Kiesinger, Kurt Georg

K. (Ebingen, Württenberg 1904-Tübingen 1988) proveniva da una famiglia della borghesia mercantile di tradizione marcatamente antiprussiana e aperta agli influssi del cristianesimo sociale. Iniziò gli studi di storia e teologia a Tubinga e proseguì quelli di legge a Berlino, ove si avviò alla pratica forense. Nel 1933, all’avvento del Terzo reich, s’iscrisse immediatamente al Partito nazista (NSDAP) e poco dopo entrò nell’ufficio legale del ministero degli Affari esteri. Questa decisione gli fu a lungo rimproverata nel dopoguerra e K. non riuscì mai del tutto a giustificare quel gesto di affiliazione politica, che non era ancora obbligatorio per i dipendenti pubblici e l’esercizio della libera professione.

K. continuò l’attività ministeriale per tutta la guerra in una posizione di crescente responsabilità che gli permise di evitare il richiamo alle armi (altro rimprovero che gli venne poi mosso). Con la fine delle ostilità e di fronte alla grave carenza di personale politico, Konrad Adenauer accettò con qualche riluttanza di favorire l’ascesa di K. a principale esponente dell’Unione cristiano-democratica (Christilich-demokratische Union, CDU) nel Baden-Württenberg, allora sotto amministrazione provvisoria inglese e una delle regioni più promettenti per la CDU. K. svolse un’azione incessante sul piano nazionale e locale, come deputato al Bundestag, specializzato in questioni di difesa e sicurezza, presidente del Consiglio regionale e membro della direzione del partito. Dal 1950 al 1958 fece anche parte della delegazione parlamentare tedesca al Consiglio d’Europa, fino a diventare vicepresidente dell’assemblea: esperienza che egli descrisse come una vera e propria rigenerazione personale, dopo il fallimento politico del nazionalismo e del militarismo in cui si era formato.

L’ascesa di K. a figura politica di grande e autonomo rilievo si ebbe solo nel 1966, dopo il ritiro di Ludwig Erhard e la crisi della coalizione tra la CDU-Christlich-soziale Union (CSU) e il Partito liberale (Freie demokratische Partei, FDP). Contro tutte le previsioni, K. riuscì a costituire la cosiddetta “grande coalizione” con i socialdemocratici di Willy Brandt che per la prima volta nel dopoguerra ottennero di andare al governo. Kissinger fu eletto cancelliere il 1° dicembre 1966, il terzo nella storia della Repubblica federale (v. Germania), dopo le due grandi figure di Adenauer, padre della democrazia tedesca e di Erhard, padre del miracolo economico. Il pragmatismo di cui diede prova gli valse allora l’appellativo di moderator Germaniae.

Il consenso schiacciante di cui beneficiò inizialmente nel Parlamento e nel paese consentì a K. di impostare un programma di contenimento delle prime spinte recessive registrate dall’economia tedesca dopo due decenni di crescita ininterrotta. Egli riuscì a far accettare al Sozialdemokratische Partei Deutschlands (SPD) una serie di discusse misure contro l’infiltrazione comunista nei sindacati e nel corpo insegnante, note come Notstandgesetze, o leggi sullo stato di emergenza, e contemporaneamente intervenne con energia per bloccare la rinascita dell’estrema destra. Sul piano dei rapporti intertedeschi, K. iniziò l’opera di allentamento della “dottrina Hallstein” (v. Hallstein, Walter), che precludeva qualsiasi contatto ufficiale tra le due Germanie, nonché tra la Repubblica Federale Tedesca (RFT) e il blocco dell’Est. Fu il gabinetto K., con l’azione determinante del vice cancelliere e ministro degli Esteri Willy Brandt, a instaurare relazioni diplomatiche con la Iugoslavia e la Romania e ad aprire una rappresentanza commerciale a Praga. Dopo due cancellieri risolutamente ostili a qualsiasi passo ufficiale con la Germania comunista, K. accettò nel maggio-giugno 1967 di procedere a uno scambio di lettere con il suo omologo della Deutsche Demokratische Republik (DDR), Willi Stoph, sulla rinuncia all’uso della forza nei rapporti intertedeschi che gli alienò molte simpatie nella parte più conservatrice del suo partito e dell’opinione pubblica federale.

La caduta di K. si verificò repentinamente nel 1968-1969, quasi dall’oggi al domani. L’irrigidimento del contesto internazionale, con l’intervento sovietico in Cecoslovacchia, l’aggravarsi del conflitto nel Vietnam e lo stallo nei negoziati di non proliferazione nucleare, si accompagnò nella RFT a una difficile stagione interna, segnata dalla contestazione giovanile, dalle speculazioni sul “supermarco” e dall’ormai aperta rivalità tra CDU e SPD. Nessuna di queste cause era tale da mettere veramente in crisi la “grande coalizione”, ma Brandt aveva capito che, dopo un triennio di “coabitazione”, i social-democratici erano ormai in grado di governare da soli, senza intimorire l’elettorato centrista e senza veti internazionali, anche se la prospettiva della loro ascesa continuava a suscitare perplessità a Washington. K. fu messo in difficoltà da una nuova ondata di polemiche sul suo passato politico, con una campagna stampa non sempre limpida né fondata. Alle elezioni del 1969 la CDU mantenne la maggioranza relativa, ma fu sconfitta da una inedita coalizione tra la SPD di Brandt e i liberali della FDP, spostatisi a sinistra sotto la guida di Walter Scheel. Iniziava la fase dell’Ostpolitik e la CDU entrava in quella lunga crisi da cui sarebbe uscita solo nel 1982 con il rilancio attuato da Helmut Josef Michael Kohl.

K. non sarebbe più tornato al potere e nel 1971 lasciò la guida del partito, mantenendone soltanto la presidenza d’onore. Nel 1980 si ritirò anche dal Bundestag e trascorse gli ultimi anni nel ruolo del grande saggio, riverito da tutte le componenti della vita politica, simbolo vivente di una Germania prospera e pentita del suo passato più oscuro, pienamente integrata nell’Europa e nell’Occidente. Morì nel 1988, circondato dagli onori, ma anche dalla fama di “cancelliere dimenticato”, dopo essere stato quello eletto con la maggioranza più forte dell’intero dopoguerra, a capo di una coalizione tra le due principali formazioni parlamentari che non si sarebbe più ripetuta.

La figura di K. ha sofferto, in vita come oggi, il confronto con personalità più ricche e carismatiche della sua, in cui era più spiccata la dimensione internazionale e la capacità di colpire durevolmente l’opinione pubblica. In tal senso, egli può essere considerato l’anti Adenauer e l’anti Brandt o, se si vuole, una sorta di Giuseppe Pella, o di Antoine Pinay della RFT. Ma deve essergli riconosciuto il merito di aver caparbiamente ancorato la Repubblica federale alla comunità europea (v. anche Comunità economica europea) e atlantica, in un frangente storico nel quale tornavano ad affacciarsi le tentazioni di una riunificazione in chiave neutralista. Ne fu esempio la determinazione con cui agì per ottenere l’adozione della teoria della risposta flessibile da parte dell’Alleanza atlantica (v. anche Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico) nel maggio 1967.

K. fu probabilmente l’ultima incarnazione di quello che ai tempi di Weimar veniva definito un Vernunftrepublikaner, un cittadino leale della Repubblica in nome della ragione più che del cuore, legato agli interessi concreti di ordine, benessere e progresso sociale. Allo stesso modo, può anche essere definito un “europeo della ragione”, poiché vedeva nella costruzione comunitaria non un ideale astratto, ma l’unica alternativa all’ebbrezza nazionalista che aveva funestato la storia tedesca e provocato o alimentato due guerre mondiali. Consapevole degli errori di Weimar, si batté per dare ai tedeschi l’immagine di una democrazia prospera ed efficiente e riuscì a conciliare le posizioni inizialmente antitetiche dei suoi due ministri economici, il social-democratico Karl Schiller e il cristiano-sociale Franz Josef Strauss, realizzando nel 1968-1969, l’anno stesso della sua caduta, il pareggio dei conti pubblici.

La visione di un’Europa delle “piccole patrie” quale base di un’unione tra i popoli animò il tentativo di K. negli anni Cinquanta e Sessanta di fare di Stoccarda, capoluogo della sua regione, un modello di sviluppo sul piano urbanistico, economico e culturale, promuovendo l’integrazione dei lavoratori immigrati. Sotto la sua guida, il Baden-Württenberg varò il primo piano in Europa per la protezione dell’ambiente e l’utilizzo di energie alternative, precorrendo la legislazione comunitaria contro l’inquinamento.

Anche sul piano dei negoziati comunitari, K. rivelò notevoli capacità di compromesso e di mediazione. La sua azione per rafforzare le Istituzioni comunitarie fu metodica, paziente e incisiva, più legata al funzionamento quotidiano che ai grandi obiettivi federalistici (v. Federalismo): un approccio in cui si rifletteva l’esperienza amministrativa accumulata nei lunghi anni di gestione di una delle regioni più dinamiche del continente. Si deve soprattutto al suo impulso se tutti i ministeri tedeschi crearono un corpo di funzionari competenti per le questioni comunitarie e Bonn cominciò a inviare sistematicamente i suoi migliori esperti a Bruxelles, Strasburgo e Lussemburgo, contendendo alla Francia la leadership burocratica della Comunità e della futura Unione europea.

Gran parte dell’azione diplomatica di K. fu dedicata, con risultati alterni, a cercare di superare lo stallo creato dalla politica della “sedia vuota” di Charles de Gaulle, che dal gennaio 1966 bloccava la vita e il progresso delle istituzioni comunitarie. K. promosse anche la ripresa del dialogo tra i Sei e il Regno Unito, riuscendo a far sottoscrivere a de Gaulle la dichiarazione franco-tedesca del gennaio 1968 sul possibile Allargamento del mercato comune (v. Comunità economica europea), poco dopo la ministeriale di Bruxelles (dicembre 1967) che aveva registrato il nuovo veto francese all’ingresso dell’Inghilterra nella Comunità. K. e Brandt, ancora uniti in quella fase, ritenevano che l’allargamento avrebbe comportato effetti positivi sulle relazioni intertedesche e sui rapporti con l’Est europeo e si batterono per favorire l’ingresso, oltre che del Regno Unito, dell’Irlanda e dei paesi scandinavi, Svezia e Norvegia comprese.

Fu K. a promuovere al Vertice di Roma del maggio 1967 il rilancio del progetto di Cooperazione politica europea, prospettando l’istituzione di un gruppo di esperti incaricati di preparare “posizioni comuni” sui temi internazionali per gli incontri tra i capi di Stato e di governo. Cercò anche di portare avanti una serie di proposte miranti alla costituzione di una politica di difesa europea e di standardizzazione degli armamenti e della ricerca tecnologica (parallelamente, Francia e Germania decisero proprio allora di varare il consorzio Airbus). Questo insieme di iniziative gli valse la fiducia di de Gaulle, in misura superiore al filoamericano Erhard, ma egli non riuscì a impedire che il dissenso francese su modalità e limiti delle consultazioni preventive portasse a una nuova crisi della Comunità nel febbraio 1969.

A quella data la parabola di K. era già entrata nella fase terminale e gli ultimi mesi di governo furono segnati da una lotta politica interna che lasciava poco spazio alla vocazione europeista degli inizi. Come de Gaulle, K. fu travolto da un clima di protesta che non aveva cause profonde salvo una diffusa voglia di cambiamento dell’elettorato. Ma se per i francesi si trattava di sostituire un padre nobile, ormai troppo ingombrante, per mantenere fondamentalmente la sua politica, nel caso tedesco il tramonto di K. fu causato dall’emergere di una maggioranza alternativa che avviava veramente la Repubblica federale sulla strada dell’alternanza. A tutt’oggi, la legislatura della grande coalizione è stata la più breve (33 mesi) nella storia parlamentare federale e l’uomo che l’ha guidata il meno longevo, politicamente, tra i cancellieri tedeschi del dopoguerra. Singolare destino di uno statista che ha lasciato traccia di sé più nella messa a punto dei meccanismi comunitari che nel cuore e nella memoria dei contemporanei e dei cittadini europei.

Maurizio Serra (2010)




Kinnock, Neil

K. (Tredegar, Galles 1942) nacque da Gordon Kinnock, dapprima minatore in una cava di carbone e poi, contratta una grave malattia professionale, operaio in un’acciaieria, e da Mary Howells, infermiera di quartiere. La condizione sociale e le preferenze politiche della famiglia, unite all’appartenenza a una comunità fortemente intrisa di tradizioni, valori e ideali socialisti, furono determinanti nell’orientarne convinzioni e scelte. Complice il fascino su di lui esercitato dal deputato locale Aneuran Bevan, K. decise infatti di iscriversi al Partito laburista all’età di soli quindici anni. Nel frattempo ottenne un posto presso la scuola Lewis di Pengam, dove condusse e in seguito portò a termine i propri studi superiori. Nonostante risultati scolastici non sempre brillanti, e nonostante serie tentazioni di accettare un lavoro alle miniere di carbone o di arruolarsi nelle forze armate, K. optò infine per proseguire il proprio percorso di studi iscrivendosi all’University College di Cardiff.

Gli anni universitari, durati dal 1961 al 1965, furono decisivi per la sua formazione politica. Attraverso la partecipazione attiva al movimento studentesco, K. sperimentò infatti per la prima volta la pratica della propaganda, dell’organizzazione e della direzione politica, sviluppando spiccate doti oratorie, definendo i propri riferimenti ideologici e, soprattutto, cominciando a assumere precise responsabilità. In particolare, dopo essersi distinto nelle iniziative di protesta contro l’apartheid in Sudafrica e contro l’incarcerazione di Nelson Mandela, e dopo aver dato il proprio contributo alla campagna elettorale di James Callaghan durante le elezioni del 1964, K. venne nominato segretario dell’Associazione socialista dell’università e, successivamente, presidente dell’Unione studentesca di Cardiff. Nel 1965 conseguì una laurea in relazioni industriali e storia, seguita da un diploma postlaurea in scienze dell’educazione nel 1966. Terminati gli studi, iniziò a lavorare presso l’Associazione per la formazione dei lavoratori, in cui svolse i compiti di insegnante di economia e, successivamente, di direttore degli studi sulle politiche industriali e sindacali. La breve ma intensa militanza politica, il protagonismo all’interno del movimento studentesco e la buona reputazione acquisita nell’ambito della sua professione convinsero presto i dirigenti locali del Partito laburista a proporre la sua candidatura alla Camera dei Comuni. In particolare, dopo aver superato la concorrenza del rappresentante del Sindacato nazionale dei minatori, K. riuscì a ottenere la possibilità di contendere un seggio parlamentare nel collegio elettorale di Bedwelty, una circoscrizione tradizionalmente appannaggio dei laburisti nel Galles del sud. Durante le elezioni generali del 1970, K. ottenne così un seggio alla Camera dei Comuni e, dopo aver lasciato il proprio lavoro presso l’Associazione per la formazione dei lavoratori, dette definitivamente avvio alla propria carriera parlamentare e politica.

Durante la sua prima legislatura, K. si schierò apertamente con la corrente di sinistra del Partito laburista raccolta attorno al quotidiano “Tribune” e, oltre che per una attenta cura dei rapporti con il collegio operaio di Bedwelty, scelse di caratterizzarsi per una opposizione particolarmente dura contro la maggioranza conservatrice, e per una spiccata attenzione alle questioni del disarmo nucleare e dei diritti sindacali e socio-sanitari. Parallelamente, in linea con la posizione della maggioranza del Partito laburista, K. assunse un atteggiamento nettamente contrario alla scelta di adesione della Gran Bretagna alle Comunità europee. Nella sua visione, la soluzione comunitaria costituiva un inaccettabile rischio per la sovranità e per l’identità britanniche e, soprattutto, una pericolosa minaccia alle conquiste sociali e sindacali dei lavoratori britannici. Secondo K., l’impianto sovranazionale e liberista delle Comunità europee si poneva naturalmente in antitesi alla concezione socialista dei rapporti democratici e delle relazioni industriali.

Con la vittoria laburista alle elezioni generali del 1974, iniziò la seconda legislatura di K. e, con questa, la sua ascesa nel paese, nella Camera dei Comuni e nel partito. Le sue apparizioni televisive e le sue presenze a assemblee di partito e di sindacato si moltiplicarono. Crebbe la sua fama di popolare e intransigente rappresentante dell’ala operaista del Partito laburista, alimentata dalle sue continue critiche al socialismo conservatore dei governi di Harold Wilson e Callaghan, e rafforzata dalla sua scelta di non accettare incarichi ministeriali a eccezione di un breve periodo come segretario speciale, in qualità di membro della Camera dei Comuni, presso il ministero del Lavoro guidato da Michael Foot. Aumentò il suo prestigio parlamentare e politico, grazie ai suoi interventi nelle commissioni per le spese pubbliche e per le industrie nazionalizzate e, soprattutto, grazie al suo efficace impegno contro la legge sulla devoluzione nella campagna referendaria in Galles nel 1979. Si consolidò infine il suo peso nel partito attraverso la nomina a membro del Comitato esecutivo nazionale del Partito laburista nel 1978.

Nel frattempo, K. continuò a sostenere una linea apertamente antieuropeista, sia nell’ambito della commissione parlamentare per la legislazione europea, sia in occasione della campagna referendaria sulla prosecuzione della partecipazione del Regno Unito alle Comunità europee (v. Comunità europea del carbone e dell’acciaio; Comunità economica europea; Comunità europea dell’energia atomica) condotta nel corso del 1975. La sconfitta del Partito laburista alle elezioni generali del 1979 coincise però con l’avvio di un progressivo riposizionamento nel suo pensiero e nella sua azione politica. In effetti, K. continuò a militare nella corrente di sinistra del Partito laburista, impegnandosi soprattutto in una dura battaglia politica e parlamentare contro la scelta del primo ministro Margaret Thatcher di coinvolgere il paese nella guerra delle Falkland. Parimenti, sostenne la strategia di ricollocazione dello stesso Partito laburista su posizioni più radicali, e appoggiò la conseguente decisione che portò Michael Foot, capo della sinistra laburista, alla guida del partito al posto di Callaghan nel 1980.

Tuttavia, diverse iniziative politiche e diverse prese di posizione assunte da K. in questo periodo costituirono i prodromi della sua futura rottura con la sinistra politica e sindacale del partito. La scelta di rinunciare alla propria volontaria condizione di membro della Camera dei Comuni senza incarichi governativi e di accettare la carica di portavoce laburista e di ministro ombra dell’Istruzione offertagli da Callaghan nel 1979 crearono le prime divergenze. Le sue denunce contro la demagogica promessa di poter ripristinare le spese educative, sanitarie e sociali tagliate dal governo conservatore gli attirarono critiche e sospetti. Infine, la decisione di opporsi alla candidatura di Tony Benn e di sostenere la candidatura alternativa di Denis Healey alla vicepresidenza del Partito laburista nel 1981, determinarono una vera e propria spaccatura nella sinistra del Partito laburista.

Ciononostante, dopo la durissima sconfitta laburista alle elezioni generali del 1983, Michael Foot decise di designare proprio K. alla sua successione, e il partito e i sindacati risposero assegnandogli il 71,3% dei propri consensi. K. divenne in questo modo il più giovane segretario nella storia del Partito laburista britannico e, in questa veste, il più giovane vicepresidente nella storia dell’Internazionale socialista. La prima fase della segreteria di K. fu dominata da una prosecuzione dell’attività di opposizione contro il governo conservatore di Margaret Thatcher ma, soprattutto, da una nuova e dura lotta interna contro gli esponenti, le posizioni e i metodi della corrente di sinistra del partito. Da una parte, K. si contrappose frontalmente al Sindacato nazionale dei minatori, e alla linea dura adottata dal suo segretario Arthur Scargill contro le ristrutturazioni imposte dal governo conservatore al settore minerario. Dall’altra parte, sfidò invece il gruppo radicale Militant di Liverpool e la sinistra laburista di Londra. Contemporaneamente, forte della fiducia della maggioranza del partito e del positivo esito di importanti elezioni amministrative, K. dette avvio a una prima revisione delle strategie politiche e comunicative del laburismo britannico.

In particolare, su consiglio del nuovo direttore della comunicazione Peter Mandelson, K. decise di avvicinare il Partito laburista alle socialdemocrazie continentali, inserendo la rosa nel simbolo del partito e, soprattutto, inaugurando una inedita politica filoeuropeista. Per la prima volta, il Partito laburista riconosceva pienamente non solo il valore positivo delle Comunità europee, ma anche il valore strategico che assumeva la scelta comunitaria per la Gran Bretagna. Da quel momento, il Partito laburista si sarebbe caratterizzato come il principale partito europeista del Regno Unito. Il processo di innovazione si rafforzò ulteriormente dopo la sconfitta alle elezioni generali del 1987 in cui il Partito laburista, pur perdendo, consolidò il proprio ruolo di seconda forza del panorama politico britannico sull’agguerrita alleanza tra socialdemocratici e liberali. Superata la concorrenza di Tony Benn per la guida del partito nel 1988, K. portò a maturazione le linee di rinnovamento organizzativo e programmatico avviate nella fase precedente. Adottò importanti riforme interne per limitare il peso della corrente di sinistra e dei sindacati. Innovò ulteriormente le tattiche di comunicazione politica. Marginalizzò e infine espulse il gruppo radicale Militant. Modificò i tradizionali referenti sociali del laburismo britannico, rivolgendo i propri appelli non più alla classe operaia, ma a un generico ceto medio. Rinunciò alle battaglie per il disarmo unilaterale, per le nazionalizzazioni e per un alto livello di spesa e di protezione sociale e mutuò una serie di posizioni di impianto tradizionalmente conservatore sui temi della difesa, delle privatizzazioni, della tassazione e delle relazioni industriali. Infine, seguendo le ricette di Anthony Crosland, abbandonò definitivamente la parola d’ordine della proprietà pubblica dei mezzi di produzione per assumere il più vago obiettivo dell’equità.

Quando si presentò alle elezioni generali del 1992, il Partito laburista era ormai un soggetto politico profondamente diverso nei suoi assetti organizzativi e nella sua proposta programmatica. Tuttavia, nonostante i buoni risultati di importanti elezioni locali, e nonostante l’uscita di scena di Margaret Thatcher e l’avvento di John Major alla guida del Partito conservatore, K. fallì nuovamente nel tentativo di riportare il Partito laburista alla vittoria. Seppure con uno stretto margine di voti e di seggi, i laburisti furono sconfitti e K. fu costretto alle dimissioni dalla segreteria del partito e dalla vicepresidenza dell’Internazionale socialista. A questo punto, pur continuando a ricoprire il ruolo di deputato presso la Camera dei Comuni, K. uscì temporaneamente dalla politica attiva per ritagliarsi un piccolo spazio di ospite fisso in una trasmissione della BBC gallese, e per intensificare il proprio impegno nel Consiglio consultivo dell’Istituto per la ricerca sulle politiche pubbliche che aveva contribuito a far nascere negli anni Ottanta.

Gli sforzi di K. per traghettare il Partito laburista su una prospettiva più europeista disegnarono però una nuova traiettoria nella sua carriera politica. Nel 1994, infatti, egli rassegnò le proprie dimissioni dalla Camera dei Comuni e, nel 1995, entrò a far parte della Commissione europea presieduta da Jacques Santer con delega ai trasporti. Successivamente, in seguito alle dimissioni dell’intero esecutivo comunitario nel 1999, fu nuovamente nominato nella Commissione europea presieduta da Romano Prodi in qualità di vicepresidente. In particolare, K. ricevette il delicato compito di portare a termine una riforma amministrativa capace di evitare il ripetersi degli episodi di abusi, corruzione e nepotismo che avevano portato alle dimissioni della precedente Commissione europea (v. anche Cresson, Édith). Pur dimostrando un indubbio attaccamento alle Istituzioni comunitarie, e una discreta efficacia nella sua opera di ammodernamento dei meccanismi amministrativi, K. si distinse per una certa insofferenza verso le soluzioni maggiormente sovranazionali prospettate nel corso del processo di costituzionalizzazione dell’Unione europea.

Alla scadenza naturale del proprio mandato, K. tornò in Gran Bretagna per essere insignito del titolo di Barone Kinnock di Bedwelty della contea di Gwent dalla regina Elisabetta II, e per essere nominato membro della Camera dei Lord. In questo nuovo ruolo, che ricopre dal 2005, K. si è caratterizzato per un’attenzione particolare ai temi dell’università e della ricerca e, soprattutto, per un forte sostegno alla necessità di proseguire il cammino dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

S. Paoli (2009)




Kirchschläger, Rudolf

K. (Niederkappel 1915-Vienna 2000), rimasto orfano all’età di undici anni, si fece largo tra le difficoltà della vita con una tenacia e una forza d’animo che in seguito sarebbero divenute proverbiali.

Terminati con merito gli studi superiori nel 1935 si iscrisse all’università di Vienna, dove, grazie a una borsa di studio, poté frequentare la facoltà di Giurisprudenza. In seguito all’annessione dell’Austria alla Germania nel 1938, rifiutò di iscriversi al Partito nazionalsocialista, perdendo così il diritto al sussidio. Il venir meno di questo sostentamento lo obbligò ad abbandonare gli studi e a trovare lavoro come impiegato in banca.

Sin dallo scoppio della Seconda guerra mondiale servì nell’esercito, combattendo prima in Polonia, poi sul fronte occidentale e infine su quello orientale. Alla fine del 1940 sfruttò un permesso premio di due mesi per concludere gli studi universitari. La speranza di essere esonerato dal servizio militare fu però vana: con l’attacco della Germania all’Unione Sovietica K. fu inviato sul fronte orientale, dove fu ferito gravemente nel 1942. Rientrato in Austria, fu promosso capitano e divenne ufficiale istruttore all’accademia militare di Vienna-Neustadt. Tornò poi tra le truppe combattenti e sul finire della guerra, nell’aprile 1945, fu ferito gravemente in uno scontro con militari sovietici, riportando una grave lesione a una gamba, dalla quale non si sarebbe mai completamente rimesso.

Alla fine della guerra K. divenne giudice distrettuale prima a Langenlois e poi a Vienna. La svolta nella sua carriera avvenne nel 1954, quando ebbe l’opportunità di entrare al ministero degli Affari esteri come responsabile della divisione giuridica. Riuscendo a superare rapidamente alcune sue carenze nelle competenze necessarie a operare in quella amministrazione, in particolar modo quella relativa alla conoscenza della lingua inglese, si lanciò verso una brillante carriera in diplomazia. Dopo aver partecipato ai negoziati per il Trattato di Stato e alla redazione della legge di Neutralità, ricoprì incarichi via via più importanti. Ambasciatore in Cecoslovacchia dal 1967 al 1970, acquisì grande notorietà per la sua condotta durante la primavera di Praga: sebbene avesse ricevuto dal ministero degli Affari esteri, il futuro Presidente della Repubblica Kurt Waldheim, l’ordine preciso di non interferire nelle vicende interne del paese e di non aiutare in alcun modo i rivoltosi, K. aveva fraternizzato con essi e aveva fornito visti per l’Austria a diversi perseguitati. Conclusa la missione in Cecoslovacchia il cancelliere Bruno Kreisky lo volle come membro indipendente del governo monocolore socialista da lui presieduto. Gli fu affidato il dicastero degli Affari esteri, che tenne dal 1970 al 1974.

Sebbene non fosse iscritto al alcun partito, nel 1974 K. si presentò alle elezioni presidenziali come candidato socialista. La vittoria, ottenuta con il 51,7 per cento dei suffragi, fu favorita dalla divisione interna alla Österreichische Volkspartei, che non sostenne fino in fondo il suo candidato, il borgomastro di Innsbruck Alois Lugger. Nel corso del primo mandato presidenziale K. si fece stimare dalla stragrande maggioranza degli austriaci, che ne apprezzavano l’integrità morale come le doti umane e politiche. Nelle elezioni del 1980 si confrontò con candidati deboli: il diplomatico Willfried Gredler, appoggiato dai liberali, e l’estremista di destra Norbert Burger. L’appoggio congiunto di socialisti e popolari, nonché l’amore del popolo austriaco, gli garantirono una percentuale di voti di poco inferiore all’ottanta per cento, il consenso più alto mai registrato nelle elezioni presidenziali. Nel corso dei suoi due mandati, K. si è attenuto ai principi di indipendenza e terzietà rispetto alla dialettica politica, accentuando quella tendenza verso la depoliticizzazione della carica presidenziale che si è interrotta solo con l’elezione di Thomas Klestil.

Federico Niglia (2012)




Kissinger, Henry Alfred

Scienziato politico statunitense di origine tedesca, consigliere per la Sicurezza nazionale dal 1969 al 1975 e segretario di Stato dal 1973 al 1977, nelle amministrazioni dei presidenti Richard Nixon e Gerald Ford, K. (Fürth, Baviera 1923) è tra i più noti e influenti intellettuali americani dell’ultimo secolo. Nella sua attività politica così come in quella di studioso, K. si propose di inaugurare un approccio alla politica estera dichiaratamente “realista”, rigettando il tradizionale “idealismo” statunitense, ritenuto responsabile di quella tendenza alle “crociate globali” incappata fatalmente nel dramma della guerra in Vietnam. A K. la storiografia ha solitamente riconosciuto, pertanto, il tentativo di espungere dalle relazioni internazionali dell’età bipolare ogni preconcetto ideologico e morale e di considerare i rapporti tra Stati Uniti e Unione Sovietica semplicemente alla stregua di quelli tra due grandi potenze. Di qui è nata l’immagine di K. quale Metternich o Bismarck dell’era nucleare, “mente europea della politica americana”. A ben vedere, tuttavia, il legame tra le sue idee e le precedenti coordinate ideologiche statunitensi della Guerra fredda è assai più stretto di quanto si possa desumere da tale immagine.

Ebreo tedesco, K. abbandonò con i propri familiari la Germania nel 1938 a seguito delle persecuzioni naziste, e si trasferì oltreoceano, cambiando il proprio nome da Heinz a Henry. Studiò al City College di New York e nel 1943 entrò nell’esercito. Naturalizzato statunitense, trascorse tre anni in Europa, di cui due nella Germania occupata, dove lavorò per l’intelligence dell’esercito. Grazie ai benefici riservati ai veterani di guerra poté poi proseguire gli studi a Harvard. Qui, mettendo in evidenza le proprie doti organizzative, ottenne la direzione di un International seminar, che si rivolgeva a visitatori estivi provenienti da paesi di interesse strategico e ideologico, come l’Italia, la Germania Ovest, la Finlandia e la Iugoslavia (l’iniziativa ricevette finanziamenti importanti da istituzioni come la Ford Foundation e pure, attraverso organizzazioni di facciata, dalla CIA). Nel contempo preparò una tesi di dottorato sulle relazioni internazionali nell’Europa dell’Ottocento, concentrandosi in particolare sull’attività diplomatica di Metternich e di Castlereagh, dei quali mise in luce soprattutto le grandi capacità di persuasione e di manipolazione.

In un contesto accademico altamente competitivo come quello di Harvard, dunque, K. rinunciò a misurarsi con gli altri studiosi direttamente su temi legati alle vicende politiche contemporanee, preferendo dedicarsi a una ricerca storica dalla quale riteneva si potessero trarre preziosi insegnamenti per il presente. Iniziò così a costruire un’immagine di sé quale esperto della sottile e complessa arte diplomatica europea, di fronte a un’America ancora giovane e immatura nella concezione delle relazioni internazionali. Gli Stati Uniti, a suo avviso, dovevano guardare al vecchio continente, alla sua esperienza e al suo cinismo, per imparare ad affrontare i delicati problemi dell’ordine mondiale. L’idea di Europa da lui proposta, caratterizzata dalle acrobazie diplomatiche e dal ricorso alle tattiche più spregiudicate per salvaguardare gli interessi nazionali, rispondeva in realtà perfettamente a una visione stereotipata statunitense. Ciò comunque gli consentì di iniziare ad accreditarsi quale “mente europea”, e pensatore “realista” in un paese il cui idealismo si era ormai dimostrato inidoneo a fronteggiare le sfide poste dal nuovo scenario globale.

Terminata la propria esperienza a Harvard, K. accettò l’invito a dirigere un gruppo di ricerca presso il Council on foreign relations, prestigiosa istituzione newyorkese, uno dei più influenti think tank per la politica estera. Frutto di quell’incarico fu il volume Nuclear weapons and foreign policy (1957), il cui successo consentì all’autore di accreditarsi definitivamente quale esperto delle relazioni internazionali e dei problemi relativi alla sicurezza nazionale. Nel suo lavoro egli presentava una dottrina strategica in base alla quale le armi nucleari, abbandonati gli estremi della rappresaglia totale e dell’inazione, potevano offrire nuove opportunità. In tale prospettiva gli Stati Uniti, per non limitarsi a confidare passivamente nel potere intimidatorio dell’arsenale atomico, avrebbero dovuto accettare la nozione di “guerra nucleare limitata”: solo così, infatti, avrebbero potuto fare valere la propria superiorità, non solo di fronte al nemico sovietico, ma anche agli alleati europei. Nonostante l’ostentato realismo, dunque, il giovane studioso riconosceva altresì il valore simbolico dell’impegno anticomunista americano, inserendosi nel tradizionale solco culturale e ideologico della Guerra fredda.

Dopo il successo di Nuclear weapons and foreign policy, K. tornò a Harvard, dove gli venne affidata la direzione del Centro di studi europei. Era divenuto intanto uno dei più apprezzati commentatori di politica internazionale per importanti riviste come “Foreign Affairs”, “The New Republic” e “The New York Times Magazine”. In un nuovo libro, The necessity for choice (1961), pur attingendo nuovamente al bagaglio retorico dello studioso realista, avvertì i suoi lettori che, di fronte al vantaggio missilistico gradualmente maturato dall’URSS, gli Stati Uniti avrebbero dovuto rilanciare scelte interventiste di ampio raggio. L’autore tornava così alle prospettive globaliste tipiche del “liberalism della Guerra fredda” americano, che a parole aveva rigettato.

Pochi anni dopo, nel volume The troubled partnership (1965), commissionatogli dal Council on foreign relations nell’ambito di una grossa ricerca sulle relazioni euroamericane, K. sostenne che la leadership statunitense sull’Occidente si era rivelata debole e confusa. In prima battuta egli auspicava la formazione di una sorta di “Confederazione atlantica” che, pur nel rispetto delle prerogative dei singoli Stati sovrani, elaborasse una posizione comune nei negoziati con l’Unione Sovietica e garantisse pace e stabilità in Europa. A differenza di molti osservatori statunitensi, poi, espresse la propria ammirazione per Charles de Gaulle, il quale, a suo avviso, aveva manifestato preoccupazioni analoghe alle sue chiedendo una maggiore coordinazione delle politiche atlantiche. A ben vedere, però, K. riteneva che l’America non dovesse permettere al multilateralismo di minacciare la sua sovranità e libertà di azione. Reputava inoltre necessario guardare con attenzione ai progetti europeistici: un’Europa occidentale unita e forte sarebbe potuta infatti diventare per gli Stati Uniti un temibile competitore. L’autore era pertanto del parere che gli Stati Uniti dovessero limitarsi a sostenere il processo di integrazione del vecchio continente sul piano “filosofico” (v. anche Integrazione, teorie della). Per altro verso, comunque, egli non considerava neppure nell’interesse americano un’Europa troppo debole: ai suoi alleati Washington doveva poter demandare ruoli di responsabilità, purché venissero assunti in sintonia con le prospettive atlantiche.

Nel 1969, dopo una campagna elettorale incentrata inevitabilmente sulla politica estera (era in pieno corso la guerra in Vietnam), K. divenne consigliere per la Sicurezza nazionale del nuovo presidente, il repubblicano Richard Nixon. Insieme, essi stabilirono le nuove linee generali dell’impegno internazionale americano, prevedendo tra l’altro il dialogo con Mosca, l’avvicinamento alla Cina e la soluzione della crisi nel Sudest asiatico. K. abbandonò dunque le proprie tesi sulla “guerra nucleare limitata”, ritenendo ora necessario avviare negoziati con l’URSS, anche a causa dei costi sempre meno sostenibili della corsa agli armamenti. La “distensione” aveva inoltre l’obiettivo di stabilizzare il bipolarismo, di mettere fine alle spinte centrifughe di alcuni partner del vecchio continente e di consentire così agli Stati Uniti il consolidamento del loro primato nel blocco occidentale. Nella sua visione era soprattutto necessario scongiurare il pericolo che la Comunità europea costruisse la propria identità politica sulla base di posizioni “antiamericane” e si sottraesse alle proprie responsabilità atlantiche.

L’apertura alla Cina, uno degli aspetti più noti e caratterizzanti dell’era Nixon-K., venne analogamente concepita con particolare attenzione alle possibili ricadute “eurocentriche”. Nel 1971, per la prima volta dopo la fondazione della Repubblica Popolare Cinese, una missione diplomatica statunitense giunse a Pechino. L’anno seguente fu la volta della visita ufficiale del presidente Nixon. In realtà mancavano le condizioni per stringere dei veri e propri accordi tra i due paesi; tuttavia gli obiettivi antisovietici costituivano efficacemente un terreno comune. Nella visione kissingeriana, elaborata integralmente in ottica bipolare, la Cina doveva contribuire al contenimento dell’URSS e a evitare che un eventuale dominio assoluto sovietico in Asia inducesse qualche alleato degli Stati Uniti in Europa occidentale a cercare un accomodamento con Mosca. K. in ultima analisi, riponendo assai poca fiducia nei partner europei, temeva la “finlandizzazione” del vecchio continente (vale a dire la sua completa sottomissione all’influenza dell’URSS).

Suscitava inoltre una forte preoccupazione nel consigliere per la Sicurezza nazionale la cosiddetta Ostpolitik, ovvero l’apertura da parte di Willy Brandt, ministro degli Esteri e poi cancelliere della Repubblica Federale Tedesca, nei confronti della Germania orientale. Per K. la distensione rappresentava semplicemente una modalità di gestire meglio il bipolarismo; in Europa gli pareva si profilasse invece una differential détente, dalla quale vedeva discendere un possibile scardinamento di quell’assetto internazionale che egli si era pazientemente impegnato a consolidare. Ancora una volta il punto di partenza del suo ragionamento era la scarsa fiducia negli alleati europei: la Ostpolitik mirava a un ammorbidimento delle relazioni bipolari, ma K. temeva che ne derivasse un vantaggio per l’Unione Sovietica. Mentre Brandt sperava che la Repubblica Federale Tedesca potesse rivelarsi un “magnete” per l’Europa orientale, egli non era certo di quale delle due parti avrebbe “davvero costituito il magnete”.

Nel maggio del 1972 K. raggiunse uno dei risultati più significativi della sua attività diplomatica: l’accordo Strategic armaments limitations talks (SALT) con l’Unione Sovietica. I due paesi stabilirono insieme regole e numeri dei missili offensivi e dei sistemi di difesa. Si trattava di un’operazione di grande importanza, nuovamente nell’ottica di una stabilizzazione del bipolarismo, che otteneva infatti legittimità, in tal modo, dalla sua natura consensuale e distensiva.

All’inizio del 1973 K. (che a settembre avrebbe assunto anche la carica di segretario di Stato) annunciò l’apertura dell’“Anno dell’Europa”. Ora, dunque, il sostegno ai progetti europei di integrazione pareva andare oltre quel livello puramente “filosofico” teorizzato in precedenza. Sennonché egli ribadì che l’unificazione del vecchio continente non sarebbe dovuta avvenire a spese della comunità atlantica. Si stava profilando, a suo avviso, la tendenza da parte degli europei a costruire la propria identità comune sulla base dell’esclusione degli americani dalle loro decisioni: la consultazione dell’alleato d’oltreoceano veniva spesso effettuata solo “a fatto compiuto” e risultava così prosciugata di ogni contenuto. Per K., in ultima analisi, atlantismo ed europeismo si rivelavano sempre meno complementari.

Anche la sofferta questione vietnamita venne affrontata nella prospettiva del mantenimento della struttura mondiale bipolare. All’insediamento nel 1969 della nuova amministrazione alla Casa Bianca, era già chiaro che gli Stati Uniti avrebbero dovuto accettare di ritirarsi dal Sudest asiatico. Tuttavia Nixon e K. optarono per un lento disimpegno, che si protrasse per quattro anni e previde innanzitutto una “vietnamizzazione” del conflitto, vale a dire l’addestramento e il rafforzamento dell’esercito del Vietnam del Sud in modo da trasferire su di esso la responsabilità bellica. Obiettivo era quello di evitare che precipitosi accordi di pace minassero la credibilità internazionale statunitense. A dispetto dell’ostentato realismo, dunque, K. continuava ad assegnare una notevole importanza ai fattori “simbolici” della Guerra fredda. Il suo impegno per porre fine alla crisi nel Sudest asiatico, comunque, gli valse il premio Nobel per la pace nel 1973.

Nello stesso anno K. fu al centro della controversa politica statunitense in Cile, che contribuì alla presa del potere da parte di Augusto Pinochet. K. negoziò inoltre il cessate il fuoco nella quarta guerra arabo-israeliana (detta dello Yom Kippur, perché iniziata in coincidenza con l’omonima festività ebraica). Il conflitto era stato causato da un attacco simultaneo di Egitto e Siria a Israele. Dopo avere subito gravi perdite, gli israeliani erano riusciti a reagire e a contrattaccare, occupando diversi territori al di là dei propri confini, parte dei quali venne restituita ai vicini arabi anche grazie all’intervento diplomatico americano.

Con l’elezione del democratico James Earl Carter, K. perse quel ruolo di protagonista della vita politica americana che aveva ricoperto ininterrottamente durante le presidenze di Nixon e Ford. Non lo riconquistò neppure quando i repubblicani tornarono al potere: negli anni di Ronald Reagan gli furono infatti affidati solo incarichi di secondaria importanza. Nel frattempo però egli non abbandonò la propria intensa attività di scrittore e commentatore politico, spaziando dalle memorie della sua esperienza diplomatica a riflessioni di carattere teorico.

Nel 2001 K. diede alle stampe il libro Does America Need a foreign policy? Toward a diplomacy for the 21st century. Ancora una volta egli formulava una propria versione dell’ideologia nazionalistica americana rivestendola delle forme del realismo. Criticò la presidenza democratica di Bill Clinton, che a suo avviso, abusando di concetti ambigui come quelli di “intervento umanitario” e di “giurisdizione universale”, aveva perso di vista l’obiettivo fondamentale, vale a dire la promozione di un sistema internazionale favorevole agli interessi statunitensi. Distinse inoltre, nello scenario mondiale postbipolare, quattro sistemi internazionali. Il primo era quello occidentale, ovvero una comunità di sicurezza fondata su pace, democrazia e mercato, i grandi valori politici promossi dall’America. Il secondo era quello vigente in Asia: si trattava, secondo K., di una riproposizione del vecchio modello europeo ottocentesco dell’equilibrio di potenza. Vi era poi, procedendo in ordine discendente quanto a stabilità e sicurezza, il teatro mediorientale, che l’autore accostava a quello europeo prewesftaliano, caratterizzato da un elevato tasso di conflittualità. L’Africa si trovava, infine, nella condizione peggiore, esito del disastroso fallimento del processo europeo di decolonizzazione. L’analisi di K. tendeva pertanto a valorizzare il contributo americano alla costruzione del più stabile e promettente sistema internazionale, mettendolo a confronto con i precedenti, imperfetti, modelli derivati dalle esperienze del vecchio continente.

Giovanni Borgognone (2012)