Habermas, Jürgen

H. (Gummersbach 1929) è filosofo, storico e sociologo di fama internazionale. Personalità filosofica critica e voce politica autentica e autorevole, è un intellettuale che non ha mai rinunciato a prendere posizione sui passaggi critici della società del ventesimo e ventunesimo secolo. Figura chiave del dibattito intellettuale internazionale, H. è professore emerito di filosofia all’Università J.W. Goethe di Francoforte in Germania e autore di numerosissime opere che offrono un quadro articolato dei dibattiti filosofici, giuridici e politici contemporanei europei.

H. è l’esponente più noto della seconda generazione della Scuola di Francoforte nella tradizione della “Teoria critica”, una scuola filosofica e sociologica neomarxista emersa nel 1923. Dopo il periodo dell’esilio americano dovuto alla Seconda guerra mondiale, alcuni esponenti, tra cui i filosofi tedeschi Theodor W. Adorno, Max Horkheimer e Friedrich Pollock, tornarono in Germania per continuare il loro lavoro di ricerca. La linea di pensiero che ha accomunato tutti gli esponenti di diverse discipline risiede nella critica della società presente, tendente a smascherare le contraddizioni del vivere collettivo contemporaneo.

Il pensiero habermasiano approfondisce il rapporto tra scienze naturali e scienze sociali per sviluppare una teoria finalizzata alla comprensione dei fenomeni sociali che superi il riduttivismo di tipo positivistico. Negli scritti di H. occupano una posizione centrale le questioni epistemologiche inerenti alla creazione e alla fondazione delle scienze sociali interpretate alla luce della cosiddetta “svolta linguistica” della filosofia contemporanea; con tale espressione si intende designare un fenomeno intellettuale che ha contraddistinto ampia parte della filosofia del Novecento e che ha studiato attentamente, pressoché ad ogni livello, le problematiche poste dal linguaggio e le conseguenze per la società. Anche l’analisi delle società industriali nel capitalismo maturo, il ruolo delle istituzioni in una nuova prospettiva dialogica emancipativa in relazione alla crisi di legittimità che mina alla base le democrazie contemporanee, e i meccanismi di formazione del consenso, sono state tematiche fondamentali dell’elaborazione filosofica habermasiana. Egli è da sempre stato un intellettuale impegnato nella critica del metodo del conoscere oggettivo che lo ha poi portato a sviluppare una nuova ragione comunicativa che egli ritiene possa liberare l’umanità dal principio di autorità.

Costretto nell’adolescenza a far parte della “Gioventù hitleriana”, nel 1949 H. iniziò gli studi di filosofia, psicologia, storia, letteratura tedesca ed economia prima alle Università di Gottinga (dal 1949 al 1950) e di Zurigo (dal 1950 al 1951), poi a Bonn dal 1951 al 1954.
Collaborò quindi come giornalista per vari testate, tra cui la “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, “Merkur”, “Frankfurter Hefte” e “Düsseldorfer Handelsblatt”, occupandosi prevalentemente delle tendenze sociali e intellettuali del suo tempo. Nel 1956 divenne assistente di Theodor W. Adorno presso l’Institut für Sozialforschung di Francoforte.

A seguito di alcuni dissapori con il direttore, Max Horkheimer, H. si trasferiva Marburgo, dove divenne professore associato. Nell’anno successivo, H. iniziava una straordinaria carriera presso la prestigiosa Università di Heidelberg in Germania, ove rimase fino al 1964. L’opera di H. è stata influenzata da Erich Rothacker, Oskar Becker, Nicolai Hartmann, Wilhelm Keller, Theodor Litt, Johannes Thyssen e Hermann Wein, da lui stesso indicati come i suoi maestri.

Tornato a Francoforte nel 1964, H. insegnò filosofia e sociologia all’Università J.W. Goethe di Francoforte sul Meno, criticando l’ala attivista del movimento guidato da Rudi Dutschke per le sue tendenze “fasciste”. Nel 1968 pubblicò Erkenntnis und Interesse (trad. it. Conoscenza e interesse), primo tentativo di fondazione teoretica della teoria critica. Nel 1970 usciva Zur Logik der Sozialwissenschaften (trad. it. Logica delle scienze sociali), uno studio sulle basi filosofiche delle scienze sociali.

Nel 1971 si trasferiva Starnberg nei pressi di Monaco, dove insieme a Carl Friedrich von Weizsäcker guidato guidò l’Istituto Max-Planck per la ricerca sulle condizioni di vita nel mondo tecnico scientifico fino al 1981. In questo periodo si dedicò allo studio dell’evoluzione sociale e della psicologia dello sviluppo, che sfociò nella pubblicazione del suo testo più importante, Teorie des kommunikativen Handelns (trad. it. Teoria dell’agire comunicativo), in cui H. si confrontava con i maggiori filosofi e sociologi del tempo. In quest’opera H. elaborava il concetto di una comunicazione libera da rapporti di potere, delineando una situazione linguistica ideale propria di un modello di società in cui il consenso è prodotto in modo argomentato e partecipato, senza distorsioni o condizionamenti esterni. La possibilità che tutti i gruppi sociali e i loro singoli attori comunichino liberamente e che siano partecipi in ugual modo e misura del dibattito contemporaneo sui problemi che affliggono il mondo sociale viene vista da H. come la migliore difesa e protezione contro i fenomeni quali le ideologie, l’alienazione, la sottomissione del momento politico alle logiche della tecnica e dell’economia, la crisi di identità dell’individuo e l’insicurezza ontologica, e, infine, i rischi che comporta il processo di globalizzazione. Negli stessi anni H. si impegnava in un fecondo dibattito con Niklas Luhmann sulla teoria dei sistemi al fine di elaborare una teoria globale dell’azione e dei sistemi sociali, confrontandosi pure con la teoria dell’azione di Weber, col materialismo storico, col funzionalismo e neofunzionalismo di Parsons e dello stesso Luhmann, con la sociologia fenomenologica di Schutz, con l’interazionsimo simbolico di Mead, con l’etnometodologia di Garfinkel e Cicourel, con la filosofia del linguaggio di Wittgenstein, Chomsky e Apel fino all’ermeneutica di Gadamer e alle posizioni della psicologia cognitivista e della psicanalisi di Freud.

A H. sono state conferite numerosissime onorificenze, tra cui il premio Hegel nel 1973, il premio Sigmund Freud nel 1976 e il premio Theodor W. Adorno nel 1980. Nel 2004 è stato insignito del premio Kyoto per la carriera, uno dei riconoscimenti internazionali più importanti nel campo della cultura e della scienza. Nel 2005 gli è stato conferito l’onorificenza Holberg per le sue teorie sviluppate nel campo dell’etica del discorso e dell’agire comunicativo. Inoltre, nel 2005, H. è stato insignito del premio per il libro politico Bruno Kreisky. Oltre ad altri innumerevoli riconoscimenti pubblici per la sua intensa attività pubblicistica, H. ha conseguito numerose lauree honoris causae, tra cui quella della New York School for Social Research e delle Università di Gerusalemme, Buenos Aires, Utrecht, Atene e Tel Aviv.

Negli anni più recenti, H. ha in varie occasioni preso posizione nel dibattito sul futuro del ruolo dell’Europa, sui processi di globalizzazione e sull’evoluzione socio-politica degli Stati nazioni. In varie occasioni ha approfondito tematiche rilevanti come la relazione tra il liberalismo e la democrazia, la pluralità della società e la susseguente necessità delle istituzioni politiche e giuridiche di impegnarsi nella ricerca di nuove forme per meglio coltivare le identità all’interno della società di tipo pluralistico e il rapporto tra le norme esistenti e l’analisi empirica delle condizioni sociali necessarie per la realizzazione delle istituzioni democratiche.

H. dimostra come sia possibile immaginare un “Allargamento” della democrazia al di là dei confini del vecchio Stato nazione. L’evoluzione dell’Unione europea (UE) nel suo processo federativo come anche l’ONU nel suo evolversi di “politica interna mondiale” (Weltinnenpolitik) tentano, di fatto, di trovare nuove forme e regole che superino l’orizzonte nazionale (v. Federalismo). I saggi sulla globalizzazione segnano un ulteriore avvicinamento del filosofo alle posizioni degli eurofederalisti, con un’analisi comparativa che riflette anche le posizioni degli euroscettici e dei cosmopolitici (v. Euroscetticismo). H. ricostruisce il dibattito sulla crisi dello Stato nazionale e mostra come non esistano ostacoli insuperabili ad un processo di integrazione europea in senso federativo (v. Integrazione, teorie della). Gli eurofederalisti dovranno saper progettare per l’Europa un futuro che dia ali alla fantasia e che nelle diverse arene nazionali scateni un ampio, pubblico e drammatizzato dibattito sopra il tema comune. Occorre che l’Europa passi ad una costituzione che sia modellata in senso tale che non faccia sorgere conflitti tra gli Stati. Tuttavia, H. non punta allo smantellamento dello Stato nazionale, al quale riconosce un ruolo fondamentale nell’evoluzione della democrazia, bensì alla salvaguardia del suo ruolo, attraverso una riorganizzazione e una ridefinizione delle sue sfere di azione. Le identità nazionali degli Stati e il sistema di contrattazione tra Stati nelle materie in cui il trasferimento dei poteri decisionali all’autorità sovranazionale non è strettamente necessario dovranno essere salvaguardati. Alla base della riflessione del filosofo vi è la convinzione che i futuri assetti europei debbano basarsi sull’ allargamento della base di legittimità delle istituzioni ivi presenti e sulla nascita di un vero dibattito politico europeo (sfera pubblica europea) e una solidarietà civica europea. Nel processo d’integrazione e d’unificazione europea H. pare trovare un nucleo federale il quale potrà essere il fondamento per il nuovo ordine internazionale di cui parlava Kant. Un ordine nuovo basato sulla contrattazione tra gli Stati che, sul modello del processo di integrazione europea (v. Integrazione, metodo della), dovrà trovare forme di cooperazione che possano rispondere ai rischi inerenti al fenomeno della globalizzazione.

H. è altresì intervenuto più volte nella discussione sui principi della morale sia in Europa che negli Stati Uniti, affermando che l’Europa deve agire da controbilanciere all’unilateralismo egemonico degli USA. Ciò presuppone però un sentimento di comune appartenenza politica e pone la questione dell’identità europea, della sua diversità nell’unità. Secondo H., l’Europa deve proporsi come un ordine politico scelto dai cittadini stessi dell’Europa delle diversità. Proprio il reciproco riconoscimento dell’altro nella sua diversità può diventare il segno di una identità europea comune e forte sul piano internazionale. Le Istituzioni comunitarie devono impegnarsi per un’opinione pubblica europea in cui le arene nazionali si aprono l’una verso l’altra per dar luogo a uno spazio in cui può prendere forma e svilupparsi un’identità europea postconvenzionale. L’Europa deve imparare a parlare all’unisono mantenendo la ricchezza della diversità della società. H. ha delineato in varie occasioni i problemi che si amalgamano l’un l’altro in quello unico dell’attuale mancanza di capacità d’azione dell’Unione europea: in primis, le condizioni economiche mondiali mutate in conseguenza della globalizzazione, lo sviluppo demografico e il fenomeno dell’immigrazione non sono più gestibili a livello dello Stato nazionale e perciò bisogna ricorrere al recupero della forza politica creativa a livello sopranazionale; l’Unione europea deve di conseguenza uscire dalla paralisi dopo il fallimento dei due referendum costituzionali in Francia e in Olanda (v. Paesi Bassi) e costituirsi come un attore mondiale capace di agire in politica estera promuovendo le necessarie riforme per eliminare i sintomi di una situazione mondiale ad alto rischio, tra cui lo scontro tra l’Occidente e l’Islam e il cattivo funzionamento delle istituzioni.

Nonostante le critiche mosse al sistema habermasiano, incentrate soprattutto sull’eccessivo ottimismo riposto nell’applicabilità concreta dell’agire comunicativo, H. ha avuto e continua ad avere una ragguardevole influenza sulla filosofia, la sociologia e le scienze sociali contemporanee. Sempre propenso al dialogo con gli sviluppi del pensiero etico e socio-politologico, H. è sempre stato e continua ad essere un forte sostenitore degli ordinamenti kantiani sopranazionali, ma anche del modello di vita europea.

Elisabeth Alber (2006)




Haferkamp, Wilhelm

Sindacalista tedesco e uomo politico del partito socialdemocratico tedesco SPD (Sozialdemokratische Partei Deutschlands), H. (Duisburg 1923- Bruxelles 1995) svolse un ruolo di primo piano nel settore delle politiche europee nella sua lunga carriera di commissario e vicepresidente della Commissione europea a Bruxelles.

Prima di trasferirsi in Belgio, H. fu eletto consigliere del Land tedesco Renania settentrionale-Vestfalia. Del 1967 al 1985 lavorò presso la Commissione europea a Bruxelles ricoprendo diversi ruoli. Dal 1967 al 1973 fu Commissario europeo per l’energia sotto la Commissione guidata da Jean Rey e dal 1970 al 1973, sotto le Commissioni Franco Maria Malfatti e Sicco Mansholt, ebbe anche la competenza per il settore del mercato interno. Dal 1973 al 1977, sotto la Commissione François-Xavier Ortoli, fu commissario per l’economia, la finanza, il credito e gli investimenti. Dal 1977 al 1985, invece, fu commissario per le relazioni esterne sotto le Commissioni europee Roy Jenkins and Gaston Thorn. Inoltre, dal 1970 al 1985 ricoprì il ruolo di vicepresidente della Commissione europea.

Gli anni Settanta furono segnati da una crisi economica mondiale con alti livelli di inflazione, di disoccupazione e di indebitamento pubblico, legata a un insieme di fattori, fra i quali vanno sottolineati in particolare l’instabilità monetaria, la crisi energetica e le difficoltà strutturali connesse con l’incipiente transizione alla società postindustriale e con l’emergere del problema dei limiti ecologici dello sviluppo economico. A questi problemi, la Comunità economica europea (CEE) volle rispondere con il primo progetto di Unione economica e monetaria (UEM), il quale prevedeva la realizzazione graduale dell’Unione monetaria, restringendo progressivamente i margini di fluttuazione fra le monete, la graduale armonizzazione delle politiche economiche nazionali e la creazione di politiche comuni. H., in quanto commissario europeo per l’energia e per il mercato interno, si trovò a lavorare con i politici e ministri dei vari paesi per poter meglio fronteggiare la crisi economica e per elaborare politiche di coordinamento per il progetto di Unione economica e monetaria, che fallì e fu realizzato solo in seguito.

H. fu impegnato anche nel settore della cooperazione economica a livello internazionale. Soprattutto all’inizio degli anni Ottanta le relazioni economiche con il Giappone, nuovo polo economico emergente, si intensificarono e richiesero una politica di coordinamento per poter stabilire un insieme di regole sia per l’esportazione di prodotti comunitari in Giappone sia per l’importazione di prodotti giapponesi nell’area comunitaria. Nel contesto della cooperazione economica a livello mondiale, H. fu anche una figura chiave in veste di vicepresidente della Commissione europea (guidata da Jenkins) per i negoziati scaturiti da una dichiarazione congiunta dell’associazione ASEAN (Associazione delle nazioni dell’Asia sudorientale) con la Comunità europea nel 1980 a Kuala Lumpur in Malesia. L’ASEAN è un’organizzazione politica, economica e culturale di nazioni situate nel Sudest asiatico, fondata nel 1967 con lo scopo principale di promuovere la cooperazione e l’assistenza reciproca fra gli Stati membri per accelerare il progresso economico e aumentare la stabilità della regione. Il vicepresidente della Commissione europea H. si impegnò per realizzare un programma di cooperazione economica in diversi settori tra i paesi ASEAN e l’Europa. La sottoscrizione dell’accordo di cooperazione ASEAN-CEE fu celebrato come l’inizio di una nuova era per tutti i paesi coinvolti e come prova di una volontà politica aperta ad affrontare insieme i rischi e i problemi economici. Infatti, la crescente interdipendenza economica e le nuove politiche di sviluppo per paesi del terzo mondo richiesero maggiori sforzi da tutte le parti coinvolte. Accanto alla cooperazione economica, anche la cooperazione nei settori della cultura, del commercio e dello sviluppo furono a lungo discussi e considerati fondamentali per una cooperazione sostenibile tra i paesi asiatici e l’Europa.

Inoltre, in veste di Commissario europeo per le relazioni esterne, H. e i suoi collaboratori si impegnarono per un accordo quadro con il Consiglio di mutua assistenza economica (Comecon), l’organizzazione economica degli Stati comunisti (1949-1991).

Elisabeth Alber (2012)




Haider, Jörg

H. (Bad Goisern 1950), figlio di un calzolaio che aveva militato nel partito nazista, ha una brillante carriera accademica: si iscrive alla facoltà di Legge a Vienna nel 1969, consegue il dottorato nel 1973 e dal 1972 al 1976 è assistente presso la stessa università.

Attivo a partire dal 1965 nei movimenti giovanili di destra, durante i suoi studi H. fonda il Ring Freiheitlicher Jugend (RFJ), legato al Partito austriaco della libertà (Freiheitliche Partei Österreichs, FPÖ). Dal 1979 al 1983 è presidente della sezione regionale dell’FPÖ della Carinzia e nel 1983 ne diventa segretario regionale. La prima tappa della sua ascesa è rappresentata dalle elezioni del 1984: il FPÖ conquista il 16% dell’elettorato in Carinzia, aumentando del 4,3% i propri voti rispetto alle elezioni precedenti.

In quello stesso anno H. diventa capo del partito, ottenendo al congresso del FPÖ il 57,7% dei voti dei delegati. La nuova presidenza ha come conseguenze la fine della coalizione di governo tra il Partito della libertà e il Partito socialista (Sozialdemokratische Partei Österreichs, SPÖ) a livello nazionale, annunciata dal cancelliere Franz Vranitzky. Le nuove elezioni, indette il 23 novembre 1986, mostrano una forte crescita del FPÖ, che raddoppia il suo elettorato, passando dal 4,98% del 1983 al 9,72% del 1986. Ciononostante, viene riformata una “grande coalizione” tra il Partito socialista e il Partito conservatore (Österreichische Volkspartei, ÖVP). La reazione di H. a tale esclusione consiste in un durissimo attacco alla “grande coalizione”.

Tale strategia si dimostra vincente: il FPÖ ottiene crescenti consensi durante le campagne elettorali di Vienna (novembre 1987), della Bassa Austria (ottobre 1988), del Tirolo, di Salisburgo, e ancora della Carinzia (marzo 1989). Durante le elezioni del 1989, l’FPÖ ottiene in Carinzia il risultato sensazionale del 13,03% e diventa così la seconda forza politica, facendo scalare i conservatori dell’ÖVP al terzo posto. La formazione del nuovo governo regionale è accompagnata da attacchi contro Haider e da dissidi fra i socialisti e i conservatori, che conducono alla coalizione tra l’FPÖ e l’ÖVP, e all’elezione di H. a presidente regionale (Landeshauptmann) a fine maggio 1989. Con il 97,5% dei voti, H. viene rieletto come presidente del FPÖ durante il ventesimo congresso del partito nel maggio 1990. Inoltre, durante le elezioni nazionali del 7 ottobre 1990 il Partito della libertà riporta un ulteriore successo, ottenendo il 16,6% dei voti.

La carriera di H. sembra però in pericolo a causa delle sue affermazioni circa il carattere esemplare della politica occupazionale del III Reich. Dopo vari scontri con l’ÖVP e il Partito socialista, Haider annuncia la fine della coalizione con l’ÖVP in Carinzia il 21 giugno 1991. A seguito di questa presa di posizione, un voto di sfiducia del SPÖ, appoggiata segretamente dall’ÖVP, rovescia il governo della Carinzia. Il presidente regionale dell’ÖVP nella Carinzia, Christof Zernatto, viene eletto quindi presidente della Carinzia il 25 giugno 1991. Le vittorie del partito di H. però continuano con il successo nello Steiermark (settembre 1991), nell’Alta Austria (ottobre 1991) e infine a Vienna (dicembre 1991).

Nel frattempo il FPÖ viene trasformato da H. attraverso l’allontanamento di figure politiche che avevano rivestito un ruolo rilevante nel partito prima della sua ascesa. Norbert Gugerbauer, capo del gruppo FPÖ nel Parlamento nazionale, nel marzo 1992 annuncia la sua rinuncia agli incarichi politici, facendo strada a H., che gli subentra nella carica parlamentare. Poco tempo dopo, a causa dello stile autoritario di H., si ritira anche il deputato Georg Mautner-Markhof, che rappresentava la linea economica liberale all’interno del FPÖ.

Un ulteriore dissidio interno al Partito della libertà viene provocato dalla proposta di H. di una raccolta di firme per un referendum contro gli immigrati, precedente alle elezioni nazionali del 1994. Il programma elaborato da H. nel novembre 1992 (Zwölf-Punkte-Programm) prevede, come punto fondamentale, la chiusura delle frontiere austriache all’immigrazione. Heide Schmidt, esponente liberale del FPÖ, si rifiuta, sola fra i dirigenti del partito, di appoggiare tale decisione. La campagna contro l’immigrazione di H. con il titolo “Österreich zuerst” (Prima l’Austria) è destinata ad una sconfitta: essa è appoggiata solo da 417.000 firme (il 7,37% dei votanti). Pochi giorni dopo Heide Schmidt e altri membri prominenti del partito si ritirano dal FPÖ e organizzano il Forum liberale.

Nel maggio 1993, nel corso di un congresso straordinario del partito, H. dà inizio ad una campagna aggressiva contro l’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), che sfocia nella proposta di subordinare l’accesso dell’Austria all’Unione europea, a condizioni assai restrittive, fra cui la rinuncia da parte dell’UE al progetto di uno stato centrale europeo. Gli argomenti principali indicati da H. nella sua campagna euroscettica (v. Euroscetticismo) consistono nella denuncia della riduzione della sovranità nazionale austriaca, conseguenti all’entrata nell’UE, e nella definizione dell’UE come organismo burocratico, dominato da interessi politici e non rappresentativo della volontà popolare. In tal senso il congresso del Partito della libertà, svolto nell’aprile 1994, dà direttive ai rappresentanti parlamentari di rifiutare gli accordi di adesione, ma non si pronuncia sulla condotta da adottare in occasione del referendum sull’adesione dell’Austria alla UE del 12 giugno 1994. L’Austria diviene, quindi, paese membro dell’Unione europea, avendo i favorevoli conseguito una larga maggioranza, pari al 66,39% dei voti espressi.

Nel marzo 1994, durante le elezioni regionali del Parlamento della Carinzia, H. dà un segnale di svolta politica, abbandonando la tesi della coappartenenza dell’Austria alla comunità di cultura e di popolo tedesca. Il riferimento all’unità della cultura tedesca era stato un principio fondamentale del Partito della libertà, che, alla sua formazione nel dopoguerra, aveva accolto i sostenitori del progetto della “Grande Germania”, che avrebbe unito Germania e Austria. Il successo di H. nelle elezioni politiche successive premierà questa svolta.

L’ascesa dell’FPÖ è evidente nel risultato delle elezioni del Parlamento regionale di Vorarlberg, svoltesi nel settembre 1994, quando il FPÖ supera per la prima volta i socialisti. Il risultato delle elezioni nazionali di ottobre 1994 conferma la formula vincente della strategia di H. di attaccare l’immobilismo del sistema bipartitico austriaco: il FPÖ conquista il 22,6% dei voti contro il 35,2% del SPÖ e il 27,7% dell’ÖVP. Tale successo non impedisce la formazione di un’altra grande coalizione fra ÖVP e SPÖ, dopo il rifiuto dell’ÖVP a collaborare con il Partito della libertà per la formazione di una coalizione di minoranza.

Nel 1995 H. e la dirigenza dell’FPÖ intraprendono una riforma strutturale radicale del partito, che diviene un movimento dal nome Die Freiheitlichen-Bewegung 1998. Nello stesso periodo H. riconferma la svolta ideologica del partito contro l’ipotesi di una “Grande Germania” e si appella ad un ritorno ai valori borghesi dell’onestà, del decoro, dello zelo e dell’ordine, auspicando contemporaneamente la formazione di una terza Repubblica, che avrebbe condotto a un consolidamento del sistema presidenziale, alla fine dello stato camerale e al rafforzamento dei metodi della democrazia diretta. La sua concezione di politica estera si sostanzia in alcuni punti principali enunciati nell’aprile 1995: la fine della Neutralità dell’Austria e l’entrata del paese nell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO).

Le dichiarazioni di H. a sostegno delle milizie Waffen SS nel dicembre 1995 a Ulrichsberg provocano un altro scandalo nel mondo politico, che però non causa reazioni significative né da parte delle forze politiche, né da parte degli elettori. Al contrario, le elezioni nazionali del 17 dicembre 1995 confermano l’ulteriore ascesa del FPÖ con il 22,2% dei voti. Lo stesso H. viene riconfermato a novembre 1996 capo del partito con il 98,5% dei voti.

Al congresso del partito nell’ottobre 1997, il FPÖ abbandona definitivamente la corrente del pangermanesimo, dichiarandosi “partito del patriottismo austriaco”, e si propone in materia economica un progetto di riconciliazione del modello del libero mercato con quello socialdemocratico attraverso la formula dell’economia di mercato corretta da regole del fairplay (fairen Marktwirtschaft). Inizia nel contempo la campagna euroscettica di H., che però non riesce ad ottenere nessun risultato apprezzabile contro l’introduzione dell’euro nel paese. Più successo ha, invece, un’altra iniziativa chiaramente contraria all’integrazione dei paesi dell’Est, e cioè il sindacato della libertà austriaco (Freien Gewerkschaft Österreichs, FGÖ), fondato come fronte contro i lavoratori provenienti dai paesi dell’Europa orientale. Nel 1998, a settembre, H. insiste sulla sua linea politica di rifiuto dell’Allargamento dell’UE ai paesi ex-comunisti e scatena uno scandalo politico con le sue dichiarazioni sulla necessità di compensare la minoranza dei sudeti tedeschi delle loro perdite economiche e morali dopo la Seconda guerra mondiale, da parte del governo ceco.

Le elezioni del parlamento nazionale dell’ottobre 1999 vedono il trionfo del partito di H. e costituiscono la chance per andare al governo. L’esito di tali elezioni rappresenta, infatti, una secca perdita per i conservatori (ÖVP ha solo il 26,91% dei voti), una sconfitta per i socialisti, che con il 33,15% conseguono il loro peggiore risultato dalla fine della Seconda guerra mondiale, e il trionfo del FPÖ, che con il 26,91% raggiunge per la prima volta a livello nazionale il Partito conservatore. Dopo vari tentativi falliti di formare una grande coalizione, il capo dell’ÖVP, Wolfgang Schüssel, dà il via alla coalizione con l’FPÖ e giura come cancelliere il 4 febbraio 2000. L’entrata di H. e del suo partito nel governo provocano sia in Austria che all’estero forti reazioni di protesta, dovute all’euroscetticismo di H., alle sue dichiarazioni scandalose sul nazismo e ai suoi atteggiamenti aggressivi contro gli ebrei e gli immigrati. Malgrado H. rinunci a qualsiasi ruolo nel governo e nei mesi successivi ceda la presidenza del partito a Susanne Riess-Passer, e benché i due partiti ÖVP e FPÖ si impegnino a rispettare e promuovere i valori fondamentali dell’UE e i suoi scopi in un preambolo al patto di coalizione, gli stati membri dell’UE decidono di limitare temporaneamente i loro contatti bilaterali con l’Austria e Israele vieta a H. l’ingresso nel suo territorio.

Le sanzioni dell’UE contro l’Austria costituiscono il primo esempio di politica comune dell’UE contro una forza politica al governo di un paese membro: si apre un dibattito molto intenso nel mondo politico internazionale sull’opportunità di intervenire per sanzionare un partito regolarmente eletto in uno Stato membro. Tale controversia provoca paradossalmente la reazione negativa della maggior parte delle forze politiche e dell’opinione pubblica austriaca e causa ulteriori provocazioni di H., che minaccia il ritiro dell’Austria dall’UE e che definisce Joschka Fischer, ministro degli esteri tedesco, «ex simpatizzante della RAF» (Rote Armee Fraktion, organizzazione terroristica tedesca).

Benché assente dalla scena politica nazionale, nell’ambito del FPÖ H. rimane, in questa fase, l’autorità fondamentale, come del resto ammettono anche il vicecancelliere Susanne Riess-Passer e il capo gruppo del FPÖ in Parlamento Peter Westenthaler. Anche durante il periodo della coalizione fra FPÖ e ÖVP H. non modera i toni della sua campagna politica, che minaccia perfino la stabilità della stessa coalizione: la crisi più grave a questo proposito viene provocata dalla raccolta di firme contro la centrale atomica ceca di Temelin (le firme ammontano a 915.000). La durissima protesta contro Temelin si affianca, nella propaganda politica di H. e del suo partito, a una forte polemica antieuropeista: H. difende l’idea di imporre un veto all’entrata della Repubblica Ceca nell’UE nel caso che essa non sospenda l’attività della centrale atomica di Temelin e non risarcisca la minoranza tedesca dei Sudeti dalle perdite subite a causa dei Decreti Beneš. Tale linea antieuropeista era già evidente nelle campagne politiche di H. del 2000 contro l’allargamento dell’UE e contro il progetto di integrazione europea: allora H. si era scontrato con il delegato del governo austriaco per le questioni dell’allargamento dell’UE, Erhard Busek. Nel 2002 il rinnovato antieuropeismo di H. scatena non solo un ulteriore raffreddamento dei vertici dell’UE verso il partito FPÖ, ma anche lo scontro con il partito di coalizione ÖVP e una crisi di governo.

Un ulteriore episodio imbarazzante per la comunità internazionale e per le forze politiche moderate di governo, nonché per alcuni settori dello stesso FPÖ, è la visita di H. al dittatore iracheno Saddam Hussein, nel febbraio 2002. La reazione alle polemiche causate dal suo euroscetticismo e dalla sua visita in Iraq provoca la decisione di H. di ritirarsi dal comitato di coalizione (Koordinationagremium ÖVP/FPÖ) e dalla politica a livello nazionale; ma dopo l’insistenza della base del partito H. torna sulle sue decisioni e anzi si impegna a organizzare le forze politiche di destra in vista delle elezioni europee. A fine luglio 2002, un incontro a Pörtschach del presidente della Carinzia, H., con il rappresentante politico più significativo dei Vlaams Bloc (partito fiammingo di destra), Philippe Dewinter, convocato a tal scopo, provoca una discussione aspra ai vertici del FPÖ. In particolare, Susanne Riess-Passer, non informata dell’ipotesi proposta da H. di collaborare con i partiti della destra populista europea, e specificatamente con i Vlaams Bloc, sottolinea la scarsa sintonia tra il FPÖ e tale partito belga, e nello stesso tempo la fattibilità di un possibile accordo con la Lega nord italiana.

Tale iniziativa e la divergenza politica con H. sulla politica delle riforme economiche, provocano un forte dissidio interno al FPÖ e, conseguentemente, le dimissioni di Susanne Riess-Passer (vicecancelliere), del ministro delle Finanze Karl-Heinz Grasser, del ministro delle Infrastrutture Mathias Reichold e del presidente del partito Peter Westenthaler. La crisi provoca la caduta del governo.

Il candidato prescelto dal FPÖ per le elezioni è Herbert Haupt. La campagna politica si fonda su tre punti fondamentali: la restrizione del diritto di asilo, l’euroscetticismo, l’attacco agli immigrati. Le elezioni della Camera dei rappresentanti del 24 novembre 2002 conducono a una netta sconfitta del Partito della libertà, i cui consensi calano al 10,1%. Dopo varie consultazioni e ipotesi di alleanza, nel febbraio 2003 viene comunque riconfermata la coalizione nero-blu (ÖVP-FPÖ).

H., attaccato dal partito come principale responsabile della sconfitta, accentua ulteriormente i toni euroscettici. Il 1° settembre 2003 critica il patto di stabilità europea durante la campagna informativa sull’euro organizzata dalla banca nazionale austriaca; in ottobre elabora un programma di richieste per il governo in cui critica Bruxelles per il suo burocratismo; il 19 novembre propone un referendum in Austria sulla futura Costituzione europea.

Nel marzo 2004 il FPÖ vince le elezioni della Carinzia con il 42,5% dei voti e H., sostenuto anche dal SPÖ, è rieletto governatore della regione. Ma al di fuori della Carinzia il FPÖ andava perdendo consensi, come si evince dal pessimo risultato conseguito alle elezioni europee del giugno 2004. Per cercare di arginare questo declino, nell’aprile 2005 H. lascia il partito e fonda l’Alleanza per il futuro (Bündnis Zukunft Österreich, BZÖ): H. ne assume la leadership. Alle elezioni politiche del 2006 la nuova formazione ottiene soltanto il 4,1% dei consensi, superando di poco la soglia di sbarramento del 4%. Ostile alla Costituzione europea e al Trattato di Lisbona, propone una consultazione popolare sull’argomento e denuncia la «dittatura dell’Unione europea».

Alle elezioni federali del settembre 2008 il partito di H. ottiene il 10,7% dei voti, conseguendo un risultato superiore alle previsioni; il successo dell’estrema destra austriaca è ancora più marcato se si prende in considerazione anche il 17,5% dei consensi registrati dal FPÖ. A pochi giorni di distanza dalle elezioni, e più precisamente alle ore 1.15 dell’11 ottobre, uno spaventoso incidente stradale verificatosi a Lambichl (una frazione di Köttmannsdorf, in Carinzia) provoca la morte di H. Le cause vengono individuate nell’alta velocità della sua auto, nonché nelle tracce di alcool rinvenute nel sangue.

Patricia Chiantera-Stutte (2010)




Hallstein, Walter

H. (Magonza 1901-Stoccarda 1982) proveniva da una famiglia borghese di confessione evangelica. Suo padre, Jakob, era consigliere governativo per l’edilizia. Dopo il ginnasio a Magonza, durante il quale dimostrò un’acuta sensibilità storica per l’opera di Bismarck, H. studiò scienze giuridiche a Bonn, Monaco e Berlino, indirizzandosi quindi alla carriera accademica sotto la guida del giurista Martin Wolff, grande nome dell’ateneo berlinese negli anni Venti. Nel 1925 conseguì sotto la direzione di Wolff la Promotion (dottorato di ricerca), con una dissertazione di diritto privato sull’istituto del contratto di assicurazione sulla vita nelle clausole del Trattato di Versailles, e ne divenne l’assistente nella facoltà di Giurisprudenza. Nel 1927 fu chiamato come ricercatore all’Institut für Ausländisches und Internationales Privatrecht della Kaiser-Wilhelm-Gesellschaft, specializzandosi nel diritto dell’azionariato internazionale. Conseguita la Habilitation (libera docenza) nel 1929 in diritto privato e commerciale presso la facoltà di Legge berlinese, nel 1930 divenne ordinario di diritto commerciale, internazionale e comparato, e di diritto del lavoro all’Università di Rostock, pubblicando nel 1931 lo studio Die Aktienrechte der Gegenwart. Gesetze und Entwürfe in rechtsvergleichender Darstellung, che ne confermò le brillanti e precoci doti di giurista. Gli anni di Rostock coincisero con l’ascesa al potere del nazismo, rispetto al quale H. – totalmente dedito agli studi, ma sostenitore della democrazia weimariana – si mantenne lontano e critico. Lo dimostra, tra l’altro, la difesa da lui assunta del giovane democratico antinazista Eugen Gerstenmaier, futuro presidente del Bundestag a Bonn e allora esponente degli studenti evangelici, il quale si trovò coinvolto in uno scontro col capo della lega filonazista “Tannenberg” Gerhard Schinke, sfidato a duello e sottoposto a processo disciplinare in un giurì universitario per disposizione del Gauleiter di Rostock. Nella sua posizione di giudice del giurì, H. fu decisivo per l’assoluzione di Gerstenmaier.

Nel 1936 fu nominato decano della facoltà di Diritto ed economia dell’Università di Rostock. Segno dell’acquisizione di una solida posizione accademica, fu invitato nel 1940 a prendere servizio per l’anno successivo nella più centrale e importante Università di Francoforte. Tuttavia, questa brillante carriera fu interrotta il 25 febbraio 1941 dalla chiamata alle armi e dalla partenza come ufficiale d’artiglieria sul fronte occidentale. Per tre anni fu aiutante di campo del comandante del reggimento, il colonnello Reiter, insieme al quale il 6 giugno 1944 fu catturato a Cherbourg dagli americani e internato nel campo di prigionia di Como (Mississippi). Qui si mise in luce organizzando la biblioteca del campo e due semestri di corsi universitari per i detenuti, di cui ottenne successivamente il riconoscimento ufficiale. Nel periodo di prigionia H. iniziò a familiarizzarsi con il modo di vita americano e a stringere i primi importanti legami con le autorità statunitensi, che consoliderà durante il periodo annuale di visiting professor presso la Georgetown University tra il 1948 e il 1949. Ritornato in patria alla fine del 1945, riprese a insegnare a Francoforte, divenendovi nel 1946 rettore della Johann Wolfgang Goethe-Universität fino al 1948. Nel settore occupato dagli angloamericani H. svolse determinanti funzioni per la ricostruzione dei sistemi universitari e della giustizia, in modo particolare per le regioni comprese tra Assia e Palatinato, divenendo altresì presidente della Conferenza dei rettori della Germania sudoccidentale, nonché cofondatore e dal 1950 presidente della Commissione tedesca della United Nations educational scientific and cultural organization (UNESCO).

L’interesse europeista di H. precedette l’avvio della carriera politica, e si può far risalire alla partecipazione al Congresso dell’Aia del Movimento europeo (7-10 maggio 1948), durante il quale incontrò per la prima volta il futuro cancelliere Konrad Adenauer. In verità, una prima offerta di occuparsi di politica economica giunse ad H. da parte del potente ministro bavarese dell’Economia, Ludwig Erhard, il quale già nel 1946 gli chiese di assumere un posto di rilievo nel ministero. Ma H. all’epoca declinò l’invito, non intendendo rinunciare all’incarico accademico e di rettore. Il suo rapporto con la politica attiva ebbe pertanto iniziò solo nel 1950. Adenauer, da poco cancelliere della Repubblica Federale Tedesca (Bundesrepublik Deutschland, BRD) fondata l’anno prima, fu favorevolmente impressionato dalla competenza economica di H. e dal fatto che non fosse stato iscritto al partito nazista. Ciò lo rendeva particolarmente “presentabile” agli occhi degli alleati. Pertanto il cancelliere lo designò il 17 giugno 1950 – su segnalazione dell’economista Wilhelm Röpke, ma non senza obiezioni da parte del ministero federale per l’Economia – alla direzione della delegazione tedesca inviata a Parigi per discutere l’adesione della Germania al Piano Schuman, sfociata nelle trattative che portarono i Sei il 18 aprile 1951 a stipulare il Trattato di Parigi istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). In quella sede H. conobbe e divenne amico di Jean Monnet, capo della delegazione francese.

La sicura competenza, l’abilità negoziatrice e l’enorme capacità di lavoro dimostrate da H. in tale veste, convinsero il cancelliere a proporlo (e i membri prima riluttanti del governo ad accettarlo) il 1° agosto dello stesso anno al posto di segretario di Stato per gli Affari esteri della Cancelleria federale, nomina ufficializzata il 26 agosto e poi trasformata nel 1951 in quella di segretario di Stato nell’Ufficio esteri (da non confondere con la carica di ministro federale, che H. non ricoprì mai, essendo prima sottoposto ad Adenauer nella sua funzione di responsabile pro tempore agli Esteri, e poi a Heinrich von Brentano, nuovo ministro federale degli Esteri dal 7 giugno 1955). Come segretario di Stato egli fu il numero due del ministero (di cui disegnò la struttura interna e l’organizzazione) e giocò un delicato ruolo di cerniera con gli uffici del cancelliere. H. fu, insomma, il più fidato collaboratore di Adenauer sul versante internazionale. Come tale, consolidò il rapporto di amicizia atlantica con gli USA e si mise in luce negli anni Cinquanta per l’elaborazione della rigida posizione di non riconoscimento della Repubblica Democratica Tedesca (Deutsche Demokratische Republik, DDR). Con la dichiarazione del 29 settembre 1955 – grazie alla quale gli fu attribuita sui giornali e da parte dell’opposizione la paternità della cosiddetta “dottrina H.”, che in realtà fu, più che una creazione originale di H., un’etichetta che racchiudeva il contributo di diverse personalità, tra cui il ministro degli Esteri von Brentano e il direttore generale del ministero degli Esteri Wilhelm G. Grewe – gettò le basi della Deutschlandpolitik, secondo cui la Repubblica federale era la sola legittima rappresentante costituzionale del popolo tedesco. L’importante corollario politico di tale dottrina – formulato da H. a seguito della conferenza di lavoro degli ambasciatori tedeschi tenuta a Bonn l’8-9 dicembre 1955 e ufficializzato da von Brentano il 28 giugno 1956 con dichiarazione ministeriale –enunciava il diritto-dovere del governo federale di non intrattenere relazioni con gli Stati che riconoscessero diplomaticamente la DDR (con la rilevante necessaria eccezione dell’URSS). Tale dottrina ebbe la prima applicazione nell’autunno 1957, allorché causò la rottura delle relazioni diplomatiche con la Iugoslavia di Tito. Sarebbe rimasta in auge fino al 1969, allorché venne sostituita dalla Ostpolitik inaugurata da Willy Brandt all’atto di assumere la cancelleria. Nel periodo trascorso come segretario di Stato agli Esteri H. si mise in luce altresì sulle questioni riguardanti le riparazioni a Israele e le trattative per il ritorno del Saarland sotto la sovranità tedesca.

Sul terreno europeo, dopo aver guidato nel 1950-51 la delegazione tedesca per la CECA, H. diresse anche le trattative per l’istituzione della Comunità europea di difesa (CED) e della Comunità politica europea (CEP), conclusesi col fallimento decretato dal voto dell’Assemblea nazionale francese nel 1954. Fu centrale, pertanto, fin dall’inizio della sua attività politica, l’impegno sulle problematiche europee in connessione coll’affermarsi del metodo funzionalista dell’integrazione economica (v. Funzionalismo) propugnato nei memorandum di Jean Monnet e fatto proprio dal ministro degli Esteri francese Robert Schuman nella celebre dichiarazione del 9 maggio 1950. La formazione di specialista di questioni giuridico-economiche internazionali, unitamente all’ispirazione europeista e federalista (v. Federalismo) condivisa con Adenauer, fece di H. uno dei protagonisti della prima ora del processo d’unificazione europea. Egli continuò, in effetti, a sovrintendere alle varie delegazioni tedesche nelle successive fasi in cui fu elaborata nel 1955-57 la complessa posizione comune che portò i Sei della CECA dalla Conferenza di Messina alla stipulazione dei Trattati di Roma (25 marzo 1957), coi quali furono istituite la Comunità economica europea (CEE) e la Comunità europea per l’energia atomica (CEEA). H. fu tra i principali sostenitori della creazione di un mercato comune (v. Comunità economica europea), visto come luogo di un’integrazione orizzontale, cioè globale e non settoriale, delle economie europee (v. Integrazione, metodo della). A conferma di tale contributo ideale e politico fu chiamato nel gennaio 1958 come Presidente della Commissione europea, incarico che svolse in modo lungimirante e decisivo, presentando ai governi e facendo approvare tra il 1959 e il 1960 il piano di sviluppo della CEE che portò il suo nome. H. giocò un ruolo di importanza storica per il destino comunitario per quasi dieci anni fino al 30 giugno 1967. Chiuso in quella data il periodo di lavoro istituzionale europeo, H. fu eletto dal 1968 presidente del Movimento europeo fino al 1974, partecipando con gli scritti – tra cui fondamentale il libro del 1969 intitolato Der unvollendete Bundesstaat – allo sviluppo della concezione federale dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della). Nel 1969 fu eletto deputato al Bundestag come candidato del Rheinland-Pfalz, mantenendo il seggio fino al 1972, quando si ritirò dalla politica attiva per dedicarsi esclusivamente alla rielaborazione della sua visione europea.

Con quali idee, prospettive e finalità attuò H. l’opera di presidente della Commissione CEE? Consentono di rispondere a questo interrogativo documenti, conferenze e discorsi tenuti in università, istituti di ricerca o di fronte a platee di operatori economici. Di particolare interesse è il libro United Europe. Challenge and opportunity, (Harvard University Press, Cambridge, Massachussets, 1962). Occorre rilevare innanzi tutto che le convinzioni del presidente della Commissione non si fondavano su una speciale fede politico-dottrinaria. Da buon giurista dell’economia internazionale, il suo abito mentale lo portava a considerare le cose dal punto di vista del diritto e della prassi. H. fu incline a un rapporto pragmatico con le teorie politiche. Il suo convincimento europeista partiva dall’intuizione del destino comune della Germania e dell’Europa distrutte all’indomani della Seconda guerra mondiale. Gli anni di prigionia in America lo avevano reso consapevole dell’inevitabilità e della positività dell’orizzonte atlantico. L’amicizia con gli Stati Uniti e l’integrazione definitiva della nuova Germania nell’Europa occidentale erano i due paletti fissi attraverso i quali soltanto poteva passare, a suo avviso, la prospettiva unificatrice del continente europeo. A maggior ragione, ciò gli sembrò vero dopo il varo del Piano Marshall e la fondazione dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE, 1947), che costituì la prima concreta esperienza di decisioni istituzionalmente concordate tra i governi impegnati nella ricostruzione.

Il problema centrale dell’Europa era di risolvere definitivamente il conflitto franco-tedesco e, a tale scopo, l’elaborazione del Piano Schuman era il primo passo nella giusta direzione. Premesso questo, la posizione di H. non è però riconducibile essenzialmente a un’articolazione o a un approfondimento della teoria monnetiana. Certamente H., vero figlio del Palatinato renano, fu sensibile al rapporto con la Francia, di cui valorizzò il contributo culturale. Occorre però ricordare che l’idea di un intreccio (Verflechtung) necessario e pacifico di tutte le industrie minerarie e di base esistenti nel bacino renano e della Ruhr era presente già in Adenauer negli anni successivi alla Prima guerra mondiale e faceva parte del bagaglio federalista dei democratici renani. L’obiettivo di una stretta cooperazione delle industrie pesanti tedesca e francese era visto da Adenauer come un potente mezzo per render impossibile la guerra tra i due vicini. Pertanto, anche la concezione europeista di H., e soprattutto gli originali moventi dinamici che lo porteranno allo scontro con Charles de Gaulle nel 1965, si fondavano su elementi precedenti e oltrepassanti il funzionalismo monnetiano, incardinandosi piuttosto da un lato sull’autoctona tradizione federalista tedesca e dall’altro su esigenze di tendenziale e graduale trasformazione della sfera “politica” che il processo di unificazione europea necessariamente comportava.

In realtà, H. considerò l’unità europea come “la sfida e l’opportunità” politiche a tutto tondo, che lo spirito del tempo poneva ai popoli liberi, al fine di trasformare in meglio – ossia in senso modernizzatore e democratico – il vecchio mondo delle relazioni internazionali tra potenze. Il suo assunto fondamentale esprimeva la convinzione che la necessità per gli Stati nazionali di lavorare insieme in modo comunitario avrebbe prodotto non solo una forma pacifica di coesistenza e di integrazione economica, ma anche un nuovo tipo di zoon politikón, un modo inedito di intendere la dimensione politica a livello nazionale e sovranazionale. È interessante che, per argomentare l’avanzata delle nazioni europee verso l’unità, egli riprendesse la teoria fatta da Tocqueville ne La democrazia in America, quasi a unire – in controtendenza rispetto al contemporaneo gollismo – la cultura francese con la realtà statunitense. Alcuni temi esaminati da Tocqueville gli sembravano di bruciante attualità alla metà del Novecento: la crescita dell’interdipendenza delle nazioni e l’impossibilità per esse di restare estranee l’un l’altra a causa del progresso tecnico-industriale e dello sviluppo delle comunicazioni; infine, tratto che si sarebbe vieppiù imposto, il mondo sarebbe stato dominato da Stati giganti, come l’America e la Russia. Di fronte a tale evoluzione, che metteva all’ordine del giorno l’esigenza di nuove forme di cooperazione interstatale pacifica, continua, stabile ed efficiente, l’organizzazione politica del mondo, e segnatamente dell’Europa, restava per H. purtroppo ancorata a un sistema di Stati sovrani retti sull’anacronistico reticolo delle tradizionali relazioni internazionali di potenza. Di qui l’apprezzamento del valore innovativo dell’iniziativa Monnet-Schuman, che superava le finalità confederative mettenti capo al Consiglio d’Europa del 1949.

Il dato realmente innovatore della Comunità creata nel 1951, e in generale delle comunità funzionaliste, era visto da H. nel loro carattere “sopranazionale”. Era questo aspetto delle nuove Istituzioni comunitarie che faceva superare i loro limiti settoriali e faceva credere che, necessariamente, dall’integrazione economica settoriale si sarebbe passati gradualmente a una integrazione allargata orizzontalmente a tutta l’economia dei paesi membri, e dall’unità economica a quella politica. L’elemento “sopranazionale” era l’esponente dell’esigenza di creare un centro di direzione continentale non solo indipendente dagli Stati membri, ma anche tendenzialmente democratica, politica ed economica, stabile ed efficiente. Ciò implicava, per H., che una parte del potere decisionale degli Stati era sottratto loro e usato da un’autorità sopranazionale, in embrione di tipo federale, con finalità che superavano le singole ottiche nazionali. In particolare, tale carattere sarebbe stato rivestito dopo il Trattato di fusione degli esecutivi (poi approvato nell’aprile 1965 e applicato nel 1967) dalla Commissione CEE, di cui il presidente esaltava le tre funzioni di “motore”, “custode” e “mediatore” riconosciutele dal trattato del 1957. Funzioni che nulla avevano a che fare con la creazione di una “eurocrazia”, come volgarmente veniva apostrofata la burocrazia di Bruxelles, in quanto non legittimata dal voto popolare e lontana dai paesi membri. In realtà, anche per H., a torto identificato come il capo della nuova genìa di euroburocrati, la logica comunitaria non era quella di «stabilire una lontana tecnocrazia governante a colpi di ukase da un qualche Cremlino sopranazionale», bensì di dare corpo e realtà agli obiettivi stabiliti nei Trattati, che secondo H. mettevano in essere una vera e propria normativa “costituzionale”, e alle decisioni politico-legislative prese dal Consiglio dei ministri su proposta della Commissione. Proprio il monopolio di proposta della Commissione era visto quale tratto qualificante del suo potere, simbolo del suo potenziale profilo di “governo europeo”. In questo senso è da interpretare il gesto di far stendere un tappeto rosso nella sede di Bruxelles, un segno di distinzione usato per le massime autorità di uno Stato, e quindi da usare anche per onorare il carattere sovranazionale e potenzialmente statuale del nuovo potere europeo (v. Padoa-Schioppa, 2001, p. 141). In tale prospettiva era da collocare la battaglia di H. per dare maggiore efficienza e fluidità ai processi decisionali europei (v. Processo decisionale) allargando gradualmente anche l’area di incidenza del voto a maggioranza nel Consiglio (v. Maggioranza qualificata) già previsto dal Trattato CEE (v. Trattati di Roma) per la terza fase del periodo transitorio, e restringendo al minimo l’uso del Voto all’unanimità, ossia della possibilità del veto da parte degli Stati per i soli casi eccezionali in cui venisse effettivamente messa in questione la loro sovranità in materia di vitale importanza. E questo sarà uno dei nodi che verranno al pettine nella crisi del 1965.

In realtà, i paesi che avevano scelto di procedere verso l’integrazione delle economie attraverso l’Unione doganale, la Libera circolazione delle merci, la Libera circolazione delle persone, la Libera circolazione dei servizi e la Libera circolazione dei capitali, non avevano deciso soltanto – secondo H. – di realizzare un mero fatto giuridico-economico, ma si erano dati il compito, in modo forse non del tutto consapevole per alcuni dei firmatari (ben chiaro però per Schuman e Monnet), di dar vita a una forma politica nuova che influenzava fortemente la vita degli Stati coinvolti e il più vasto mondo. Anche sotto il profilo teorico, l’integrazione comunitaria era considerata da H. come una “rivoluzione incessante”, a un tempo, della scienza economica e della scienza politica. Come sosteneva l’economista James Meade (Problems of Economic Union, London, 1953) a proposito delle unioni economiche interstatali, quando alcuni Stati mettevano in comune delle funzioni economiche, avveniva un trapasso di poteri economico-politici molto più forte da questi all’istanza sopranazionale. Analogamente, aggiungeva H., nel caso della CEE lo stesso trattato istitutivo prevedeva elasticamente un certo numero di eventualità per politiche congiunte nei campi della politica agricola (v. anche Politica agricola comune), sociale (v. anche Politica sociale), monetaria, finanziaria e fiscale, nella concorrenza (v. anche Politica europea di concorrenza), nei trasporti (v. anche Politica comune dei trasporti della CE) e nel commercio estero (v. anche Politica commerciale comune). Ribadiva pertanto che la logica dell’integrazione economica non solo guidava all’unità politica attraverso la fusione degli interessi, ma implicava anche l’azione politica unitaria in se stessa. Cosa c’era in effetti di più politico e connesso con la sovranità degli Stati della fissazione dei tassi di cambio e della politica monetaria? Non a caso, fin dall’inizio il processo d’integrazione economica europea faceva emergere l’esigenza dell’allargamento alla politica, fallito per responsabilità francese nel caso della CED e della CEP, ma dalla stessa Francia gollista riproposta con il Piano Fouchet in modo attenuato e coerente con criteri confederali. Senza polemizzare esplicitamente, H. metteva però in guardia sul fatto che la discussione sulla necessità di una cooperazione politica “organizzata” (v. anche Cooperazione politica europea) (nei termini confederali di marca gollista) non poteva sovrapporsi all’integrazione esistente, ovvero alle istituzioni comunitarie, o andare a loro discapito, ma doveva semplicemente risultare un approfondimento federale dell’unificazione comunitaria. L’integrazione europea non poteva pertanto esser oggetto di automatismi burocratici, di cui delegare il controllo ad agenti privi di coscienza politica, ma avrebbe dovuto esser l’opera congiunta di diversi organi politico-istituzionali legittimati dai trattati a discutere e a decidere con coraggio sui problemi della graduale unificazione, tenendo conto delle sfide provenienti all’Europa dal mondo più vasto della competizione tra l’oriente comunista e totalitario e l’occidente della libertà, tra Nord sviluppato e Sud arretrato.

A fronte di tale ampia consapevolezza dei compiti posti alla Commissione non c’è da stupirsi se la CEE, anche grazie all’energia e alla competenza del presidente della Commissione, riuscì a conseguire fin dai primi anni risultati sorprendenti sul terreno dell’unione doganale (da H. rivendicati orgogliosamente) e della messa in opera delle politiche agricole, finanziarie e di movimentazione libera delle merci e dei lavoratori. Successi irreversibili che mandarono a monte le manovre britanniche tese a creare organizzazioni alternative (Associazione europea di libero scambio, European free trade agreement), e che convinsero una serie di paesi europei prima riluttanti, tra i primi il Regno Unito, l’Irlanda e la Danimarca, a chiedere l’ammissione al Mercato comune. H., dalla stampa identificato negli anni Sessanta come “Mister Europa” proprio per la coscienza dimostrata di rappresentare l’esecutivo europeo in formazione, pretese ed ebbe nel corso dei suoi viaggi istituzionali riconoscimenti protocollari normalmente riservati ai capi di governo, suscitando anche per questo non poche irritazioni a Parigi.

Su tali basi ideali e programmatiche H. fece elaborare e presentare il 15 marzo 1965 dalla Commissione (col parere contrario dei commissari francesi) le proposte concernenti il finanziamento della Politica agricola comune (PAC), le risorse proprie alla CEE e il rafforzamento dei poteri dell’Assemblea parlamentare che avrebbero portato alla “crisi della sedia vuota”. Queste furono precedute il 30 settembre 1964 da “Iniziativa 1964”, documento col quale la Commissione proponeva uno scadenzario per accelerare il compimento dell’unione doganale entro il 1967 e di un “mercato dell’economia” nella terza tappa, mirando al consolidamento del carattere sovranazionale anche attraverso l’adozione di una politica monetaria comune (v. anche Unione economica e monetaria). A metà dicembre, il Consiglio CEE aggiunse altri tasselli importanti alla formazione dei mercati agricoli, dando mandato alla Commissione di predisporre una proposta complessiva in previsione del completamento della seconda tappa del periodo transitorio e dell’avvio della terza fase che doveva culminare con lo stabilimento di un mercato comune europeo agricolo-industriale, compresa la regolamentazione riguardante la cosiddetta Tariffa esterna comune. “Iniziativa ’64” s’apriva sottolineando il carattere sovranazionale e politico delle Comunità, in quanto rappresentante «il nucleo vitale dello sforzo per arrivare all’unità politica dell’Europa». Era venuto il tempo di assumere le decisioni previste dal Trattato CEE sull’unione doganale, la PAC, la tariffa esterna e la moneta, e di porre in prospettiva l’allargamento dall’economico al “politico”, l’avviamento del processo unificatore per «migliorare la costituzione dell’organizzazione europea», in primo luogo attraverso la fusione degli esecutivi comunitari. In tale sequenza dovevano intendersi le proposte che la Commissione avrebbe fatto in vista dell’apertura della terza tappa del periodo transitorio (1966-1970).

Anche se l’ampiezza di “Iniziativa ’64” non fu apprezzata da esponenti gollisti, tuttavia non provocò al suo apparire e nei mesi successivi dichiarazioni ufficiali di critica o di rifiuto da parte francese. Il “pacchetto H.” doveva applicare il regolamento n. 25 emanato a seguito dell’approvazione nel gennaio 1962 del piano di finanziamento agricolo europeo, prevedente in particolare all’art. 2 che per la «fase finale del mercato comune» le entrate provenienti dai prelievi sui prodotti dai paesi terzi sarebbero andati direttamente alla Comunità e impiegate per finalità comuni (le cosiddette “risorse proprie”). Lo stesso art. 2 ricordava che, ai sensi degli artt. 200 e 201 del TCEE, ciò avrebbe comportato, previe specifiche direttive del Consiglio, una modifica della struttura del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) e un ampliamento delle Competenze di merito dell’Assemblea. Il Consiglio di conseguenza affidava alla Commissione il compito di proporre «in quali condizioni l’art. 2 del regolamento n. 25 avrebbe dovuto essere applicato dopo l’entrata in vigore dei prezzi comuni dei diversi prodotti agricoli», cosa a cui l’organo ministeriale ottemperava lo stesso 15 dicembre per i mercati fondamentali dei cereali, del pollame e della carne suina rimandando a successive sedute le deliberazioni per i restanti prodotti agricoli.

Non possono esistere pertanto dubbi sulla legittimità e sul carattere necessario dell’iniziativa della Commissione dopo il 15 dicembre, né sulla liceità dell’orientamento estensivo, più volte manifestato sollevando diffidenze e critiche, ma senza opposizioni ufficiali. In verità, l’intenzione della Commissione era quella di elaborare – facendo leva sul rifinanziamento della PAC – una via di applicazione del TCEE nei punti esplicitamente previsti e riferiti al finanziamento diretto alla Comunità e al conseguente ampliamento e consolidamento delle competenze della Commissione, come gestore dell’attività corrente comunitaria, e dell’Assemblea nella funzione di controllo del bilancio. Ultimo, ma non meno importante, il passaggio al metodo del voto a Maggioranza qualificata, anch’esso espressamente previsto per la terza fase del periodo transitorio. In ciò la Commissione anticipava i tempi di realizzazioni previste, cosa permessa dall’impetuoso sviluppo del mercato comune e delle esigenze in tal senso espresse dalla maggioranza dei partner e dall’Assemblea. Questa scelta può a posteriori esser considerata un errore tattico di H., destinato a pesare ancor più per il fatto che il primo semestre del 1965, nel quale si sarebbe discusso delle proposte, era quello della presidenza di turno francese (v. anche Presidenza dell’Unione europea) e quindi il Consiglio sarebbe stato presieduto dal gollista Maurice Couve de Murville. Ma H. riteneva forse troppo ottimisticamente che, in forza delle sue proposte, se accettate dal Consiglio, si sarebbe completato il mercato comune, l’unione economica, e messo in opera un meccanismo di competenze e di procedure fortemente marcato dal carattere della “sovranazionalità”, con la conseguenza di avviare sulle solide basi di un’integrazione comunitaria più efficiente e più democratica il processo dell’unione politica tendente a un modello federale.

Le proposte di H. furono subito accusate dai gollisti di superare i limiti previsti dal TCEE per la Commissione e di costituire un atto di autoritarismo e di usurpazione burocratica sovranazionale. Si avviò così un periodo burrascoso suddivisibile in due fasi: la prima, da aprile a fine giugno, contraddistinta dal confronto altalenante tra le diplomazie dei Sei in vista delle decisive sedute del Consiglio, mentre H. cercava di capire quale indirizzo avrebbe avuto il sopravvento; la seconda, dal 1° luglio al 30 gennaio 1966, dopo la rottura delle trattative, il semestre della “crisi della sedia vuota”, svoltosi sotto la presidenza italiana, che si sarebbe concluso con il Compromesso di Lussemburgo del 29 gennaio. Il 15 giugno 1965 il governo francese presentò alla CEE controproposte che si incentravano appunto sull’irrinunciabile applicazione tecnica per il 1965-1970 del finanziamento PAC ed estromettevano il problema della creazione di risorse dirette alla CEE, rendendo quindi inutile ogni discorso sul potenziamento dei poteri dell’Assemblea.

Di fronte all’evolvere contraddittorio della situazione H., reso sempre più consapevole dell’atteggiamento incerto della Germania e della probabile dislocazione non favorevole delle forze in campo – ma nemmeno disperata, perché pensava che in fondo sulla proposta della Commissione si sarebbe forse potuto trovare un accomodamento –, decise in un primo momento di rilanciare al livello più alto la sfida, senza timore dello scontro ormai prevedibile, chiamando a raccolta i sostenitori del suo progetto. È questo il senso del discorso, tenuto il 17 giugno davanti all’Assemblea, nel quale, dopo aver puntigliosamente rivendicato i risultati di sette anni di lavoro, documentanti il notevole cammino percorso verso la realizzazione anticipata dell’unione doganale, della PAC, dell’avvio della politica commerciale e quindi di un vero mercato comune, il presidente della Commissione ricorse ai toni alti della perorazione politica e filosofica dell’ideale dell’unificazione europea, citando l’ispirazione kantiana alla pace, la tradizione giuridico-politica e l’innovazione economica che confermavano che il nuovo ordine europeo non nasceva dalla forza, ma dall’integrazione e dal diritto. Gli europei avrebbero dovuto compiere una svolta decisiva nella direzione prevista dal TCEE per costituire un soggetto capace di parlare politicamente con una sola voce, pur nel rispetto della pluralità delle culture e degli interessi. Occorreva dare maggior organicità alla Comunità, rafforzando la costituzione di alcuni organi che ne rappresentavano e custodivano l’essenza sovranazionale. Ciò significava fare alcuni passi qualificanti verso l’applicazione di principi presi in prestito dall’esperienza degli Stati federali, nella fattispecie dando forma più congrua a un embrione di esecutivo europeo – al di fuori di logiche tecnocratiche, ma in stretto rapporto con gli Stati membri –, e di conseguenza consolidando le competenze dell’organo parlamentare che, in prospettiva, era il rappresentante politico più genuino degli interessi comuni europei. Questo cammino avrebbe portato la Comunità alla tappa finale dell’unificazione in una “federazione europea”. H. rammentò che, se le defatiganti “maratone”, segno di vitalità e non di malattia, erano necessarie per il persistere legittimo delle contrapposizioni di interessi nella definizione della PAC o di altre politiche comunitarie, occorreva però non perder di vista nell’incombere della prova che l’unificazione dell’Europa era «un processo politico».

A confermare il sostegno di tale impostazione arrivarono alla vigilia della seduta del Consiglio dei ministri del 28-30 giugno le solenni dichiarazioni dei Parlamenti della Repubblica Federale Tedesca e dei Paesi Bassi. Lo svolgimento del Consiglio del 28-30 giugno fece registrare per due giorni il confronto delle opposte intransigenze di olandesi (soprattutto), italiani e tedeschi da una parte e francesi dall’altra (mentre Belgio e Lussemburgo, pur vicini nel merito ai primi tre, mantennero un profilo meno polemico verso la Francia). I Cinque volevano che il pacchetto delle proposte della Commissione fosse vagliato e deciso in blocco, pur accettando che si stabilisse un calendario di discussioni da tenersi nelle settimane o mesi successivi; i francesi miravano soprattutto al finanziamento della PAC entro il 30 giugno, ed erano disposti a concessioni limitate rispetto alla politica commerciale e all’inserimento della tariffa industriale, ma non intendevano nemmeno discutere le trasformazioni istituzionali collegate alle entrate dirette, che a loro avviso dovevano esser oggetto di nuove trattative dopo il 1970. Poco dopo la mezzanotte del 30 giugno Couve de Murville, presidente di turno, su indicazione dell’Eliseo, non volle aderire all’eventualità di fermare le lancette dell’orologio per una nuova “maratona” da tenersi nei giorni successivi (prospettiva sostenuta dai Cinque e da H.), e dichiarò lo scioglimento del vertice per l’impossibilità di trovare l’accordo sul finanziamento della PAC entro la data prevista. Questa decisione impedì di affrontare le proposte sulle risorse proprie della CEE, sul voto a maggioranza, sul rafforzamento delle competenze parlamentari e sulla modifica dei trattati (v. anche Revisione dei Trattati), e rese pubblico l’insuccesso del Vertice (v. Vertici), anche se formalmente nessuno parlò di una rottura del patto comunitario, ma solo di una sospensione dei lavori del Consiglio. Il 1° luglio però il ministro francese dell’Informazione, Alain Peyrefitte, dichiarò che il governo prendeva atto del venir meno delle promesse dei partner, che avrebbe tratto tutte le conseguenze dal fallimento, e che non ci sarebbero stati altri incontri del Consiglio CEE a luglio. Il giorno dopo, in risposta all’accusa francese, il portavoce della Commissione dichiarò – sulla base di rimandi precisi al regolamento n. 25 e al TCEE – che nella preparazione delle proposte questa si era attenuta strettamente al mandato ricevuto il 15 dicembre 1964. Il 5 luglio Parigi ordinò ai propri ministri e tecnici in organismi comunitari di astenersi dal partecipare ai lavori e il 6 richiamò il proprio rappresentante permanente alla CEE Jean-Marc Boegner. Ebbe così inizio la politica della chaise vide, che si caratterizzò come scontro di metodi e di prospettive.

H., da parte sua, preparò a quel punto proposte alternative, che presentò in forma di memorandum della Commissione al Consiglio il 22 luglio. Qui ricordava le buone e fondate ragioni, e la logica dell’integrazione tendenzialmente federale, che avevano condotto alle proposte del marzo. Ma il punto fondamentale era che accoglieva le scadenze dell’unione doganale e il finanziamento della PAC per la fase finale del periodo transitorio secondo i termini favorevoli alla Francia stabiliti nel 1962. Di fatto, le questioni delle risorse proprie e dei poteri dell’Assemblea venivano diplomaticamente rinviate. Il memorandum di H. lanciava dunque un ponte verso le aspettative del governo francese, che però fu respinto dal primo ministro Georges Pompidou. La crisi rimaneva dunque più aperta che mai, nonostante vari tentativi di mediazione tra le diplomazie francese e tedesca, con interventi di Paul-Henri Spaak e degli italiani che presiedevano il semestre. Trascorso agosto, il 9 settembre de Gaulle concesse un’attesa intervista che confermò nella forma e nella sostanza quanto già notificato a luglio, senza concedere nulla, per il momento, agli sforzi di mediazione della Commissione e dei Cinque. Ancora una volta, anzi, fu sferrato l’attacco ai tecnocrati “senza patria” di Bruxelles. La situazione si rimise in movimento dopo che le elezioni in Germania del 19 settembre confermarono, con il successo democristiano (47,61% alla CDU-CSU), la coalizione filo-atlantica al potere e la fermezza della diplomazia federale nel proposito di contrattare da posizioni di pari dignità. Viceversa, le elezioni presidenziali in Francia nel dicembre, pur riconfermando al secondo turno il generale de Gaulle, segnarono un relativo arretramento della sua popolarità proprio a causa della sua intransigente politica europea.

Già dal 9 dicembre Couve de Murville e il ministro del Tesoro italiano, Emilio Colombo (che sostituiva Amintore Fanfani bloccato a New York), e poi Colombo col ministro federale tedesco Gerhard Schröder, s’accordavano per trattare il rientro della Francia in un Consiglio straordinario da tenersi a gennaio senza la presenza di H. e della Commissione. De Gaulle confermò tale disponibilità il 14 dicembre. La decisione fu ratificata dai Cinque a Bruxelles il 20 dicembre e, su ulteriore richiesta della Francia, si optò per la sede del Lussemburgo e per la data del 17-18 gennaio 1966. La prima seduta fece emergere ancora una serie di divergenze. Si arrivò infine all’incontro del 28-29 gennaio che licenziò il testo del cosiddetto Compromesso di Lussemburgo diviso in due parti: un elenco di quattro punti definente la posizione comune sul problema del voto a maggioranza; sette paragrafi determinanti i modi della cooperazione tra Consiglio e Commissione. Per quanto riguardava il voto a maggioranza, il presupposto accettato da tutti fu che si potevano dare «interessi molto importanti» degli Stati membri anche quando il TCEE prevedesse decisioni a maggioranza in materie di competenza comunitaria. In tal caso, il Consiglio doveva sforzarsi di arrivare in tempi ragionevoli a una soluzione condivisibile da tutti, nel rispetto dei reciproci interessi e di quelli comunitari, secondo le finalità generali dell’art. 2 del trattato. A maggior specificazione, la delegazione francese ottenne che si aggiungesse, nel secondo punto, l’impegno esplicito che, in caso di «interessi molto importanti», si conseguisse un accordo «unanime». Nell’eventualità contraria le sei delegazioni constatarono che se una divergenza continuava a sussistere, ciò non avrebbe costituito un intralcio «alla ripresa normale dei lavori della Comunità». Era però conseguenza implicita in tale formula, inutilmente osteggiata da H. nelle conversazioni avute coi responsabili tedeschi, che si creasse una sorta di spada di Damocle sull’attività consiliare e più in generale comunitaria: occorreva evitare, per amore di “normalità” nelle relazioni intergovernative (v. Cooperazione intergovernativa), conflitti che portassero a decisioni a maggioranza col rischio di spaccature. Circa la cooperazione Consiglio-Commissione, la Francia, neutralizzata la questione del voto a maggioranza, vinse nella sostanza la battaglia contro la Commissione, non più da intendersi – alla maniera di H. e dei funzionalisti federalisti – come potere esecutivo e rappresentante di una Comunità in prospettiva “quasi statuale”.

L’alto profilo della presidenza H. aveva suscitato malumori e diffidenze non solo tra i francesi. Anche nel governo federale tedesco si faceva carico a H. d’essersi spinto fuori dall’orbita di sua pertinenza. Era questo il prodromo della marginalizzazione del primo presidente della Commissione CEE, vissuto ormai come un residuo del decennio glorioso, nelle vittorie e nelle sconfitte, della fondazione delle Comunità, uno tipo anomalo di federatore europeo non più in sintonia coi tempi. Si era entrati in una fase prolungata di stasi della vita comunitaria ridotta alla normale amministrazione, che si sarebbe parzialmente sbloccata con il Vertice dell’Aia nel 1969, e con maggior nettezza solo negli anni Ottanta con l’Atto unico europeo (AUE). H., in conclusione, non impersonò la figura del politico nazionale prestato alla CEE, ma quella di statista europeo. Il prender atto della battuta d’arresto e della sua imminente marginalizzazione non gli impedì di contribuire con grande efficacia alle maratone dei mesi successivi e al completamento del periodo transitorio. Formalmente, il cancelliere della “grande coalizione” tra democristiani e socialdemocratici successo a Erhard, Kurt Georg Kiesinger, ripropose la candidatura di H. nell’aprile 1967 a presidente della Commissione unica nel momento in cui entrava in vigore il trattato di fusione, ma solo per un periodo di un semestre, molto più breve di quello normalmente previsto dal trattato. H. rifiutò, avendo compreso la ragione diplomatica e non politica del gesto, e le forti obiezioni della Francia. L’epitaffio migliore sulla vicenda europea di H. è scritto in una lettera che gli indirizzò il suo più importante sostenitore nella Commissione, il vicepresidente Sicco Mansholt, il 4 ottobre 1967: «Posso capire cosa significhi vedere altri proseguire dopo che si è guidato per dieci anni il più grande sviluppo dell’Europa. Ma Lei resterà sempre una forza trascinante con la Sua esperienza e in particolare col suo ideale politico».

Corrado Malandrino (2010)




Handke, Peter

H. (Siutz, Griffen 1942), studiò legge all’Università di Gratz. La monotonia di questa esperienza provocò in lui sentimenti di delusione e di ribellione, e H. entrò a far parte del Forum Stadtpark, un gruppo di giovani autori, e pubblicò i suoi primi scritti nella rivista “Manuskripte”.

Nel marzo 1966 l’editore Suhrkamp pubblicò Die Hornissen, il primo libro di H. Avendo ottenuto il sostegno finanziario e letterario di un grande editore H. decise di lasciare gli studi universitari. Nell’aprile dello stesso anno fu invitato a Princeton per partecipare al congresso del Gruppo 47. Qui contestò i rituali ben organizzati dell’influente associazione degli scrittori ed espresse in generale il suo biasimo nei confronti della loro letteratura coniando il termine Beschreibingsimpotenz (“impotenza descrittiva”).

H., che era ancora un autore giovane e poco noto, divenne improvvisamente famoso in seguito a un servizio della rivista “Der Spiegel”. Dopo un breve soggiorno a Parigi, nel 1978 H. tornò in Austria e visse a Salisburgo fino al 1990. In seguito partì per un lungo viaggio per il mondo che si concluse a Chaville, vicino Parigi, dove lo scrittore vive tuttora.

Nel gennaio 1996 H. pubblicò le sue esperienze su un viaggio in Serbia, Eine winterliche Reise zu den Flüssen Donau, Save, Morawa und Drina, oder Gerechtigkeit für Serbien, che suscitò violente polemiche. Nel libro H. denunciava con forza le azioni dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) nei Balcani definendole criminali, attirandosi l’accusa di essere filoserbo. Lo scrittore si difese dichiarando: «Sono con il popolo serbo, non con Milošević […] ma chiunque non si dichiari anti-serbo è disprezzato come filo-serbo» (v. Reinhardt, 1999, p. 2).

H. non nasconde certamente il suo rimpianto per l’unità infranta della Iugoslavia, ma nel suo linguaggio quest’unità è descritta come un sogno a occhi aperti e quindi qualcosa di vulnerabile, positivo e auspicabile. Lo scrittore insiste sul dovere di ciascuno di guardare con i propri occhi, di parlare il proprio linguaggio, che è un modo di dare testimonianza nel senso antico del termine – molto differente dal giornalismo di guerra proposto dai media.

Margaret Mantl (2008)




Hans Eichel




Hans Furler




Hans Jonas




Hans van den Broek




Hans-Dietrich Genscher