João de Deus Pinheiro




Joaquín Ruiz-Giménez Cortés




Joaquín Satrústegui




Johan Willem Beyen




Johannes Linthorst Homan




Johannes Rau




John Fitzgerald Kennedy




John Major




Johnson, Lyndon Baines

Nato e cresciuto nel Texas, J. (vicino a Stonewall, Texas 1908-Johnson City, Texas 1973) si laureò nel 1930 al Southwest Texas State Teachers College, cominciò a insegnare in una scuola superiore di Houston e, dal 1932 al 1934, lavorò per il deputato Richard Kleberg. Assunta nel 1935 la direzione per il Texas della National youth administration, uno degli organismi creati nell’ambito del New Deal rooseveltiano, si avviò verso una brillante carriera politica, mentre la moglie, acquistando una stazione radiofonica ad Austin, creava le basi di una sicura posizione finanziaria per la famiglia. Corse per il Congresso nelle file dei democratici e, ottenuto un seggio alla Camera nel 1937, lo conservò fino al 1949. Dopo un primo tentativo di elezione al Senato, nel 1941, J. combatté nel Pacifico meridionale fino all’estate del 1942, guadagnandosi una decorazione al valore. Eletto al Senato nel 1948, vi assunse cariche di crescente responsabilità grazie a un’abilità di manovra non comune: capogruppo dei democratici nel 1951, leader della minoranza nel 1953 e, dopo le elezioni del 1954 che restituirono il controllo ai democratici, leader della maggioranza. In questa posizione, che ricoprì dal 1955 al 1961 con notevole influenza e capacità, J. gestì tra l’altro l’approvazione dei due Civil rights acts del 1957 e del 1960. Sconfitto da John Kennedy per la nomination democratica alle presidenziali, accettò la sua offerta di correre per la vicepresidenza e, dopo la vittoria elettorale, ne assunse l’incarico dal 1961 al 1963. Mai a suo agio nelle vesti di “secondo”, J. svolse gli incarichi collegati al ruolo, presiedendo tra l’altro il Comitato per le pari opportunità e il Consiglio consultivo per il Peace corps. Subito dopo l’assassinio di John Kennedy (Dallas, 22 novembre 1963), giurò sull’Air force one che ne riportava la salma a Washington e gli successe nella carica come trentaseiesimo presidente degli Stati Uniti.

Giunto al vertice, J. seppe fronteggiare senza esitazioni le circostanze tragiche dell’avvicendamento alla Casa Bianca, assicurando continuità e stabilità al paese tanto in politica interna quanto sulla scena internazionale. Nell’attesa della campagna elettorale del 1964, cui erano affidate le sue probabilità di conferma in carica, J. richiamò l’attenzione dell’opinione pubblica sulla necessità di completare il programma di riforme avviato dal suo predecessore e, su più ampia scala, di riprendere nello spirito e nella sostanza il cammino tracciato dal New Deal negli anni Trenta. Alcuni obiettivi centrali vennero identificati nell’espansione generale della prosperità nel paese e nella garanzia di opportunità più sostanziali per gli strati meno abbienti della società: di qui la “guerra alla povertà”, dichiarata nel messaggio sullo stato dell’Unione nel gennaio 1964 («Questa amministrazione – oggi, qui e subito – dichiara guerra incondizionata alla povertà in America»), e l’appello al Congresso perché si adoperasse a favore dei «diritti civili più che nell’insieme di tutte le ultime cento sessioni», lanciasse «il più efficace ed efficiente programma di aiuti per l’estero di tutti i tempi» e promuovesse la costruzione di «più case, più scuole, più biblioteche e più ospedali che in qualunque singola sessione del Congresso nella storia della Repubblica». Si delineavano, così, i primi passi costruttivi della great society: un obiettivo e uno slogan che avrebbero costituito la trama di sfondo di tutta la presidenza. Già nel corso del 1964 furono approvati il Civil rights act e una serie di misure per il contenimento della povertà sfociate nella creazione dell’Ufficio per le opportunità economiche.

In politica estera J. seppe instaurare rapporti di fiducia e di collaborazione con i consiglieri più importanti ereditati da Kennedy (tra gli altri, il segretario di Stato Dean Rusk, il segretario alla Difesa Robert McNamara e l’assistente speciale per gli Affari di sicurezza nazionale, McGeorge Bundy), si adoperò nel segno della continuità nelle relazioni atlantiche con gli alleati europei e affrontò con vigore le scelte complesse che si imponevano sia nell’America latina, dove occorreva valutare in modo realistico la possibilità di raggiungere gli obiettivi della “Alleanza per il progresso”, sia soprattutto nella complessa situazione vietnamita, nella quale J. identificò un test critico della forza decisionale statunitense a fronte della sfida globale sovietica e cinese. Nell’agosto 1964, a seguito dell’incidente nel golfo del Tonchino, chiese e ottenne dal Congresso una risoluzione (adottata all’unanimità dalla Camera e con 88 voti contro due al Senato) che lo autorizzava ad adottare ogni misura necessaria per proteggere le forze armate statunitensi impegnate sul campo.

Dopo aver trionfato alle urne, battendo il candidato repubblicano Barry Goldwater in 44 Stati su 50, con 43 milioni di voti contro 27, cioè con la percentuale più alta mai ottenuta sino allora da un presidente nella storia del paese, J. si dedicò alla realizzazione delle riforme interne, cercando di accentuare il controllo della Casa Bianca sulle scelte del Congresso per superare le fondamentali tappe legislative connesse ai contributi federali per l’istruzione, all’assistenza sanitaria pubblica del programma Medicare, all’integrazione razziale tramite la garanzia dei diritti civili ai neri (con il fondamentale Voting rights act del 1965, che triplicò in tre anni il numero dei neri registrati per il voto), alla “crociata” contro la povertà nel paese. I successi ottenuti nelle riforme non trovarono corrispondenza adeguata nei risultati complessivi dell’azione internazionale promossa dall’amministrazione, che si alienò gradualmente il consenso interno. Nonostante le sorti incerte del conflitto, il presidente e i suoi consiglieri si orientarono infatti verso l’escalation dell’impegno bellico nel Vietnam, assumendo decisioni sempre più gravi (bombardamenti sul Vietnam del Nord e aumento graduale della presenza di truppe statunitensi impegnate nel teatro operativo, fino a superare il mezzo milione di unità alla fine del 1966) che risentirono in parte della personalità competitiva di J. – determinato a emulare e superare i successi di Franklin Roosevelt come grande presidente di pace e di guerra – e non furono sottoposte in modo adeguato al vaglio progressivo dell’opinione pubblica.

Un tentativo significativo, ma non decisivo, in tal senso fu il discorso sullo stato dell’Unione del 12 gennaio 1966, che il presidente dedicò in parte alla questione vietnamita e in parte alla realizzazione della great society, sfidando il paese a collegare i due temi: a riconoscere, cioè, nel Sudest asiatico un punto critico per la posizione complessiva degli Stati Uniti nelle relazioni internazionali e, nel contempo, a sostenere la prosecuzione a pieno ritmo degli ambiziosi programmi per la salute, l’istruzione e la riduzione della povertà. Dati i costi imposti dalla guerra nel Vietnam, le risorse finanziarie non erano però sufficienti a battere entrambe le strade con pari efficacia. I democratici subirono una sconfitta alle elezioni di mid-term del novembre 1966, pur mantenendo la maggioranza in entrambe le Camere, e, nel corso dell’anno successivo, si allargò sempre più il dissenso sulla guerra all’interno dell’opinione pubblica e, via via, della stessa amministrazione. La svolta militare del conflitto, segnata nel gennaio 1968 dall’offensiva del Tet, diffuse ulteriori motivi di pessimismo nel paese e spinse il presidente alla ricerca di una soluzione: in un discorso tenuto il 31 marzo, J. annunciò la riduzione dei bombardamenti sul Vietnam del Nord per agevolare l’apertura di negoziati per la pace e dichiarò che non si sarebbe candidato alla Casa Bianca per un secondo mandato. La decisione, molto sofferta, gli permise di dedicare gli ultimi mesi di presidenza alle riforme interne, così come alla soluzione del problema vietnamita e ad altri grandi temi di politica estera, quali il dialogo nucleare con i sovietici, sfociato nella firma del trattato di non proliferazione nel luglio 1968 (preceduto, nel gennaio 1967, dal trattato sullo spazio extraterrestre).

Nella prospettiva storica e storiografica, la gestione della crisi nel Sudest asiatico e le critiche agli Stati Uniti che essa suscitò nell’opinione pubblica e in alcuni ambienti governativi di molti paesi alleati hanno oscurato a lungo il bilancio delle relazioni tra Washington e l’Europa occidentale negli anni di J.: un bilancio che fu invece, nel complesso, positivo. Il presidente e i suoi collaboratori seppero infatti sviluppare con abilità, pazienza e flessibilità l’eredità kennedyana, tributando la debita attenzione a quelle relazioni, nelle quali essi ravvisavano, in piena continuità con le scelte compiute sotto Harry Spencer Truman negli anni Quaranta, l’asse portante di un solido multilateralismo a guida statunitense, capace di superare lo scontro con l’Unione Sovietica e di stabilizzare in prospettiva l’ordine mondiale. Nel 1967 giunse a compimento, in seno all’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT) (v. Organizzazione mondiale del commercio), il “Kennedy round” per la riduzione degli ostacoli tariffari al commercio. Nello stesso anno si conclusero in modo soddisfacente nuovi accordi offset a tre con la Germania occidentale e con il Regno Unito per una soluzione complessiva delle questioni militari e finanziarie correlate alla presenza delle forze britanniche e statunitensi sul suolo tedesco. Alterna fortuna ebbero invece gli sforzi di Washington per stimolare una riforma appropriata e concertata del sistema monetario internazionale che salvasse e aggiornasse il sistema di Bretton Woods.

Per cinque anni, con toni e misure variabili a seconda delle circostanze e delle reazioni degli interlocutori, l’amministrazione continuò a sostenere la necessità dell’unificazione economica e politica allargata alla Gran Bretagna e ad altri candidati come obiettivo finale della costruzione europea e come via maestra verso lo sviluppo di una comunità atlantica a due pilastri. Finché fu possibile, venne perseguito l’obiettivo di costituire una Forza multilaterale atomica e, una volta fallito il disegno, a Washington ci si adoperò con discreto successo per trovare soluzioni alternative per il nuclear sharing in seno all’Alleanza atlantica. Smorzando l’inclinazione alla rappresaglia di alcuni collaboratori, J. guidò una ripresa vigorosa della leadership statunitense all’interno dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) dopo il colpo formidabile sferrato all’organizzazione dal generale Charles de Gaulle nel marzo 1966, quando la Francia, in linea con la politica estera ambiziosa dispiegata dal suo presidente, annunciò il ritiro militare dai comandi integrati, senza peraltro abbandonare l’Alleanza. Il rafforzamento della NATO, legato anche all’approvazione dello “Studio Harmel” (v. Piano Harmel) nel dicembre 1967, permise agli Stati Uniti di sviluppare su basi consolidate il dialogo con l’Est europeo e con l’Unione Sovietica, e di fronteggiare la crisi cecoslovacca del 1968.

In un discorso tenuto il 3 maggio 1966, J. aveva sottolineato la convinzione statunitense che «la spinta verso l’unità nell’Europa occidentale non è solo auspicabile ma anche necessaria. […] Ogni lezione che il passato può insegnarci e ogni prospettiva rivolta al futuro dimostrano che le nazioni dell’Europa occidentale possono svolgere il ruolo che loro compete nella comunità mondiale solo agendo sempre più di concerto. […] Una difesa atlantica integrata è la prima necessità e non il risultato ultimo della costruzione dell’unità nell’Europa occidentale, in vista dell’ampliamento della partnership tra le due rive dell’Atlantico e della composizione delle divergenze con l’Est». Affermazioni di questo genere furono ripetute in ogni occasione utile dal presidente e dai membri dell’amministrazione, dal 1963 al 1968. A volte si confusero concetti distinti come integrazione e costruzione (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), unità e unificazione, comunità, confederazione e federazione (v. Federalismo); ma fu sempre convogliato agli europei con sufficiente precisione il messaggio che Washington auspicava il progresso della costruzione europea all’interno di una più ampia comunità atlantica, in vista di una gestione condivisa del campo occidentale. Tale costruzione, a patto che gli alleati si dimostrassero disponibili a correggerne gli sviluppi finanziari e commerciali più direttamente dannosi per gli Stati Uniti, rientrava in una prospettiva di enlightened self-interest americano, cui l’amministrazione intendeva continuare a ispirarsi. Un polo unico europeo avrebbe infatti costituito l’alter ego o il socio di minoranza ideale per un sistema egemonico di potenza volto nel medio periodo a contenere l’avversario esterno, cioè l’Unione Sovietica, ma destinato a consolidarsi nel lungo periodo, e a scongiurare lo scatenarsi di nuove crisi belliche generali, solo se le tensioni intraeuropee avessero trovato un’adeguata camera di compensazione pacifica nella costruzione istituzionale comune.

Su questo sfondo – che J. non volle modificare fino al termine del suo mandato, anche quando, come nel caso dell’abbandono del progetto di Forza multilaterale nucleare, le circostanze e il calcolo del rapporto tra costi e benefici imposero decisi colpi di timone – non mancarono dubbi e critiche, all’interno dell’opinione pubblica e in seno alla stessa amministrazione, sull’opportunità di continuare ad appoggiare l’integrazione europea in nome di obiettivi strategici di lungo periodo, anche in presenza di comportamenti degli alleati direttamente dannosi per l’interesse nazionale statunitense. Come affermò il segretario al Tesoro, Henry Fowler, in un documento inviato a J. alla fine del maggio 1967: «I paesi del Mercato comune hanno mancato di assumersi la giusta quota di responsabilità che dovrebbe accompagnarsi all’incremento della forza economica e finanziaria. Hanno dato minori contributi alla difesa comune di quanto dovrebbero; hanno continuato ad accumulare riserve internazionali […]. In breve, quei paesi cercano di accrescere la propria influenza senza accollarsi il carico di responsabilità più forti […]. Non dovremmo quindi incoraggiare un ulteriore rafforzamento dell’Europa, e soprattutto della CEE [Comunità economica europea], finché proprio la CEE non dimostri di sapersi accollare le responsabilità di un’area caratterizzata da bilancia dei pagamenti in surplus».

Questo ritorno polemico sul tema del burden sharing, che aveva costituito peraltro il nocciolo dell’approccio kennedyano alle tematiche europee, ripreso in pieno da J., si sommava ai dissidi aperti dalla questione vietnamita e, sullo sfondo di una disillusione americana rispetto alla capacità europea di percepire quel conflitto e altri temi globali in termini di equa condivisione di responsabilità, apriva la via alla tentazione unilateralista: perché, in fondo, non inaugurare un nuovo corso in politica estera più libero e creativo nell’ordine delle priorità, considerando l’Europa occidentale una regione al pari delle altre nel globo, non più come l’interlocutrice fondamentale delle iniziative statunitensi, tanto nel confronto con Mosca quanto nella competizione per convincere i paesi in via di sviluppo a scegliere il mercato anziché il modello di crescita proposto dall’Est socialista? Vinte le presidenziali nel novembre 1968, Richard Nixon avrebbe impostato nuove coordinate per la politica europea degli Stati Uniti, portando per gradi a maturazione, d’intesa con il suo Consigliere per la sicurezza nazionale, Henry Alfred Kissinger, quel processo di disincanto rispetto alle prospettive di corresponsabilità e cogestione del campo occidentale che avevano ancora animato la presidenza di J.

Nel gennaio 1969 J., che era riuscito a garantire al suo vicepresidente, Hubert Humphrey, la nomination per le elezioni ma non la vittoria, si ritirò nel suo ranch a Johnson City, in Texas. Nei quattro anni successivi attese alla stesura di un volume di memorie e contribuì all’organizzazione della biblioteca presidenziale dedicata al suo nome. Morì di un attacco cardiaco nel gennaio 1973, subito prima della firma degli Accordi di Parigi per la pace nel Vietnam.

Massimiliano Guderzo (2010)




Jonas, Hans

J. nacque il 10 maggio 1903 a Mönchengladbach (Nordrhein-Westfalen), secondo di tre figli. Il padre, Gustav Jonas, possedeva una fabbrica tessile; la madre, Rosa, musicista, era figlia del rabbino liberale Jakob Horowitz. Gustav Jonas non era un ebreo ortodosso, essendo, al contrario, favorevole all’assimilazione ebraica alla società civile tedesca. Per molti anni egli rimase alla guida della sezione locale dell’Associazione centrale dei cittadini tedeschi di fede ebraica.

Durante gli anni del liceo J. cominciò ad interessarsi di filosofia, accostandosi a Platone e Kant, mentre a casa lesse avidamente le opere di Schopenhauer, Goethe, Schiller e Kleist che trovava nella biblioteca paterna. Risalgono a questo periodo alcune letture determinanti per la sua formazione culturale – I discorsi sull’ebraismo di Martin Buber, la Fondazione della metafisica dei costumi di Emmanuel Kant e la Bibbia, di cui cominciò a studiare per conto proprio il Pentateuco e i Libri dei Profeti – che risvegliarono il suo interesse per lo studio della filosofia e della teologia.

Nel corso dell’ultimo anno di liceo J. maturò la propria fede sionista. Al giovane J., di carattere risoluto e dinamico e orientato al pragmatismo, fu da subito chiaro come il sionismo si imponesse come compito pratico-politico. A spingerlo in questa direzione furono l’acuta consapevolezza della propria identità ebraica, l’inasprirsi della situazione politica contemporanea e la virulenza e la diffusione generalizzata dell’antisemitismo nel periodo in cui andava crollando il secondo impero tedesco. L’adesione al sionismo e la ferma convinzione che il proprio destino sarebbe stato di trasferirsi e stabilirsi in Palestina (da lui identificata con la propria patria) per poter così collaborare alla fondazione di una nuova comunità ebraica, segnarono una frattura nei confronti delle idee moderate del padre.

Nel gennaio del 1921 J. si iscrisse all’università di Friburgo, attirato dalla fama di Edmund Husserl, di cui ebbe modo di seguire le lezioni nel semestre estivo del 1921. Egli frequentò inoltre il seminario per principianti tenuto dal giovane docente Martin Heidegger.

Desiderando approfondire i propri interessi per le scienze religiose, cosa impossibile per un ebreo in una facoltà teologica come quella di Friburgo, a partire dall’autunno del 1921 J. si trasferì a Berlino, dove frequentò tre semestri accademici alla Scuola superiore per la scienza dell’ebraismo. Frequentò contemporaneamente la Facoltà teologica evangelica dell’Università Friedrich-Wilhelm, dove ebbe occasione di seguire direttamente le lezioni di docenti di spicco, tra cui Hugo Gressmann, Ernst Troeltsch ed Eduard Spranger.

A Berlino J. strinse amicizia con Leo Strauss e con Günther Stern (che in seguito utilizzò lo pseudonimo di Günther Anders), figlio di un accademico amico di Husserl. Inoltre, in quegli anni di crescenti tensioni sociali e politiche, si impegnò nell’associazione sionista Makkabäa e nell’Unione delle associazioni ebraiche (Kartell Jüdischer Verbindungen, KJV). Tuttavia, convinto che la risoluzione della questione ebraica richiedesse la mobilitazione di competenze pratiche, tra il marzo e l’ottobre del 1923 J. lavorò, insieme ad altri ebrei, in una fattoria a Wolfenbüttel, nella Bassa Sassonia, in vista del l’emigrazione in Palestina. Per l’affermazione politica del sionismo, difatti, i mestieri pratico-manuali gli sembravano più utili degli studi filosofici, ai quali però si dedicò nuovamente alla fine di questo periodo.

Così, nell’autunno del 1923, J. fece ritorno all’università di Friburgo, trasferendosi poi all’università di Marburgo per seguire le lezioni di Heidegger, che andava lavorando all’opera che avrebbe segnato una delle principali rivoluzioni filosofiche del XX secolo, Essere e tempo (1927). Pur confrontandosi intensamente con il pensiero di Heidegger, J. prese le distanze dall’atteggiamento di venerazione incondizionata che la cerchia dei discepoli manifestava nei confronti del maestro.

A Marburgo J. conobbe il teologo protestante Rudolf Bultmann, il quale non si rivelò solo un punto di riferimento essenziale per il suo pensiero, ma anche un amico e un modello di comportamento etico nei successivi, difficili anni della guerra. Cosa inusuale per un ebreo, J. decise di frequentare il seminario tenuto da Bultmann sull’esegesi del Nuovo testamento. Qui conobbe un’ebrea diciottenne di Königsberg con la quale avrebbe stretto una delle amicizie più profonde e importanti della propria esistenza: Hannah Arendt. J. si trovò immediatamente in sintonia con l’esegesi e la lettura della Bibbia di Bultmann, che privilegiava il carattere reale e storico-esistenziale della narrazione biblica.

Il 29 febbraio 1928 J. conseguì la laurea con il massimo dei voti discutendo una tesi sul tema della conoscenza di Dio. Dopo la laurea, decise di trascorrere un periodo di studio a Heidelberg, dove collaborò con Karl Jaspers e si interessò alla sociologia grazie agli insegnamenti di Max Weber e di Karl Mannheim. Proseguiva intanto la militanza sionista di J., che prese parte al sedicesimo Congresso del sionismo, tenutosi nell’estate del 1929 a Basilea.

Nel 1930 J. portò a termine due pubblicazioni. La prima era una rielaborazione della tesi di laurea sul concetto di gnosi, per la quale J. trascorse periodi di studio alla Sorbona (inverno 1928-29), a Bonn, a Francoforte sul Meno e a Colonia, dove si trovava all’avvento al potere di Hitler. Il secondo scritto, pubblicato per interessamento di Bultmann e intitolato Agostino e il problema paolino della libertà, era l’approfondimento di un lavoro svolto nell’ambito del seminario tenuto da Heidegger nel 1927 sul concetto di volontà. A partire dal 1933 J. optò per la carriera accademica, lavorando a una dissertazione sulla problematica gnostica per conseguire il titolo di libero docente.

Con l’avvento al potere di Hitler J. si rese conto però che gli era impossibile restare in Germania. La nomina di Heidegger a rettore dell’Università di Friburgo (21 aprile 1933), la sua adesione al partito nazionalsocialista (1° maggio) e il suo discorso rettorale del 27 maggio significarono non solo l’irrimediabile allontanamento dal maestro, ma «il fallimento della filosofia intera», come lo stesso J. ebbe ad affermare. Così, con l’approvazione dei propri genitori e avvalendosi di un visto ottenuto, tra l’altro, grazie al sostegno di Bultmann, nell’estate del 1933 J. lasciò la Germania facendo la solenne promessa di non farvi ritorno se non dopo la “distruzione dell’hitlerismo” ed emigrò a Londra. Qui continuò a intrattenere fitti rapporti epistolari con il proprio paese, anche per via della propria ricerca sulla gnosi, la cui prima parte fu pubblicata nel 1934, ancora una volta per interessamento di Bultmann, con il titolo Gnosi e spirito tardo-antico. A causa dell’espatrio non poté tuttavia sostenere l’esame di abilitazione.

Nel 1935 J. realizzò il proprio sogno di trasferirsi in Palestina. Qui sperimentò direttamente la resistenza araba al programma sionistico di insediamento, cui prese parte attiva aderendo all’organizzazione difensiva Haganah e addestrandosi alle armi. Nel frattempo cercò di avere un insegnamento all’Università ebraica di Gerusalemme, ma vi riuscì solamente tra il 1938 e il 1939. In quegli anni intrattenne rapporti con Hans-Jakob Polotsky, Hans Lewy, Gershom Scholem, Shmuel Sambursky e George Lichtheim, il cui padre era stato cofondatore del sionismo tedesco.

Nel 1937 J. conobbe Eleonore (Lore) Weiner, la cui famiglia, anch’essa ebrea, era emigrata da Regensburg. I due si sarebbero sposati nel 1943. Dall’autunno del 1937 J. soggiornò nell’isola di Rodi per scrivere la seconda parte della sua ricerca sulla gnosi e lo spirito della tarda antichità. Alla morte del padre (7 gennaio 1938), la madre manifestò l’intenzione di raggiungere il figlio in Palestina. Ma per salvare il fratello minore di J., Georg, imprigionato e internato a Dachau durante la “Notte dei cristalli” (9-10 novembre 1938), Rosa rinunziò alla partenza cedendogli il proprio visto. Inutilmente J. tentò di ottenere attraverso le autorità britanniche un altro visto per la madre: nel 1942 Rosa venne internata nel ghetto di Lodz/Litzmannstadt e poi deportata ad Auschwitz, dove trovò la morte.

Allo scoppio della guerra J. si convinse che anche gli ebrei dovessero partecipare attivamente al conflitto. Egli infatti riteneva che l’intera nazione ebraica dovesse condividere la lotta contro il nazismo mediante la costituzione di un’unità combattente da destinarsi al fronte occidentale. La proposta di J. suscitò un animato dibattito, e solo nel settembre del 1944 fu costituito il Jewish brigade group grazie all’intervento della Jewish agency e poi direttamente di Winston Churchill.

Il 7 settembre 1939 J. decise di arruolarsi nell’esercito britannico, ma nessuno dei suoi amici ne condivise la scelta. Effettuò le prime missioni in Palestina, partecipando successivamente a spedizioni in diversi paesi, tra cui Italia, Belgio e Olanda (v. Paesi Bassi).

Alla fine della guerra J. si trovava a Udine, ma il suo impegno di combattente non terminò che nel novembre del 1945. Nel mese di luglio giunse in Germania al seguito della propria unità, realizzando con ciò la promessa fatta a se stesso 12 anni prima.

Tornato in Palestina nel dicembre 1945, lavorò all’Università ebraica di Gerusalemme e all’Istituto di studi superiori del consolato britannico. Il termine del mandato britannico in Palestina, unitamente alla decisione di costituire due Stati, uno arabo e l’altro ebraico, determinò però lo scoppio della guerra. Ancora una volta J. si sentì in dovere di fornire il proprio contributo alla causa israeliana prestando per un altro anno servizio nell’esercito. Nel 1949 vinse una borsa di studio offerta dalla Lady Davis Foundation e si trasferì a Montreal, insegnando alla McGill University di Montreal.

Nel 1950 passò a insegnare filosofia al Carleton College di Ottawa, dove strinse amicizia con lo scienziato e filosofo della biologia Ludwig von Bertalanffy, fondatore della teoria generale dei sistemi. Nello stesso periodo J. ebbe la possibilità di effettuare numerosi viaggi a New York, Chicago e Cincinnati e poté così rivedere vecchi amici (Arendt, Anders, Löwith).

Nel 1952 fu chiamato a insegnare presso l’università di Gerusalemme, ma decise di rifiutare, deludendo l’amico Scholem, che si era adoperato in tal senso e accusò J. di aver tradito il sionismo. Parimenti, J. rifiutò anche un’altra chiamata universitaria, questa volta a Kiel. Non se la sentiva infatti di rientrare in Germania dopo quanto qui era capitato alla madre.

La riflessione filosofica di J. si andava intanto focalizzando sulla nozione di valore, nel tentativo di darne un’interpretazione che non prescindesse dalla centralità della vita organica e del corpo vivente e che mettesse capo ad un’ontologia radicalmente nuova. A questo ambizioso tentativo era dedicata l’opera The phenomenon of life (1966), la cui prima stesura intitolata Organism and freedom veniva terminata già nel 1954.

Nel 1953 J. fu nominato docente di filosofia presso la prestigiosa Graduate faculty of political and social science della New school for social research di New York, incarico che poté però svolgere effettivamente soltanto a partire dal 1955 (e fino al 1976). Qui J. sperimentò un’autentica libertà del pensiero, avendo modo di entrare nel vivo del dibattito socio-politico-culturale statunitense ed europeo, dato il grande numero di esuli ivi confluiti dal vecchio continente. Con i sociologi Karl Mayer ed Albert Salomon, J. sarà incluso dalla generazione di studenti del dopoguerra tra i “tre grandi” della Graduate faculty. Successivamente, insieme a Hannah Arendt, approdata a New York nel 1967, si impegnò a salvaguardare la qualità della ricerca ivi condotta, oltreché il suo carattere interdisciplinare orientato alle scienze sociali. J. ebbe intensi rapporti con altri docenti della scuola, tra cui Alfred Schütz, Leo Strauss, Adolph Löwe, Aron Gurwitsch e Paul Tillich. Frequentò inoltre gli studiosi della scuola di Göttingen emigrati anch’essi negli Stati Uniti. Nel 1959, a seguito del conferimento di una borsa di studio della John Simon Guggenheim memorial foundation di New York, trascorse un anno sabbatico a Monaco e tenne una serie di conferenze in Germania.

L’amicizia di J. con Hannah Arendt entrò in crisi allorché questa pubblicò il celebre volume La banalità del male (1963) sul processo ad Adolf Eichmann a Gerusalemme, nel quale si esprimeva una posizione critica verso il comportamento di alcuni gruppi ebraici (ad esempio, dei consigli ebraici dei ghetti), che venivano addirittura ritenuti in certo modo corresponsabili della Shoah. Di parere ovviamente opposto era J., il quale ruppe pertanto i rapporti con l’amica. Solo grazie alla profondità del legame e alla mediazione di Lore Jonas i due si poterono riconciliare.

Intanto nell’aprile del 1964 J. era stato invitato a tenere la relazione inaugurale di un convegno internazionale alla Drew university del New Jersey, dedicato all’influsso della filosofia del tardo Heidegger sulla teologia protestante. La scelta era ricaduta su J. in quanto egli aveva vissuto a Marburgo, in qualità di allievo di Heidegger, l’importante stagione del rapporto tra filosofia heideggeriana e teologia protestante bultmanniana. Inaspettatamente, J. presentò una relazione particolarmente critica nei confronti del maestro, in particolare dell’ultima fase del suo pensiero. Il tardo Heidegger secondo J. aveva smarrito la fondamentale e concreta dimensione pratica dell’esistere umano, approdando a un rassegnato indifferentismo etico in cui J. identificava la radice profonda dell’adesione al nazismo del filosofo.

Proseguiva intanto l’impegno culturale pubblico di J. negli Stati Uniti. Nel 1969 fu tra i soci fondatori del centro interdisciplinare The Hastings center on Hudson (Garrison, New York). A partire dal 1967 aveva cominciato a occuparsi di questioni di bioetica, quali la morte cerebrale e i trapianti d’organi. Nel 1971, 1976 e 1977 intervenne in comitati etici del Senato americano e dello Stato della California su questioni di genetica (ad esempio la manipolazione del DNA) e sulla relazione tra sapere scientifico e interesse pubblico.

Negli anni successivi videro la luce Il principio responsabilità (1979) e Tecnica, medicina ed etica (1985), in cui partendo dal riconoscimento del rapporto di dipendenza dell’uomo dalla tecnologia, J. intendeva proporre un’etica fondata sulla responsabilità nei confronti del vivente, indicata come principio guida anche per l’azione politica. Il principio responsabilità, che ebbe vasta eco, affrontava questioni delicate, quali la sostenibilità dello sviluppo tecnologico umano, il pericolo rappresentato dalle utopie politiche, la ricerca di un fondamento per un’etica planetaria, la necessità che la politica tornasse ad assumersi la responsabilità di guidare l’umanità.

La Repubblica Federale Tedesca (RFT), all’epoca impegnata nell’Ostpolitik di avvicinamento e conciliazione con la Repubblica Democratica Tedesca, non poteva non interpretare con favore la veemenza con cui J. si scagliava contro il sistema capitalistico, esprimendo invece un giudizio meno critico nei confronti della pianificazione economica (J. successivamente ritrattò questo preciso punto). Tuttavia, il nucleo di maggior interesse dell’opera consisteva, per ammissione dello stesso Helmut Schmidt, all’epoca cancelliere della RFT, nel coraggio con cui J. andava contro tendenza a proposito di questioni quali i diritti individuali. Con ciò J. non intendeva negare la libertà dell’individuo, quanto piuttosto affermare che all’umanità nel suo complesso si pone il dovere di autolimitare il proprio potere e di adottare un principio etico precauzionale, al fine di non lasciare alle generazioni future problemi per loro letali o troppo ardui da risolvere. Alla questione, caratteristica dell’odierno mondo globalizzato, della “dispersione di sovranità”, affrontata da J. dal punto di vista ecologico-etico-politico, egli forniva una risposta che pareva non discostarsi molto dall’idea, attualmente al centro del dibattito politico-istituzionale europeo, che fosse necessario procedere in direzione dell’autolimitazione del potere degli Stati membri.

A partire dagli anni Ottanta J. ottenne il pubblico riconoscimento del proprio impegno di uomo di cultura. Tra il 1982 e il 1983 venne nominato primo Eric-Voegelin-Gastprofessur presso l’Università Ludwig-Maximilian di Monaco. Nel 1984 ottenne il Premio Leopold Lukas della Facoltà teologica evangelica dell’Università Eberhard-Karl di Tubinga. In occasione della premiazione tenne il discorso sul tema Il concetto di Dio dopo Auschwitz, in cui affermava che un evento come Auschwitz esige una profonda rivisitazione del concetto stesso di Dio.

L’11 ottobre 1987 J. ricevette il prestigioso Premio per la pace degli editori tedeschi per aver contribuito a porre la questione politica della gestione dell’allargamento del campo dell’azione umana, all’approfondimento del pensiero sulla vita e sulla sopravvivenza dell’uomo e della natura, e all’individuazione di una nuova dimensione della responsabilità.

Tra i riconoscimenti ricevuti spiccano, in questi stessi anni, la Gran croce al merito della Repubblica Federale Tedesca, la laurea honoris causa presso l’Università di Konstanz (2 luglio 1991) e la libera Università di Berlino (11 giugno 1992) e il premio Nonino (30 gennaio 1993).

J. morì il 5 febbraio a New Rochelle, e venne sepolto nel settore ebraico del cimitero ecumenico di Hastings, New York.

Sebbene J. non possa essere annoverato tra gli artefici diretti dell’integrazione europea (v. anche Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), ebbe comunque il merito di apportare, soprattutto con Il principio responsabilità e Tecnica, medicina ed etica, un contributo determinante alla riflessione socio-politica e filosofico-culturale in direzione di un ripensamento del concetto di responsabilità: contributo che nell’ambito politico-istituzionale europeo per certi versi è già stato recepito, mentre per altri resta una sfida aperta e stimolante.

Roberto Franzini Tibaldeo (2010)