INA

Instituto nacional de administração (INA)




Infrazione al diritto comunitario

Infrazione al diritto dell’Unione Europea




Infrazione al diritto dell’Unione Europea

Definizione, caratteristiche e basi normative

L’infrazione al diritto dell’Unione europea si realizza quando uno Stato membro viola uno degli obblighi ad esso incombenti in virtù dei Trattati istitutivi, dei protocolli a questi allegati e dei trattati di adesione; dei trattati di modifica e di revisione dei suddetti Trattati istitutivi (v. Revisione dei Trattati); dei principi generali del Diritto comunitario, inclusi i diritti fondamentali; degli atti vincolanti (v. Regolamento, Direttiva, Decisione); degli atti atipici cui sia riconosciuta efficacia giuridica; degli accordi internazionali stipulati dall’Unione (in passato, dalla Comunità); e delle sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea). Per “Stato membro” deve intendersi lo Stato-organizzazione, comprensivo di tutte le articolazioni in cui si esprime l’esercizio del potere pubblico (v. Adam, Tizzano, 2010, p. 267 e ss.; Tesauro, 2010, p. 299 e ss.). Lo Stato membro è il solo responsabile di fronte all’Unione e può pertanto essere chiamato a rispondere sia della condotta di organi facenti capo al governo nazionale; sia della condotta imputabile a poteri indipendenti dall’Esecutivo o a enti territoriali dotati di autonomia e di competenze esclusive; sia ancora della violazione commessa da soggetti privati (che agiscono quindi in assenza di legami con gli organi statali) allorquando lo Stato non abbia posto in essere tutte le misure idonee a prevenire o a reprimere l’illecito (Corte di giustizia, sentenza 9 dicembre 1997, causa C-265/95, Commissione c. Francia, in Raccolta, 1997, p. I-6959 e ss.).

L’inadempimento può essere omissivo o commissivo e consistere, ad esempio, nel non aver trasposto una direttiva nell’ordinamento statale, o integrato il contenuto di un regolamento, entro i termini stabiliti; nel non aver comunicato alla Commissione europea le misure attuative di una direttiva; nel non aver ottemperato a pronunce della Corte di giustizia; in una prassi amministrativa o giudiziaria contraria ai precetti del diritto dell’Unione (anche qualora vi fosse una formale conformità delle regole interne alle prescrizioni da quest’ultimo dettate); nel non aver espunto dall’ordinamento dello Stato norme contrastanti con il diritto dell’Unione, sebbene inapplicate o desuete (v. Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 51 e ss.; Adam, Tizzano, 2010, p. 268 e ss.; Tesauro, 2010, p. 291).

La violazione va presa in considerazione nel suo oggettivo manifestarsi, non essendo necessario dimostrare la presenza di colpa o dolo da parte dello Stato o dei suoi organi e non essendo possibile, per lo Stato stesso, addurre giustificazioni motivate da eventi o situazioni quali lo scioglimento anticipato del Parlamento, una crisi di governo, la necessità di rispettare determinati adempimenti costituzionali o la ripartizione di competenze esistente con le Regioni (v. Tesauro, 2010, p. 300; Corte di giustizia, sentenza 21 giugno 1973, causa 79/72, Commissione c. Italia, in Raccolta, 1973, p. 667 e ss.; sentenza 16 gennaio 2003, causa C-388/01, Commissione c. Italia, ivi, 2003, p. I-721 e ss.). Uno Stato membro non può neppure trarre scusanti dall’atteggiamento, anch’esso contrario al diritto dell’Unione europea, tenuto da altri Stati membri: non può dunque invocare il principio inadimplenti non est adimplendum codificato dall’art. 60 della Convenzione di Vienna del 23 maggio 1969 sul diritto dei trattati ed eccepire così la violazione perpetrata da altri per legittimare la propria, rappresentando i Trattati istitutivi una lex specialis che prevale sul diritto generale (v. Tesauro, 2010, p. 301 e ss.; Corte di giustizia, sentenza 25 settembre 1979, causa 232/78, Commissione c. Francia, in Raccolta, 1979, p. 2729 e ss.).

Per accertare, sancire e, se del caso, sanzionare gli inadempimenti di cui sopra, l’ordinamento dell’Unione europea dispone di un meccanismo di controllo diretto sui comportamenti degli Stati membri denominato “procedura di infrazione”, già delineato dagli artt. 226-228 del Trattato istitutivo della Comunità europea (Trattato CE) e dagli artt. 141-143 del Trattato istitutivo della Comunità europea dell’energia atomica (Trattato CEEA) ed oggi disciplinato, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, dagli artt. 258-260 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Trattato FUE, per il testo del quale v. GUUE n. C 83 del 30 marzo 2010, p. 47 e ss.). Tale procedura è strutturata in una fase precontenziosa e in una fase (eventuale) contenziosa (v. sotto, § 2 e 3), può essere avviata dalla Commissione europea e dagli Stati membri (v. sotto, § 2) e svolge un ruolo complementare al rinvio pregiudiziale (art. 267 del Trattato FUE) poiché ha lo scopo di assicurare l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione (nonché del diritto comunitario prodotto fino al 30 novembre 2009) ed è anche l’occasione per indicare agli Stati l’esatta portata di una norma del diritto dell’Unione (e di una norma comunitaria) laddove vi siano divergenze interpretative. Essa subisce peraltro una serie di contemperamenti e di deroghe nelle fattispecie riferite nel § 5; non la si usa, inoltre, per i disavanzi eccessivi di cui all’art. 126 del Trattato FUE e nell’ipotesi di violazione, ad opera degli Stati membri, dei Diritti dell’uomo tutelati in quanto princìpi generali del diritto, salvo che la violazione stessa si sia verificata in attuazione di una norma dei Trattati o di un atto derivato che autorizzi gli Stati medesimi all’emanazione di provvedimenti specifici (v. sotto, § 6).

Lo svolgimento della procedura di infrazione: la fase precontenziosa

Come accennato, la procedura di infrazione può essere intrapresa dalla Commissione e dagli Stati membri: l’art. 258 del Trattato FUE disciplina l’ipotesi, assai frequente, che sia la Commissione ad aprire il procedimento; il successivo art. 259 contempla invece la possibilità, molto più rara, che l’iniziativa venga assunta da uno Stato membro. Non è consentita l’azione di altri soggetti, segnatamente dei singoli; costoro possono tutt’al più denunciare la violazione alla Commissione o al proprio Stato per sollecitarli ad intervenire. Come ugualmente detto, la procedura in esame si suddivide in due fasi: una precontenziosa, di carattere preliminare e amministrativo, gestita dalla Commissione; l’altra contenziosa, di natura giudiziale, introdotta con ricorso dinanzi alla Corte di giustizia.

Con la fase precontenziosa ci si prefigge di comporre amichevolmente la controversia e, al tempo stesso, di precisare, delimitare e qualificare dal punto di vista giuridico l’oggetto della vertenza. La Commissione gode al riguardo di un ampio potere discrezionale, spettando soltanto ad essa (promotrice dell’interesse generale dell’Unione e custode della legalità secondo l’art. 17, par. 1 del Trattato di Maastricht – Trattato UE), la scelta di dare inizio alla procedura, di imprimere ad essa maggiore o minore celerità e anche di porvi fine con un’archiviazione preclusiva della fase contenziosa. Non è perciò possibile proporre contro la Commissione un ricorso in carenza ai sensi dell’art. 265 del Trattato FUE per l’omessa o la ritardata apertura o conclusione del procedimento (Corte di giustizia, sentenza 14 febbraio 1989, causa 247/87, Star Fruit Company SA c. Commissione, in Raccolta, 1989, p. 291 e ss.; sentenza 22 febbraio 2005, causa C-141/02 P, Commissione c. max.mobil Telekommunikation Service GmbH, ivi, 2005, p. I-1283 e ss.). Anche lo Stato che voglia avvalersi della procedura di infrazione deve preventivamente rivolgersi alla Commissione affinché questa (sempre con piena discrezionalità) attivi l’iter conciliativo (art. 259, 2° e 3° comma); se la Commissione decide di seguire il caso, il procedimento prosegue quindi nelle forme previste dall’art. 258 (v. Condinanzi-Mastroianni, 2009, p. 56 e ss., 66 e ss.; v. Adam, Tizzano, 2010, pp. 271 e ss., 284; Tesauro, 2010, p. 291).

La fase precontenziosa consta di tre momenti:

a) l’invio allo Stato membro presunto inadempiente di una lettera di messa in mora con la quale la Commissione, contestando determinati comportamenti, fissa un termine entro il quale lo Stato medesimo può presentare delle osservazioni;

b) la presentazione delle osservazioni da parte dello Stato membro;

c) l’emissione da parte della Commissione di un parere motivato (artt. 258, 1° comma e 259, 3° comma) mediante il quale si espongono definitivamente gli addebiti mossi allo Stato e si invita quest’ultimo a conformarsi entro un termine assegnato.

Per quanto concerne la lettera di messa in mora sub a), preme sottolineare come essa, firmata dal Commissario competente per materia, debba individuare il comportamento che si ritiene abbia dato luogo alla violazione; è ammessa una segnalazione sintetica dei motivi di doglianza qualora la Commissione preferisca poi circostanziarli nel parere motivato. Il termine concesso deve essere ragionevole ed è prorogabile. Le osservazioni richieste sub b) possono anche mancare e la Commissione passa, se lo ritiene opportuno, direttamente al parere motivato. Il parere motivato sub c) è un atto non obbligatorio (come tale non impugnabile per annullamento ex art. 263 del Trattato FUE), tramite il quale si puntualizzano ulteriormente (e più approfonditamente) gli elementi di fatto e di diritto posti a fondamento della contestazione rivolta allo Stato membro. La sua funzione è preparatoria, in quanto normalmente, tranne in casi particolari (di cui si dirà tra breve e sotto, § 5), è il presupposto imprescindibile per l’esperibilità della fase contenziosa; è altresì privo di effetti vincolanti sia nei confronti dello Stato sia nei confronti dei terzi. Il termine per uniformarsi al parere deve essere ugualmente ragionevole e consentire comunque di apprestare utilmente una difesa; dopo la sua scadenza, la Commissione può instaurare il giudizio contenzioso (v. Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 57 e ss.; Adam, Tizzano, 2010, p. 273 e ss.; Tesauro, 2010, p. 292 e ss.).

La fase precontenziosa fin qui sommariamente descritta è necessaria al fine di poter adire la Corte di giustizia. Talvolta la si può tuttavia evitare e giungere direttamente al contraddittorio dinanzi alla Corte. Ciò accade nelle ipotesi semplificate elencate al § 5, lett. a)-c) e qualora la Commissione, alla quale lo Stato membro che volesse contestare l’inadempimento di un altro Stato membro deve obbligatoriamente rivolgersi per far mettere in moto la fase precontenziosa, non abbia formulato il parere motivato entro tre mesi dalla domanda (art. 259, 4° comma del Trattato FUE).

La fase contenziosa

Decorso invano il periodo temporale del parere motivato senza che lo Stato membro si sia a questo conformato, la Commissione, come afferma l’art. 258, 1° comma del Trattato FUE, ha facoltà di adire la Corte di giustizia; lo stesso può fare lo Stato membro desideroso di convenire in giudizio un altro Stato membro, se vi è assenza di parere motivato per inerzia della Commissione. La Corte, che detiene di per sé una giurisdizione automatica, perché immediatamente e incondizionatamente accettata dagli Stati membri nel momento in cui aderiscono ai Trattati istitutivi, assolve qui ad una funzione obbligatoria a testimonianza della natura completa e chiusa del sistema proprio dell’ordinamento dell’Unione. L’art. 344 del Trattato FUE precisa infatti che “Gli Stati membri si impegnano a non sottoporre una controversia relativa all’interpretazione o all’applicazione dei trattati a un modo di composizione diverso da quelli previsti dal trattato stesso”, impedendo con ciò tutti gli altri mezzi tradizionali che mirano ad assicurare l’esatto adempimento degli obblighi che gli Stati assumono quando stipulano un accordo internazionale (v. Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 48; v. anche Adam, Tizzano, 2010, p. 282 e Tesauro, 2010, p. 303).

La fase contenziosa, il cui avvio non è obbligatorio né per la Commissione (stante la discrezionalità di cui si è detto sopra, § 2 e il tenore letterale dell’art. 258, 1° comma) né per uno Stato membro (data la forma verbale di tipo opzionale del pari utilizzata dall’art. 259, 1° comma del Trattato FUE), viene introdotta con ricorso. A pena di irricevibilità del ricorso stesso, i motivi in esso spiegati devono essere perfettamente coincidenti con quelli della lettera di messa in mora e del parere motivato, potendosi notificare allo Stato convenuto in giudizio ulteriori addebiti (purché aventi la medesima natura di quelli già individuati ed espressivi di un comportamento reiterato) solo se verificatisi o conosciuti dalla Commissione nelle more tra l’emanazione del parere e la presentazione del ricorso. Un mutamento legislativo intervenuto in pendenza della fase precontenziosa può essere oggetto di contestazione laddove le nuove norme non modifichino sostanzialmente quelle precedenti in relazione alle quali era scattato il controllo (Corte di giustizia, sentenza 22 marzo 1983, causa 42/82, Commissione c. Francia, in Raccolta, 1983, p. 1013 e ss.; sentenza 4 febbraio 1988, causa 113/86, Commissione c. Italia, ivi, 1988, p. 607 e ss.; sentenza 9 novembre 1999, causa C-365/97, Commissione c. Italia, ivi, 1999, p. I-7773 e ss.; sentenza 18 novembre 2004, causa C-317/02, Commissione c. Irlanda, inedita).

L’adempimento tardivo dello Stato, sopraggiunto quando sia spirato il termine stabilito nel parere motivato o dopo la presentazione del ricorso, non vanifica l’interesse processuale della Commissione e non comporta conseguenze sull’attivazione, sulla prosecuzione o sull’esito del giudizio, a meno che la Commissione stessa non vi rinunci (Corte di giustizia, sentenza 30 maggio 1991, causa C-59/89, Commissione c. Germania, in Raccolta, 1991, p. I-2607 e ss.; sentenza 2 giugno 2005, causa C-394/02, Commissione c. Grecia, ivi, 2005, p. I-4713 e ss.).

L’onere della prova ricade sulla Commissione. Nel corso del dibattimento, la Corte può inoltre emettere, su istanza della Commissione medesima, ordinanze cautelari (art. 279 del Trattato FUE) rivolte ad evitare che durante lo svolgimento del processo vengano pregiudicate le condizioni occorrenti per il fruttuoso esercizio dell’azione, a salvaguardia degli interessi delle parti in causa e della piena efficacia della sentenza finale (v. Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 67 e ss.; Adam, Tizzano, 2010, p. 275 e ss.; Tesauro, 2010, p. 293 e ss.).

Natura ed effetti della sentenza di inadempimento e della sanzione pecuniaria prevista dall’art. 260 del Trattato FUE

Secondo l’art. 260, par. 1 del Trattato FUE, «Quando la Corte di giustizia dell’Unione europea riconosca che uno Stato membro ha mancato ad uno degli obblighi ad esso incombenti in virtù dei trattati, tale Stato è tenuto a prendere i provvedimenti che l’esecuzione della sentenza della Corte comporta». La fase contenziosa si chiude pertanto, in primo e unico grado, con una sentenza di mero accertamento (e quindi non costitutiva bensì soltanto dichiarativa), dotata in genere di efficacia retroattiva (salvo casi eccezionali) e opponibile erga omnes. Sullo Stato membro grava un obbligo di risultato: esso deve perciò cessare immediatamente di applicare le norme nazionali in cui si è concretizzata la violazione nonché adoperarsi a fare quanto necessario per eliminare completamente la situazione censurata e a porre rimedio agli effetti illeciti cui si è dato luogo. In proposito, sebbene la Corte si astenga abitualmente dal fornire ragguagli, la sentenza stessa può recare anche dei suggerimenti su quanto occorre mettere in pratica (Corte di giustizia, sentenza 16 dicembre 1960, causa 6/60, Humblet c. Stato belga, in Raccolta, 1960, p. 1125 e ss.; sentenza 6 maggio 1980, causa 102/79, Commissione c. Belgio, ivi, 1980, p. 1473 e ss.; sentenza 14 aprile 2005, causa C-104/02, Commissione c. Germania, ivi, 2005, p. I-2689 e ss.). È invece radicalmente escluso che la Corte abroghi o annulli le misure interne incompatibili con il diritto dell’Unione (v. Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 75 e ss.; Adam-Tizzano, 2010, p. 278 e ss.; Tesauro, 2010, p. 304). I giudici nazionali devono vigilare affinché gli Stati membri rispettino la sentenza, potendo essi disapplicare le norme contrastanti con il diritto dell’Unione ed altresì acclarare la responsabilità dello Stato nei confronti dei singoli dovuta all’inadempimento con conseguente condanna al risarcimento del danno.

Dalla mancata, ritardata, imprecisa o comunque insoddisfacente adozione dei provvedimenti volti ad eseguire la sentenza della Corte, deriva, potenzialmente, un procedimento di infrazione aggiuntivo, introdotto nel 1992 dal Trattato di Maastricht e attivabile soltanto dalla Commissione. Per l’art. 260, par. 2, 1° comma del Trattato FUE, infatti, in tali frangenti «[…] la Commissione, dopo aver posto [lo] Stato in condizione di presentare osservazioni, può adire la Corte. Essa precisa l’importo della somma forfettaria o della penalità, da versare da parte dello Stato membro in questione, che essa consideri adeguato alle circostanze»; in maniera analoga dispone il par. 3, 1° comma dello stesso art. 260 (aggiunto dal Trattato di Lisbona) quando la Commissione proponga ricorso ex art. 258 reputando che lo Stato interessato non abbia adempiuto all’obbligo di notificare la misure di attuazione di una direttiva (v. Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 77 e ss.; Adam, Tizzano, 2010, p. 280 e ss.; Tesauro, 2010, p. 305 e ss.). Il computo della sanzione (comunicazione SEC /2005 1658 del 12 dicembre 2005, v. GUUE n. C 126 del 7 giugno 2007, p. 15) viene determinato sulla base di tre criteri fondamentali: la gravità dell’infrazione; la sua durata; la necessità di garantire l’efficacia dissuasiva della sanzione stessa, onde evitare recidive. La penalità di mora consiste nel pagamento di una somma di denaro direttamente proporzionale al periodo di ritardo nell’inadempimento (600 Euro al giorno, aumentabili o diminuibili a seconda della gravità e della durata appena citate, e della capacità finanziaria dello Stato); la somma forfettaria implica il versamento di una quantità di denaro una tantum (con una cifra minima variabile Stato per Stato, da 180.000 euro per Malta a 12.700.000 euro per la Germania).

Contrariamente a quanto stabiliva l’art. 228, par. 2, 1° comma del Trattato CE (cfr. Mori, 2004, p. 1067 e ss.), l’attuale art. 260, par. 2, 1° comma, come modificato dal Trattato di Lisbona, rende più celere la procedura poiché non chiede più alla Commissione di formulare un nuovo parere motivato che precisi i punti sui quali lo Stato membro abbia disatteso la sentenza della Corte di giustizia né di attendere la scadenza di un nuovo termine concesso allo Stato per uniformarsi. Ancora una volta, i poteri della Commissione sono largamente discrezionali: se nell’istanza introduttiva alla Corte la Commissione sembra essere obbligata a prendere posizione sulla sanzione e sul relativo ammontare, essa non è tuttavia costretta a domandare che una sanzione sia in ogni caso imposta ma solo a motivare la decisione di rinunciare a tale richiesta (v. Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 78 e ss.). Questa scelta non vincola peraltro mai la Corte di giustizia: statuisce il par. 2, 2° comma dell’art. 260 che «La Corte, qualora riconosca che lo Stato membro […] non si è conformato alla sentenza da essa pronunciata, può comminargli il pagamento di una somma forfettaria o di una penalità», avendo oltretutto essa la libertà di discostarsi dai conteggi della Commissione. Vedi anche in argomento il par. 3, 2° comma del medesimo articolo 260, il quale però esige che la Corte deliberi la somma forfettaria o la penalità mantenendosi entro i limiti dell’entità indicata dalla Commissione (v. Adam, Tizzano, 2010, p. 280 e ss.).

Queste pronunce della Corte costituiscono titolo esecutivo all’interno degli ordinamenti nazionali, in base agli artt. 280 e 299 del Trattato FUE, con apposizione della relativa formula dopo la verifica di autenticità dell’autorità competente (v. Tesauro, 2010, p. 307; v. però in senso contrario Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 81). Finora, la Corte di giustizia ha decretato penalità di mora unicamente nei riguardi di Francia, Grecia, Portogallo e Spagna (sentenza 4 luglio 2000, causa C-387/97, Commissione c. Grecia, in Raccolta, 2000, p. I-5047 e ss.; sentenza 25 novembre 2003, causa C-278/01, Commissione c. Spagna, ivi, 2003, p. I-14141 e ss.; sentenza 14 marzo 2006, causa C-177/04, Commissione c. Francia, ivi, 2006, p. I-2461 e ss.; sentenza 10 gennaio 2008, causa C-70/06, Commissione c. Portogallo, ivi, 2008, p. I-1 e ss.). In altri casi (coinvolgenti Francia e Grecia) la sanzione pecuniaria e la penalità di mora sono state cumulate; vi sono poi esempi nei quali, pur riconoscendo la doppia infrazione dello Stato, la Corte ha deciso di non comminare alcunché (v. Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 80 e ss.).

Procedure abbreviate e speciali

In deroga agli artt. 258-260 del Trattato FUE, l’ordinamento dell’Unione permette talvolta che il controllo del comportamento degli Stati membri in riferimento ad obblighi prescritti dai Trattati istitutivi avvenga tramite uno schema più rapido di quello standard illustrato nei paragrafi precedenti, nel quale la fase stragiudiziale si omette a vantaggio della cognizione immediata della Corte di giustizia. Oltre al caso chiarito sopra, § 2, in cui vi è inerzia della Commissione nell’attivare la fase precontenziosa su richiesta di uno Stato membro, ciò succede:

a) nell’ipotesi di controllo sugli aiuti di Stato alle imprese, se lo Stato in causa non si conforma alla decisione con la quale viene constatata l’incompatibilità di un aiuto con il mercato interno o la sua attuazione abusiva (art. 108, par. 2, 2° comma del Trattato FUE);

b) nell’ipotesi prevista dall’art. 114, par. 9 del Trattato FUE in tema di ravvicinamento delle legislazioni nazionali;

c) ai sensi dell’art. 348, 2° comma del Trattato FUE, allorché uno Stato membro contravvenga agli artt. 346 e 347 del medesimo Trattato concernenti le misure adottate a tutela degli interessi essenziali della sicurezza nazionale, nell’eventualità di gravi agitazioni interne che turbino l’ordine pubblico, di guerra o di grave tensione internazionale che costituisca una minaccia di guerra ovvero per far fronte agli impegni assunti ai fini del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale (v. Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 82 e ss.; Tesauro, 2010, p. 302 e ss.).

Esistono poi delle occasioni nelle quali il controllo assume connotati di specialità quanto alla sostanza del procedimento nonché alla titolarità della legittimazione attiva e passiva. Sotto il primo profilo, rilevano l’art. 106, par. 3 del Trattato FUE e il regolamento (CE) n. 2679/98 del Consiglio del 7 dicembre 1998 sul funzionamento del mercato interno in relazione alla Libera circolazione delle merci tra gli Stati membri (in GUCE n. L 337 del 12 dicembre 1998, p. 8 e ss.). Secondo l’art. 106, par. 3, la Commissione sorveglia l’applicazione delle disposizioni dei parr. 1 e 2 della stessa norma, recanti il divieto per gli Stati membri di emanare o mantenere misure contrarie ai Trattati nei confronti delle imprese pubbliche e delle imprese cui sono riconosciuti diritti speciali o esclusivi, e il dovere di sottoporre alle regole dei Trattati le imprese incaricate della gestione di servizi di interesse economico generale o aventi carattere di monopolio fiscale. La vigilanza si esplica rivolgendo, quando occorra, agli Stati membri stessi le direttive o le decisioni ritenute opportune. Rimane peraltro ferma la possibilità che la Commissione agisca attraverso un ricorso per infrazione contro lo Stato membro colpevole di non aver dato seguito a quanto richiesto con le suddette direttive o decisioni (v. Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 84 e ss.). Il regolamento n. 2679/98, dal canto suo, appronta una reazione in presenza di gravi perturbazioni, attribuibili ad una azione o ad una inazione di uno Stato membro, che siano di ostacolo alla libera circolazione delle merci (perché ne impediscono, ritardano o deviano l’importazione, l’esportazione o il transito) e che causino pregiudizio ai privati lesi. Sono previsti a questo scopo un obbligo di informazione reciproca tra gli Stati membri e la Commissione (art. 3); la conferma, per lo Stato membro sul cui territorio si sia prodotto l’ostacolo, dell’obbligo (imposto dal Trattato FUE) di adottare tutte le misure necessarie e proporzionate per rimuoverlo, dandone notizia alla Commissione (art. 4); e una procedura accelerata di richiesta di osservazione a tale Stato membro notificata formalmente dalla Commissione (art. 5). La notifica è equiparabile alla lettera di messa in mora della procedura di infrazione classica, e perciò la Commissione, se dovesse successivamente ritenere che il comportamento dello Stato dia luogo ad una violazione del diritto dell’Unione, può senz’altro trasmettere direttamente il parere motivato di cui all’art. 258, 1° comma del Trattato FUE (v. Mori, 2004, p. 1062; Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 87).

In merito al secondo aspetto, si segnalano gli artt. 271 del Trattato FUE e l’art. 145 del Trattato CEEA. Ai sensi dell’art. 271, lett. a) e d), nelle controversie concernenti, rispettivamente, l’esecuzione degli obblighi degli Stati membri derivanti dallo Statuto della Banca europea per gli investimenti (Protocollo n. 5 allegato al Trattato UE e al Trattato FUE) e l’esecuzione, da parte delle Banche centrali nazionali, degli obblighi derivanti dai Trattati e dallo Statuto del Sistema europeo di Banche centrali e della Banca centrale europea (BCE) (Protocollo n. 4, anch’esso allegato al Trattato UE e al Trattato FUE), il Consiglio di amministrazione della Banca europea per gli investimenti (BEI) (nei confronti degli Stati) e il Consiglio direttivo della Banca centrale europea (nei confronti delle Banche centrali nazionali) dispongono dei poteri riconosciuti alla Commissione dall’art. 258 (apertura della fase precontenziosa e ricorso alla Corte di giustizia: v. sopra, § 2 e 3 nonché Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 87; Tesauro, 2010, p. 303). L’art. 145 del Trattato CEEA autorizza infine la Commissione, quando questa reputi che una persona o un’impresa abbia commesso una violazione non sanzionabile attraverso i rimedi desumibili dall’art. 83 del medesimo Trattato (richiamo; revoca di vantaggi particolari; sottoposizione dell’impresa ad amministrazione esterna; ritiro totale o parziale delle materie grezze o fissili speciali), a invitare lo Stato membro cui appartengono la persona o l’impresa a prendere provvedimenti e, in difetto, ad adire la Corte di giustizia per far appurare la violazione contestata.

Il controllo del comportamento degli Stati membri dell’Unione in tema di disavanzi pubblici eccessivi e di violazione dei diritti fondamentali

L’esercizio del diritto ad esperire le azioni di cui agli artt. 258 e 259 del Trattato FUE, ampiamente esaminati, è escluso ogniqualvolta si debba valutare la condotta degli Stati membri a proposito dei disavanzi pubblici eccessivi e della garanzia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. I Trattati, in sostituzione, prevedono controlli e sanzioni di natura politica affidati al Consiglio dei ministri (e al Consiglio europeo) senza che alla Corte di giustizia sia riservato alcun ruolo. In relazione ai disavanzi pubblici eccessivi, che gli Stati membri devono evitare, l’art. 126 del Trattato FUE attribuisce al Consiglio (par. 9) il potere di intimare allo Stato inadempiente di prendere, entro un termine preciso, le misure volte alla riduzione del disavanzo ritenuta necessaria. Fintantoché lo Stato interessato non ottemperi, il Consiglio (par. 11) può chiedere che esso pubblichi informazioni supplementari prima dell’emissione di obbligazioni o altri titoli; invitare la Banca europea per gli investimenti a riconsiderare la propria politica di prestiti verso lo Stato in questione; richiedere che lo Stato costituisca un deposito infruttifero di importo adeguato presso l’Unione fino a quando il disavanzo eccessivo non risulti corretto; e infliggere ammende.

Nel caso invece in cui il Consiglio europeo constati (con Voto all’unanimità, su proposta di un terzo degli Stati membri o della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo) la violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei valori comuni indicati nell’art. 2 del Trattato UE sui quali si fonda l’Unione (dignità umana, libertà, democrazia, uguaglianza, Stato di diritto e diritti umani), il Consiglio, ai sensi dell’art. 7 dello stesso Trattato UE (frutto della revisione effettuata con il Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997 ed oggi emendato dal Trattato di Lisbona), deliberando a Maggioranza qualificata può decidere (par. 3) di sospendere nei confronti dello Stato membro in parola alcuni dei diritti derivanti dall’applicazione dei Trattati, incluso il diritto di voto del rappresentante del Governo di tale Stato in seno al Consiglio medesimo (v. Nascimbene, 2004, p. 58 e ss.; Condinanzi, Mastroianni, 2009, p. 88).

Pierluigi Simone (2012)




Inghilterra

Regno Unito




Ingvar Carlsson




Inštitut pre Verejne Otásky

Istituto per gli Affari pubblici (IVO)




Instituto da defensa nacional

Istituto di difesa nazionale (IDN)




Instituto de estudos estratégicos e internacionais

Istituto di studi strategici e internazionali




Instituto nacional de administração

L’ instituto nacional de administração (INA) è la principale istituzione pubblica a offrire corsi di formazione per dipendenti pubblici del Portogallo. Fondato nel 1983, l’INA ha sede nel Palazzo del Marchese di Pombal. Nel 2004, l’Istituto aveva un budget di 9,8 milioni di euro, di cui un terzo era costituito da fondi pubblici (dal budget governativo) e due terzi da risorse finanziarie proprie. Consiste in nove dipartimenti: Amministrazione pubblica, Sistemi e tecnologie informatici, Ricerca e sviluppo, Amministrazione generale, Affari europei, Cooperazione, Relazioni pubbliche, il Centro documentazione e il Centro informatico. Nel 2004 il personale era composto da 188 unità.

Le attività principali dell’INA riguardano la formazione di dipendenti statali e di altri gruppi afferenti alla pubblica amministrazione, la consulenza per questioni attinenti alla pubblica amministrazione e alla ricerca, attraverso la cooperazione con altre istituzioni sia nazionali sia internazionali. Il grosso delle attività riguarda chiaramente i corsi di formazione per impiegati statali. A questo riguardo l’INA si ispira ai principi di ammodernamento e di deburocratizzazione della pubblica amministrazione. Svolge un ruolo importante nel diffondere i principi di “buona pratica” e benchmarking. Fa quindi parte della rete globale europea e internazionale che si occupa dell’introduzione di nuovi elementi nella gestione pubblica, come ad esempio il controllo della qualità, i processi di valutazione e l’importanza crescente dell’e-government.

Nel 2004 l’INA ha organizzato 579 attività di formazione del personale, sessioni informative o dibattiti che hanno visto la partecipazione di 15.730 persone. Vi è stato, pertanto, un considerevole incremento rispetto all’anno precedente. L’INA organizza anche conferenze come il Congresso periodico sulla pubblica amministrazione e vari seminari su diversi argomenti d’interesse per i funzionari pubblici. In anni recenti, l’INA ha rafforzato i propri legami con altre istituzioni accademiche che hanno portato alla creazione di master (MA e MSc) online in sistemi informatici, commercio elettronico e informatica. La maggioranza dei funzionari pubblici si trova ai più alti gradi della pubblica amministrazione, sebbene anche i quadri intermedi siano ben rappresentati. Fino alla presidenza portoghese della prima metà dell’anno 2000, vi è stata una forte domanda di corsi in materia di affari europei, che in seguito ha iniziato a diminuire. Fin dagli anni Ottanta l’INA ha svolto un ruolo importante offrendo corsi di formazione al personale in materia di affari europei.

L’INA è anche impegnato in diversi programmi di formazione del personale nei paesi africani di lingua portoghese come ad esempio l’Angola, il Mozambico e São Tomé e Principe e nella creazione di istituzioni a Timor Est. Le pubblicazioni dell’INA sono di rilievo: vertono principalmente sui problemi dell’amministrazione pubblica portoghese e come tali sono strumenti importanti per studiare il paese. I diversi working papers frutto della ricerca di vari membri dello staff dell’Ina vengono talvolta pubblicati in inglese. Egualmente rilevante è il consolidato e autorevole giornale “Legislação”, che include articoli peer-reviewed sulle istituzioni portoghesi, sulla pubblica amministrazione e sui problemi della legislazione. Più di recente è stata lanciata la newsletter elettronica mensile net@ina, la quale informa il pubblico in merito alle attività dell’INA.

L’INA dispone anche di un’ottima biblioteca con 19.062 monografie e 359 pubblicazioni periodiche. Inoltre, il centro di documentazione europea collegato all’INA è un’importante fonte di informazioni per le questioni sull’Unione europea.

Le attività di ricerca dell’INA sono considerate fondamentali per la modernizzazione della pubblica amministrazione portoghese. Grazie alla crescente integrazione delle pubbliche amministrazioni nazionali all’interno dell’Unione europea, la ricerca portoghese sulla pubblica amministrazione è diventata più comparativa ed empirica. L’INA è stato all’avanguardia nel paese in queste trasformazioni nella cultura della ricerca.

José María Magone (2012)




Integrazione Differenziata

Definizione

Con l’espressione “integrazione differenziata” si suole indicare la possibilità concessa agli Stati membri delle Comunità e dell’Unione europea di dare vita a forme di collaborazione basate su ritmi eterogenei e finalizzate, in relazione alle rispettive capacità ed esigenze, al raggiungimento di obiettivi diversificati. L’opportunità di prevedere un simile meccanismo venne ipotizzata fin dalla seconda metà degli anni Sessanta del Novecento, quando furono presentate le prime domande di adesione di Stati terzi alle Comunità e quando queste ultime iniziarono a far trasparire i primi considerevoli sviluppi delle proprie Competenze. Applicazioni effettive del principio si sono peraltro avute solo con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht (Trattato UE) e del Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997. Il Trattato di Amsterdam ha altresì formalizzato e regolamentato la facoltà degli Stati membri di procedere a integrazioni differenziate attraverso lo strumento della Cooperazione rafforzata. L’integrazione differenziata permane tuttora in riferimento agli Accordi di Schengen del 14 giugno 1985 e del 19 giugno 1990; all’Unione economica e monetaria (UEM); alla Politica europea di sicurezza e difesa; allo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia; ai controlli alle frontiere; e alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (v. sotto, § 6).

Le varie tipologie di integrazione differenziata concepite dalle origini all’Atto unico europeo: l’Europa à la carte, l’Europa “a più velocità”, l’Europa “a geometria variabile” e l’Europa “a cerchi concentrici”

La proposta iniziale di ammettere una integrazione differenziata tra gli Stati comunitari, nel tentativo di conciliare le diversità affioranti tra di essi quanto a sviluppo economico e a volontà politiche, venne presentata nel 1965 da Louis Armand, presidente pro tempore della Commissione della Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom). Coniando il termine Europa “alla carta”, egli prospettò l’idea secondo la quale, a prescindere dalle disposizioni dei Trattati istitutivi, sarebbe stato conveniente consentire agli Stati membri di scegliere, di volta in volta, le politiche alle quali avessero preferito partecipare e quelle alle quali non avessero invece gradito aderire, dando così luogo a forme di Cooperazione intergovernativa tali da coinvolgere esclusivamente gli Stati che si fossero pronunciati favorevolmente. Sulla base di questo suggerimento, venne avviato nel 1971 un programma di coordinamento della ricerca scientifica e tecnica (European cooperation in the field of scientific and technical research, COST), tuttora esistente e riguardante, fin dalle origini, sia Stati membri sia Stati non membri delle Comunità e dell’Unione (v. anche Politica della ricerca scientifica e tecnologica); caratteristica del network COST è infatti l’assoluta flessibilità, essendo richiesti, per la realizzazione dei progetti sulle singole aree di interesse (informatica, telecomunicazioni, trasporti, oceanografia, ambiente, meteorologia, agricoltura, tecnologia alimentare, ricerca medica e sociotecnologia), la condivisione e l’assenso anche soltanto di cinque Stati.

Diverso dall’Europa à la carte è il concetto di Europa “a più velocità” (Europe à plusieurs vitesses), illustrato nel 1975 dall’allora primo ministro belga Léo Tindemans, quando vennero constatate le divergenze sussistenti tra gli Stati membri in materia economica e monetaria ed emersero, nel corso del dibattito sul rafforzamento graduale del c.d. Serpente monetario (il sistema di cambio creato nel 1972 con lo scopo di assicurare un’area di stabilità monetaria all’interno della Comunità europea), le difficoltà di alcuni Stati a rispettare gli impegni che il sistema stesso richiedeva. Ferma restando l’unicità dell’obiettivo finale della costruzione europea, comune a tutti gli Stati membri, fu avanzata l’ipotesi di assolvere gli impegni presi in tempi diversi e predeterminati, dato che alcuni obiettivi comunitari avrebbero potuto essere concretizzati soltanto se un gruppo di Stati avesse marciato più speditamente rispetto agli altri.

Ulteriore tipo di integrazione differenziata è quello dell’Europa “a geometria variabile” (Europe à géometrie variable) di cui parlò nel 1980 Jacques Delors, all’epoca presidente della Commissione economica e monetaria del Parlamento europeo, nel momento in cui si pensava, all’indomani della creazione del Sistema monetario europeo, di modificare la struttura del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) a causa delle pretese di restituzione delle risorse che il Regno Unito, quale contributore netto, avanzava con insistenza. Nel prevedere che alcuni Stati membri, economicamente e politicamente più maturi, potessero decidere di mettere in pratica una più stretta cooperazione tra loro e di alterare così una evoluzione che avrebbe invece dovuto imporre a tutti la stessa andatura, l’Europa a geometria variabile si differenziava peraltro dal concetto di Europa à la carte poiché la cooperazione suddetta sarebbe dovuta avvenire nell’ambito delle strutture e dei meccanismi istituzionali della Comunità, con deroghe per gli Stati membri dissenzienti e senza ricorrere perciò al metodo intergovernativo.

Successivamente all’entrata in vigore dell’Atto unico europeo, firmato a Lussemburgo il 17 febbraio 1986 e a L’Aia il 26 febbraio 1986, si profilò inoltre la formula dell’Europa a “cerchi concentrici” (Europe des cercles concentriques), elaborata nel 1988 anch’essa da Jacques Delors (che aveva nel frattempo assunto la carica di presidente della Commissione delle Comunità europee) con l’intento di definire un modello di Unione politica da affiancare all’Unione economica e monetaria. Richiamandosi all’immagine dei cerchi olimpici, autonomi ma in parte sovrapposti e agganciati tra loro, si teorizzava dunque una nuova struttura dell’Europa basata su sottoinsiemi di Stati composti a seconda del livello di integrazione da questi manifestato: gli Stati membri della (futura) Unione europea avrebbero occupato il c.d. cerchio di diritto comune, i Paesi candidati all’adesione il c.d. cerchio dei più vicini mentre l’appartenenza ai cerchi più ristretti avrebbe postulato una cooperazione rafforzata in settori specifici. La formula in oggetto è stata successivamente ripresa da altre personalità (tra gli altri, dal primo ministro francese Édouard Balladur nel 1994) e utilizzata da costoro per delineare diversamente l’architettura europea. È stata così tracciata una immagine nella quale un primo cerchio, collocato al centro, avrebbe incluso gli Stati membri dell’Unione; un secondo cerchio avrebbe racchiuso gli Stati membri dell’Unione e gli Stati dello Spazio economico europeo; un terzo cerchio avrebbe raggruppato gli Stati membri dell’Unione e gli Stati europei centro orientali legati all’Unione stessa da rapporti di cooperazione politica ed economica (Accordi europei); e un quarto ed ultimo cerchio avrebbe palesato una sorta di confederazione che avesse integrato gli Stati membri dell’Unione con gli Stati membri del Consiglio d’Europa e con gli Stati facenti parte dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE). Il modello dell’Europa dei cerchi concentrici è stato inoltre utilizzato per indicare il modo in cui l’Unione europea dovrebbe operare, individuandosi in tal caso un cerchio centrale costituito dalle attività alle quali devono partecipare tutti gli Stati membri e alle quali va applicato il metodo comunitario; un secondo cerchio comprensivo delle attività alle quali gli Stati medesimi possono partecipare secondo le proprie volontà ricorrendo al metodo intergovernativo; e un terzo cerchio, il più lontano dal nucleo, con tutte quelle attività nelle quali possono essere coinvolti gli Stati terzi, sempre tramite il metodo intergovernativo.

L’applicazione del principio dell’integrazione differenziata nel Trattato di Maastricht e le successive proposte dell’“integrazione debole” e del “nucleo duro”

Con il Trattato di Maastricht, il principio dell’integrazione differenziata ha avuto le sue prime vere attuazioni: sono state infatti tenute presenti la tesi dell’Europa a più velocità, nell’Unione economica e monetaria; quella dell’Europa a geometria variabile, nel concedere al Regno Unito e alla Danimarca degli opting-out relativamente ad alcune politiche comunitarie.

Quanto all’Unione economica e monetaria, l’integrazione differenziata si è sostanziata, più precisamente, nell’aver riservato la partecipazione alla terza fase dell’UEM e l’introduzione dell’Euro solamente a quegli Stati membri che avessero rispettato l’insieme dei valori limite dei Criteri di convergenza esposti dall’art. 109J, par. 1 del Trattato istitutivo della Comunità europea (Trattato CE) e specificati dal Protocollo n. 6 allegato allo stesso Trattato CE (decisione n. 98/317/CE del Consiglio del 3 maggio 1998, in GUCE n. L 139 dell’11 maggio 1998, p. 30 e ss.). Quanto al regime speciale per il Regno Unito e la Danimarca, rilevavano invece i seguenti protocolli, pure allegati tutti al Trattato CE:

a) il Protocollo n. 8 sulla Danimarca, ai sensi del quale la Banca nazionale di Danimarca ha potuto seguitare a svolgere le sue attività nei territori danesi non facenti parte della Comunità, in deroga all’art. 14 del Protocollo n. 3 sullo Statuto del Sistema europeo di banche centrali e della Banca centrale europea;

b) il Protocollo n. 11 su talune disposizioni relative al Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, mediante il quale è stata sancita la libertà del Regno Unito di non partecipare alla terza fase dell’UEM, riconoscendone il relativo disimpegno;

c) il Protocollo n. 12 su talune disposizioni relative alla Danimarca, con il quale la Danimarca stessa è stata ugualmente esentata dalla terza fase dell’UEM (cfr. anche la sez. B della Decisione dei capi di Stato e di governo, riuniti in sede di Consiglio europeo, concernente alcuni problemi attinenti al Trattato sull’Unione europea sollevati dalla Danimarca, adottata a Edimburgo il 12 dicembre 1992);

d) il Protocollo n. 14 sulla politica sociale, recante in calce l’Accordo sulla politica sociale tra gli Stati membri della Comunità europea a eccezione del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, dal quale quest’ultimo Stato aveva ottenuto di essere escluso.

La sez. C della Decisione di Edimburgo del 1992 chiariva inoltre come, nell’ambito del “secondo pilastro” dell’Unione, la Danimarca non fosse impegnata a divenire membro dell’Unione dell’Europa occidentale (UEO) e non dovesse quindi reputarsi in nessun modo coinvolta nella Politica europea di sicurezza e difesa (PESD) di cui all’art. J4 del Trattato UE.

In concomitanza con l’Allargamento delle Comunità e dell’Unione ad Austria, Finlandia e Svezia, sancito dal Trattato di Corfù del 24 giugno 1994, e soprattutto nella prospettiva dell’ingresso in esse anche degli Stati dell’Europa centrale e orientale, il dibattito sull’integrazione differenziata tornò a ravvivarsi: vennero pertanto lanciate le opzioni dell’“integrazione debole” (Weak integration) dal primo ministro britannico John Major, e del “Nucleo duro” (Harter Kern o Noyau dur) dal cancelliere tedesco Helmut Kohl. Entrambe intendevano risolvere i conflitti di natura politica, sociale ed economica che, si riteneva, si sarebbero inevitabilmente presentati. L’integrazione debole concepiva una separazione tra le componenti essenziali dell’Unione (alcune politiche più il “secondo” e il “terzo pilastro”) (v. Pilastri dell’Unione europea), comuni a tutti gli Stati membri, e le componenti supplementari, affidate alla competenza esclusiva degli Stati membri. Il progetto del nucleo duro, ispirato al modello di Stato federale, prevedeva invece l’istituzionalizzazione nei Trattati di Roma del concetto di Europa a più velocità e di Europa a geometria variabile, dovendosi instaurare una integrazione forte soltanto tra alcuni Stati membri e soltanto in alcuni contesti, e differire la partecipazione ad essa degli altri Stati al momento in cui questi ultimi si fossero dimostrati pronti.

Il Trattato di Amsterdam e il meccanismo della cooperazione rafforzata

Il Trattato di Amsterdam, accogliendo sostanzialmente i contenuti del modello tedesco del nucleo duro, ha formalizzato la facoltà di pervenire a una integrazione differenziata attraverso l’introduzione del meccanismo della cooperazione rafforzata (artt. J7, par. 4, K12, K15, K16 e K17 del Trattato UE e art. 5A del Trattato CE, divenuti poi, nel testo consolidato, gli artt. 17, 40, 43, 44 e 45 del Trattato UE e l’art. 11 del Trattato CE). L’istituto della cooperazione rafforzata è stato successivamente modificato dal Trattato di Nizza del 26 febbraio 2001 (artt. 27A-27E, 40-40B, 41 e 43-45 del Trattato UE e artt. 11 e 11A del Trattato CE) e riaffermato dal Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa del 29 ottobre 2004 (artt. I-44, III-270, III-271 e da III-416 a III-423) (v. Costituzione europea). Dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, la cooperazione rafforzata risulta disciplinata dall’art. 20 del Trattato UE e dagli artt. 82, 83, 86, 87 e 326-334 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Trattato FUE), per i quali cfr. la versione pubblicata in GUUE n. C 83 del 30 marzo 2010, p. 1 e ss. La relativa procedura, da avviare solo quale extrema ratio laddove il Consiglio certifichi l’impossibilità di conseguire in tempi ragionevoli gli stessi risultati a opera dell’Unione nel suo insieme, è soggetta a condizioni e limiti precisi: tra gli altri, la cooperazione deve riguardare materie di competenza concorrente; è necessario il coinvolgimento di almeno nove Stati membri che presentino un’apposita richiesta alla Commissione; occorre una autorizzazione finale del Consiglio su proposta della Commissione (titolare di un potere di veto, in quanto non obbligata a inoltrare la richiesta suddetta) e previo Parere non vincolante del Parlamento europeo; se la richiesta verte sulla Politica estera e di sicurezza comune, bisogna interpellare l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza affinché emetta un parere.

Il Trattato UE e il Trattato CE, come modificati dal Trattato di Amsterdam, hanno tuttavia lasciato permanere diverse forme di integrazione differenziata tra gli Stati membri, confermando quasi tutte quelle introdotte dal Trattato di Maastricht elencate sopra, § 3 e introducendone anche di nuove. Esse erano riferite all’ingresso nella terza fase dell’UEM nonché, mediante protocolli allegati al Trattato UE e al Trattato CE, all’estraneità alla stessa terza fase dell’UEM di Danimarca e Regno Unito (Protocolli nn. 22, 25 e 26); all’applicazione degli Accordi di Schengen da parte della Danimarca, dell’Irlanda e del Regno Unito (Protocolli nn. 2 e 5); all’esercizio dei controlli di frontiera sulle persone da parte del Regno Unito e alle intese reciproche con l’Irlanda sulla circolazione di persone tra i territori dei due Stati (Protocollo n. 3); alla posizione di Danimarca, Irlanda e Regno Unito sui visti, l’asilo, l’immigrazione e le altre politiche connesse con la Libera circolazione delle persone di cui al titolo IV del Trattato CE (Protocolli nn. 4 e 5); e alla posizione della Danimarca sulla politica di difesa (Protocollo n. 5). Il Protocollo n. 14 sulla politica sociale [v. sopra, § 3, lett. d)] venne invece abrogato (v. Protocollo sulla politica sociale; Politica sociale).

L’integrazione differenziata nel Trattato di Nizza

Sul piano dell’integrazione differenziata, il Trattato di Nizza non ha innovato rispetto alle fattispecie contemplate nel Trattato di Maastricht e ribadite nel Trattato di Amsterdam né rispetto alle fattispecie che lo stesso Trattato di Amsterdam aveva considerato ex novo (v. sopra, § 4). Sono pertanto rimasti validi i Protocolli nn. 2, 3, 4, 5 (allegati al Trattato UE e al Trattato CE), 22, 25 e 26 (allegati al Trattato CE).

Le attuali situazioni di integrazione differenziata

Tenendo conto del Trattato di Lisbona, l’ordinamento dell’Unione europea prevede oggi i seguenti casi di integrazione differenziata, consistenti rispettivamente:

a) nella mancata partecipazione dell’Irlanda e del Regno Unito, e nella partecipazione parziale della Danimarca, agli Accordi di Schengen (Protocollo n. 19 sull’acquis di Schengen integrato nell’ambito dell’Unione europea, che autorizza gli Stati firmatari degli Accordi medesimi ad attuare tra loro una cooperazione rafforzata) e Protocollo n. 22 sulla posizione della Danimarca];

b) nell’aver destinato la terza fase dell’UEM e l’adozione dell’euro agli Stati membri rispettosi dei c.d. parametri di Maastricht di cui all’art. 140, par. 1 del Trattato FUE e al Protocollo n. 13 sui criteri di convergenza allegato al Trattato UE e allo stesso Trattato FUE (cfr. in argomento anche il Protocollo n. 14 sull’Eurogruppo);

c) nell’aver dispensato la Danimarca e il Regno Unito dalla terza fase dell’UEM (Protocollo n. 15 su talune disposizioni relative al Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord e Protocollo n. 16 su talune disposizioni relative alla Danimarca), e nella inapplicabilità alla Banca nazionale di Danimarca dell’art. 14 del Protocollo n. 4 sullo Statuto del Sistema europeo di Banche centrali e della Banca centrale europea (Protocollo n. 17 sulla Danimarca);

d) nella mancata partecipazione della Danimarca alla elaborazione, adozione e attuazione di decisioni e azioni dell’Unione aventi implicazioni di difesa (Protocollo n. 22 citato);

e) nella mancata partecipazione della Danimarca, dell’Irlanda e del Regno Unito all’adozione delle misure proposte a norma della Parte terza, titolo V (artt. 67-89) del Trattato FUE e riguardanti le politiche relative ai controlli alle frontiere, all’asilo e all’immigrazione; la cooperazione giudiziaria civile e penale; la cooperazione di polizia; e il trattamento di dati personali di cui all’art. 16 del Trattato FUE nelle attività connesse alla cooperazione giudiziaria penale e di polizia (Protocollo n. 21 sulla posizione del Regno Unito e dell’Irlanda rispetto allo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia e Protocollo n. 22 già menzionato);

f) nell’aver autorizzato il Regno Unito a esercitare alle proprie frontiere (nonostante gli artt. 26 e 77 del Trattato FUE) i controlli necessari a verificare il diritto di accesso al suo territorio dei cittadini degli altri Stati membri dell’Unione e a stabilire se concedere o meno ad altre persone il permesso di entrare nel Paese, conservandosi oltretutto la validità delle intese sulla zona di libero spostamento esistenti con l’Irlanda (Protocollo n. 20 sull’applicazione di alcuni aspetti dell’articolo 26 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea al Regno Unito e all’Irlanda);

g) nelle clausole inerenti la portata assunta dalla Carta dei diritti fondamentali negli ordinamenti polacco e britannico (Protocollo n. 30 sull’applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea alla Polonia e al Regno Unito). Il Consiglio europeo di Bruxelles del 29 e 30 giugno 2009 ha accettato di estendere le riserve concepite per Polonia e Regno Unito anche alla Repubblica Ceca, convenendo di provvedere in tal senso quando verrà stipulato il prossimo Trattato di adesione.

Pierluigi Simone (2009)