Kaiser, Jakob

Con Konrad Adenauer e Kurt Schumacher, K. (Hammelburg, Baviera 1888-Berlino 1961) è considerato una delle figure politiche più importanti dell’immediato secondo dopoguerra in Germania. Affermatosi negli anni della Repubblica di Weimar (1919-1933) come leader sindacalista di area cristiana e come politico del partito del Centro (Zentrum), nel marzo 1933 K. si vede costretto, per disciplina di partito, a votare la legge dei pieni poteri (Ermächtigungsgesetz), che riconoscerà al governo guidato dal neodesignato cancelliere Adolf Hitler il potere di legiferare e di modificare la costituzione. K. rimpiangerà in seguito questa decisione, riconoscendo nel discorso di rifiuto del socialdemocratico Otto Wehls «l’unica posizione politicamente e moralmente ammissibile» (v. Kosthorst, 1972, p. 172). Così, sin dal 1934, K. entra in contatto con alcuni dei principali esponenti della Resistenza interna, tra cui il socialdemocratico Wilhelm Leuschner. Accusato di alto tradimento nel 1938, K. finisce nelle mani della Gestapo per alcuni mesi. Una volta uscito di prigione, K. prosegue la sua attività di resistenza e, nel 1941, si unisce al gruppo di cospiratori guidato da Carl Friedrich Goerdeler. Fallito l’attentato del 20 luglio 1944, tuttavia, l’ex sindacalista è costretto a nascondersi e a scomparire dalla circolazione fino alla fine della Seconda guerra mondiale. Sarà uno dei pochi, nella cerchia ristretta dei suoi compagni di battaglia, a sfuggire alla cattura da parte dei nazisti e alla conseguente condanna a morte. Nel 1945 K. riemerge sulla scena politica come uno dei fondatori del Partito cristiano-democratico (Christlich-demokratische Union, CDU) nella zona di occupazione sovietica: nel dicembre dello stesso anno K. ne assume, insieme al suo vice Ernst Lemmer, la presidenza, dopo la destituzione, da parte dell’amministrazione militare sovietica, dei due predecessori che si erano opposti alla politica del Fronte democratico antifascista in materia di riforma agricola. Solo due anni dopo, nel dicembre 1947, la stessa sorte toccherà anche a K. e a Lemmer, i quali saranno allontanati, questa volta per aver rifiutato l’adesione della CDU orientale al “Movimento del congresso popolare”, il cui scopo era fornire alla politica sovietica in Germania l’apparenza di un consenso diffuso tra la popolazione. Più in generale, alla base di questa seconda epurazione, c’era l’indisponibilità dei sovietici a tollerare nella propria zona di occupazione la presenza di un leader politico come K. che, sia pure più disponibile di molti suoi colleghi di partito a ricercare un dialogo con Mosca, aveva sostenuto il Piano Marshall e, soprattutto, dichiarava con determinazione l’intento di realizzare una Germania unita, democratica e neutrale.

Portavoce di un “socialismo cristiano” e di una politica estera neutralista, K. propugnò tra il 1945 e il 1947 una visione sostanzialmente alternativa all’orientamento filo occidentale e integrazionista di Konrad Adenauer. Sul piano politico-sociale, l’impostazione di K. non era, tuttavia, né marxista, né classista, ma piuttosto di tipo solidaristico. In una riunione di partito, il 13 febbraio 1946, K. affermò in proposito: «Per noi la scelta democratica nel campo politico, e quella socialista in campo sociale ed economico, sono dominate dalla suprema legge della persona umana libera e cosciente della propria dignità; della persona umana che si inserisce nel più grande contesto, subordinandosi ad esso in base ad una libera decisione morale. Questo è per noi la natura del socialismo democratico fondato sulla responsabilità cristiana» (v. Mayer, 1988, p. 212). Tale concezione si sarebbe dovuta coniugare, nella visione di K., con una politica del non allineamento nelle relazioni internazionali: una prospettiva che, d’altra parte, non si limitava a rinnovare la tradizionale propensione della classe dirigente tedesca, da Bismarck a Stresemann, a escludere un’opzione tra Est e Ovest, dal momento che assegnava alla Germania postbellica la missione specifica di gettare un “ponte” tra i due poli. Sempre nello stesso discorso, K. proseguiva: «A me sembra che la Germania, nel quadro delle nazioni europee, abbia il compito di trovare la sintesi fra le idee orientali e quelle occidentali. Dobbiamo fare da ponte fra Est e Ovest» (ivi, p. 212).

Coerentemente con questa posizione neutralista, K. assunse nell’immediato dopoguerra un atteggiamento di netto rifiuto nei confronti di quelle proposte che contemplavano una rapida e incondizionata integrazione di una parte della Germania all’interno di una delle due zone di influenza, ritenendo che tali soluzioni avrebbero finito per aumentare la divisione del paese. In particolare, K. si oppose vigorosamente alla prospettiva di unificare l’Europa occidentale. In occasione della riunione di Pentecoste della CDU, che si tenne a Berlino nel giugno del 1946, K. attaccò duramente Adenauer, accusandolo di sostenere la linea europeista in un momento in cui il problema principale era, invece, a suo giudizio, quello dell’unità dello Stato nazionale: «Provo pertanto sempre una profonda ripugnanza quando sento invocare oggi da uomini politici tedeschi gli Stati Uniti d’Europa. […] Mi sembra che, con la Germania nello stato attuale, non sia il momento adatto per invocare gli Stati Uniti d’Europa. Occorre invece affrontare la vocazione Germania» (ivi, p. 261). Queste considerazioni si collocano, d’altra parte, in un periodo in cui il contrasto tra Est e Ovest non aveva ancora assunto la forma della Guerra fredda e l’ex sindacalista cristiano ancora credeva possibile impedire la divisione del paese. Nel novembre 1948, all’indomani dello scoppio della prima crisi di Berlino, anche K. dovette riconoscere, infatti, l’impraticabilità, anche se non l’illusorietà, della sua politica neutralista; una politica che, fino a quel momento, aveva predicato l’assoluta necessità di ricercare un dialogo con l’Unione Sovietica (v. Schwarz, 1980, p. 343).

Costretto a lasciare Berlino Est, K. continuò la sua azione politica nella neonata Repubblica Federale Tedesca (RFT). Nonostante i forti contrasti del periodo precedente o, forse, proprio per neutralizzare quello che, all’interno della democrazia cristiana, era stato fino ad allora il suo più temibile rivale, il cancelliere Adenauer gli affidò, nel 1949, il ministero agli Affari pantedeschi; incarico che K. ricoprirà fino al 1957. In questi anni K. si allineò, senza tuttavia piegarsi, alla politica di piena integrazione con l’Occidente. La sua partecipazione alla Bundesregierung non gli impedì, infatti, di assumere posizioni che lo videro, spesso e volentieri, in contraddizione con la maggior parte della coalizione di governo. In particolare, nel 1950, K. si oppose, così come il suo amico nonché ministro degli Interni, Gustav Heinemann (che poco dopo uscirà dal governo), all’ingresso della RFT nel Consiglio d’Europa, ritenendo inaccettabile aderire a un’istituzione che riconosceva la Saar come un territorio autonomo e, nei fatti, separato dalla Germania. K. temeva soprattutto che un cedimento sulla Saar avrebbe potuto indebolire anche le ambizioni tedesche sui territori orientali al di là dell’Oder e della Neisse. All’indomani della nota di Stalin del marzo 1952, poi, K. cercò, invano, di convincere il governo di cui faceva parte a sondare le effettive possibilità di trovare un’intesa con Mosca sulla questione della riunificazione tedesca. Rimase, pertanto, fortemente deluso, dopo un duro scontro con Adenauer, dall’atteggiamento di netta chiusura assunto dal cancelliere sulla questione. Nel giugno 1954, K. fondò, insieme a Herbert Wehner (Sozialdemokratische Partei Deutschlands, SPD), l’allora presidente federale, Theodor Heuss (Freie demokratische Partei, FDP), e ad alcuni esponenti del mondo della cultura – tra i più veementi critici di Adenauer, come Paul Sethe, Karl Silex e Wilhelm Wolfgang Schütz –, il Curatorio Germania indivisibile; un organismo preposto, secondo la celebre definizione dello storico Wolfrum, a «curare il culto dello Stato nazionale tedesco». Infine, il 19 novembre dello stesso anno, K. s’isolò ulteriormente dai suoi colleghi di partito, votando come unico esponente della CDU, insieme a quattro deputati della FDP, contro l’approvazione dello statuto della Saar. La successiva bocciatura, nell’ottobre 1955, da parte della popolazione della Saar del suddetto statuto, così come il ricongiungimento del territorio alla Germania verranno, pertanto, vissuti da K. anche come una piccola vittoria personale. Nel 1957 K. si ammalò gravemente. Prima della sua scomparsa, il 7 maggio 1961, riceverà la cittadinanza onoraria di Berlino. Non farà quindi in tempo ad assistere alla costruzione di quel muro che, soprattutto da un punto di vista simbolico, cementerà la divisione tra le due Germanie.

Gabriele D’Ottavio (2010)




Karamanlis, Konstantinos

K. nacque l’8 marzo 1907 a Proti, un piccolo centro in provincia di Serres, nella Macedonia turca, da una famiglia numerosa e di modeste condizioni sociali. Il padre Gheorghios combatté per la liberazione della Macedonia dal dominio ottomano tra il 1904 e il 1908. Dalle guerre balcaniche del 1912-1913 alla Prima guerra mondiale, fino alla guerra greco-turca conclusasi nel 1922 con la cosiddetta “catastrofe dell’Asia minore”, la regione fu investita da numerosi conflitti armati, sullo sfondo dei quali il giovane K. trascorse l’infanzia e la prima adolescenza. Compiuti gli studi liceali in provincia di Serres, nel 1925 si trasferì ad Atene dove nel 1929 si laureò in legge.

Tornò a Serres nel 1930, reduce dal servizio militare. Malgrado i brillanti esordi nell’avvocatura, la sua carriera si orientò rapidamente verso la politica con l’adesione al Partito popolare. D’ispirazione monarchica, quest’ultimo si presentava più simile a un partito di notabili che al moderno partito politico di massa e costituiva una delle due principali formazioni della vita politica greca. L’altra era rappresentata dalle correnti repubblicane guidate dal leader liberale Eleftherios Venizelos, e perciò dette “venizeliste”, in opposizione alle quali i Popolari, forti di un largo seguito elettorale, sostennero il ritorno al potere della monarchia. Nel 1935, all’età di appena ventotto anni, K. fu eletto per la prima volta deputato al parlamento nel distretto di Serres. Ma dopo la caduta della Repubblica e il ritorno al potere della monarchia, il colpo di Stato del generale Ioannis Metaxas condusse allo scioglimento del parlamento e all’abolizione dei partiti politici.

Durante gli anni della dittatura metaxista (1936-1940), K. rifiutò di collaborare con il regime militare e tornò a esercitare la professione forense. Nel 1941, dopo l’invasione della Grecia da parte delle truppe italiane, tedesche e bulgare, si stabilì temporaneamente nella capitale, dove partecipò alle riunioni di un circolo di intellettuali tacitamente schierati contro l’occupazione militare delle potenze dell’Asse, tra i quali spiccavano alcune importanti personalità del mondo politico e della cultura, quale quella dell’economista Xenofon Zolotas. In seguito, K. lasciò Atene per trasferirsi al Cairo, sede del governo monarchico in esilio. Rientrò in Grecia alla fine del 1944, dopo la definitiva ritirata della Wehrmacht da Atene.

Alle elezioni politiche generali del marzo 1946, le prime del dopoguerra, K. fu eletto per la seconda volta in parlamento nelle liste della nuova formazione politica denominata Fronte d’unione nazionale. Le operazioni di voto si svolsero in un clima infuocato dall’astensione dei comunisti, dalle denunce di numerosi brogli e da violenti scontri tra le bande paramilitari del cosiddetto “terrore bianco” e i reduci delle formazioni partigiane. Di lì a pochi mesi la militarizzazione del conflitto politico sfociò nello scoppio dell’ultima e più cruenta fase della guerra civile greca (1946-49), durante la quale il paese fu teatro dell’intervento militare inglese e statunitense.

In questi anni K. ricoprì i primi significativi incarichi di governo negli esecutivi di coalizione composti dalle destre e dai liberali. Nel 1946 visitò gli Stati Uniti in qualità di membro ufficiale della delegazione greca per gli aiuti economici del dopoguerra. Fu ministro del Lavoro (1946-1947), ministro dei Trasporti (1948) e ministro della Previdenza sociale (1948-1950). Nel 1950 fu rieletto in parlamento nel distretto di Serres e divenne ministro della Difesa nel governo di breve durata guidato dalla coalizione di Sophoclis Venizelos e Konstantinos Tsaldaris. L’anno successivo aderì al partito dell’Unione greca guidato dal generale Alexandros Papagos, protagonista della vittoria militare sulla guerriglia comunista. Nel 1951, inoltre, sposò Amalia Kanellopoulou.

Dopo il 1952 la carriera politica di K. subì una rapida accelerazione. I risultati delle elezioni politiche svoltesi con il nuovo sistema maggioritario consacrarono l’affermazione politica delle destre. Nel governo presieduto dal generale Papagos, K. fu nominato ministro dei Lavori pubblici, distinguendosi per una gestione efficiente, ma spiccatamente autocratica dell’incarico affidatogli. Quando nel 1955 la morte di Papagos aprì la lotta per la successione alla guida del governo tra i candidati designati dalle diverse correnti della destra, il re Paolo di Grecia, con una decisione che sorprese molti osservatori contemporanei, fece ricadere la scelta del ministro incaricato di formare il nuovo esecutivo su K.

Ottenuto il sostegno della maggioranza dei deputati delle destre, all’età di quarantotto anni K. divenne primo ministro, in una fase particolarmente delicata della vita politica nazionale, sulla quale pesavano la persistenza dei conflitti politici ereditati dalla guerra civile, la debole legittimazione del sistema istituzionale e gli urgenti problemi di natura economica e sociale legati alla ricostruzione. Tra le prime iniziative assunte dopo la nomina ai vertici dell’esecutivo vi fu la riorganizzazione politica delle destre, le cui diverse componenti furono riunite nel partito di nuova fondazione denominato Unione radicale nazionale (Ethniki rizospastiki enosis, ERE). In questo modo K. intese, per un verso, consolidare la propria leadership personale e, per l’altro, creare i presupposti per svincolare la propria azione di governo dalla tradizione politica del periodo Papagos, prefigurando il superamento dei canoni della lotta politica codificati nel periodo della guerra civile.

Fermo sostenitore della necessità di integrare la Grecia nel blocco occidentale, per ragioni geopolitiche e ideologiche, ma anche in funzione dello sviluppo politico, economico e sociale del paese, K. con un notevole dinamismo in politica estera tentò di superare l’isolamento internazionale in cui la Grecia era precipitata negli anni della guerra civile. Nonostante i gravi dissidi sorti con gli alleati occidentali in merito al processo di decolonizzazione dell’isola di Cipro, fu riconfermata la permanenza del paese nell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO).

K. valorizzò il ruolo della Grecia nel contesto regionale del Medio Oriente, soprattutto nell’intento di assicurarsi il sostegno degli Stati arabi nell’ambito della crisi cipriota. Le principali tappe del processo furono l’avvicinamento alla Repubblica araba unita proclamata da Gamal Abdel Nasser, il rifiuto della Grecia di partecipare alla conferenza di Suez nell’estate 1956 e la condanna dell’invasione dell’Egitto da parte delle truppe anglo-francesi. All’accettazione della dottrina Eisenhower (v. Eisenhower, Dwight David) per il Medio Oriente nel 1957 seguì la visita ufficiale di K. al Cairo e la partecipazione della Grecia alla conferenza di Brioni nel 1958. Sullo sfondo di un complesso quadro internazionale, K. declinò il principio della fedeltà atlantica all’insegna di un progressivo consolidamento dei rapporti bilaterali tra la Grecia e gli Stati Uniti, sancito dallo scambio di importanti visite ufficiali, tra le quali quella del presidente Dwight D. Eisenhower ad Atene nel 1959. Nello stesso anno la Grecia accettò l’indipendenza di Cipro nell’ambito di una soluzione negoziata con la Gran Bretagna (v. Regno Unito) e la Turchia.

Sul fronte delle relazioni con gli Stati dell’Europa occidentale, K. favorì in particolare il riavvicinamento della Grecia alla Francia e alla Repubblica Federale Tedesca (v. Germania). Nel 1961, grazie anche al sostegno politico di Charles de Gaulle, fu siglato il trattato che riconosceva alla Grecia lo status di paese associato (v. Associazione) alla Comunità economica europea (CEE), nella prospettiva di accoglierne la richiesta di adesione formale all’area del Mercato comune (v. Comunità economica europea) entro l’anno 1984.

Tranne brevissime interruzioni, K. rimase primo ministro fino al 1963, riuscendo ad assicurarsi una larga maggioranza parlamentare attraverso tre diverse tornate elettorali (1956, 1958, 1961). La relazione preferenziale con gli Stati Uniti condusse nel 1955 allo stanziamento dei primi ingenti aiuti finanziari da parte dell’amministrazione americana per la ricostruzione postbellica della Grecia, che consentirono nel 1959 di varare un programma di cinque anni per il risanamento dell’economia nazionale, incentrato sulla modernizzazione dell’industria e dell’agricoltura.

Negli anni dei governi K., gli indicatori statistici registrarono una ripresa economica generalizzata. Tra l’inizio degli anni Cinquanta e la metà degli anni Sessanta il reddito medio pro capite aumentò di quattro volte, a fronte di una relativa stabilità del regime dei prezzi. Ma i consistenti aiuti finanziari provenienti dagli Stati Uniti non sempre coincisero con lo sviluppo dell’attività imprenditoriale in settori realmente competitivi. I settori trainanti della crescita economica rimasero quello delle costruzioni, il cui sviluppo fu in gran parte sostenuto dalla speculazione edilizia, della marina mercantile controllata dai grandi armatori e del turismo. Nonostante i risultati raggiunti nell’ambito della ricostruzione, la Grecia rimase un paese sostanzialmente agrario, legato a un’agricoltura scarsamente produttiva. A dispetto di un generalizzato incremento dell’occupazione, le campagne continuarono a espellere manodopera, alimentando i flussi d’immigrazione diretti verso i principali centri urbani del paese e, soprattutto, verso l’estero. La ramificazione della pubblica amministrazione ampliò le fila del ceto medio composto dagli impiegati pubblici, ma mise in luce la tendenza a una gestione burocratica e inefficiente della cosa pubblica, oltre che al rafforzamento delle tradizionali reti clientelari.

Nonostante i passi in avanti compiuti nell’ambito della modernizzazione economica e sociale del paese, la lunga permanenza di K. ai vertici del governo non garantì alla Grecia il pieno superamento del regime di democrazia limitata instaurato all’indomani della guerra civile. Dopo le elezioni politiche del 1961, la cui legittimità fu incrinata da voci di brogli e da numerosi episodi di violenza nei confronti dei militanti della sinistra, il paese precipitò in un clima di crescente instabilità politico-istituzionale. Nel 1963, in occasione di un raduno pacifista a Salonicco, il deputato della sinistra Grigoris Lambrakis rimase vittima di un’aggressione. L’evento turbò profondamente l’opinione pubblica e provocò il rapido deterioramento della situazione politica. Gheorghios Papandreu, leader dell’Unione di centro, la formazione liberale che costituiva la principale opposizione politica all’ERE di K., denunciò pubblicamente l’esistenza di un parakratos, di un “doppio Stato” costituito da apparati dei servizi segreti, nazionali e stranieri, legati ai gruppi dell’estrema destra, i quali operavano al di fuori del controllo del parlamento. Con una dichiarazione pubblica ripresa con grande clamore dalla stampa ellenica, egli indicò in K. il responsabile morale dell’omicidio Lambrakis. Gli eventi scaturiti dall’assassinio del deputato dell’Eda, il partito politico della sinistra fondato dopo la messa al bando dei comunisti, sfociò rapidamente in una crisi istituzionale di vaste proporzioni. K. respinse con fermezza le accuse formulate nei suoi confronti dal leader dell’Unione di centro. Ma nel luglio 1963, in seguito al conflitto istituzionale emerso con la Corona, decise di rassegnare le dimissioni da capo del governo. Quattro mesi più tardi, in seguito alla secca sconfitta elettorale riportata dall’ERE nelle consultazioni politiche generali, egli lasciò la Grecia recandosi in esilio volontario a Parigi.

In Francia K. approfondì il confronto politico e intellettuale con Charles de Gaulle, in merito soprattutto alla natura e al ruolo dello Stato nazione. Nel 1967 egli condannò il colpo di Stato militare realizzato ad Atene dai colonnelli e negli anni successivi lanciò ripetuti appelli per il ritorno della democrazia in Grecia. Nell’estate 1974, quando l’esito disastroso dell’avventura militare intrapresa dalla giunta dei colonnelli nell’isola di Cipro condusse al crollo definitivo della dittatura, K., forte di un indiscusso carisma personale, fu chiamato a gestire la difficile fase di transizione verso la democrazia. Primo ministro dal 1974 al 1980, egli guidò il cosiddetto processo di metapoliteusi, il cambiamento di regime politico interno. All’indomani del suo ritorno trionfale ad Atene, fondò il partito della Nuova democrazia, una formazione di centrodestra d’ispirazione liberale che alle elezioni svoltesi nel novembre 1974 ottenne la maggioranza relativa. Seppure con molti limiti, il processo di democratizzazione avviato nella seconda metà degli anni Settanta riuscì a garantire la restaurazione delle libertà civili, lo svolgimento del referendum popolare per l’abolizione della monarchia, l’epurazione, sebbene parziale e incompleta, delle forze armate dagli elementi maggiormente compromessi con la dittatura. Fu elaborato, inoltre, il nucleo della nuova costituzione ispirato al modello di una repubblica semipresidenziale, mentre la condanna a morte comminata nei confronti dei colonnelli fu tramutata nella pena all’ergastolo.

K. coniugò il processo di transizione democratica con la ripresa dei negoziati per la ratifica del Trattato di adesione della Grecia alla CEE, i quali avevano subito una lunga battuta d’arresto durante il periodo della dittatura. Tra gli uomini politici del dopoguerra, egli fu tra i più convinti sostenitori della causa europeista, alla quale diede una peculiare impostazione incentrata sul principio del reciproco vantaggio. Dal punto di vista dell’interesse nazionale della Grecia, l’ingresso del paese nella CEE avrebbe innescato un meccanismo virtuoso di valorizzazione di un enorme potenziale di risorse umane, naturali e economiche. Nella concezione di K., ancorare la Grecia all’Europa significava sottrarre il paese alla condizione di periferia economicamente arretrata del vecchio continente, inevitabilmente destinata a svolgere un ruolo marginale sulla scena politica internazionale. Di contro, nei suoi contatti con gli uomini di Stato europei K. esaltò costantemente il valore strategico della Grecia, promuovendone il ruolo di paese ponte tra Europa continentale, Balcani e Medio Oriente. Egli candidò la Grecia ad assolvere il ruolo di frontiera politica dell’Europa nel Mediterraneo, in virtù della sua posizione geografica, del legame preferenziale che in politica estera aveva tradizionalmente legato il paese alle democrazie occidentali, all’eredità culturale della sua storia. Nel contesto internazionale della Guerra fredda e della competizione tra le grandi potenze, per il controllo delle risorse petrolifere e la gestione delle vie di comunicazioni intercontinentali, la Grecia avrebbe offerto al Mercato comune europeo un trampolino di lancio verso il Medio Oriente.

Insignito del premio Charlemagne nel 1978 per l’impegno profuso in favore dell’unità europea, K. contribuì attivamente al dibattito sul futuro assetto istituzionale dell’Europa politica (v. anche Istituzioni comunitarie). Egli sostenne il progetto di un Parlamento europeo dotato di ampie prerogative e legittimato da elezioni a suffragio universale diretto (v. Elezioni dirette del Parlamento europeo) e la necessità di un potere esecutivo forte e di un’applicazione rigorosa del principio di maggioranza (v. anche Maggioranza qualificata) in seno al Consiglio dei ministri.

Presidente della Repubblica di Grecia dal 1980 al 1985 e dal 1990 al 1995, K. contribuì al compimento della democratizzazione politica e istituzionale della Grecia, nel nuovo contesto dalla coabitazione con il Movimento socialista panellenico (Panellī́nio sosialistikó kínīma, PASOK) di Andreas Papandreu. Malgrado i gravi sintomi di crisi emersi nell’economia nazionale, egli si adoperò costantemente per il consolidamento delle relazioni della Grecia con l’Europa. Avendo rinunciato a qualsiasi incarico pubblico, K. morì nel 1998 all’età di 91 anni.

Lidia Santarelli (2010)




Karel Van Miert




Karl Lamers




Karl Renner




Karl-Heinz Narjes




Karol Wojtyla




Kennedy, John Fitzgerald

Secondogenito di una facoltosa famiglia cattolica di origine irlandese, K. (Brookline, Massachusetts 1917-Dallas, Texas 1963) trascorse alcuni periodi di studio e lavoro in Europa nella seconda metà degli anni Trenta, anche al seguito del padre, Joseph, ambasciatore degli Stati Uniti a Londra dal dicembre 1937. Si laureò a pieni voti a Harvard, nel 1940, con una tesi sulla politica estera britannica prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale – basata anche sui dati raccolti nel corso di un viaggio in Europa, Unione Sovietica e Vicino Oriente – che fu subito pubblicata e ottenne buon successo di vendite con il titolo Why England slept. Nonostante le condizioni di salute malferme, che l’avrebbero accompagnato per tutta la vita, K. si arruolò in Marina nel 1941 e partecipò al conflitto nel Pacifico, guadagnandosi una medaglia al valore. Congedato nel marzo 1945, si orientò verso l’attività giornalistica e politica. Lavorò come corrispondente dalla conferenza riunita a San Francisco per la fondazione dell’Organizzazione delle nazioni unite (ONU), poi in Europa, anche al seguito del segretario statunitense alla Marina, James Forrestal.

Nel novembre 1946 fu eletto alla Camera dei deputati in un collegio di Boston. Venne rieletto due volte e, nel 1952, vinse uno dei due seggi riservati in Senato al Massachusetts, sempre nelle file del Partito democratico. Attento alle questioni di politica estera, nel 1947 si schierò a favore della “dottrina Truman” e del Piano Marshall e, negli anni successivi, si pronunciò sull’importanza prioritaria del controllo dell’Europa occidentale per il contenimento della minaccia comunista. Nel 1951, rientrato da un viaggio oltre Atlantico, riscosse grande successo con un discorso dedicato alla difesa europea, trasmesso per radio in tutto il paese, in cui giudicò poco probabile un’invasione sovietica ma sottolineò la necessità dell’effetto deterrente che solo un’efficace condivisione degli oneri militari tra Stati Uniti e alleati atlantici avrebbe potuto assicurare. Nei sei anni trascorsi alla Camera, K. non conseguì risultati legislativi di particolare rilievo nazionale. Anche come senatore, dal 1952 al 1960, non registrò successi sotto quel profilo, ma seppe muoversi abilmente per accentuare la propria influenza in seno al Partito democratico, nonostante l’aggravarsi delle condizioni di salute: nel 1944 aveva subito una prima operazione alla spina dorsale; tre anni dopo gli era stato diagnosticato il morbo di Addison; nel 1954 e ancora l’anno successivo dovette sottoporsi a ulteriori interventi alla spina dorsale.

Nel primo mandato al Senato K. accentuò i suoi interessi per la politica internazionale, criticando l’amministrazione repubblicana di Dwight Eisenhower in tema di stanziamenti per la difesa e occupandosi della crisi indocinese. Sposò Jacqueline Bouvier nel 1953 e, nel 1956, pubblicò un nuovo volume di successo, Profiles in courage, che l’anno successivo ottenne il prestigioso premio Pulitzer. Nel 1956 tentò senza successo di ottenere la nomination democratica per la vicepresidenza, in vista delle elezioni di novembre, che videro poi per sua fortuna la riconferma di Eisenhower. Entrato nella Commissione esteri nel gennaio 1957, in ottobre pubblicò su “Foreign Affairs” l’articolo A democrat looks at foreign policy, in cui sottolineava tra l’altro la necessità di esaminare la politica internazionale non soltanto alla luce del conflitto bipolare tra Washington e Mosca, ma anche tenendo nel debito conto i paesi che emergevano dalla decolonizzazione e i loro orientamenti. Fu rieletto al Senato nel 1958 con un margine amplissimo. Due anni dopo, vinta in luglio la corsa alla nomination per la candidatura democratica, batté Richard Nixon con uno scarto ristretto di voti alle elezioni del 1960 e divenne il trentacinquesimo presidente degli Stati Uniti: il più giovane – e il primo cattolico – a ottenere quella carica.

Il mandato di K., interrotto dalla tragedia di Dallas il 22 novembre 1963, che contribuì a consolidare attorno alla sua figura e alla sua memoria un potente senso di attaccamento popolare negli Stati Uniti e all’estero, durò poco più di mille giorni. Il discorso di insediamento, la cui versione definitiva accolse come sempre suggerimenti di vari collaboratori ma fu in gran parte opera sua, brillò per efficacia retorica e pregnanza di contenuti. Alcuni passaggi («Sappia ogni paese, voglia esso il nostro bene o il nostro male, che pagheremo qualsiasi prezzo, sopporteremo ogni sacrificio, affronteremo qualsiasi privazione, aiuteremo ogni amico e ci opporremo a ogni nemico per assicurare la sopravvivenza e il trionfo della libertà […]. Se una società libera non riesce ad aiutare i molti che sono poveri, non può salvare i pochi che sono ricchi», e soprattutto la chiusa: «L’appello risuona ancora: […] ci chiama […] a sopportare il peso di una lunga e oscura lotta che potrà durare anni […] una lotta contro i comuni nemici dell’uomo: la tirannide, la miseria, la malattia e la stessa guerra […]. Pertanto, cittadini, non chiedete che può fare il vostro paese per voi, ma quel che voi potete fare per il vostro paese») si impressero nella memoria collettiva anche oltre i confini degli Stati Uniti, di conserva con il fortunato slogan della new frontier, utilizzato nel 1960 come perno del discorso di accettazione della nomination («Ci troviamo oggi sulla soglia di una nuova frontiera: la frontiera degli anni Sessanta, una frontiera di opportunità e percorsi ancora ignoti […]. La nuova frontiera cui alludo non è fatta di promesse, ma di sfide. Riassume non ciò che intendo offrire al popolo americano, ma quanto intendo chiedergli»), e contribuirono a catalizzare subito ampi consensi all’interno dell’opinione pubblica americana verso il nuovo presidente.

In politica interna, un settore in cui la sua presidenza “incompiuta” – anche perché privata di un probabile secondo mandato – raggiunse risultati nel complesso piuttosto limitati, K. promosse un programma legislativo teso a rilanciare l’economia statunitense, caratterizzata negli anni di Eisenhower da un tasso di crescita contenuto, e a riprendere e ampliare gli obiettivi sociali del New Deal rooseveltiano (v. anche Roosevelt, Franklin Delano): interventi specifici di sviluppo regionale, aiuti federali all’istruzione, progetti per la vivibilità delle aree urbane, sovvenzioni e garanzie assicurative per l’assistenza sanitaria agli anziani. Il Congresso, soprattutto quando il voto espresse la convergenza tra repubblicani e conservatori democratici del Sud, bloccò molte iniziative del programma ma approvò, tra gli altri provvedimenti, un incremento del salario minimo, delle indennità di disoccupazione e dei fondi per la previdenza sociale; aiuti alle città per il miglioramento dei trasporti e degli alloggi; l’Area redevelopment act per la riduzione della disoccupazione cronica in West Virginia e in altri nove Stati; lo stanziamento di fondi per ampliare la costruzione della rete autostradale del paese; e una legge per l’espansione del commercio che avrebbe innescato, in seno all’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT) (v. Organizzazione mondiale del commercio), i negoziati del “Kennedy round” per la riduzione degli ostacoli tariffari al commercio (1963-1967). Preoccupato da un possibile aumento dell’inflazione, K. affrontò con successo un pesante scontro con gli industriali dell’acciaio, che avevano annunciato nell’aprile 1961 un rincaro dei prezzi ma furono costretti a rinunciarvi da forti pressioni della Casa Bianca, spalleggiata dall’opinione pubblica. Per contenere il disavanzo della bilancia dei pagamenti, nel timore che eccessive richieste di conversione da parte dei possessori stranieri di dollari destabilizzassero le riserve auree degli Stati Uniti e causassero crisi di fiducia nella valuta statunitense, perno del sistema monetario a cambi fissi varato a Bretton Woods nel 1944, K. non optò per soluzioni radicali a spese degli obiettivi di ripresa interna ma autorizzò nel tempo varie misure, quali l’obbligo di usare merci americane per gli aiuti all’estero, l’incremento delle esportazioni di forniture militari e la promozione del turismo negli Stati Uniti. In tema di integrazione razziale e diritti civili, fondamentale questione sociale degli anni Sessanta, il presidente assunse posizioni troppo caute, senza mai abbracciarne fino in fondo la causa. Nel giugno 1963, tuttavia, pronunciò un discorso di alto profilo ispirato alla tradizione lincolniana – in cui affermò: «Questo paese […] non sarà mai pienamente libero finché non lo saranno tutti i suoi cittadini» – e sottopose al Congresso una proposta di legge per i diritti civili che Martin Luther King definì «la più completa ed esplicita mai presentata da un presidente americano». Nei mesi successivi, nonostante il successo della “Marcia per la pace e la giustizia” che raccolse a Washington oltre 200.000 persone in agosto, K. si convinse che il Congresso non avrebbe approvato la proposta e cercò un compromesso legislativo che, pur ridimensionandola, ne aumentasse le possibilità di successo in aula. Il nuovo testo era ancora in attesa di esame quando il presidente fu ucciso a Dallas.

In politica estera – tra le altre iniziative e decisioni di alterna fortuna che inducono la storiografia a collocare il mandato di K., non scevro da errori di rilievo e occasioni mancate, al confine tra l’era del confronto e quella della distensione nella Guerra fredda, sullo sfondo del globalismo statunitense e della coesistenza competitiva tra il c.d. “mondo libero” e il campo socialista – nel marzo 1961 K. creò il Peace Corps, per incentivare i cittadini statunitensi a prestare servizio volontario nella cooperazione internazionale allo sviluppo, e promosse la “Alianza para el progreso”, un piano di aiuti orientato al decollo economico e sociale dell’America latina. Guardando al prestigio mondiale del paese, stimolò il programma spaziale “Apollo”, che avrebbe poi permesso agli statunitensi di sbarcare per primi sulla luna nel 1969. Diffidente nei confronti dell’establishment militare, cercò di concentrare nelle proprie mani le decisioni di fondo per l’opzione nucleare, istituì un’agenzia per il controllo degli armamenti, approvò il progetto, mai realizzato, di una Forza multilaterale atomica (MLF) in ambito atlantico e promosse il dialogo con l’Unione Sovietica, che culminò in un importante discorso per la pace mondiale pronunciato il 10 giugno 1963 e nella firma, il 5 agosto, del Limited test ban treaty per il bando degli esperimenti nucleari nell’atmosfera, nello spazio e negli oceani.

Misuratosi a Vienna, nel giugno 1961, in un incontro al vertice con il leader sovietico Nikita Chruščëv, K. affrontò l’ultima fase della seconda crisi di Berlino, stabilizzata il 13 agosto dall’avvio della costruzione del muro. Nel maggio 1962 approvò la presentazione agli alleati della “risposta flessibile” come nuova strategia di difesa dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) e, pochi mesi dopo, reagì con fermezza alla minaccia legata all’installazione di missili sovietici a Cuba. Molto pericolosa per l’“equilibrio del terrore” di reciproca deterrenza nucleare, la crisi fu risolta con successo tra il 16 e il 28 ottobre 1962, senza che il presidente cedesse alle pressioni per una reazione solo militare, che avrebbe potuto scatenare la catastrofe nucleare, e contribuì a riscattare l’immagine di K. e della politica estera statunitense dal “fiasco” della Baia dei porci, subito nell’aprile 1961 con il fallito tentativo di sbarco di 1500 esuli orchestrato dalla Central intelligence agency (CIA) per rovesciare il regime di Fidel Castro. Determinato a bloccare l’estensione dell’influenza sovietica in Africa e in Asia, oltre che nell’America latina, il presidente incentivò l’ampliamento dei programmi di assistenza militare ed economica ai paesi ritenuti più esposti a tale minaccia e promosse la creazione di un corpo di forze speciali antiguerriglia, i “berretti verdi”, composto da circa tremila uomini. In Africa, appoggiò l’operato dell’ONU nella crisi congolese, cercando con successo di orientarne la soluzione in senso filoccidentale. Nel Sudest asiatico – dove la guerra civile nel Laos trovò una temporanea soluzione di compromesso nella decisione delle parti in lotta di creare un governo di coalizione e di firmare una dichiarazione di neutralità del paese sotto gli auspici favorevoli di Washington e Mosca, nell’estate del 1962 – K. rafforzò per gradi, dopo prolungate esitazioni, la presenza di consiglieri militari americani nel Vietnam del Sud da poche centinaia a oltre 16.000 e approvò la preparazione del golpe militare del 1° novembre 1963, che rovesciò il governo in carica e causò l’uccisione del presidente Ngo Dinh Diem, senza peraltro contribuire alla soluzione di un problema che la successiva presidenza guidata da Lyndon Baines Johnson avrebbe ereditato in tutta la sua gravità.

Nei rapporti con l’Europa occidentale – in generale positivi e cooperativi, soprattutto con il Regno Unito guidato dal leader conservatore Harold Macmillan, ma venati anche da motivi di disaccordo con i partner principali, in special modo dalle forti divergenze con la Francia del generale Charles de Gaulle – e, in particolare, nel manifestare giudizi e nell’incentivare pressioni diplomatiche rispetto al cammino verso l’integrazione economica e politica (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), che gli Stati Uniti avevano contribuito a promuovere dalla guerra in poi, K. si collocò all’interno della tradizione di incoraggiamento benevolo e, a tratti, di interferenza controproducente che aveva caratterizzato le mosse di Harry Spencer Truman e di Eisenhower nei quindici anni precedenti. Accogliendo tesi e stilemi cari soprattutto al gruppo dei c.d. “europeisti” all’interno del Dipartimento di Stato, in un discorso pronunciato il 4 luglio 1962 a Filadelfia, nell’anniversario della Dichiarazione di Indipendenza, il presidente lanciò un appello all’interdipendenza tra le sponde dell’Atlantico, destinato peraltro a rimanere in larga parte disatteso: «Noi non consideriamo un’Europa forte e unita come un rivale, bensì come un partner. Aiutarne il progresso è l’obiettivo fondamentale della nostra politica estera da diciassette anni. Riteniamo che un’Europa unita sarà in grado di svolgere una più grande funzione nella difesa comune, di rispondere più generosamente ai bisogni dei Paesi poveri, di unirsi agli Stati Uniti e ad altri paesi per ridurre le barriere agli scambi, risolvere i problemi di carattere commerciale, merceologico e monetario, ed elaborare direttive coordinate in tutti i settori economici, diplomatici e politici. Noi vediamo in un’Europa del genere un partner col quale poter trattare su una base di piena uguaglianza in tutti i grandi e onerosi compiti concernenti l’edificazione e la difesa di una comunità di nazioni libere». Offrendo la “piena uguaglianza” per la cogestione dei problemi planetari, Kennedy puntava in modo esplicito al burden sharing: invitava, cioè, gli europei a condividere appieno con Washington gli oneri della leadership e della difesa dell’Occidente e, in futuro, della responsabilità globale. Poco oltre, infatti, il discorso precisava che gli Stati Uniti si sarebbero tenuti «pronti per una Dichiarazione di interdipendenza» e disponibili a «discutere con un’Europa unita i modi e i mezzi per costituire una concreta partnership atlantica, un’associazione di reciproco vantaggio tra la nuova Unione» in via di formazione in Europa e «la vecchia Unione americana». Tale associazione avrebbe dovuto fungere «da nucleo per la futura unione di tutti gli uomini liberi»: gli Stati Uniti, concludeva K., assumevano l’impegno solenne di unirsi «agli altri uomini e agli altri paesi per preservare sia la pace sia la libertà, e di considerare qualsiasi minaccia alla pace o alla libertà di uno solo come una minaccia alla pace e alla libertà di tutti».

Il discorso ebbe vasta risonanza e, come tutte le iniziative “europee” di Washington nel secondo dopoguerra, destò reazioni non univoche su entrambe le rive dell’oceano. Le tesi e le proposte delineate in quel testo, al pari di quelle perfezionate da K. un anno dopo, nel corso della sua visita trionfale in Europa dal 23 giugno al 2 luglio 1963 (in occasione della quale il presidente pronunciò a Berlino, di fronte a una folla entusiasta di un milione di persone riunite presso il municipio, la frase: «Oggi, nel mondo libero, il maggior motivo d’orgoglio è poter dire “Ich bin ein Berliner”»), in particolare nel discorso tenuto alla Paulskirche di Francoforte, non erano condivise in pieno da tutta l’amministrazione ma emergevano con vigore dal tessuto relazionale che ne collegava alcuni uomini chiave, perlopiù riconfermati in seguito nelle rispettive posizioni da Lyndon Johnson, a esponenti di punta della costruzione europea. Una salda amicizia univa Jean Monnet al sottosegretario di Stato George Ball, in carica dal novembre 1961 al settembre 1966, e favorevoli all’operato di Monnet, erano in generale gli “europeisti” del Dipartimento, quali Robert Schaetzel o Henry Owen. Scartando la tentazione strategica del divide et impera nei rapporti con gli alleati, sebbene l’Europa occidentale si fosse ormai ben ripresa dalla crisi postbellica e minacciasse di trasformarsi in una rivale temibile degli Stati Uniti, soprattutto grazie agli ottimi risultati prodotti dai primi passi dell’integrazione comunitaria, le proposte enunciate da K. dimostravano come la sua amministrazione non intendesse certo rinunciare alla posizione egemonica degli Stati Uniti in seno all’Occidente, né alle ambizioni di centralità planetaria maturate nel corso della guerra, ma riconoscesse ancora funzionali a quell’obiettivo tanto l’estensione all’Europa dei valori morali e dei principi politici affermatisi in America, quanto l’approfondimento in chiave interdipendente dell’intesa atlantica e, al suo interno, di un disegno integrativo europeo che – come si era già visto in passato, nell’agosto 1954, con il fallimento della Comunità europea di difesa – Washington non era però in grado di controllare. Delineando un’architettura che chiamava gli europei a coniugare nella futura unificazione politica la libertà dalla minaccia sovietica con responsabilità globali di difesa e sviluppo ben ripartite, K. e i suoi collaboratori risentirono della propensione – non inconsueta nel loro paese – a sottovalutare la fondamentale incapacità degli europei di superare divisioni e sospetti secolari con poche e rapide mosse operative, ovvie solo per chi le guardasse da oltre Atlantico. De Gaulle e quanti condivisero le sue tesi o mancarono di opporsi al suo operato contribuirono al prevalere di un disegno alternativo: dapprima di difesa delle Istituzioni comunitarie da una prematura Adesione britannica, bloccando nel gennaio 1963 un elemento essenziale delle aspettative statunitensi; poi, nel 1965-1966, di attacco radicale alle stesse istituzioni e a quelle atlantiche.

Massimiliano Guderzo (2010)




Kiesinger, Kurt Georg

K. (Ebingen, Württenberg 1904-Tübingen 1988) proveniva da una famiglia della borghesia mercantile di tradizione marcatamente antiprussiana e aperta agli influssi del cristianesimo sociale. Iniziò gli studi di storia e teologia a Tubinga e proseguì quelli di legge a Berlino, ove si avviò alla pratica forense. Nel 1933, all’avvento del Terzo reich, s’iscrisse immediatamente al Partito nazista (NSDAP) e poco dopo entrò nell’ufficio legale del ministero degli Affari esteri. Questa decisione gli fu a lungo rimproverata nel dopoguerra e K. non riuscì mai del tutto a giustificare quel gesto di affiliazione politica, che non era ancora obbligatorio per i dipendenti pubblici e l’esercizio della libera professione.

K. continuò l’attività ministeriale per tutta la guerra in una posizione di crescente responsabilità che gli permise di evitare il richiamo alle armi (altro rimprovero che gli venne poi mosso). Con la fine delle ostilità e di fronte alla grave carenza di personale politico, Konrad Adenauer accettò con qualche riluttanza di favorire l’ascesa di K. a principale esponente dell’Unione cristiano-democratica (Christilich-demokratische Union, CDU) nel Baden-Württenberg, allora sotto amministrazione provvisoria inglese e una delle regioni più promettenti per la CDU. K. svolse un’azione incessante sul piano nazionale e locale, come deputato al Bundestag, specializzato in questioni di difesa e sicurezza, presidente del Consiglio regionale e membro della direzione del partito. Dal 1950 al 1958 fece anche parte della delegazione parlamentare tedesca al Consiglio d’Europa, fino a diventare vicepresidente dell’assemblea: esperienza che egli descrisse come una vera e propria rigenerazione personale, dopo il fallimento politico del nazionalismo e del militarismo in cui si era formato.

L’ascesa di K. a figura politica di grande e autonomo rilievo si ebbe solo nel 1966, dopo il ritiro di Ludwig Erhard e la crisi della coalizione tra la CDU-Christlich-soziale Union (CSU) e il Partito liberale (Freie demokratische Partei, FDP). Contro tutte le previsioni, K. riuscì a costituire la cosiddetta “grande coalizione” con i socialdemocratici di Willy Brandt che per la prima volta nel dopoguerra ottennero di andare al governo. Kissinger fu eletto cancelliere il 1° dicembre 1966, il terzo nella storia della Repubblica federale (v. Germania), dopo le due grandi figure di Adenauer, padre della democrazia tedesca e di Erhard, padre del miracolo economico. Il pragmatismo di cui diede prova gli valse allora l’appellativo di moderator Germaniae.

Il consenso schiacciante di cui beneficiò inizialmente nel Parlamento e nel paese consentì a K. di impostare un programma di contenimento delle prime spinte recessive registrate dall’economia tedesca dopo due decenni di crescita ininterrotta. Egli riuscì a far accettare al Sozialdemokratische Partei Deutschlands (SPD) una serie di discusse misure contro l’infiltrazione comunista nei sindacati e nel corpo insegnante, note come Notstandgesetze, o leggi sullo stato di emergenza, e contemporaneamente intervenne con energia per bloccare la rinascita dell’estrema destra. Sul piano dei rapporti intertedeschi, K. iniziò l’opera di allentamento della “dottrina Hallstein” (v. Hallstein, Walter), che precludeva qualsiasi contatto ufficiale tra le due Germanie, nonché tra la Repubblica Federale Tedesca (RFT) e il blocco dell’Est. Fu il gabinetto K., con l’azione determinante del vice cancelliere e ministro degli Esteri Willy Brandt, a instaurare relazioni diplomatiche con la Iugoslavia e la Romania e ad aprire una rappresentanza commerciale a Praga. Dopo due cancellieri risolutamente ostili a qualsiasi passo ufficiale con la Germania comunista, K. accettò nel maggio-giugno 1967 di procedere a uno scambio di lettere con il suo omologo della Deutsche Demokratische Republik (DDR), Willi Stoph, sulla rinuncia all’uso della forza nei rapporti intertedeschi che gli alienò molte simpatie nella parte più conservatrice del suo partito e dell’opinione pubblica federale.

La caduta di K. si verificò repentinamente nel 1968-1969, quasi dall’oggi al domani. L’irrigidimento del contesto internazionale, con l’intervento sovietico in Cecoslovacchia, l’aggravarsi del conflitto nel Vietnam e lo stallo nei negoziati di non proliferazione nucleare, si accompagnò nella RFT a una difficile stagione interna, segnata dalla contestazione giovanile, dalle speculazioni sul “supermarco” e dall’ormai aperta rivalità tra CDU e SPD. Nessuna di queste cause era tale da mettere veramente in crisi la “grande coalizione”, ma Brandt aveva capito che, dopo un triennio di “coabitazione”, i social-democratici erano ormai in grado di governare da soli, senza intimorire l’elettorato centrista e senza veti internazionali, anche se la prospettiva della loro ascesa continuava a suscitare perplessità a Washington. K. fu messo in difficoltà da una nuova ondata di polemiche sul suo passato politico, con una campagna stampa non sempre limpida né fondata. Alle elezioni del 1969 la CDU mantenne la maggioranza relativa, ma fu sconfitta da una inedita coalizione tra la SPD di Brandt e i liberali della FDP, spostatisi a sinistra sotto la guida di Walter Scheel. Iniziava la fase dell’Ostpolitik e la CDU entrava in quella lunga crisi da cui sarebbe uscita solo nel 1982 con il rilancio attuato da Helmut Josef Michael Kohl.

K. non sarebbe più tornato al potere e nel 1971 lasciò la guida del partito, mantenendone soltanto la presidenza d’onore. Nel 1980 si ritirò anche dal Bundestag e trascorse gli ultimi anni nel ruolo del grande saggio, riverito da tutte le componenti della vita politica, simbolo vivente di una Germania prospera e pentita del suo passato più oscuro, pienamente integrata nell’Europa e nell’Occidente. Morì nel 1988, circondato dagli onori, ma anche dalla fama di “cancelliere dimenticato”, dopo essere stato quello eletto con la maggioranza più forte dell’intero dopoguerra, a capo di una coalizione tra le due principali formazioni parlamentari che non si sarebbe più ripetuta.

La figura di K. ha sofferto, in vita come oggi, il confronto con personalità più ricche e carismatiche della sua, in cui era più spiccata la dimensione internazionale e la capacità di colpire durevolmente l’opinione pubblica. In tal senso, egli può essere considerato l’anti Adenauer e l’anti Brandt o, se si vuole, una sorta di Giuseppe Pella, o di Antoine Pinay della RFT. Ma deve essergli riconosciuto il merito di aver caparbiamente ancorato la Repubblica federale alla comunità europea (v. anche Comunità economica europea) e atlantica, in un frangente storico nel quale tornavano ad affacciarsi le tentazioni di una riunificazione in chiave neutralista. Ne fu esempio la determinazione con cui agì per ottenere l’adozione della teoria della risposta flessibile da parte dell’Alleanza atlantica (v. anche Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico) nel maggio 1967.

K. fu probabilmente l’ultima incarnazione di quello che ai tempi di Weimar veniva definito un Vernunftrepublikaner, un cittadino leale della Repubblica in nome della ragione più che del cuore, legato agli interessi concreti di ordine, benessere e progresso sociale. Allo stesso modo, può anche essere definito un “europeo della ragione”, poiché vedeva nella costruzione comunitaria non un ideale astratto, ma l’unica alternativa all’ebbrezza nazionalista che aveva funestato la storia tedesca e provocato o alimentato due guerre mondiali. Consapevole degli errori di Weimar, si batté per dare ai tedeschi l’immagine di una democrazia prospera ed efficiente e riuscì a conciliare le posizioni inizialmente antitetiche dei suoi due ministri economici, il social-democratico Karl Schiller e il cristiano-sociale Franz Josef Strauss, realizzando nel 1968-1969, l’anno stesso della sua caduta, il pareggio dei conti pubblici.

La visione di un’Europa delle “piccole patrie” quale base di un’unione tra i popoli animò il tentativo di K. negli anni Cinquanta e Sessanta di fare di Stoccarda, capoluogo della sua regione, un modello di sviluppo sul piano urbanistico, economico e culturale, promuovendo l’integrazione dei lavoratori immigrati. Sotto la sua guida, il Baden-Württenberg varò il primo piano in Europa per la protezione dell’ambiente e l’utilizzo di energie alternative, precorrendo la legislazione comunitaria contro l’inquinamento.

Anche sul piano dei negoziati comunitari, K. rivelò notevoli capacità di compromesso e di mediazione. La sua azione per rafforzare le Istituzioni comunitarie fu metodica, paziente e incisiva, più legata al funzionamento quotidiano che ai grandi obiettivi federalistici (v. Federalismo): un approccio in cui si rifletteva l’esperienza amministrativa accumulata nei lunghi anni di gestione di una delle regioni più dinamiche del continente. Si deve soprattutto al suo impulso se tutti i ministeri tedeschi crearono un corpo di funzionari competenti per le questioni comunitarie e Bonn cominciò a inviare sistematicamente i suoi migliori esperti a Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo, contendendo alla Francia la leadership burocratica della Comunità e della futura Unione europea.

Gran parte dell’azione diplomatica di K. fu dedicata, con risultati alterni, a cercare di superare lo stallo creato dalla politica della “sedia vuota” di Charles de Gaulle, che dal gennaio 1966 bloccava la vita e il progresso delle istituzioni comunitarie. K. promosse anche la ripresa del dialogo tra i Sei e il Regno Unito, riuscendo a far sottoscrivere a de Gaulle la dichiarazione franco-tedesca del gennaio 1968 sul possibile Allargamento del mercato comune (v. Comunità economica europea), poco dopo la ministeriale di Bruxelles (dicembre 1967) che aveva registrato il nuovo veto francese all’ingresso dell’Inghilterra nella Comunità. K. e Brandt, ancora uniti in quella fase, ritenevano che l’allargamento avrebbe comportato effetti positivi sulle relazioni intertedesche e sui rapporti con l’Est europeo e si batterono per favorire l’ingresso, oltre che del Regno Unito, dell’Irlanda e dei paesi scandinavi, Svezia e Norvegia comprese.

Fu K. a promuovere al Vertice di Roma del maggio 1967 il rilancio del progetto di Cooperazione politica europea, prospettando l’istituzione di un gruppo di esperti incaricati di preparare “posizioni comuni” sui temi internazionali per gli incontri tra i capi di Stato e di governo. Cercò anche di portare avanti una serie di proposte miranti alla costituzione di una politica di difesa europea e di standardizzazione degli armamenti e della ricerca tecnologica (parallelamente, Francia e Germania decisero proprio allora di varare il consorzio Airbus). Questo insieme di iniziative gli valse la fiducia di de Gaulle, in misura superiore al filoamericano Erhard, ma egli non riuscì a impedire che il dissenso francese su modalità e limiti delle consultazioni preventive portasse a una nuova crisi della Comunità nel febbraio 1969.

A quella data la parabola di K. era già entrata nella fase terminale e gli ultimi mesi di governo furono segnati da una lotta politica interna che lasciava poco spazio alla vocazione europeista degli inizi. Come de Gaulle, K. fu travolto da un clima di protesta che non aveva cause profonde salvo una diffusa voglia di cambiamento dell’elettorato. Ma se per i francesi si trattava di sostituire un padre nobile, ormai troppo ingombrante, per mantenere fondamentalmente la sua politica, nel caso tedesco il tramonto di K. fu causato dall’emergere di una maggioranza alternativa che avviava veramente la Repubblica federale sulla strada dell’alternanza. A tutt’oggi, la legislatura della grande coalizione è stata la più breve (33 mesi) nella storia parlamentare federale e l’uomo che l’ha guidata il meno longevo, politicamente, tra i cancellieri tedeschi del dopoguerra. Singolare destino di uno statista che ha lasciato traccia di sé più nella messa a punto dei meccanismi comunitari che nel cuore e nella memoria dei contemporanei e dei cittadini europei.

Maurizio Serra (2010)




Kinnock, Neil

K. (Tredegar, Galles 1942) nacque da Gordon Kinnock, dapprima minatore in una cava di carbone e poi, contratta una grave malattia professionale, operaio in un’acciaieria, e da Mary Howells, infermiera di quartiere. La condizione sociale e le preferenze politiche della famiglia, unite all’appartenenza a una comunità fortemente intrisa di tradizioni, valori e ideali socialisti, furono determinanti nell’orientarne convinzioni e scelte. Complice il fascino su di lui esercitato dal deputato locale Aneuran Bevan, K. decise infatti di iscriversi al Partito laburista all’età di soli quindici anni. Nel frattempo ottenne un posto presso la scuola Lewis di Pengam, dove condusse e in seguito portò a termine i propri studi superiori. Nonostante risultati scolastici non sempre brillanti, e nonostante serie tentazioni di accettare un lavoro alle miniere di carbone o di arruolarsi nelle forze armate, K. optò infine per proseguire il proprio percorso di studi iscrivendosi all’University College di Cardiff.

Gli anni universitari, durati dal 1961 al 1965, furono decisivi per la sua formazione politica. Attraverso la partecipazione attiva al movimento studentesco, K. sperimentò infatti per la prima volta la pratica della propaganda, dell’organizzazione e della direzione politica, sviluppando spiccate doti oratorie, definendo i propri riferimenti ideologici e, soprattutto, cominciando a assumere precise responsabilità. In particolare, dopo essersi distinto nelle iniziative di protesta contro l’apartheid in Sudafrica e contro l’incarcerazione di Nelson Mandela, e dopo aver dato il proprio contributo alla campagna elettorale di James Callaghan durante le elezioni del 1964, K. venne nominato segretario dell’Associazione socialista dell’università e, successivamente, presidente dell’Unione studentesca di Cardiff. Nel 1965 conseguì una laurea in relazioni industriali e storia, seguita da un diploma postlaurea in scienze dell’educazione nel 1966. Terminati gli studi, iniziò a lavorare presso l’Associazione per la formazione dei lavoratori, in cui svolse i compiti di insegnante di economia e, successivamente, di direttore degli studi sulle politiche industriali e sindacali. La breve ma intensa militanza politica, il protagonismo all’interno del movimento studentesco e la buona reputazione acquisita nell’ambito della sua professione convinsero presto i dirigenti locali del Partito laburista a proporre la sua candidatura alla Camera dei Comuni. In particolare, dopo aver superato la concorrenza del rappresentante del Sindacato nazionale dei minatori, K. riuscì a ottenere la possibilità di contendere un seggio parlamentare nel collegio elettorale di Bedwelty, una circoscrizione tradizionalmente appannaggio dei laburisti nel Galles del sud. Durante le elezioni generali del 1970, K. ottenne così un seggio alla Camera dei Comuni e, dopo aver lasciato il proprio lavoro presso l’Associazione per la formazione dei lavoratori, dette definitivamente avvio alla propria carriera parlamentare e politica.

Durante la sua prima legislatura, K. si schierò apertamente con la corrente di sinistra del Partito laburista raccolta attorno al quotidiano “Tribune” e, oltre che per una attenta cura dei rapporti con il collegio operaio di Bedwelty, scelse di caratterizzarsi per una opposizione particolarmente dura contro la maggioranza conservatrice, e per una spiccata attenzione alle questioni del disarmo nucleare e dei diritti sindacali e socio-sanitari. Parallelamente, in linea con la posizione della maggioranza del Partito laburista, K. assunse un atteggiamento nettamente contrario alla scelta di adesione della Gran Bretagna alle Comunità europee. Nella sua visione, la soluzione comunitaria costituiva un inaccettabile rischio per la sovranità e per l’identità britanniche e, soprattutto, una pericolosa minaccia alle conquiste sociali e sindacali dei lavoratori britannici. Secondo K., l’impianto sovranazionale e liberista delle Comunità europee si poneva naturalmente in antitesi alla concezione socialista dei rapporti democratici e delle relazioni industriali.

Con la vittoria laburista alle elezioni generali del 1974, iniziò la seconda legislatura di K. e, con questa, la sua ascesa nel paese, nella Camera dei Comuni e nel partito. Le sue apparizioni televisive e le sue presenze a assemblee di partito e di sindacato si moltiplicarono. Crebbe la sua fama di popolare e intransigente rappresentante dell’ala operaista del Partito laburista, alimentata dalle sue continue critiche al socialismo conservatore dei governi di Harold Wilson e Callaghan, e rafforzata dalla sua scelta di non accettare incarichi ministeriali a eccezione di un breve periodo come segretario speciale, in qualità di membro della Camera dei Comuni, presso il ministero del Lavoro guidato da Michael Foot. Aumentò il suo prestigio parlamentare e politico, grazie ai suoi interventi nelle commissioni per le spese pubbliche e per le industrie nazionalizzate e, soprattutto, grazie al suo efficace impegno contro la legge sulla devoluzione nella campagna referendaria in Galles nel 1979. Si consolidò infine il suo peso nel partito attraverso la nomina a membro del Comitato esecutivo nazionale del Partito laburista nel 1978.

Nel frattempo, K. continuò a sostenere una linea apertamente antieuropeista, sia nell’ambito della commissione parlamentare per la legislazione europea, sia in occasione della campagna referendaria sulla prosecuzione della partecipazione del Regno Unito alle Comunità europee (v. Comunità europea del carbone e dell’acciaio; Comunità economica europea; Comunità europea dell’energia atomica) condotta nel corso del 1975. La sconfitta del Partito laburista alle elezioni generali del 1979 coincise però con l’avvio di un progressivo riposizionamento nel suo pensiero e nella sua azione politica. In effetti, K. continuò a militare nella corrente di sinistra del Partito laburista, impegnandosi soprattutto in una dura battaglia politica e parlamentare contro la scelta del primo ministro Margaret Thatcher di coinvolgere il paese nella guerra delle Falkland. Parimenti, sostenne la strategia di ricollocazione dello stesso Partito laburista su posizioni più radicali, e appoggiò la conseguente decisione che portò Michael Foot, capo della sinistra laburista, alla guida del partito al posto di Callaghan nel 1980.

Tuttavia, diverse iniziative politiche e diverse prese di posizione assunte da K. in questo periodo costituirono i prodromi della sua futura rottura con la sinistra politica e sindacale del partito. La scelta di rinunciare alla propria volontaria condizione di membro della Camera dei Comuni senza incarichi governativi e di accettare la carica di portavoce laburista e di ministro ombra dell’Istruzione offertagli da Callaghan nel 1979 crearono le prime divergenze. Le sue denunce contro la demagogica promessa di poter ripristinare le spese educative, sanitarie e sociali tagliate dal governo conservatore gli attirarono critiche e sospetti. Infine, la decisione di opporsi alla candidatura di Tony Benn e di sostenere la candidatura alternativa di Denis Healey alla vicepresidenza del Partito laburista nel 1981, determinarono una vera e propria spaccatura nella sinistra del Partito laburista.

Ciononostante, dopo la durissima sconfitta laburista alle elezioni generali del 1983, Michael Foot decise di designare proprio K. alla sua successione, e il partito e i sindacati risposero assegnandogli il 71,3% dei propri consensi. K. divenne in questo modo il più giovane segretario nella storia del Partito laburista britannico e, in questa veste, il più giovane vicepresidente nella storia dell’Internazionale socialista. La prima fase della segreteria di K. fu dominata da una prosecuzione dell’attività di opposizione contro il governo conservatore di Margaret Thatcher ma, soprattutto, da una nuova e dura lotta interna contro gli esponenti, le posizioni e i metodi della corrente di sinistra del partito. Da una parte, K. si contrappose frontalmente al Sindacato nazionale dei minatori, e alla linea dura adottata dal suo segretario Arthur Scargill contro le ristrutturazioni imposte dal governo conservatore al settore minerario. Dall’altra parte, sfidò invece il gruppo radicale Militant di Liverpool e la sinistra laburista di Londra. Contemporaneamente, forte della fiducia della maggioranza del partito e del positivo esito di importanti elezioni amministrative, K. dette avvio a una prima revisione delle strategie politiche e comunicative del laburismo britannico.

In particolare, su consiglio del nuovo direttore della comunicazione Peter Mandelson, K. decise di avvicinare il Partito laburista alle socialdemocrazie continentali, inserendo la rosa nel simbolo del partito e, soprattutto, inaugurando una inedita politica filoeuropeista. Per la prima volta, il Partito laburista riconosceva pienamente non solo il valore positivo delle Comunità europee, ma anche il valore strategico che assumeva la scelta comunitaria per la Gran Bretagna. Da quel momento, il Partito laburista si sarebbe caratterizzato come il principale partito europeista del Regno Unito. Il processo di innovazione si rafforzò ulteriormente dopo la sconfitta alle elezioni generali del 1987 in cui il Partito laburista, pur perdendo, consolidò il proprio ruolo di seconda forza del panorama politico britannico sull’agguerrita alleanza tra socialdemocratici e liberali. Superata la concorrenza di Tony Benn per la guida del partito nel 1988, K. portò a maturazione le linee di rinnovamento organizzativo e programmatico avviate nella fase precedente. Adottò importanti riforme interne per limitare il peso della corrente di sinistra e dei sindacati. Innovò ulteriormente le tattiche di comunicazione politica. Marginalizzò e infine espulse il gruppo radicale Militant. Modificò i tradizionali referenti sociali del laburismo britannico, rivolgendo i propri appelli non più alla classe operaia, ma a un generico ceto medio. Rinunciò alle battaglie per il disarmo unilaterale, per le nazionalizzazioni e per un alto livello di spesa e di protezione sociale e mutuò una serie di posizioni di impianto tradizionalmente conservatore sui temi della difesa, delle privatizzazioni, della tassazione e delle relazioni industriali. Infine, seguendo le ricette di Anthony Crosland, abbandonò definitivamente la parola d’ordine della proprietà pubblica dei mezzi di produzione per assumere il più vago obiettivo dell’equità.

Quando si presentò alle elezioni generali del 1992, il Partito laburista era ormai un soggetto politico profondamente diverso nei suoi assetti organizzativi e nella sua proposta programmatica. Tuttavia, nonostante i buoni risultati di importanti elezioni locali, e nonostante l’uscita di scena di Margaret Thatcher e l’avvento di John Major alla guida del Partito conservatore, K. fallì nuovamente nel tentativo di riportare il Partito laburista alla vittoria. Seppure con uno stretto margine di voti e di seggi, i laburisti furono sconfitti e K. fu costretto alle dimissioni dalla segreteria del partito e dalla vicepresidenza dell’Internazionale socialista. A questo punto, pur continuando a ricoprire il ruolo di deputato presso la Camera dei Comuni, K. uscì temporaneamente dalla politica attiva per ritagliarsi un piccolo spazio di ospite fisso in una trasmissione della BBC gallese, e per intensificare il proprio impegno nel Consiglio consultivo dell’Istituto per la ricerca sulle politiche pubbliche che aveva contribuito a far nascere negli anni Ottanta.

Gli sforzi di K. per traghettare il Partito laburista su una prospettiva più europeista disegnarono però una nuova traiettoria nella sua carriera politica. Nel 1994, infatti, egli rassegnò le proprie dimissioni dalla Camera dei Comuni e, nel 1995, entrò a far parte della Commissione europea presieduta da Jacques Santer con delega ai trasporti. Successivamente, in seguito alle dimissioni dell’intero esecutivo comunitario nel 1999, fu nuovamente nominato nella Commissione europea presieduta da Romano Prodi in qualità di vicepresidente. In particolare, K. ricevette il delicato compito di portare a termine una riforma amministrativa capace di evitare il ripetersi degli episodi di abusi, corruzione e nepotismo che avevano portato alle dimissioni della precedente Commissione europea (v. anche Cresson, Édith). Pur dimostrando un indubbio attaccamento alle Istituzioni comunitarie, e una discreta efficacia nella sua opera di ammodernamento dei meccanismi amministrativi, K. si distinse per una certa insofferenza verso le soluzioni maggiormente sovranazionali prospettate nel corso del processo di costituzionalizzazione dell’Unione europea.

Alla scadenza naturale del proprio mandato, K. tornò in Gran Bretagna per essere insignito del titolo di Barone Kinnock di Bedwelty della contea di Gwent dalla regina Elisabetta II, e per essere nominato membro della Camera dei Lord. In questo nuovo ruolo, che ricopre dal 2005, K. si è caratterizzato per un’attenzione particolare ai temi dell’università e della ricerca e, soprattutto, per un forte sostegno alla necessità di proseguire il cammino dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

S. Paoli (2009)