Gaetano Martino




Gaetano Stammati




GAI

Giustizia e affari interni (GAI)




Gaillard, Félix

G. (Parigi 1919-Jersey 1970), eredita una vocazione politica familiare saldamente radicata nel territorio della Charente. Il bisnonno e poi il nonno hanno esercitato responsabilità locali: il primo è stato sindaco di Barbézieux, consigliere di arrondissement e consigliere generale della Charente, mentre il secondo gli succederà a capo dell’Assemblea dipartimentale. Il padre, sebbene sia meno impegnato in politica, resta attivo negli ambienti radicali.

La sconfitta della Francia nel 1940 risveglia la coscienza esigente del giovane G. Laureato in legge, dopo aver ottenuto il diploma dell’École libre des sciences politiques e, nel 1942, quello di studi superiori in economica politica, conclude il suo brillante corso di studi nel 1943 entrando nell’Ispettorato delle Finanze, a fianco di Jacques Chaban-Delmas. Sedotto in un primo tempo dalle tesi della Rivoluzione nazionale, alla fine si impegna nella Resistenza, diventando collettore di fondi destinati alle organizzazioni clandestine di resistenza. A 25 anni, grazie a quest’impegno, diventa il vice di Alexandre Parodi, delegato generale del Comitato francese di liberazione nazionale, poi suo capo di gabinetto quando quest’ultimo è nominato ministro del Lavoro nel governo provvisorio della Repubblica francese (1944). Tuttavia, è a Jean Monnet, commissario al Piano, che G. riconosce di aver svolto il ruolo più significativo nella sua formazione di uomo di Stato pragmatico e di europeo convinto. Parte con Monnet in missione alla volta degli Stati Uniti come capo di gabinetto (settembre 1944-novembre 1946), acquistando così un’esperienza internazionale. Il suo mentore delineò un ritratto lusinghiero del suo giovane collaboratore: «La sua intelligenza e la sua capacità di assimilazione eccezionale lo destinavano a percorsi rapidi e brillanti. Doveva imboccare ben presto quello della politica, il solo sbocco possibile per la sua ambizione impaziente ed elevata» (v. Monnet, 2007, p. 323).

Nelle elezioni legislative del 10 novembre 1946, in effetti, G. comincia a realizzare la profezia della sua giovinezza («Sarò consigliere municipale, sindaco, poi deputato e ministro»), grazie al sostegno di Jacques Chaban-Delmas e di Henri Queuille, conquistando nello schieramento radicale un seggio di deputato della Charente. A 28 anni, considerato uno degli elementi più promettenti della nuova generazione di tecnici passati al servizio dello Stato, diventa sottosegretario di Stato agli Affari economici (novembre 1947-luglio 1948), chiamato, come il suo amico Maurice Bourgès-Maunoury, da René Mayer, ministro radicale delle Finanze e degli Affari economici nel gabinetto di Robert Schuman. È quindi uno dei principali artefici del Piano Mayer, fedele alla visione liberale, che segna il ritorno all’ortodossia economica e finanziaria. Dal 1949 è membro della delegazione francese alla prima sessione dell’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa: è un fervente sostenitore del pool carbosiderurgico, immaginato da Monnet e proposto da Schuman nel maggio 1950.

Torna ad assumere responsabilità di governo a partire dall’agosto 1951 come segretario di Stato alla presidenza del Consiglio nei ministeri di René Pleven, Edgar Faure, Antoine Pinay e Mayer. Fra le numerose attribuzioni della sua funzione G. si occupa del Commissariato all’energia atomica. Nel 1949 è intervenuto nell’emiciclo del Palais-Bourbon per difendere il Commissariato e la sua ubicazione a Saclay. Al governo fa adottare, nel luglio 1952, un piano quinquennale di sviluppo dell’atomo. Le sue convinzioni europee e atlantiste lo inducono a sostenere il progetto di Comunità europea di difesa (CED), che gli sembra offrire solide garanzie contro la rinascita della potenza militare tedesca. Deluso e diffidente dopo il fallimento della CED, rifiuta di votare gli accordi di Parigi nel dicembre 1954. Nel corso di questi anni si impegna costantemente nella difesa del nucleare ed è nominato presidente della commissione di coordinamento dell’energia atomica nel marzo 1955. Delegato per la Francia nel Comitato Spaak (v. Spaak, Paul-Henri), costituito nel giugno 1955, contribuisce alla creazione del Mercato comune (v. Comunità economica europea) e dell’Agenzia europa dell’energia atomica, Euratom, un’altra idea di Monnet. Vedendo nello sviluppo della politica nucleare della Francia una rivincita simbolica rispetto alla sconfitta del 1940 e una garanzia per l’avvenire, G. avvia, nell’aprile 1958, la preparazione delle esplosioni atomiche nel Sahara.

Nel giugno 1957 la carriera di G. è segnata da una svolta: diventa infatti il più giovane ministro delle Finanze dopo Joseph Caillaux. Il significativo disavanzo di bilancio e l’inflazione galoppante impongono come priorità il risanamento finanziario. Nella prospettiva del grande mercato e della realizzazione del terzo piano di modernizzazione e di infrastrutture, il ministro delle Finanze prende una serie di provvedimenti – fra cui la sospensione della liberalizzazione dei cambi – destinati a ridurre la domanda interna e a stroncare lo squilibrio delle finanze estere. Il progetto di legge finanziaria del 20 giugno 1957 impone la riduzione dei crediti finanziari e la maggiorazione delle imposte. Nell’agosto 1957 G. decide un prelievo del 20% sull’acquisto delle valute. Trasformata in premio per l’esportatore, questa manovra introduce una svalutazione di fatto. Nel mese di settembre il dibattito sulla legge-quadro dell’Algeria, che prevede un collegio elettorale unico e un esecutivo autonomo ad Algeri, mette fine al governo Bourgès-Maunoury.

Ma G., uomo di governo, dispone ormai di un’esperienza e di una autorità da mettere al servizio della Repubblica e, al termine di 36 giorni di crisi ministeriale, è investito dall’Assemblea nazionale dell’incarico di Presidente del Consiglio. Nel suo governo di “difesa repubblicana” sono rappresentati tutti i gruppi parlamentari a eccezione dei comunisti. Il capo del governo più giovane dopo Bonaparte si applica su diversi fronti: la riforma costituzionale per rafforzare il regime repubblicano, la riduzione del disavanzo di bilancio tramite una politica di austerità, la regolazione del problema algerino, il rispetto degli impegni atlantici della Francia e la prosecuzione della costruzione europea. Iscrivendo la sua politica algerina nella linea di quella di Guy Mollet, fedele al mantenimento dell’integrità del territorio nazionale, ottiene il rinnovo dei poteri speciali in Algeria e il voto della legge quadro, al prezzo di importanti regolamenti favorevoli alla popolazione europea. Nel marzo 1958 lancia un piano di patto mediterraneo destinato ad assicurare la difesa del Mediterraneo occidentale, ma anche la sua prosperità e stabilità. Tuttavia, il bombardamento dell’aviazione francese, l’8 febbraio 1958, sul villaggio tunisino di Sakhiet Sidi Youssef, vicino alla frontiera algerina, mette in difficoltà il governo francese e compromette i suoi progetti. Il Presidente del Consiglio, costretto ad accettare una missione americana di buoni uffici, si impegna per fare approvare le sue conclusioni: è messo quindi in minoranza da una coalizione della destra, dell’estrema destra e di una parte della sinistra.

Così gli affari algerini, dopo aver favorito l’ascesa di G. a capo del governo, alla fine ne provocano la caduta dopo cinque mesi e nove giorni. Per questo radicale di 38 anni è l’inizio di una traversata nel deserto. Fino alla morte conserva vari mandati locali, in modo ininterrotto, che lo rendono un importante notabile della Charente, e dal settembre 1958 all’ottobre 1961 assume la presidenza del Partito repubblicano e radical-socialista, ma la sua adesione alla politica di Charles de Gaulle e alla V Repubblica sarà di breve durata. Passa all’opposizione nel 1962, denunciando nell’esercizio del potere gollista un attentato alla democrazia. Sembra pronto a ritornare al potere dopo il ritiro di de Gaulle e l’elezione di Georges Pompidou, ma muore in un incidente il 9 luglio 1970. Grand commis dello Stato, questo neoradicale impregnato di una cultura politica ereditata dalla III Repubblica, simboleggia adeguatamente il rinnovamento del Partito radicale, che mette i suoi giovani talenti al servizio della costruzione europea.

Sabine Jansen (2012)




Gaitskell, Hugh

G. (Londra 1906-ivi 1963), uomo politico britannico, è stato ministro nel governo laburista (1946-1951); cancelliere dello Scacchiere (1951) e leader del Partito laburista (1955-1963). Spesso soprannominato “il leader mancato”, G. fu per molti versi il precursore del new Labour. Morì in un momento in cui i laburisti sembravano sicuri di vincere le successive elezioni politiche e di potergli affidare la carica di primo ministro. In un periodo in cui il partito era sull’orlo di una guerra intestina, il potere di G. si radicava nell’ala destra e di centro del partito, tra modernizzatori e molti sindacati. Erano gli anni in cui si stava sviluppando l’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) e molti “europeisti” nel partito erano anche sostenitori di G., anche se l’atteggiamento di quest’ultimo verso la nascente Comunità europea era ambiguo. Come molti altri leader politici britannici nell’immediato dopoguerra, egli riteneva che il Regno Unito si muovesse quasi esclusivamente nell’ambito di tre sfere di potere e influenza: Europa, Commonwealth e alleanza atlantica. Per citare le sue parole: «La maggior parte di noi non si sente solo europea, ma anche al centro del Commonwealth, un Commonwealth che include paesi asiatici e africani molto importanti; non vorremmo avvicinarci sempre più all’Europa se ciò comportasse un indebolimento dell’alleanza atlantica». L’idea, seppure espressa in toni più cauti, era in linea di massima simile a quella di Winston Churchill, per il quale cui se la Gran Bretagna fosse stata costretta a scegliere tra l’Europa e il mare aperto avrebbe sempre optato per la seconda.

La posizione di G. fu sempre coerente; il coinvolgimento con la nascente Comunità europea era auspicabile, ma solo a certe condizioni. Tra queste vi erano la tutela dell’agricoltura britannica, del Commonwealth e dei partner dell’European free trade association (EFTA) (v. Associazione europea di libero scambio); la libertà di condurre una politica estera nazionale indipendente; la capacità di introdurre misure di pianificazione socialista ritenute necessarie per la Gran Bretagna. Egli cambiò di volta in volta la forma, ma non i contenuti. A suo avviso era impossibile che la Gran Bretagna aderisse alla Comunità economica europea in quanto le condizioni per tale Adesione non sarebbero mai state soddisfatte (v. anche Criteri di adesione). In larga misura ciò rifletteva la sua visione dell’obiettivo ultimo dei fondatori della CEE, ovvero un’Europa federale (v. Federalismo). Il suo ragionamento era chiaro. Il problema, affermava G., «non è se riteniamo che sia giusto o sbagliato che gli europei si riuniscano nell’Europa occidentale. Questo è affar loro e può anche essere la soluzione ai loro problemi, ma non è necessariamente la nostra. Perché noi non siamo solo parte dell’Europa, almeno non ancora. Abbiamo una storia differente. Abbiamo vincoli e legami in tutto il mondo».

G. aveva condotto battaglie di principio sulle armi nucleari, sull’adesione britannica all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) e sulla nazionalizzazione. Non considerò mai alla stessa stregua le relazioni della Gran Bretagna con l’Europa. In linea generale non si trattava di una questione di principio, bensì di esigenze pratiche. Come ha giustamente osservato Philip Williams, il biografo ufficiale di G., la posizione di quest’ultimo aveva dei punti di contatto con quella di Pierre Mendès France, primo ministro francese all’epoca della proposta della Comunità europea di difesa. Entrambi i politici ritenevano che il futuro economico del loro paese sarebbe dipeso dalle politiche interne e non dalla semplice decisione se aderire o meno.

Dopo che il governo conservatore presentò la prima candidatura alla CEE, il Partito laburista all’opposizione assunse gradualmente una posizione antieuropeista. Durante la sua leadership, G. era stato contestato dall’ala sinistra del partito. Fino al 1962 tutte le battaglie di principio erano state vinte; un partito unito poteva sperare di vincere le imminenti elezioni politiche e di ritornare al governo per la prima volta dal 1951. G. non voleva in alcun modo mettere a repentaglio tale prospettiva per una questione che non riteneva essenziale. Ciò spiega in parte natural tenore del discorso che tenne alla conferenza del Partito laburista del 1962. Il dibattito sul Mercato comune (v. Comunità economica europea) ruotava intorno a una dichiarazione di compromesso costruita accuratamente dal Comitato esecutivo nazionale. Nel suo discorso introduttivo G. prevedeva l’evoluzione di un’Europa federale con una Gran Bretagna che non sarebbe stata più uno Stato indipendente. Anche il Commonwealth britannico sarebbe svanito così come un millennio di storia.

G. morì all’improvviso e prematuramente pochi mesi dopo la conferenza. Possiamo solo supporre come si sarebbe evoluta la sua posizione riguardo all’Europa se nel 1964, anziché Harold Wilson fosse diventato lui primo ministro del governo laburista. La posizione di G. riguardo all’adesione alla CEE fu per lo più pragmatica, ma egli riuscì anche a capirne i principi intrinseci e a riconoscerli pubblicamente, soprattutto l’obiettivo di un’Europa federale. Un obiettivo che non fu riconosciuto né quando la Gran Bretagna alla fine aderì alla CEE né in seguito da nessun leader del governo britannico.

Stanley Henig (2010)




Gaja, Roberto

G. (Torino 1912-Roma 1992) entrò in diplomazia nel 1937, assolvendo i primi incarichi all’estero a Hannover e Bastia. Rientrato a Roma nel febbraio 1943, raggiunse, dopo l’8 settembre, il ministero che si ricostituiva a Salerno, ove divenne collaboratore del segretario generale, Renato Prunas. Dopo la guerra, fu chiamato a far parte della Rappresentanza italiana presso il territorio libero di Trieste, poi a Tripoli, per prepararvi la costituzione del regno senussita, a Parigi e a Sofia. Ricoprì le cariche di direttore degli Affari politici (1964-1969), segretario generale (1969-75) e Ambasciatore a Washington, dove concluse la carriera nel 1977. Fu successivamente direttore della rivista “Affari esteri”, dal 1978 alla scomparsa, docente di relazioni internazionali, editorialista di politica estera e scrittore (tra le sue opere spicca la biografia di un grande diplomatico suo conterraneo, che guidò per un quindicennio la politica del regno sardo e ne rinnovò l’amministrazione: Il marchese d’Ormea, pubblicato nel 1988).

Nel ricordo di quanti collaborarono con lui, G. era per molti versi il diplomatico della belle époque, dai modi riservati e cortesi. Ma fu soprattutto un caparbio sostenitore dell’ancoraggio dell’Italia all’Europa e all’Occidente. Non si può capire un uomo e un funzionario della sua generazione senza riandare alla crisi dell’8 settembre 1943, su cui scrisse in tarda età pagine rivelatrici. L’auspicio di un ritorno dell’Italia nel consesso delle nazioni libere e democratiche contribuì a far superare a G. il duplice trauma della disfatta e della fine della monarchia che per lui, “sabaudo di cappa e spada”, rappresentò un momento molto difficile. Ma G. era uomo che sapeva distinguere i sentimenti dalla ragione e si rivelò uno dei grands commis più efficaci che la nuova diplomazia italiana potesse annoverare sul palcoscenico internazionale.

G. non fu, in senso stretto, uno degli artefici della politica europeista dell’Italia, come lo furono, nella stessa generazione, il suo “eterno rivale” Roberto Ducci, o ancora Attilio Cattani, Giorgio Bombassei, Eugenio Plaja, Francesco Guazzaroni, e i più giovani Renato Ruggiero, Raniero Vanni d’Archirafi e Pietro Calamia. Non si trovò mai in sede a Bruxelles e la sua carriera fu quella di un classico “bilateralista” e un “atlantista”, con una tarda ma importante missione a Washington, che non sfigurò dopo quelle, di ben maggiore durata, di Manlio Brosio, Sergio Fenoaltea ed Egidio Ortona, precedendo altri colleghi, due dei quali, Boris Biancheri e Ferdinando Salleo, avrebbero anche seguito le sue orme quali segretari generali del ministero. G. apparteneva a una tradizione per la quale diplomazia era ancora sinonimo di cultura umanistica, non solo di arido tecnicismo. Era inoltre permeato di valori cristiani, a cominciare dalla pace (anche se non disarmata). Si spiega così la dedica di un suo libro a Giorgio La Pira.

Eccellente organizzatore, G. fu uno degli artefici della prima, fondamentale riforma dell’ordinamento dell’amministrazione degli Affari esteri (D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 18). Vi era già adombrata la necessità di preparare i funzionari italiani ai compiti di una diplomazia europea, come ora previsto espressamente dall’art. III-296 c. 3 del Trattato costituzionale (servizio europeo per l’azione esterna) (v. Costituzione europea; Trattato di Lisbona). G. si batté anche per la creazione di una scuola di formazione del ministero e fu tra i promotori dell’odierno Istituto diplomatico.

La vocazione europeista di G. nacque da tre fattori congiunti: il collasso della nozione di grande potenza sul continente, che aveva alimentato in trent’anni due guerre civili europee divenute guerre mondiali e risolte solo dall’intervento extraeuropeo; la conseguente subordinazione dell’Europa nelle sfide strategiche della Guerra fredda ormai dominate dal confronto nucleare; l’allontanamento dall’Europa, quale entità di riferimento, delle ex colonie dell’Africa e del mondo arabo. Concettualmente, il punto di partenza era per lui «la decadenza politica dell’Europa» (v. Gaja, 1986, pp. 48 e ss.), che poteva trovare un correttivo solo attraverso l’unità del nostro continente. Il paradosso del secondo dopoguerra era infatti che un’Europa sempre più ricca e dinamica, ormai grande potenza anche finanziaria e commerciale, aveva dovuto registrare una perdita d’influenza nei confronti di Stati Uniti, Russia e, un domani non lontano, anche Cina. Anche per questo, G. fu uno dei sostenitori del riconoscimento italiano della Cina comunista, nonostante certe perplessità d’oltre Atlantico, intuendo il potenziale di scambi tra l’Europa e il mercato cinese: tema, come si vede, oggi nuovamente di attualità.

Ma fu essenzialmente sui problemi strategici e sul fattore nucleare che G. si cimentò come studioso e protagonista della diplomazia, in una serie di saggi che furono tra i primi dedicati in Italia a questa materia (pubblicati sotto lo pseudonimo di R. Guidi: v., 1959 e 1964). Il ridimensionamento postbellico dell’Europa comportava per gli stati del vecchio continente, in particolare per l’Italia, una scelta di campo atlantica, che andava tuttavia attuata nella consapevolezza che «L’Italia è una potenza esclusivamente europea e la nostra importanza è legata all’importanza collettiva dell’Europa», come scrisse trenta e più anni fa (v. Serra, 1970). Deterrente regionale e ancorato alle strategie dell’Alleanza atlantica; tale, nondimeno, da restituire agli europei il senso di una missione comune e non più da “debitori netti” di sicurezza nel confronto Est-Ovest.

Questa ipotesi subì una netta inversione con il Trattato di non proliferazione nucleare (TNP) di cui G. fu uno dei principali negoziatori per l’Italia, per quanto negoziatore sofferto in quanto le sue convinzioni non collimavano sempre con le istruzioni che riceveva. L’adesione del nostro paese al trattato, nel gennaio 1969 rappresentò una scelta difficile, che corrispondeva però a un’ampia convergenza politica interna: non per nulla, fu presa dal governo di centro-sinistra, con l’apporto del Partito comunista italiano. Il trattato riconosceva in larga misura gli interessi convergenti delle potenze nucleari, di fatto USA e URSS, rispetto alle prospettive di una deterrenza nucleare europea, che l’Italia aveva precedentemente perseguito, sia pure con varie attenuazioni, insieme con Francia e Germania. È vero che l’opzione europea era diventata meno realistica da quando il generale Charles de Gaulle aveva avviato il programma della “force de frappe”, ed era probabilmente tramontata a Nassau, nel dicembre 1962, quando, con grave irritazione del generale, John Kennedy e Harold Macmillan si accordarono per la fornitura di missili Polaris al Regno Unito. Nondimeno, mancava un atto internazionale che sancisse l’irreversibilità per gli altri europei della rinuncia all’arma atomica e non vi era, secondo G., ragione di farlo, perlomeno in mancanza di adeguate contropartite.

Anni dopo, tornando a riflettere su quella vicenda, G. riconobbe che il TNP era «obiettivamente un accordo anti-europeo» (v. Gaja, 1986), che vanificava quella “clausola europea” che l’Italia (ossia, il negoziatore G.) si era battuta per far inserire nel testo. In tal modo, la sicurezza dell’Europa veniva affidata definitivamente alle armi nucleari americane. Ma ciò comportava il pericolo che l’URSS potesse accedere prima o poi all’obiettivo di “denuclearizzare” e controllare il vecchio continente. Una strategia che si delineò, subito dopo l’entrata in vigore del TNP, nel 1970, con la lunga battaglia degli euromissili.

Con la fine del confronto Est-Ovest e l’avvio della “bipolarità zoppa”, come la definì G., l’idea di un’Europa quale potenza nucleare regionale era destinata a perdere qualsiasi significato residuo. Molto più rilevante diventavano, ai suoi occhi, la collaborazione europea nel campo della ricerca spaziale, soprattutto nei settori più innovativi dell’energia applicata allo spazio, dalle incalcolabili conseguenze anche sulla tutela e lo sviluppo dell’ambiente: «L’Europa, se vuol sopravvivere, deve realizzare al più presto una sua dimensione spaziale di tale impegno, grandezza e sofisticazione da rendere inevitabile la sua partecipazione a qualsiasi trattativa fra Stati Uniti e Russia in proposito» (ibid.). Occorreva, insomma, evitare di ripetere l’errore già compiuto sul nucleare.

Questo messaggio riappare, con una nota di preoccupazione in una raccolta di scritti che G. non poté ultimare, per la morte improvvisa (v. Gaja, 1995). Come molti diplomatici che avevano attraversato dall’inizio alla fine l’esperienza della Guerra fredda, con le sue dure ma in buona misure prevedibili realtà, G. aveva salutato con molte speranze ma anche con realismo il nuovo scenario aperto dalla caduta del muro di Berlino (v. Germania). Ne intuiva le inedite aperture, ma temeva il risorgere violento del nazionalismo e la crescita dell’anarchia internazionale. Intuiva anche la deriva che avrebbe portato dal mondo bipolare alla “bipolarità zoppa” fino all’unilateralismo. Il rischio che un’Europa, unita “ma non troppo”, avviata al federalismo, ma percorsa da refoli sciovinisti, prospera ma restia a pagare per la propria sicurezza, non sapesse cogliere le opportunità offerte dal dopo Guerra fredda e dalla “de-ideologizzazione” della politica estera è il punto finale della riflessione di G. Egli vedeva in principio con favore l’Allargamento dell’Unione europea all’ex Europa comunista, di cui conosceva il potenziale, sin dai tempi della missione a Sofia; ma era meno attratto dalla realizzazione di un’Unione a più velocità, che avrebbe reso più difficile la formazione di un’identità comune di politica estera e di difesa (v. anche Politica estera e di sicurezza comune; Politica europea di sicurezza e difesa). Nella sua lunga ed esemplare carriera, aveva visto l’Europa soccombere troppo spesso ai nemici esterni e interni, per non sentirsi autorizzato a rivolgere questo monito alla nuova generazione destinata a tradurre in realtà la costituzione per l’Europa.

Maurizio Serra (2010)




García, Julián Gómez (Gorkin)

Julián Gorkin, pseudonimo di Julián Gómez G. (Benifairó de les Valls, Valencia 1901-Parigi 1987). Politico, scrittore e giornalista, figlio di un carpentiere aragonese di idee repubblicane e anticlericali, si trasferì molto presto assieme alla propria famiglia nella città di Valencia. Qui G. si accostò al socialismo attraverso la lettura dei classici europei e, influenzato dal libro I tre di Maksim Gor’kij, decise di cambiare il suo cognome, molto comune in Spagna, in Gorkin. Affascinato dal repubblicanesimo di Vicente Blasco Ibáñez, nel 1917 entrò nel sindacato degli impiegati dell’anarchica Confederación nacional del trabajo (CNT) e un anno più tardi era già Segretario generale dei Giovani socialisti di Valencia e direttore del loro giornale “La Revuelta”. In un contesto storico segnato dalla Rivoluzione sovietica, nel 1921 si verificò una scissione all’interno del Partido socialista obrero español (PSOE), dalla quale sarebbe nato il Partido comunista de españa (PCE). Nel nuovo partito G. ricoprì una funzione rilevante tramite la Federación comunista de Levante, da lui stesso fondata e associata al PCE, e la direzione del settimanale “Acción Sindacalista”, che sarebbe stato per alcuni mesi l’organo ufficiale dell’Internazionale comunista in Spagna e che da quest’ultima era anche finanziato. In quegli anni G. portò a termine un intenso lavoro di propaganda in tutta la regione valenciana approfittando della sua attività di rappresentante di commercio, anche se la sua adesione all’Internazionale comunista lo condusse inevitabilmente a scontrarsi con molti vecchi compagni socialisti. A causa della sua attività politica contro la guerra in Marocco, nel 1921 fu denunciato e costretto perciò a fuggire a Bilbao, da dove, con passaporto falso, raggiunse poi la Francia.

A Parigi G. entrò in contatto con i comunisti spagnoli esiliati dopo il colpo di Stato del generale Primo de Rivera del 1923, così come anche con italiani, polacchi e rifugiati di altre nazionalità. A questo punto egli era già, come avrebbe affermato in seguito nelle sue memorie, un “rivoluzionario di professione” e un agente dell’Internazionale comunista. Fondò vari periodici in castigliano, di esistenza effimera, tra cui “El Proletariado”, “Vida Obrera”, “La Luz” e “La Verdad”, collaborò con il giornale comunista “L’Humanité”, partecipò a varie cospirazioni contro il dittatore Primo de Rivera, viaggiò in vari paesi europei e nel 1924 assistette alla sessioni dell’esecutivo allargato dell’Internazionale, svoltesi a Mosca. Nella capitale sovietica fu testimone dello scontro tra Stalin, Zinov’ev e Kamenev con Lev Trockij, ed entrò in contatto con dirigenti del comunismo internazionale come lo spagnolo José Bullejos, l’italiano Antonio Gramsci e, in particolare, con l’aragonese Joaquín Maurín e il catalano Andreu Nin: entrambi sarebbero diventati compagni inseparabili di G. nel corso della sua successiva evoluzione politica. Arrestato in due occasioni dalla polizia francese, dietro pressioni del governo spagnolo fu espulso a Bruxelles, dove trovò un altro numeroso gruppo di esiliati e fondò il quindicinale “Adelante”. Di nuovo a Parigi con passaporto falso – durante la sua vita utilizzò oltre quello di G., vari nomi fittizi, tra cui Juan Fernández, Luis Sellier, Jean Gall, Ernesto Jungmann e Félix Cuenca – nel 1930, dopo la caduta di Primo de Rivera, gli venne concesso di poter ritornare in Spagna con documenti in regola.

Sempre più vicino alla posizione di Trockij, durante questi anni si produsse il distacco e la definitiva rottura di G. con Mosca, e successivamente alla sua partecipazione al Congresso antifascista di Berlino del 1929, in qualità di rappresentante della delegazione spagnola, egli fu espulso dall’Internazionale comunista. Lavorò quindi per varie case editrici, tradusse in spagnolo La rivoluzione fallita di Trockij e il Teatro della rivoluzione del suo amico Romain Rolland, pubblicò Stefan Zweig, André Gide e numerosi autori progressisti russi, tedeschi, francesi, americani e italiani, tra questi ultimi Gaetano Salvemini, Francesco Saverio Nitti e Pietro Nenni. Collaborò inoltre al settimanale “Monde” di Parigi, insieme con Angelo Tasca e Henri Barbusse, scrisse le sue prime opere di teatro sociale (Una familia e La corrente), racconti, romanzi (Dias de bohemia) e saggi politici (Capitalismo y Comunismo). Esiliato di nuovo a Parigi dopo il fallimento del tentativo rivoluzionario del dicembre 1930, tornò in Spagna nel maggio 1931, subito dopo la proclamazione della Repubblica.

A Madrid G. riprese la sua attività politica nell’ambito del comunismo dissidente, sebbene i suoi rapporti con Trockij si andassero facendo sempre più difficili. Entrò a far parte della Agrupación comunista madrileña, che aveva una posizione critica nei confronti del PCE, ma in seguito al rientro della maggior parte dei suoi militanti nella linea ufficiale, nell’ottobre 1932 fondò la sezione madrilena della Federación comunista ibérica, affiliata al Bloc obrer i camperol (BOC) di Maurín, il principale partito comunista indipendente dal PCE. Entrato nel BOC nel 1933, tornò a Valencia per dirigere il suo organo “La Batalla” e per contribuire alla grande crescita del partito nella regione levantina. Dopo il fallimento dello sciopero generale dell’ottobre 1934, G. fuggì nuovamente in Francia, dove organizzò e poi diresse la Segreteria generale del Comitato dei rifugiati politici, comitato che era formato da BOC, PSOE, PCE e dall’Unión general de trabajadores (UGT); inoltre G. pubblicò il periodico “Adelante” e redasse, insieme a Manuel Grossi, il libro La Insurrección de Asturias. Tornato a Valencia a metà del 1935, partecipò all’Unione del BOC e della trockijsta Izquierda comunista de España di Nin, che diede vita al Partido obrero de unificación marxista (POUM), e difese inoltre l’alleanza con il resto delle forze antifasciste, alleanza che avrebbe portato alla formazione del Fronte popolare, trionfatore nelle elezioni del febbraio 1936. Durante la guerra si trasferì a Barcellona per dirigere “La Batalla” e guidò la Segreteria internazionale del partito, dedicandosi a far conoscere all’estero le posizioni del POUM attraverso la promozione di attività politiche e la diffusione di testate come “La Révolution espagnole”. Dopo i drammatici fatti del maggio 1937, per la pressione esercitata in tal senso dai comunisti G. fu arrestato, processato e condannato, e solamente grazie alla liberazione da parte dei suoi custodi un’ora prima dell’ingresso a Barcellona delle truppe franchiste riuscì a raggiungere la Francia.

A Parigi diresse la Segreteria generale del POUM e quella del Centro marxista internazionale, costituita da partiti comunisti indipendenti, prima di dirigersi in Messico agli inizi del 1940. Nella capitale messicana tornò a occuparsi di giornalismo e saggistica politica, diresse la rivista POUM e fondò le riviste “Análisis. Revista de hechos e ideas” e “Mundo. Socialismo y Libertad”, oltre ad alcune case editrici. L’esperienza della guerra civile, con la repressione portata a termine dal PCE, lo segnò profondamente e determinò la sua evoluzione verso la socialdemocrazia negli anni del dopoguerra, che si svolse parallelamente a quella di altri leader del POUM come, ad esempio, Maurín. L’antistalinismo divenne allora il principale obiettivo politico di G., che lo denunciò in vari libri come Caníbales políticos: Hitler y Stalin en España (1941), La GPU prepara un nuevo crimen (con Gustav Regler, 1942), Los problemas del socialismo en nuestro tiempo (con Paul Chevalier, 1944), Europa ante el socialismo o la muerte (1946), La vie et la mort en URSS. Temoignage du général “El Campesino” (1950), e soprattutto, Así asesinaron a Trockij (1948 in francese, inglese, italiano, svedese, tedesco e olandese, e nel 1950 in castigliano), nel quale rivelò le circostanze e la vera identità dell’assassino: il comunista spagnolo Ramón Mercader.

Nel 1948, nella speranza che gli alleati provocassero la caduta di Franco, G. tornò a Parigi e con un altro vecchio dirigente del POUM, Enrique Adroher Gironella, costituì il Movimento socialista per gli Stati Uniti d’Europa. Nel 1953 fu tra i fondatori del Congreso por la libertad de la cultura e passò a dirigere il suo periodico, “Cuadernos del congreso por la libertad de la cultura”, propiziando l’avvicinamento degli intellettuali liberali dell’esilio, come Salvador de Madariaga, forse il più noto tra gli europeisti spagnoli di quegli anni, Ferrater Mora o Américo Castro, con quelli dell’interno che si erano nel frattempo allontanati dal franchismo, come Dionisio Ridruejo, José Luis L. Aranguren o Camilo José Cela. Queste iniziative, rivolte specialmente all’America Latina, dove era molto forte la presenza di partiti comunisti, si caratterizzavano per il loro netto anticomunismo e per il sostegno ricevuto da parte di alcune fondazioni statunitensi, cosicché G. venne accusato da alcuni gruppi di esiliati di essere finanziato dagli USA e, persino, di essere egli stesso un agente della CIA, accusa quest’ultima che egli sempre respinse sdegnosamente. Fra il 1954 ed il 1960 realizzò varie visite in America Latina, pubblicò De Lenin a Malenkov. ¿Coexistencia o guerra permanente? (1954), Marx y la Rusia de ayer y de hoy (1956) ed España, primer ensayo de democracia popular (1961), il romanzo La muerte en las manos (1956) e il volume Teatro histórico-político (1961).

Nella primavera del 1962 G. fu inoltre, insieme ad Adroher Gironella e José María Gil-Robles y Quiñones, uno dei principali organizzatori del Congresso di Monaco del Movimento europeo, nonostante il suo apporto rimanesse un po’ in ombra. L’anno seguente fondò il Centro di documentación y estudios, presieduto da Madariaga, che più tardi gli sarebbe servito da base per lanciare, insieme a Ridruejo, la nuova rivista “Mañana. Tribuna democrática española”, pubblicata a Parigi tra il 1965 ed il 1966. Nonostante la sua breve esistenza, la rivista si trasformò in una delle principali pubblicazioni dell’opposizione, e dalle sue pagine G. propugnò la riconciliazione tra gli spagnoli, l’avvicinamento tra l’esilio esterno e il dissenso interno e una via d’uscita democratica e pacifica dalla dittatura franchista che, allo stesso tempo, allontanasse il pericolo comunista e collocasse la Spagna a pieno titolo nel quadro di un’Europa unita, federale e socialdemocratica (v. anche Federalismo). Nel 1971 entrò nel PSOE.

Javier Muñoz Soro (2012)




Gaston Defferre




Gaston E. Thorn




GATT

Accordo Generale sulle Tariffe e il Commercio (GATT)