intera politica strutturale comunitaria, che assume ora una fisionomia completamente nuova, articolandosi su cinque obiettivi generali: il riequilibrio delle regioni in ritardo di sviluppo; l’aiuto alle regioni colpite da declino industriale; la lotta alla disoccupazione di lunga durata; l’inserimento professionale dei giovani; l’adattamento delle strutture agricole e lo sviluppo rurale, anche nella prospettiva di una riforma della Politica agricola comune.

È in tale contesto che nasce il “quinto” FSE, competente per tutti e cinque gli obiettivi ma con diverso raggio d’azione nelle varie regioni. Nelle aree comprese nel primo, nel secondo e nel quinto obiettivo, sulle quali hanno competenza anche altri fondi strutturali, la destinazione degli aiuti va ben oltre le abituali categorie, fino a comprendere la formazione di manodopera già occupata e di funzionari pubblici operanti nel settore delle politiche strutturali. Nelle altre zone, dove il fondo agisce con competenza esclusiva per il terzo e il quarto obiettivo, i suoi interventi toccano invece sfere più limitate: nel primo caso la formazione dei disoccupati da più di un anno e delle donne che intendono reinserirsi dopo una lunga interruzione di carriera, nel secondo quella dei giovani in cerca di un impiego stabile al termine degli studi. La riforma stabilisce inoltre un cospicuo aumento delle risorse del FSE, il cui budget per il periodo 1989-1993 supera i 20 miliardi di ECU (v. Unità di conto europea) (quello totale dei fondi strutturali è di circa 63 miliardi): oltre la metà di questi finirà in operazioni nelle regioni del primo obiettivo, circa 1/3 rientrerà nel terzo e quarto obiettivo.

Sempre nel quadro del FSE, nel 1990 la Commissione destina 760 milioni di ECU all’attivazione di tre iniziative comunitarie volte a sperimentare nuovi approcci nel settore della formazione delle risorse umane. Si tratta di “Euroform”, che punta a favorire la diffusione delle nuove competenze richieste nel mercato unificato, “Now”, per la promozione delle pari opportunità in materia di lavoro e formazione, e “Horizon”, per aiutare l’inserimento lavorativo dei portatori di handicap. Mirando a promuovere una “dimensione comunitaria” che possa gradualmente sostituirsi alle prassi nazionali, esse riservano i propri finanziamenti alle proposte presentate congiuntamente da soggetti provenienti da almeno due diversi paesi membri della Comunità.

Le nuove sfide degli anni Novanta

Un nuovo cambiamento si rende però necessario con l’entrata in vigore del Trattato sull’Unione europea (v. Trattato di Maastricht), che assegna al fondo il nuovo compito di facilitare l’adattamento ai cambiamenti tecnologici e produttivi. A partire dal 1993 questo diviene il nuovo quarto obiettivo della politica strutturale, mentre nel terzo obiettivo sono accorpati la lotta alla disoccupazione giovanile e di lunga durata e la promozione delle pari opportunità (a seguito dell’adesione all’Unione europea di Svezia e Finlandia, nel 1995, verrà stabilito anche un “sesto obiettivo”, consistente nello sviluppo delle aree a bassissima densità di popolazione). Il “sesto” FSE gestisce quindi la nuova versione del terzo e quarto obiettivo, pur continuando ad agire, nel quadro degli altri obiettivi, anche nelle regioni interessate da interventi strutturali che richiedano un rafforzamento del potenziale umano. Il suo budget per il periodo 1994-1999 è pari a circa 42 miliardi di ECU.

Secondo il modello già sperimentato nel 1990, nel 1994 la Commissione avvia inoltre un programma con ben 14 nuove iniziative comunitarie, fra le quali le tre denominate “Occupazione”, dedicate rispettivamente all’inserimento lavorativo di donne, giovani e portatori di handicap, e una, “Adapt”, tesa a promuovere la formazione della manodopera per facilitarne l’adattamento ai cambiamenti economici e tecnologici.

Il regolamento n. 1.784 del 1999, sulla base delle proposte avanzate dalla Commissione nel documento programmatico noto come “Agenda 2000”, apporta nuovi cambiamenti volti a rafforzare la politica strutturale comunitaria e a promuoverne la semplificazione, in modo da consentirne anche un migliore adattamento all’ormai imminente Allargamento a Est dell’Unione. Ciò significa, innanzitutto, una nuova ridefinizione degli obiettivi strutturali, accorpati ora in tre sole categorie: mentre il primo obiettivo mantiene le sue caratteristiche tradizionali, il secondo comprende adesso il sostegno alla conversione socioeconomica di tutte le aree in declino, siano esse industriali, rurali o urbane, mentre il terzo concerne, in generale, l’adattamento e la modernizzazione dei sistemi di istruzione e formazione e dei meccanismi di collocamento. La riforma si inserisce anche nel quadro della strategia europea per l’occupazione varata nel 1997 che, prefiggendosi di aumentare le opportunità d’impiego e di migliorarne la qualità, ha istituito forme di coordinamento fra le Politiche per l’occupazione nazionali e comunitarie basate su orientamenti generali decisi in sede di Consiglio europeo.

A questi cambiamenti fa riscontro anche un sostanzioso aumento del budget dei fondi strutturali, passato dai 140 miliardi di ECU del periodo precedente ai 195 miliardi di Euro per il 2000-2006. In tale contesto, ben 60 miliardi sono assegnati al FSE e ai suoi tradizionali settori d’intervento: lotta alla disoccupazione giovanile, femminile o di lunga durata, sviluppo delle Pari opportunità in materia di accesso al mercato del lavoro e formazione di manodopera altamente qualificata che sappia adattarsi alle innovazioni tecnologiche e a tutti i cambiamenti dell’ambiente lavorativo (v. anche Politica della formazione professionale).

Sulla base di un accordo con la Commissione, le risorse disponibili sono preventivamente ripartite fra i tre obiettivi strutturali e fra gli Stati membri, dopodiché la gestione è affidata alle singole autorità nazionali o regionali.

Dato il carattere trasversale del terzo obiettivo, il FSE è in questa fase l’unico fondo strutturale che agisce su tutto il territorio dell’Unione. Esso finanzia inoltre il programma “Equal” che, con un budget di 3 miliardi di Euro per il periodo 2000-2006, sostituisce le precedenti iniziative comunitarie “Occupazione” e “Adapt” nella ricerca di una dimensione europea della lotta alle discriminazioni sul mercato del lavoro. Lo 0,40% delle risorse è infine destinato alle cosiddette “azioni innovative”, operazioni pilota tese a individuare ogni possibile miglioramento nell’attuazione delle attività finanziate dal fondo stesso.

Com’era prevedibile, le problematiche emerse a seguito dell’allargamento a Est hanno consigliato una nuova ristrutturazione generale del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea), i cui aspetti più visibili sono l’inizio di una lenta riduzione delle spese per la politica agricola comune e un parallelo aumento di quelle per i fondi strutturali. La dotazione finanziaria totale di questi ultimi, per la nuova fase di programmazione relativa al periodo 2007-2013, è stata infatti portata a 308 miliardi di euro, mentre, contestualmente, sono state di nuovo ripensate le linee generali della loro azione. In particolare, mentre l’obiettivo “Cooperazione territoriale europea”, che ha sostituito l’insieme delle iniziative comunitarie (compresa “Equal”), è oggi finanziato soltanto dal fondo regionale, ai due obiettivi maggiori, “Convergenza” (successore del vecchio primo obiettivo e degli interventi del Fondo di coesione) e “Competitività regionale e occupazione” (erede del secondo e del terzo obiettivo), contribuisce, per le materie di sua tradizionale competenza, anche il Fondo sociale europeo.

Lorenzo Mechi (2007)




Fontaine, François

F. (Périgueux 1917-Parigi 1996), alto funzionario europeo, giornalista e collaboratore di Jean Monnet, storico e scrittore, è stato uno dei rappresentanti di maggior spicco della generazione dei pionieri europei del secondo dopoguerra. La sua carriera si identifica con il processo di integrazione comunitaria (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) e il suo destino fu profondamente segnato dalla collaborazione con Monnet.

Figlio di un medico che esercitava a Barbezieux, nel dipartimento della Charente, luogo d’origine di Monnet, del Presidente della Repubblica François Mitterrand e dello scrittore Jacques Chardonne, F. si laureò in giurisprudenza all’Università di Bordeaux e successivamente si diplomò all’École libre des sciences politiques di Parigi.

F. iniziò la sua carriera giornalistica nel 1945 all’Agenzia Havas di Parigi. Tra il 1946 e il 1947 lavorò al ministero degli Esteri ed entrò poi, tramite il compaesano e amico d’infanzia di Barbezieux, Félix Gaillard – futuro deputato della Charente, più volte ministro e Presidente del Consiglio durante la IV Repubblica –, al Commissariat général au Plan de modernisation et d’équipement, il cui capo gabinetto era Jean Monnet. Questo passaggio al Commissariato fece entrare F. nella sfera d’influenza del “gruppo Monnet” e lo coinvolse nell’avventura intellettuale e storica che portò alla Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950 (v. anche Piano Schuman), l’atto di che porterà Francia, Repubblica Federale Tedesca (RFT) (v. Germania), Italia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo a firmare il Trattato di Parigi (18 aprile 1951) istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA).

La prima amministrazione comunitaria alla quale appartenne F. creò un proprio servizio di stampa e informazione. Quando Monnet lasciò Lussemburgo e fondò il Comitato d’azione per gli Stati Uniti d’Europa nel 1955, F. fu incaricato di organizzare a Parigi l’ufficio del Servizio informazioni delle due nuove Comunità istituite dai Trattati di Roma del 25 marzo 1957, la Comunità economica europea (CEE) e la Comunità europea per l’energia atomica (CEEA o Euratom).

Dal 1958 al 1982 F. diresse l’Ufficio informazioni della Comunità europea (CE), ubicato in Rue des belles feuilles 61, nel XVI arrondissement, non lontano dagli uffici occupati da Monnet e dal suo Comitato d’azione in Avenue Foch 83. Per un quarto di secolo F. spese le sue energie per animare un gruppo costituito sia da funzionari europei, sia da collaboratori a contratto interamente dediti all’informazione europea. Lo spirito di Rue des belles feuilles ispirerà generazioni di giornalisti, universitari, uomini politici e militanti giunti in cerca dei materiali per una nuova pedagogia sull’idea europea.

La situazione non era agevole per F. e i suoi collaboratori a Parigi nel periodo in cui il generale Charles de Gaulle e i suoi governi difendevano la concezione dell’Europa delle nazioni contrapponendola a quella dell’Europa comunitaria, di cui era emanazione l’ufficio parigino della Commissione europea. Crisi istituzionali dal 1962 al 1965, veto francese alla candidatura del Regno Unito, rilancio dell’Aia, Vertice di Parigi nel 1972 in cui si definì la prospettiva dell’Unione europea, avvio del Mercato unico europeo e delle politiche comuni, primi progetti di unificazione monetaria (v. Unione economica e monetaria), nascita delle cooperazioni universitarie e delle azioni rivolte alla Cittadinanza europea: furono queste le grandi linee d’azione su cui si mossero F. e il suo gruppo, di concerto con Jacques-René Rabier, direttore generale dell’Informazione a Bruxelles e amico di F.

F. era anche responsabile del mensile “30 jours d’Europe”, che dava la possibilità al pubblico francese di seguire l’evoluzione della Comunità europea, ma assolse la sua missione più autentica al servizio di Monnet, dedicandosi dal 1974 al 1976 alla stesura delle memorie del padre dell’Europa, pubblicate nel settembre 1976 presso Fayard. Le memorie di Monnet, che in apertura recano la citazione «Noi non formiamo coalizioni di Stati, noi uniamo uomini», restano un punto di riferimento sia per gli storici che per i responsabili politici europei di ieri e di oggi.

Nominato cavaliere della Legion d’onore per gli affari europei, F., insieme a Étienne Hirsch, Paul Delouvrier, Georges Berthon e Paul Jaeger, animato animò l’Association des amis de Jean Monnet, divenuta l’Association Jean Monnet.

Parallelamente alla carriera di alto funzionario europeo, F. moltiplicò i saggi politici e storici: La Nation frein, pubblicata nel 1956 (Editions Julliard), poi Démocratie en vacances, del 1959 (Editions Julliard), gli assicurarono uno spazio nelle cerchie politico-mediatiche francesi.

Con L’usurpation, ou le roman de Marc Aurèle (Fayard, 1979) F. diede inizio ad una serie di opere storiche e romanzate dedicate soprattutto all’Impero romano, ai suoi meccanismi politici e ai suoi personaggi più importanti, che si abbandonarono a lotte spietate per il controllo del potere. Mourir à Sélinonte (Julliard, 1984), Douze autres Césars (Julliard, 1986), Blandine de Lyon (Julliard, 1987 – Prix Méditerranée 1987), Le sang des Césars (Editions de Fallois, 1989), Marc Aurèle (Editions de Fallois, 1991), Vingt Césars et trois Parques (Editions de Fallois, 1994) testimoniano il fascino esercitato sull’autore da una civiltà che è stata al tempo stesso la culla dell’Europa moderna e il teatro di passioni umane incentrate sulla ricerca del potere e dell’immortalità.

Dopo aver concluso questa serie romana, F. si cimentò in opere autobiografiche come L’enfance à Barbezieux (Editions de Fallois, 1996) e poi Lettre à quelques amis (Editions de Fallois, 1997), pubblicate dopo la sua morte. A questi due scritti affidato egli affidò le sue ultime considerazioni sul corso mutevole della società, della politica e della morale, tentando di operare una sintesi fra la sua duplice vocazione di umanista sedotto dalla letteratura e coinvolto in quella che fu la grande avventura della sua vita: la costruzione europea.

Pascal Fontaine (2010)