L’Europa

“L’Europa”, settimanale di politica, economia e cultura, nacque nel settembre 1967 per iniziativa di Angelo Magliano, giornalista professionista, con lo scopo di contribuire alla formazione di una coscienza europea nell’opinione pubblica italiana attraverso una maggiore conoscenza della vita istituzionale, politica, sociale e culturale della Comunità.

Magliano maturò il proprio europeismo durante l’esperienza antifascista e la Resistenza. Negli anni Trenta aveva costituito, insieme a Felice Cascione, Alessandro Natta, Giovanni Strato e altri, un gruppo di studenti antifascisti, eterogeneo sotto il profilo ideologico. In particolare, Magliano (“Fabrizio”), trasferitosi a Milano, aveva curato i rapporti fra questa città e i resistenti attivi nell’imperiese; successivamente, era entrato in contatto con l’organizzazione “Franchi”, guidata da Edgardo Sogno.

All’epoca del lancio de “L’Europa” l’attività giornalistica di Magliano era ormai consolidata. Il 22 aprile 1945, a Milano, aveva dato vita con Sogno alla rivista “Costume”, quindicinale di politica e cultura al quale collaborarono firme prestigiose (Umberto Segre, Mario Luzi, Indro Montanelli, Alberto Moravia, e il genovese Francesco Manzitti). Era stato direttore del liberale “Corriere Lombardo”, erede del “Giornale Lombardo-Corriere Alleato”, aveva collaborato con Indro Montanelli all’organo della curia ambrosiana, “L’Italia”. Sempre a Milano, strinse amicizia con Enrico Serra; quando Aldo Garzanti gli propose la direzione de “L’Illustrazione Italiana”, uno dei più antichi e autorevoli settimanali italiani, Magliano affidò a sua volta il commento di politica estera a Serra. Date le crescenti difficoltà finanziarie della rivista, Magliano dovette passare all’ANSA, prima come vicedirettore responsabile e poi come direttore. Per dare un riconoscimento internazionale all’Agenzia, decise di aprire dapprima un ufficio a Londra – affidandolo a Serra – e, nel 1956, potenziò la sede di Parigi, sempre grazie a Serra, per seguire da vicino le tappe del processo d’integrazione europea (l’ufficio parigino, infatti, copriva anche Lussemburgo, Belgio e Paesi Bassi) (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). In seguito alla decisione di candidarsi nel 1958 nelle file del partito liberale ligure (dove non fu eletto), il consiglio di amministrazione dell’ANSA lo rilevò dall’incarico. Dopo una breve permanenza al genovese “Corriere Mercantile”, in qualità di direttore (10 febbraio 1959-27 marzo 1962) Magliano approdò al “Giornale d’Italia” (1° aprile 1962-31 luglio 1966), il quotidiano del pomeriggio fondato a Roma nel 1901 da Sidney Sonnino e Alberto Bergamini.

Il pensiero europeistico di Magliano riveste senza dubbio grande interesse per il rapporto fra idea di nazione e idea d’Europa. Secondo Magliano, infatti, non si poteva condividere il punto di vista secondo il quale l’Italia, non avendo una concezione forte dello stato nazionale, era maggiormente predisposta nei confronti dell’unificazione del continente. La mancanza di un giusto senso nazionale e statuale, invece, si traduceva inevitabilmente in un’idea di Europa confusa e astratta. Il concetto di nazione andava rivissuto in ambito comunitario, adeguandolo ai tempi moderni; mentre il nazionalismo perverso e guerrafondaio andava certamente combattuto, il sentimento positivo della nazione non doveva essere rinnegato, ma superato nello spirito europeista e comunitario, generando un nuovo sentimento di appartenenza. Per contribuire a far nascere tale consapevolezza, Magliano cooptò personalità di provato sentimento europeista e indiscussa levatura, coinvolgendo anche uomini politici. Fra i principali collaboratori della rivista, vanno ricordati, fra gli altri: Leo Valiani, Giuseppe Petrilli, Enrico Serra, Mario Zagari, Andrea Chiti-Batelli, Enzo Martino, Achille Albonetti, Gianni Agnelli, Maria Romana Catti De Gasperi, Hendrik Brugmans e molti conterranei di Magliano, come Carlo Russo, Lazzaro Maria De Bernardis, Fausto Cuocolo (ferventi europeisti) e Adriano Sansa (futuro sindaco di Genova). Un particolare rilievo merita la figura del genovese Emanuele Gazzo, direttore della “Agence Europe”, l’agenzia di stampa europea fondata a Lussemburgo nel 1953 dal presidente dell’ANSA Ludovico Riccardi, che curò la rubrica “Diario da Bruxelles” e numerosi approfondimenti a favore del processo d’integrazione.

Il periodico, sobrio e ben curato seguiva da vicino le principali vicende politiche italiane proiettandole nel più ampio contesto europeo e mondiale. Accanto alle sezioni di politica ed economia, includeva rubriche di letteratura, arte e cinema per dare concretezza alla societas europea. Nel numero di saggio (settembre 1967) una nota ai lettori spiegava che l’avvenire dell’Italia era in quello dell’Europa e che il periodico intendeva interpretare queste esigenze e speranze comuni. Dal momento che il mondo era ormai costituito da grandi complessi – come USA, URSS, Cina, Africa nera e America latina – anche i popoli europei potevano contare solo se uniti. Veniva sancito così il primato dell’integrazione politica su quella economica, perché non ci si limitasse alla costruzione di un grande mercato, ma all’edificazione di una nuova grande patria democratica.

La rivista esordì negli anni cruciali dei negoziati per l’adesione del Regno Unito e del piano di Charles de Gaulle. Sosteneva una strategia europea, che puntasse a trasformare la Comunità, saldamente coesa, in un alleato “vero” degli Stati Uniti, forte della propria tradizione storica e culturale, con un’autorità e responsabilità effettive. Le dichiarazioni europeistiche non dovevano costituire un mero rituale, ma trasformarsi in una volontà autentica, capace di superare le crisi. Dopo il Vertice dell’Aia, nonostante i progressi compiuti sul piano delle alte sfere politiche, bisognava puntare sull’adesione degli individui e delle collettività perché, se essa fosse venuta a mancare, l’Europa non avrebbe potuto andare avanti.

Durante i difficili anni Settanta, sconvolti da contestazioni e attentati, l’unione politica dell’Europa era indicata come l’unica rotta da seguire affinché l’Italia non perdesse se stessa e la democrazia non venisse sopraffatta. L’integrazione europea comportava senza dubbio oneri gravosi per la penisola e l’Europa non poteva essere la panacea per tutti i mali, ma al di fuori di essa non c’era futuro. La contestazione studentesca venne letta da Magliano come risultato della mancanza di equilibrio fra autorità e libertà ed espressione dell’esigenza di fondare un’autorità nuova – quindi un’Europa rinnovata – profondamente democratica. Il primo allargamento fu salutato come una rinascita del continente e, in vista del Vertice di Parigi del 1972, si volle sottolineare, anche attraverso immagini fotografiche dal forte impatto emotivo, come l’ideale dell’Europa unita fosse nato proprio dagli orrori della Seconda guerra mondiale.

Le crisi monetaria ed energetica, il sostanziale fallimento del vertice di Copenaghen e delle soluzioni di compromesso, le profezie delle “Cassandre della cattiva coscienza”, come le definiva Gazzo, mettevano a dura prova la speranza nell’ideale dell’unità europea. Senza nascondere mancanze e debolezze – lo stesso pessimismo poteva essere un efficace antidoto contro un europeismo ritualistico e di maniera – il periodico spronava i suoi lettori a far tesoro degli errori e andare oltre, perché nonostante tutto la costruzione europea proseguiva e maturava.

Dopo una campagna lunga e tenace a favore dell’elezione diretta del Parlamento europeo (v. Elezioni dirette del Parlamento europeo), dalle pagine della rivista trasparì la delusione per l’andamento delle elezioni in Italia. Su di esse, infatti, aveva pesato l’abbinamento con le consultazioni nazionali, le quali avevano sminuito e mortificato il voto europeo. Gli stessi partiti non erano stati veramente in grado di discutere delle questioni europee; così l’Europa era passata in second’ordine, mentre la campagna elettorale avrebbe dovuto assumere un valore altamente didattico e orientativo. Tuttavia, anche queste elezioni avrebbero dato i loro frutti: il Parlamento europeo – secondo gli orientamenti del periodico – avrebbe visto ampliare e rafforzare il suo potere, la sua autorità, le sue prerogative, contribuendo a far sì che l’Europa unita si costituisse pienamente.

Nata come settimanale, la rivista si trasformò in quindicinale nel 1971, anno in cui anche il formato venne modificato, assumendo le dimensioni di un quaderno. Nel 1978 divenne mensile e fu arricchita con riproduzioni delle opere di un artista al quale ciascun numero veniva dedicato. Nel 1979, proprio al termine della battaglia per il Parlamento europeo, a causa di una grave situazione finanziaria che si trascinava da tempo, provocando anche ritardi nella pubblicazione, una delle più originali voci dell’europeismo italiano si spense definitivamente.

Simona Calissano (2012)




L’Express

L’Express, creato nel 1953, si trova a dover esprimere la sua opinione sulla costruzione europea a favore della crisi della Comunità europea di difesa (CED) nel 1954. Nel corso della sua storia questo settimanale ha affrontato i temi principali dell’integrazione europea (CED, Politica agricola comune o PAC, integrazione del Regno Unito, Mercato comune, questione tedesca, Allargamento, identità politica ed economica dell’Europa, governo, difesa, aggiustamenti costituzionali) (v. Integrazione, metodo della). Il dibattito su questi argomenti è caratterizzato da un certo numero di tratti salienti della rivista legati al suo metodo, ai suoi principi e alla sua storia. Quindi è opportuno ricordare che nel 1964 L’Express si trasforma in una rivista d’informazione sul modello del Time situandosi nel solco della sinistra, prima di vivere nel 1977 una crisi d’identità determinata dalla sua vendita e da un cambiamento di orientamento politico contrassegnato dal conservatorismo liberale. Queste diverse ispirazioni possono spiegare i cambiamenti di posizione, anche sfumati, dell’Express nei confronti dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della).

Il gruppo dell’Express si è mostrato diviso sulla questione della CED, fra sostenitori del progetto, avversari irriducibili del riarmo tedesco, e fautori di una soluzione preliminare del problema tedesco. I redattori hanno finito per schierarsi quasi tutti per il “no” per due ragioni principali: il demografo Alfred Sauvy riteneva che il divario derivante dal conflitto sulla CED avrebbe distolto da qualsiasi tipo di unione economica, necessaria all’Europa per affrancarsi dall’aiuto americano; peraltro, era acuta la consapevolezza della rottura che la CED rischiava di provocare con il Regno Unito, i paesi scandinavi e i territori dell’Union française. Questi argomenti, che nel 1954 avevano unito la redazione della rivista, nel novembre 1957 la dividono nuovamente, perché, applicati al Mercato comune, appaiono contraddittori. I sostenitori dei Trattati di Roma hanno avuto palesemente difficoltà ad esprimersi, perché la rivista ha lasciato spazio alle critiche sul Mercato comune. Quindi nel gennaio 1957 Pierre Viansson-Ponté pubblica un articolo in cui, pur riconoscendo i benefici derivanti da un’Europa unita, pone l’accento sulla marginalizzazione della Gran Bretagna e dei paesi d’oltremare, sui pericoli rappresentati dal Mercato comune per i lavoratori francesi e soprattutto sul fatto che un vero mercato comune presuppone la creazione di una comunità politica. Il settimanale ha sottolineato a lungo le incognite del Mercato comune e il metodo, ritenuto inefficace, dell’adozione del tramite economico per portare a termine una costruzione politica.

Questo relativo Euroscetticismo scompare negli anni Sessanta per effetto di una serie di fattori: la perdita degli ultimi territori che avrebbero dovuto costituire l’Union française, circostanza che vanifica una delle critiche formulate nei confronti della costruzione europea; la necessità di affrancare lo sviluppo dell’Europa dal dominio americano (Jean-Jacques Servan-Schreiber, fondatore dell’Express, pubblica Le défi americain nel 1967) e l’opposizione radicale alla politica gollista, ritenuta rigidamente nazionalista, che spinge il settimanale a schierarsi ancor più a favore dell’Europa e in particolare dell’adesione della Gran Bretagna. Nel 1965 la rivista delinea la sua definizione dell’Europa: uno «spazio economico organizzato», opposto a una «zona di libero scambio instabile, anarchica e dominata dalle industrie americane», e destinato a battersi ancor più profondamente contro «tutte le forze centrifughe, sia del nazionalismo che del liberalismo atlantico» (L’avenir de l’Europe avec De Gaulle, 20 settembre 1965). La politica detta «della sedia vuota» suscita le proteste dell’Express. Quest’episodio induce la rivista a tornare sul metodo con cui ha affrontato la questione dell’integrazione europea. L’approccio è stato caratterizzato dal suo aspetto tecnocratico: il potere in mano ai tecnici a discapito della vita politica nell’integrazione europea era percepito in senso positivo, come una garanzia di modernità e di successo. I blocchi tecnici creati dalla complessità dei Trattati e dei regolamenti dagli anni Sessanta spingono la rivista a criticare il tecnocratismo oscuro, che permette al generale Charles de Gaulle di spostare il dibattito con la Gran Bretagna sul terreno dei prezzi agricoli, ritenuto secondario rispetto alla posta politica rappresentata dall’ingresso di questo paese nel Mercato comune. Le discussioni avviate per la seconda volta nel 1967 sull’apertura dei negoziati con la Gran Bretagna segnano una ridefinizione degli obiettivi assegnati all’Europa dall’Express: l’argomentazione della rivista è fondata sul fatto che il dialogo con l’Inghilterra potrebbe orientare l’Europa verso il futuro, consentendole di distanziare la sua scelta di civiltà dal modello «giudicato troppo materialista e troppo duro della società americana» (editoriale di J.J. Servan-Schreiber, La deuxième Europe, 11 dicembre 1967). Dopo l’Europa del carbone e dell’acciaio (v. Comunità europea del carbone e dell’acciaio) dev’essere costruita una nuova Europa del moderno sviluppo tecnologico. In seguito alla firma del Trattato di adesione della Gran Bretagna alla Comunità economica europea (CEE), il 22 gennaio 1972, L’Express può considerare l’integrazione europea con maggiori ambizioni e auspicare la creazione di un meccanismo comune di intervento sul mercato dei cambi: «Bisogna rischiare il tutto per tutto. L’Europa si farà attraverso la moneta» (Europe, le grand quitte ou double, 24 gennaio 1972). Se pure il funzionamento del Serpente monetario europeo non risulta sempre pienamente soddisfacente, lo svolgimento delle prime Elezioni dirette del Parlamento europeo nel 1979, il consenso per il centrodestra che emerge dal voto e il rilancio di un Sistema monetario europeo incoraggiano L’Express a mostrarsi ottimista sulla futura evoluzione dell’integrazione europea.

Ma la crescita delle ambizioni comporta una crescita delle esigenze e una delusione tanto maggiore se queste esigenze non vengono rapidamente soddisfatte. Nel 1985 Jean-Claude Casanova scrive un editoriale intitolato L’Europe nécessaire (28 giugno 1985) in cui delinea un vero e proprio programma per far progredire l’Unione europea (UE). L’articolo esorta i dirigenti politici a promuovere una politica economica liberale per migliorare il funzionamento del mercato e realizzare entro il 1992 il grande mercato interno; di fatto, chiede una cooperazione più stretta in materia finanziaria e monetaria e una revisione della Procedura di decisione. In quest’occasione vengono introdotti per la prima volta nell’Express il tema del dibattito sulla regola del Voto all’unanimità e, malgrado il riconoscimento dell’utilità e dei benefici dell’allargamento mediterraneo, il problema di un’Europa a più velocità in cui un’integrazione economica più intensa sia inscindibile da un’integrazione tecnologica, militare e politica. Nei mesi che seguono la rivista giudica severamente quella che definisce mancanza di entusiasmo dei Dieci in merito al rilancio europeo e alla trasformazione delle Istituzioni comunitarie. Questa relativa delusione spiega come L’Express non dedichi una particolare attenzione al rilancio promosso da Jacques Delors e all’Atto unico europeo sottoscritto il 14 febbraio 1986. Da allora nella posizione dell’Express nei confronti dell’integrazione europea si sono mescolati filoeuropeismo ed europessimismo suscitati dalle realtà legate a quest’integrazione e la rivista si è adoperata per combattere l’ottimismo e il volontarismo chiedendo maggior riflessione e prudenza.

La complessità di questa posizione lascia alla rivista un margine di manovra angusto, quindi non deve stupire che la linea adottata negli anni Novanta talvolta appare ambivalente. Se prima del referendum sul Trattato di Maastricht L’Express respinge le critiche rivolte al trattato affermando che la sovranità francese non è affatto abbandonata nelle mani di un «areopago di tecnocrati» (editoriale Mauvais arguments, 27 agosto 1992), l’anno seguente si manifesta una delusione cocente di fronte alle molteplici dimensioni della crisi: crisi economica, guerra nella ex Iugoslavia, incremento dell’emigrazione clandestina che l’Unione europea non sembra in grado di gestire. Vengono messi sotto accusa anche il rischio di deriva verso una concezione ultra liberale dell’Europa e la banalizzazione del progetto europeo, che gradualmente si sta ripiegando sulla sola dimensione materiale, senza un obiettivo politico di ampio respiro. La denuncia di questa deriva appare sorprendente alla luce delle affermazioni pronunciate nel 1985 da Jean-Claude Casanova. In realtà gli anni Novanta per L’Express sono stati l’occasione per ribadire lo stretto legame fra il Mercato comune e la costruzione politica, contro gli egoismi nazionali e una concezione dell’Europa come semplice zona di libero scambio identificata con le posizioni britanniche ormai respinte. Un editoriale intitolato L’identité de l’Europe (11 novembre 1993) esprime sia la convinzione pessimista che l’introduzione della moneta unica sia ancora un’utopia, sia il riemergere nella rivista di un orizzonte più volontaristico che consiste nel cercare la ragion d’essere dell’Europa, al di là della preferenza economica e commerciale, e nel dare un contenuto politico più schietto all’integrazione.

I dibattiti degli ultimi anni dimostrano che L’Express non ha ancora risolto il problema della definizione dell’Europa che deve nascere dal processo di integrazione. Le inquietudini che scaturiscono dall’assenza di un governo economico si riflettono nelle questioni sollevate dalla rivista in occasione delle interviste a uomini politici; il silenzio mantenuto fino al 2002 sull’allargamento alle vecchie democrazie popolari e gli interrogativi legati alla candidatura della Turchia rivelano le apprensioni suscitate dall’allargamento in mancanza di un approfondimento istituzionale. Nel 1999 l’Europa a più velocità evocata nel 1985 si trasforma nella convinzione che un’Europa a geometria variabile sia necessaria per scongiurare la minaccia del gigantismo (v. Europa “a geometria variabile”). L’entusiasmo e il rinnovamento provocati dall’introduzione dell’euro si accompagnano al persistere delle stesse inquietudini, raddoppiate dal dubbio formulato nel 2001 in merito all’interesse di sottoporre a referendum questioni cruciali come l’integrazione fiscale e politica europee. L’Express si è spinto fino a chiedersi se fosse necessario proseguire sulla strada del Deficit democratico per far progredire l’Unione europea (dossier speciale economia: Vive l’euro!, 27 dicembre 2001), un atteggiamento che esprime la caratteristica essenziale della rivista nei riguardi dell’integrazione europea: il dinamismo e la reattività della rivista di fronte all’attualità dell’integrazione, senza posizioni prefissate, sono al tempo stesso anche la sua debolezza, rendendo spesso poco leggibili le sue posizioni e le sue convinzioni.

Anne-Sophie Nardelli (2001)




L’Observateur

Settimanale di sinistra “non allineato” vicino ai comunisti, “L’Observateur”, fondato nel 1950, comincia per associare l’Unione europea all’ideale del neutralismo, nel timore che l’Europa possa trasformarsi di nuovo in un campo di battaglia nel contesto delle tensioni Est/Ovest. Claude Bourdet, uno dei fondatori e redattori, scrive in “Combat” il 21 marzo 1948: «La neutralità europea è la migliore piattaforma d’unione per l’Europa» (cfr. Philippe Tetart, Histoire politique et culturelle de France Observateur, L’Harmattan, Paris 2000). Quindi la sensibilità politica della rivista, vicina al socialismo o addirittura al comunismo, la induce ad opporsi alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), concepita come uno strumento dei trust capitalisti e una rappresentanza dell’autorità americana. L’integrazione europea auspicata dall’“Observateur” passa attraverso la costituzione di una coalizione delle nazioni europee sotto l’egida della pace e del socialismo (v. anche Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Allo stesso modo il settimanale si oppone violentemente alla Comunità europea di difesa (CED), sotto il duplice effetto del timore per il risorgere del nazismo e per l’assoggettamento alle ambizioni americane. Queste due argomentazioni sono sollevate frequentemente da diversi organi di stampa, ma va sottolineato il radicalismo delle critiche dell’“L’Observateur” e il suo rifiuto di comprendere la difficoltà che comporta per l’Europa liberarsi della Guerra fredda. Tuttavia la crisi della CED permette al settimanale di definire un nuovo “europeanismo”, distinto dall’europeismo, termine che esprime piuttosto l’adesione alle istituzioni della Comunità economica europea (CEE) in seguito Unione europea (UE): “L’Europa nuova”, “l’Europa che vogliamo” sono i titoli che subentrano a “La truffa”, “Le loro Europe”. Questo “europeanismo” si sviluppa secondo due direttrici complementari: l’opposizione all’atlantismo e la visione tradizionale di un ideale europeo pacificatore e civilizzatore attraverso la rigenerazione delle sinistre. Dunque, da un lato, coesistono diffidenze e resistenze agli embrioni delle istituzioni europee messe in opera e, dall’altro, la convinzione che l’Europa possa essere il continente in cui si realizzerà il socialismo “della terza via”.

Queste due posizioni emergono nell’articolo pubblicato in “France Observateur” da Christian Hébert il 17 gennaio 1957, Les dangereuses illusions du Marché Commun, in cui si rimproverano al Mercato comune l’ispirazione estremamente liberale e soprattutto l’abuso di potere e di fiducia, che secondo l’autore dell’articolo consisterebbe nel far votare l’integrazione economica europea, dissimulando che avrebbe reso ineluttabile l’unione politica, sulla quale i cittadini non erano informati. A quest’articolo si affianca quello di Charles Bettelheim, apparso il 21 marzo e intitolato senza ambiguità Le Marché commun assurerait le triomphe du libéralisme et des monopoles, in cui si sottolinea come il movimento operaio – che secondo “France Observateur” dev’essere il perno dell’Unione europea – rischi al contrario di essere il grande sconfitto del Mercato comune.

L’avvio di un’evoluzione editoriale che conduce a un discorso più riformista e la speranza di recuperare l’integrazione europea a vantaggio dei lavoratori determinano dei cambiamenti nella visione dell’integrazione europea che il settimanale ha espresso fino ad allora. Questa circostanza dimostra quanto il tema dell’integrazione, che rivela il riesame delle questioni politiche all’interno della rivista, sia stato fondamentale per questa pubblicazione. Alla fine di marzo viene lanciata un’inchiesta dal titolo L’Europe. Quelle Europe?, incentrata soprattutto sull’europeizzazione del sindacalismo e delle lotte operaie. Le risposte avallano l’idea di “France Observateur” che l’integrazione europea sia ormai diventata irreversibile e che richieda un coordinamento politico e sindacale transnazionale allo scopo di promuovere il riformismo. Tuttavia la rivista insiste sull’aspetto transnazionale e non sovranazionale del suo progetto europeo: Gilles Martinet, uno dei fondatori e dei redattori più in vista, all’epoca è contrario a un’eventuale integrazione politica.

Al principio degli anni Sessanta le posizioni rivoluzionarie marxiste si smorzano definitivamente. Questo cambiamento, associato a difficoltà di ordine giuridico, determina nel 1964 la nascita del “Nouvel Observateur”, che comunque mantiene la sostanza del gruppo redazionale e dell’orientamento politico, seppur sfrondato dei riferimenti marxisti. Durante gli anni Sessanta il nuovo settimanale manifesta un minor interesse per l’integrazione europea e si limita ad assumere una posizione vigile reclamando una politica comune dirigista fondata sull’estensione dei settori pubblici per contrastare l’avanzata del liberalismo economico. Ma l’evoluzione dell’integrazione europea non asseconda le richieste della rivista e nel 1979, l’anno delle prime Elezioni dirette del Parlamento europeo, si registra un ritorno dell’interesse critico da parte del “Nouvel Observateur”. La pubblicazione di un articolo del socialista Michel Rocard (Les enjeux du 10 juin, 4 giugno 1979), in cui l’autore afferma che l’Europa economica concepita come uno «spazio keynesiano» rappresenta un «insuccesso» e che le recenti decisioni (elezione a suffragio universale di un’assemblea priva di reali poteri, allargamento mediterraneo, Sistema monetario europeo) non sono altro che una fuga in avanti di fronte a questo fallimento, dà il segnale del rinnovamento sui temi europei all’interno del settimanale. Il “Nouvel Observateur” sottoscrive tanto più il giudizio di Rocard in quanto la maggioranza di centrodestra uscita dalle elezioni non può che essere favorevole alla cosiddetta Europa “degli affari” e svantaggiosa per i lavoratori. Tuttavia il monito nei confronti di un nazionalismo che si credeva superato risuona nuovamente in una campagna che era stata incentrata sul problema nazionale dell’identità esagonale: al di là dei disaccordi sull’integrazione economica e sociale europea, il “Nouvel Observateur” riscopre le virtù politiche dell’Unione europea.

Questa linea filoeuropeista, a dispetto delle sfumature, è incarnata ancora ai nostri giorni dallo storico Jacques Julliard, i cui commenti alle elezioni del giugno 1979 meritano di essere riportati in extenso: “[il rifiuto della CED coincide con quello dell’] idea di un’Europa della Guerra fredda, apertamente sostenuta dagli Stati Uniti e dominata dai problemi militari […]. Oggi il risultato si è ribaltato e l’idea europea esce vittoriosa dalla consultazione popolare. Vittoria a forfait, senza dubbio, e non cavalcata trionfale: gli avversari dell’Europa non brandiscono altro che spettri e fantasmi. Come credere, in effetti, che ripiegarsi sull’Esagono possa rappresentare per i francesi la migliore opportunità per sottrarsi alla duplice egemonia americana e sovietica, a meno che non si rassegnino all’autarchia economica e all’autoritarismo politico?» (Naissance d’un espace politique, 18 giugno 1979).

Dopo un relativo silenzio negli anni Ottanta, questo avvertimento viene ripetuto come un leitmotiv durante la campagna precedente al referendum sul Trattato di Maastricht in Francia (20 settembre 1992). A questo proposito è interessante notare che gli articoli importanti del “Nouvel Observateur” sull’integrazione europea sono pubblicati tutti in occasione di consultazioni popolari democratiche e non al momento del lancio di politiche decise dalla Commissione europea o ispirate unicamente da esperti. La rivista ritiene da sempre che la consultazione democratica sia la sola valida pedagogia per l’integrazione europea. Per questa ragione, essendo consapevole delle poste in gioco, si pronuncia senza ambiguità a favore del “sì” al Trattato di Maastricht: Laurent Joffrin avverte gli eurofobi di sinistra che a forza di invocare il particolarismo francese avrebbero dato libero corso ad un nazionalismo sfrenato (cfr. Aux Cyranos de Maastricht, 17 settembre 1992), mentre Julliard smonta le argomentazioni dei “sovranisti” dimostrando che la sovranità non coincide con la democrazia e che lo Stato non coincide con la nazione (Lettre à un Français qui hésite encore, 10 settembre 1992). Il “Nouvel Observateur” individua le potenzialità politiche dell’Unione europea proprio nella sua capacità di non essere né uno Stato nazionale, né una federazione, ma una nuova entità politica. Pur non essendo perfetto, il Trattato incarna agli occhi dei redattori della rivista il progresso sociale e un ampliamento dello spirito pubblico verso poste in gioco maggiori di quelle strettamente nazionali.

La volontà di credere nell’integrazione europea viene palesemente disillusa e l’inizio degli anni 2000 è segnato per il “Nouvel Observateur” dal ritorno a un più marcato pessimismo. La realizzazione dell’Euro è considerata un successo, ma le divisioni dell’Europa messe in luce dal Vertice di Nizza nel dicembre 2000 e poi emerse di fronte alla guerra in Afghanistan vengono riscontrate con amarezza: «Da pensiero globale com’era stata in procinto di diventare ad un dato momento, l’Europa sta per ripiombare allo stato di espressione geografica. […] A forza di giocare coi pezzi del meccano deformabili, le strutture modulabili, le cooperazioni rafforzate e altri gadget diplomatici l’Europa non è più che un burattino disarticolato, adatto al trasformismo dei Fregoli e dei Brachetti. C’è l’Europa di Bruxelles, quella del Lussemburgo, di Strasburgo, di Maastricht, di Schengen, di Saint-Malo, ecc.» (J. Juillard, L’Europe du bricolage, 3 gennaio 2002). I timori suscitati da una politica economica comune minimalista, simboleggiata dall’unificazione della politica monetaria senza un’unificazione della politica economica, risorgono con forza nel settimanale, sempre collocato in area socialista.

Nel marzo 2004, di fronte alle importanti poste in gioco rappresentate dall’allargamento a dieci nuovi membri e dal progetto di Costituzione europea, il “Nouvel Observateur” lancia il dibattito per “uscire dall’‘euro-impasse’”, per riprendere le parole di Joffrin in un articolo in cui invita – contro un progetto di Costituzione eccessivamente liberale – ad aggiungere un risvolto sociale al progetto e, più in generale, a riconciliare i popoli con l’Europa (Pour sortir de l’“euro-impasse”, 18 marzo 2004). Il settimanale apre anche il dibattito sull’opportunità di avviare i negoziati per l’adesione della Turchia. In generale, a questo proposito, la rivista considera positivo l’allargamento a nuovi membri, nella misura in cui l’ansia di aderire all’Europa significa il suo trionfo e quello della pace e della prosperità. Il problema, nel 2004, consiste nel sapere a quale Europa aderiscano questi paesi e se – secondo Julliard – è questo il suo punto debole: l’integrazione europea non sa dove sta andando e rischia fortemente di fallire. Di conseguenza la rivista nel 2004 si trova alle prese con un dilemma simile a quello affrontato per il Trattato di Maastricht: un “no” alla Costituzione europea è considerato catastrofico e per questo motivo il “Nouvel Observateur” non asseconda Laurent Fabius; tuttavia gli dà la parola in un’intervista pubblicata nel settembre 2004 (Si le non l’importe…, 16 settembre 2004) e inoltre ospita un dibattito fra due socialisti, Jack Lang favorevole al “sì” e Arnaud Montebourg favorevole al “no”, esprimendo così nel suo impegno europeo una concezione dell’Europa sempre fondata, fin dagli anni Cinquanta, sul socialismo e la partecipazione democratica.

Anne-Sophie Nardelli (2005)