L’Esprit

L’Esprit, fin dalla sua fondazione nel 1932, rappresenta una tendenza politica e intellettuale particolare che la Resistenza e, in seguito, la ricostruzione istituzionale della Francia nel 1946-1947 non hanno fatto che accentuare. La rivista si distingue per la sua forte adesione al personalismo cristiano, una tendenza che ne spiega quindi l’anticomunismo e le prese di posizione a favore di un’Europa attenta sia alle sofferenze subite dai suoi popoli che a quelle sociali del presente. Via via che si definisce la costruzione europea in un senso che non coincide necessariamente con quello immaginato da l’Esprit, la rivista esprime delle posizioni che la portano anche a criticare vivacemente l’integrazione europea nei termini in cui va costruendosi (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

Nei quattro primi decenni della costruzione europea lo spazio riservato a quest’argomento nella rivista è limitato: il numero di articoli pubblicati dal 1945 al 2004 ammonta a circa 10.000; su quest’insieme, solo 150 fra riferimenti, articoli, editoriali, interviste riguardano l’Europa e il suo avvenire. Per tre quarti vengono pubblicati a partire dal 1984, data che segna una svolta nell’interesse della rivista per l’integrazione europea e le sue poste in gioco politiche e sociali. In precedenza gli articoli non erano dedicati all’integrazione europea in quanto tale – del resto quest’espressione è usata solo molto raramente nei titoli e all’interno degli articoli – ma all’Europa in generale. Quest’attitudine è già rivelatrice della visione dell’Europa espressa dalla rivista: è considerata innanzitutto “una comunità di destino e di interessi” (Alain Berger, Les vrais dangers du Marché Commun, Esprit, n. 3, marzo 1957, p. 563) che non dovrebbe essere circoscritta ad una integrazione economica. L’interesse a prima vista limitato che la rivista mostra per l’integrazione europea e le critiche che le rivolge non significano comunque un disinteresse per l’Europa, le sue nazioni, le sue minoranze, le sue culture, ma al contrario grandi ambizioni e grandi aspettative.

L’Europa e le prime manifestazioni della costruzione europea, come il Piano Schuman e il progetto di Comunità europea di difesa (CED), in un primo tempo vengono inquadrate nel modo classico attraverso il prisma della Guerra fredda. Nel novembre 1947 l’Esprit pubblica il Manifeste pour la paix et pour l’Europe socialiste, sottoscritto da numerosi intellettuali e giornalisti francesi. La posizione della rivista nei confronti della CED in principio è all’impronta dell’ottimismo: nel 1950 uno dei redattori, Alain Berger, incaricato delle questioni europee, ritiene che la realizzazione di una federazione europea di cui la CED rappresenti la prima tappa darebbe all’Europa la possibilità di condurre una politica indipendente (v. anche Federalismo). Una volta deluso quest’ideale di un’Europa non allineata, il comitato di redazione nel suo complesso si pronuncia contro la CED, ritenendo che determini una politica di dissuasione senza fine, non rinunciando tuttavia all’edificazione di una comunità europea. Ancora nel 1968 un articolo di Heinz Kuby intitolato Intégration européenne et réunification allemande perora la costituzione di un sistema autonomo di sicurezza europea per evitare che l’Europa diventi teatro di conflitti esogeni (marzo 1968, 3, p. 466).

Se i futuri contorni di una comunità sono ancora vaghi negli anni Cinquanta, la sostanza delle critiche che riemergono con forza a partire dal 1984 è già presente nella rivista al momento della firma dei Trattati di Roma. In quest’occasione Berger pone il problema della gestione europea preconizzando che il trattato creerà un vuoto politico, perché priva gli Stati dei loro strumenti di intervento senza affidare a nessuno il compito di condurre un’autentica politica economica. Se in questo periodo il Mercato comune non funziona a discapito del dirigismo statalista messo in atto in Francia a partire dalla Liberazione, i dubbi sollevati da l’Esprit riemergono con forza al principio degli anni Ottanta al momento della deregolamentazione, quando si manifesta l’assenza di una responsabilità europea. Inoltre, in nome di una concezione dell’Europa intesa come “una comunità di destini e di interessi”, l’articolo di Berger reclama quel che oggi i socialisti francesi chiamano “l’Europa sociale”, vale a dire una società in cui i valori collettivi classificati sotto il termine “Europa” siano fondati su qualcosa di diverso dall’ultraliberalismo. Del resto, in linea con le preoccupazioni della rivista, che fin dalla Liberazione si è impegnata a preservare l’Europa dalle ondate nazionaliste che l’hanno messa a mal partito nella prima parte del Novecento, Berger critica un’integrazione europea imposta ai cittadini dai loro capi che rischia di provocare reazioni nazionaliste esacerbate. Quindi scredita il metodo di Jean Monnet, secondo cui l’unificazione politica sarebbe la logica conseguenza dell’unificazione economica, capace di sostenere gli sforzi per una trasformazione durevole delle società europee (v. anche Funzionalismo). Le critiche contro un’Europa costruita “dall’alto” inducono l’articolista ad affidare alla sinistra europea il compito di accompagnare il trattato di Roma con la realizzazione di istituzioni politiche democratiche e di una carta comune.

Questi temi si ritrovano nei giudizi negativi rivolti all’integrazione europea da fronti diversi a partire dagli anni Ottanta. Nella continuità con le sue convinzioni degli anni Cinquanta l’Esprit, dal 1984, formula queste critiche in maniera più precisa. Durante questo decennio quel che Paul Thibaud, all’epoca direttore della rivista, chiama “la condizione europea” è ancora determinata dalla Guerra fredda, che impedisce la realizzazione di ciò che lo stesso autore definisce una “comunità di destino evidente”. La divisione dell’Europa resta la ragion d’essere dell’impegno filoeuropeo di Esprit e l’assenza di volontarismo politico e di valori comuni al di fuori di quelli economici e finanziari è all’origine di gran parte delle critiche della rivista. Il suo silenzio al momento del rilancio promosso da Jacques Delors e dell’Atto unico europeo nel 1986 testimonia il rifiuto di un’Europa che attraverso l’Unione economica e monetaria (UEM) intenderebbe creare nient’altro che una zona di libero scambio.

Qual è allora la posizione di Esprit sull’integrazione europea a partire dal 1989-1990, cioè gli anni che vedono la disgregazione del blocco comunista e i dibattiti che sfoceranno nel Trattato di Maastricht? Il numero speciale del novembre 1991 intitolato Europa: una comunità politica? si apre con un editoriale dedicato all’ammissione di impotenza dei dirigenti e intellettuali francesi di fronte alle premesse del dramma dell’ex Iugoslavia. La tragedia dei Balcani dall’inizio degli anni Novanta rappresenta un punto di riferimento per capire l’atteggiamento di Esprit nei confronti dell’integrazione europea: essa alimenta le critiche della rivista nella misura in cui dimostra che un’Europa ridotta a semplice processo istituzionale è incapace di concretizzare le speranze di pace e di democratizzazione lanciate nel 1989. La caduta del comunismo ha rivelato, secondo Esprit, le insufficienze dell’integrazione europea più che aver permesso di concretizzare i suoi principi per il futuro e dei progetti chiari. Dalle pagine della rivista Paul Thibaud ribadisce senza sosta che l’Unione europea (UE) deve diventare “il faro del mondo democratico”, un’esortazione che si protende fino ai giorni nostri. Questi anni coincidono con il pessimismo sulle possibilità di nascita e di sopravvivenza dell’UEM – del resto, occorre sottolineare che nessun articolo degno di questo nome viene dedicato al Trattato di Maastricht prima del 1995.

Le critiche all’integrazione europea non significano che Esprit non sostenga nessun progetto europeo. Al di là degli aspetti economici e sociali fin qui illustrati, oltre al ruolo regionale e mondiale assegnato all’Unione europea, una questione è sottesa alla maggior parte delle critiche formulate dalla rivista e alle soluzioni proposte, cioè quella del rapporto fra Stati nazioni e istituzioni europee e, di conseguenza, quella della nuova formula politica da inventare per costruire l’Europa. Esprit non si accontenta dei progetti federalisti e sovranazionali, che già secondo le previsioni di Berger del 1957 non avrebbe fatto altro che alimentare le vocazioni nazionaliste e antieuropee. Nello stesso numero speciale del 1991, di cui si è parlato, si registrano tensioni all’interno della redazione a proposito del progetto europeo di Jacques Delors: mentre Thibaud rimane estremamente critico, Olivier Mongin, che gli è subentrato come direttore, intravede nelle intenzioni di Delors sul principio di sussidiarietà e il rispetto delle identità collettive nazionali e regionali la volontà di fondere un’organizzazione originale, senza riprodurre a livello sovranazionale i poteri dello Stato nazionale. Etienne Tassin lo asseconda spiegando in un articolo intitolato L’Europe: une communauté politique? che il fallimento della costruzione europea dipende dal fatto che si è tentato di unire l’Europa sulla base degli Stati nazioni. La volontà di fondare un’organizzazione politica originale si inquadra nelle riflessioni più generali della rivista sul deficit di cittadinanza presente nelle società europee: è netto il rifiuto di fare della costruzione europea un surrogato di questo deficit (v. anche Deficit democratico). Al contrario, la prospettiva è quella di una complementarità fra le nazioni e l’Europa, della suddivisione dei diversi campi d’azione e riferimenti politici.

Tuttavia il tono generale resta critico. La crisi politica europea latente dal crollo del blocco comunista e dal Trattato di Maastricht condiziona la posizione di Esprit nei confronti dell’Allargamento alle ex democrazie popolari e alla Turchia, una posizione che non è comunque esente da contraddizioni. Infatti, da un lato, la rivista condanna l’allargamento senza Approfondimento e la geografia estensiva dell’Europa senza un progetto politico chiaramente definito; dall’altro, il ruolo di pacificazione e di democratizzazione a cui la rivista ambisce per l’Europa nel mondo porta a dire “sì” all’allargamento.

Quindi nel complesso Esprit si caratterizza per il suo europessimismo e la diagnosi ribadita di una duplice crisi dell’Europa, da una parte politica ed istituzionale, dall’altra spirituale.

Anne-Sophie Nardelli (2004)




La Costituzione danese e la questione della delega di sovranità

In quale misura la Costituzione danese influenza e limita il policy-making danese sull’UE? L’attuale Costituzione danese fu adottata nel 1953, e uno degli emendamenti riguardava la questione della sovranità danese. Secondo l’art. 20 dell’Atto costituzionale, i poteri spettanti alle autorità danesi possono essere trasferiti per legge o delegati ad autorità internazionali. Come si legge nel testo (art. 20, paragrafi 1 e 2): «I poteri conferiti alle autorità del Regno con questo Atto costituzionale possono, nella misura in cui è prevista dallo statuto, essere delegati ad autorità internazionali istituite di comune accordo insieme con altri Stati per la tutela del principio di legalità e la cooperazione internazionali.

Per la promulgazione di una legge in materia di cui sopra, è richiesta una maggioranza di cinque sesti dei membri del Folketing. Se non è raggiunta tale maggioranza, ma è ottenuta la maggioranza richiesta per l’approvazione di una proposta di legge ordinaria, e se il governo la sostiene, la proposta verrà sottoposta all’elettorato per l’approvazione o il rifiuto, in conformità con le regole referendarie stabilite nell’art. 42».

L’art. 42 della Costituzione danese tratta, in generale, dell’istituto del referendum legislativo facoltativo, secondo il quale un terzo dei membri del Parlamento (il Folketing unicamerale) può richiedere un referendum riguardante leggi già approvate (con alcune eccezioni). Nel referendum i voti verranno assegnati a favore o contro la legge. Per abrogare la legge, la maggioranza degli elettori, e non meno del 30% di tutti gli aventi diritto, deve votare contro la legge.

Perciò l’Atto costituzionale pone condizioni rigorose, sebbene in qualche modo contraddittorie, su una legge che verte sulla delega della sovranità danese a organizzazioni internazionali. Da un lato, ciò può avvenire soltanto per legge, si devono indicare con precisione i poteri, e viene richiesta una maggioranza molto ampia in Parlamento. Dall’altro, tutti i tipi di potere sono passibili di delega, e se la maggioranza parlamentare prevista non può essere raggiunta, sarà sufficiente che non vi sia una larga maggioranza di votanti contro il trasferimento di poteri.

In origine, l’emendamento fu introdotto principalmente per facilitare la partecipazione danese in organizzazioni internazionali quali la CECA, la NATO e l’OECE, ma in pratica è stato usato principalmente in relazione alla Comunità europea e all’Unione europea.

Politicamente, si è discusso a più riprese se l’adesione della Danimarca alla CEE/UE potesse far riferimento a tale articolo o se tale adesione richiedesse un emendamento costituzionale. Dal momento che i partiti della sinistra danese avevano insistito sul fatto che fosse necessario un emendamento costituzionale, il professore di diritto costituzionale e internazionale Max Sørensen, che nel 1953 aveva preso l’iniziativa di introdurre l’articolo, sostenne che l’art. 20 poteva essere usato in relazione alla partecipazione danese nella CEE/UE. Alcuni costituzionalisti hanno affermato fin dal 1950 che l’art. 20 non indicava criteri qualitativi né quantitativi sulla delega dei poteri. Pertanto possono essere delegati poteri importanti e ampi. Il disaccordo principale in tale dibattito ha riguardato l’interpretazione della formula «nella misura in cui è previsto dallo statuto» che, tradotta dal danese in un modo diverso, si può interpretare come “in misura specifica”, e che nel dibattito pubblico danese viene spesso interpretata come “in limitata misura”. Sussiste d’altra parte un consenso generale sul fatto che, secondo tale articolo, alle organizzazioni internazionali non può essere accordata l’autorità di decidere circa i propri poteri.

Tuttavia, la questione è se si possa accumulare un certo numero di specifiche deleghe al punto da comprendere, ad esempio, tutti i poteri legislativi ed esecutivi. Una questione correlata concerne l’applicazione dell’art. 308 (ex 235 del Trattato di Roma) nel Trattato CEE, secondo il quale alcune regole ad hoc possono essere decise dal Consiglio dei ministri, con Voto all’unanimità, qualora sia necessario un atto della Comunità in assenza di uno specifico regolamento del Trattato, per conseguire i fini concordati della Comunità stessa.

In una storica sentenza emessa dalla Corte suprema danese nel 1998, venne stabilito che la partecipazione all’UE non violava la Costituzionalità danese. Fu inoltre stabilito che l’articolo 308 del Trattato CEE era così vago da poter essere contemplato nell’art. 20 della Costituzione danese. Al tempo stesso fu sottolineato, con la sentenza della Corte suprema, che né una singola delega né l’accumulo di più deleghe potevano prescindere dal fatto che la Danimarca continuava a essere uno Stato sovrano. Modificare lo status della Danimarca in quanto Stato sovrano richiede un emendamento costituzionale, secondo la procedura delineata nell’art. 88 della Costituzione; ma la reale linea di confine tra il trasferimento dei diritti di sovranità secondo l’art. 20 o l’art. 88 deve essere decisa, a parere della Corte suprema danese, principalmente a livello politico (v. anche Corti costituzionali e giurisprudenza).

Seguendo questa interpretazione, la Costituzione danese pone soltanto limiti molto vaghi e flessibili per quanto riguarda la politica danese in ambito UE. Pertanto è davvero improbabile che la Corte suprema respinga una delega di poteri decisa dal Parlamento danese o dagli elettori danesi in un referendum, secondo l’art. 20, con la motivazione che i poteri delegati siano stati definiti in maniera troppo vaga o che risultino troppo estesi.

Palle Svensson (2012)




La Malfa, Ugo

L.M. (Palermo 1903-Roma 1980), come Alcide De Gasperi e altri uomini politici italiani che furono protagonisti nel secondo dopoguerra della ricostruzione italiana e della scelta occidentale, maturò il suo europeismo nel vivo dei problemi politici di quegli anni, a cui lo portava la sua formazione politica liberal-democratica e antifascista e soprattutto economica, negli anni Trenta, tra crisi del libero scambio e intervento statale nelle economie nazionali.

Da queste esperienze aveva maturato, come altri, la convinzione che le politiche di sviluppo debbano tener conto delle dimensioni del mercato, in quanto queste definiscono la competitività e la capacità produttiva delle imprese, valutando in primo luogo le potenzialità di un sistema economico, organizzato su scala continentale europea. L’avvio del Piano Marshall confermava questo indirizzo.

Seguì con attenzione l’avvio della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), alla cui istituzione partecipò come rappresentante italiano. Nel 1951, come ministro del Commercio con l’estero nel VI governo De Gasperi, fu artefice di uno dei più importanti indirizzi di politica economica di quel periodo, con la liberalizzazione degli scambi, che proiettò il sistema industriale italiano sul mercato internazionale, attuando le procedure dell’Accordo Generale sulle Tariffe e il Commercio (GATT) previste dagli accordi di Bretton Woods, a cui l’Italia aveva aderito nel 1947 e che, malgrado le forti opposizioni interne d’ordine politico e sociale, diede una spinta decisiva alla modernizzazione del paese.

L.M. difese strenuamente la politica centrista dei governi De Gasperi, subendo il contraccolpo della caduta della Comunità europea di difesa (CED) e della sconfitta elettorale del 1953. Divenuta la personalità di maggior rilievo del Partito repubblicano italiano (PRI) e assumendone di fatto la leadership, a partire dal 1954 fu uno dei protagonisti più decisi nella lenta preparazione del centrosinistra, con l’ingresso dei socialisti al governo.

La politica europeista fu uno dei cardini di questa sua nuova linea politica. L.M. aderiva allora al Comitato d’azione per gli Stati Uniti d’Europa creato da Jean Monnet, con il quale avrebbe collaborato fino al suo scioglimento nel 1972. Divenuto segretario politico del PRI ed entrato nel primo governo di centrosinistra come ministro del Bilancio, nel 1962 patrocinò l’adesione britannica al Mercato comune. Fortemente avverso alla politica del generale Charles de Gaulle, vide nel rapporto con il Regno Unito, e nella possibile creazione di un’intesa anglo-italiana, un necessario contrappeso all’asse franco-tedesco che si andava allora costituendo su iniziativa del Presidente francese. L’intento di L.M. era anche quello di tener ferma, con l’appoggio inglese, una linea europeista che si mantenesse in sintonia con la politica atlantica e con le prospettive federaliste che erano state proprie dell’epoca degasperiana (v. Federalismo). Superando contrasti all’interno dello stesso governo italiano, da parte di chi non voleva accentuare troppo la distanza con le posizioni francesi, L.M. portò avanti con un iniziale successo questa linea di avvicinamento anglo-italiano, a partire dalla visita a Roma del primo ministro britannico Harold Macmillan, nel 1962, anche se la complessa situazione europea indusse gli inglesi a non dare a quei segni di avvicinamento tra i due paesi la rilevanza su cui puntava L.M.

L’indebolimento della coalizione di centrosinistra in Italia, a seguito del ridimensionamento dei suoi intenti riformisti e della crisi valutaria che determinò un arresto del rapido processo di sviluppo che aveva caratterizzato la seconda metà degli anni Cinquanta, indeboliva nella Comunità economica europea (CEE) la posizione italiana. Sebbene L.M., dopo il ritorno dei laburisti al governo con Harold Wilson, avesse stretto rapporti anche con quest’ultimo, dovette subire il veto all’ingresso della Gran Bretagna da parte della Francia gollista, che fece poi tramontare del tutto questa sua prospettiva.

L.M., fuori dal governo, continuò tuttavia nella sua contrapposizione alla politica gollista, nel triennio della crisi comunitaria, 1964-66, schierandosi infine contro il Compromesso di Lussemburgo.

Negli anni Settanta l’approccio alla politica europeista di L.M. mutò angolazione, privilegiando problemi economici e monetari interni. L’instabilità del dollaro lo spingeva a caldeggiare il progetto di moneta unica europea che Jean Monnet patrocinava, partecipando attivamente alle riunioni del Comitato su questi temi. Dopo la decisione di Nixon, dell’agosto 1971, di revocare la convertibilità del dollaro, L.M. avrebbe patrocinato l’ingresso dell’Italia nel “Serpente monetario europeo”.

L’aggravarsi della crisi economica e finanziaria interna ed internazionale, l’uscita dal “serpente” dell’Italia nel 1972 e la sua svalutazione, apriva un ciclo economico per l’Italia a cui L.M. guardava con estrema preoccupazione e che prese a fargli concepire il rapporto con l’Europa comunitaria come il presupposto di un insieme di vincoli esterni necessari, rispetto ai comportamenti non virtuosi della finanza pubblica italiana.

Nel 1973 tornava al governo come ministro del Tesoro nel IV governo di Mariano Rumor, incarico che avrebbe tenuto nel seguente V° governo di Aldo Moro, fino al gennaio 1976. Gli anni Settanta furono anni di crisi della partecipazione italiana alla CEE, dovute principalmente alle sue difficoltà interne; quando nel secondo semestre del 1975 l’Italia assunse la presidenza della Comunità, fu L.M. a sollecitare Moro a riassumere l’iniziativa europeista con una lettera aperta in cui sottolineava come «la nostra presidenza della Comunità non può concludersi senza che l’Italia abbia tentato, pur col peso modesto cui la sua condizione interna la condanna, un minimo di rilancio».

E l’Italia, sulla base di questo suggerimento, in un momento di disarticolazione della Comunità, decise di giocare la carta del rilancio istituzionale, riuscendo al Consiglio europeo del dicembre 1975 a fissare la data delle Elezioni dirette del Parlamento europeo al maggio-giugno 1978, anche se poi la stesura della convenzione avrebbe portato la data al giugno 1979.

L.M., nella seconda metà degli anni Settanta, patrocinò l’ingresso del Partito comunista nella maggioranza di governo, passaggio che riteneva necessario per il risanamento della finanza pubblica e dell’economia nazionale, e che aveva un suo punto di convergenza proprio nelle politiche europeistiche, che i comunisti italiani presero allora a porre al centro della loro attenzione. Tra il 1976 e il 1979 appoggiò i governi di unità nazionale presieduti da Giulio Andreotti.

Dopo l’assassinio del leader democristiano Aldo Moro, nel 1978, sostenne fermamente il ritorno della lira nel Serpente monetario, che fu una delle cause dichiarate dell’uscita dalla maggioranza parlamentare dei comunisti. Nel 1979, incaricato dal Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, di formare il nuovo governo tentava, senza riuscire, di ricucire quell’alleanza.

Piero Craveri (2012)




La “dimensione nordica”

Il concetto di “dimensione nordica” apparve per la prima volta durante i negoziati di adesione della Finlandia all’Unione europea (UE). Fu usato come riferimento generale rispetto alla nuova dimensione geografica che l’Unione avrebbe acquisito tramite i nuovi Stati membri del nord e per aumentare la conoscenza da parte dell’Unione delle tipiche situazioni nordeuropee e dei loro rispettivi valori.

La “dimensione nordica”, come iniziativa politica, venne lanciata dal primo ministro finlandese Paavo Lipponen nell’autunno 1997. Secondo Lipponen, l’Unione avrebbe dovuto tener conto di una dimensione nordica nelle sue politiche. In pratica l’Unione avrebbe dovuto prestare più attenzione al Nord nello sviluppo delle proprie politiche e nella definizione dei propri interessi nella regione. Nel coordinare e rendere le proprie attività più efficienti, avrebbe anche potuto svolgere un ruolo più importante nell’area, incluse le relazioni con la Russia. Oltre a obiettivi generali come la promozione della stabilità e del benessere, fu redatto un elenco di aree specifiche d’intervento, che comprendevano anche la tutela ambientale, la previdenza sociale, la prevenzione delle malattie infettive, lo sviluppo di buone pratiche amministrative, la lotta contro il crimine organizzato e una società dell’informazione nordica. La “dimensione nordica” era destinata a ricoprire un’ampia area geografica che si sarebbe estesa dai litorali meridionali del Mar Baltico a quelli artici, e dall’Islanda e Groenlandia alla Russia nord occidentale. In seguito venne anche aggiunto un elemento transatlantico, sotto forma di cooperazione con Stati Uniti e Canada, in particolare riguardo alle questioni artiche.

Dietro tale iniziativa si potevano distinguere diversi fattori importanti. La Finlandia aveva aderito all’Unione solo di recente (1995). L’adesione aveva implicato un rapido riorientamento della politica estera finlandese che fino a quel momento aveva impedito la partecipazione all’integrazione nell’Europa occidentale (v. anche Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Il cambiamento fu rapido anche per la velocità con cui vennero condotti i negoziati. A livello interno esisteva la necessità di trovare argomenti utili per sostenere in qualche modo il concetto di una continuità nella politica estera finlandese. Al contempo era anche necessario dimostrare lealtà verso l’Unione e le sue politiche estere, anche perché alcuni dei vecchi Stati membri ritenevano potenzialmente problematico il passato di neutralità della Finlandia. Le iniziative intraprese nell’ambito della politica estera furono, quindi, per la Finlandia un’attestazione di lealtà. Per quanto concerne la continuità, era logico che la Finlandia concentrasse il suo impegno nelle relazioni con i paesi più vicini, in particolare con la Russia. Uno degli obiettivi principali era quello di influenzare le relazioni dell’UE con la Russia.

L’iniziativa prese a funzionare rapidamente nell’ingranaggio dell’Unione europea: il summit di Lussemburgo nel dicembre 1997 richiese alla Commissione di presentare una relazione interinale sull’argomento entro il 1998, e il primo Piano d’azione triennale riguardante la dimensione nordica fu adottato nel giugno 2000. La Finlandia promosse attivamente l’idea sia fra i paesi dell’Unione che tra i paesi vicini che non ne facevano parte. Il compito non fu difficile poiché l’iniziativa non prevedeva la creazione di nuove istituzioni o nuovi finanziamenti, e pertanto non richiedeva un impegno finanziario. L’iniziativa prometteva una maggiore efficienza attraverso un duplice miglioramento del modo di occuparsi della regione: un coordinamento più efficace degli strumenti finanziari esistenti, con i quali l’UE finanziava le proprie iniziative nella regione, e un coordinamento tra l’UE e gli altri numerosi organismi regionali: i Consigli nordico e baltico e i Consigli dei ministri, il Consiglio degli Stati del Mar Baltico, il Consiglio artico, il Consiglio euro-artico di Barents, per citarne solo alcuni.

L’iniziativa della “dimensione nordica”, presentata dalla Finlandia, fu esposta in modo da farne risaltare il valore per l’Unione nella sua totalità, in opposizione a interessi puramente nazionali o regionali. Ciò si rifletté anche nel modo in cui la Finlandia gestì la sua prima presidenza verso la fine del 1999. L’idea era che la Finlandia non avrebbe avuto bisogno di sottolineare troppo i propri interessi – quali quelli per la “dimensione nordica” – nel corso della propria presidenza, qualora fosse riuscita a inserire l’iniziativa nel programma dell’UE prima di tale periodo; cosa che avvenne. In definitiva, durante il mandato presidenziale, l’iniziativa probabilmente non ebbe ulteriori sviluppi. Il vertice dei ministri degli Esteri organizzato su questo tema fu boicottato dai ministri degli Esteri che protestavano contro gli attacchi russi in Cecenia.

L’iniziativa della “dimensione nordica” conteneva un’importante innovazione politica: ai paesi della regione non appartenenti all’Unione europea, quali Russia, Estonia, Lettonia, Lituania, Norvegia e Islanda, venne offerto lo status di paese partner. I partner furono invitati a contribuire al processo di formulazione della politica dell’UE. In tal modo venne data loro la possibilità di intervenire nelle politiche attuate dall’UE nei loro confronti, pur senza esserne membri.

Gli altri membri nordici dell’Unione europea, Svezia e Danimarca, non furono coinvolti nella fase di presentazione dell’iniziativa (dato, questo, che la scelta del termine “settentrionale” anziché “nordico” potrebbe rispecchiare) ma si rivelarono più tardi di fondamentale importanza per l’ulteriore sviluppo dell’iniziativa stessa. Entrambi i paesi intuirono che essa sarebbe progredita durante i loro rispettivi mandati presidenziali del 2001 e 2002.

Il secondo Piano d’azione in merito alla dimensione nordica per gli anni 2004-2006, adottato dalla Commissione nel giugno 2003, diede all’iniziativa la funzione di fornire un quadro comune per la promozione del dialogo sulle politiche e della concreta cooperazione. I settori prioritari erano quelli economico, commerciale, delle infrastrutture, delle risorse umane, dell’ambiente, della cooperazione transfrontaliera, della giustizia e degli affari interni.

Vi era bisogno di rendere l’iniziativa “dimensione nordica” conforme ad altre iniziative dell’UE nella regione, specialmente quelle intraprese con la Russia (l’Accordo di partenariato e di cooperazione, la strategia comune dell’Unione verso la Russia) e con il processo di Allargamento che comprendeva gli stati Baltici e la Polonia. L’obiettivo era quello di far sì che la “dimensione nordica” fornisse un “valore aggiunto” a tali iniziative. Allo stesso tempo, la sua natura specifica era probabilmente divenuta meno chiara.

Sebbene possa risultare difficile individuare i risultati concreti della “dimensione nordica”, in parte a causa della mancanza di un bilancio specifico, l’iniziativa ha svolto un ruolo “ombrello” per attività ancora in corso nella regione e intraprese da molti e differenti attori, che spaziano da altre organizzazioni internazionali fino a imprese private e organizzazioni non governative. Il Partenariato ambientale della dimensione nordica è stato uno dei risultati concreti: esso include un gruppo di finanziamento al quale partecipano sia gli Stati coinvolti che istituti finanziari internazionali. In questo contesto, la Banca europea per gli investimenti (BEI) ha cominciato a finanziare progetti indirizzati all’ambiente in Russia. È stato inoltre programmato un partenariato simile per le questioni sociali e sanitarie.

Con l’adesione all’UE di Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia, l’obiettivo della “dimensione nordica” è cambiato nuovamente (v. anche Paesi candidati all’adesione). Sono stati compiuti tentativi per sostituirla con una “dimensione dell’Est” su proposta della Polonia. Tuttavia sono soprattutto le nuove politiche di vicinato dell’UE, “Europa allargata”, a intaccarne il ruolo. Resta ancora da vedere fino a che punto giungerà tale erosione, ma specialmente per quanto concerne la Russia, la “dimensione nordica” potrà continuare a fornire un quadro utile per la cooperazione.

Hanna Ojanen (2009)




Lafontaine, Oskar

L. nasce il 16 settembre 1943 a Saarlouis, nel Saarland, regione tedesca confinante con la Francia. Il padre Hans, di mestiere fornaio, morì nella Seconda guerra mondiale. Nel 1962 L. conclude gli studi scolastici nel liceo ginnasio di Prüm/Eifel, dove essendo di religione cattolica è a convitto nel convento vescovile. Dal 1962 al 1969, grazie a una borsa di studio della fondazione studentesca dell’episcopato tedesco, frequenta i corsi di fisica nelle Università di Bonn e di Saarbrücken, conseguendo la laurea. In seguito lavora nella Versorgungs- und Verkehrgesellschaft di Saarbrücken e nel 1971 diventa presidente della società tranviaria, incarico che lascia nel 1974. Sposato tre volte, ha due figli, nati nel 1982 e nel 1997.

Nel 1966 L. aderisce al Partito socialdemocratico (Sozialdemokratische Partei Deutschlands, SPD) e inizia la sua carriera politica nell’organizzazione giovanile della SPD (Jusos), l’ala sinistra del partito. Nei primi anni Ottanta assume una posizione di rifiuto nei confronti dell’energia nucleare e del riarmo, in contrasto con il cancelliere socialdemocratico Helmut Schmidt. L. è anche uno degli oppositori della cosiddetta “doppia decisione della NATO” (v. anche Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico), e sostiene che la Repubblica Federale Tedesca (v. Germania) deve rinunciare a qualsiasi arma nucleare. Vivendo vicino al confine franco-tedesco, L. ha sempre attribuito particolare importanza alla comprensione e alla cooperazione fra i due paesi, diventando un convinto sostenitore dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

Già nel 1968 L. viene eletto nel consiglio regionale del partito e nel 1969-1970 diventa membro del consiglio comunale di Saarbrücken. Dal 1970 al 1975 e dal 1985 al 1998 è deputato nel Parlamento del Saarland. Dal 1974 al 1985 ricopre la carica di borgomastro di Saarbrücken. Nel 1977 è nominato presidente della SPD nel Saarland. Cerca l’appoggio del Partito liberale (Freie demokratische Partei, FDP), al governo con la SPD a livello federale, anche per formare una coalizione nel Saarland, ma senza successo. L. resterà a capo della SPD in questo Land fino al 1996. Dal 1979 al 1999 è membro del consiglio federale della SPD. Dopo che il suo partito ottiene la maggioranza assoluta nelle elezioni regionali nel marzo 1985 L. viene eletto primo ministro del Saarland, carica mantenuta fino al 1998.

Nel 1985 si reca in visita da Erich Honecker, capo di Stato e capo del partito unico della Repubblica Democratica Tedesca; in questa occasione dichiara che una regolare circolazione di turisti fra i due Stati tedeschi sarebbe stata possibile solo se la Repubblica federale avessero riconosciuto la cittadinanza della Repubblica democratica. Nel settembre 1987 riceve a sua volta Honecker, originario come lui del Saarland. Come primo ministro tiene in funzione le acciaierie locali malgrado la generale crisi dell’acciaio, e si guadagna il rispetto generale per il fatto che la necessaria riduzione del personale viene realizzata in modo accettabile sotto il profilo sociale.

Nel 1987 L. diventa vicepresidente della SPD federale, nonché presidente amministrativo della commissione sul programma di partito. Nel 1988 gli viene affidata la presidenza del gruppo di lavoro SPD incaricato di stendere il programma di governo per le elezioni federali del 1990. Dopo la caduta del Muro di Berlino, nel novembre 1989, L. mette in guardia contro “l’ubriacatura nazionale” e mostra una certa esitazione nei confronti del processo di unificazione della Germania. Contrario a una cittadinanza tedesca comune a Est e a Ovest per le sue conseguenze finanziarie, propugna invece regole più restrittive per gli immigrati dalla Germania Est nella Repubblica federale.

Nell’aprile 1990 L. resta vittima di un attentato da parte di una squilibrata che cerca di accoltellarlo durante la campagna elettorale. Nonostante riporti una grave ferita al collo, si riprende con notevole rapidità. Con un voto netto dell’assemblea della SPD nel settembre 1990 diventa lo sfidante del cancelliere Helmut Josef Michael Kohl nelle prime elezioni federali dopo l’unificazione della Germania. Ovviamente, sfidare il “cancelliere dell’unificazione tedesca” rappresenta un’impresa difficile nel clima di entusiasmo nazionale che si è creato nel paese subito dopo l’unificazione. Inoltre L. durante la campagna elettorale si è dimostrato alquanto scettico di fronte alle eccessive aspettative di una rapida ripresa economica dei nuovi territori orientali della Repubblica federale. In particolare, avverte che le promesse di Kohl relative alle rosee prospettive della Germania Est difficilmente si sarebbero avverate. Quando la SPD ottenne il risultato elettorale peggiore dal 1957, con il 35,5% dei voti, L. rinuncia a candidarsi alla presidenza della SPD che gli stata viene offerta da Hans-Jochen Vogel.

Conservando la carica di primo ministro del Saarland, L. prende però ripetutamente posizione sugli affari federali, anche in qualità di membro del Parlamento tedesco dopo le elezioni del 1990. Per esempio, continua a manifestare scetticismo nei confronti del modo in cui viene realizzata l’unificazione tedesca, rimarcando come il vertiginoso aumento dei trasferimenti annui dalla Ovest a Est non lasci spazio per gli investimenti pubblici. A seguito del crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 approva una garanzia di sicurezza della NATO per gli Stati vecchi e nuovi dell’Europa centrale e orientale contro eventuali attacchi di paesi terzi. Fra il 1991 e il 1994 L. viene autorizzato a rappresentare il governo tedesco per gli affari culturali nell’ambito degli accordi di cooperazione tra Francia e Germania. Nel 1992-1993 diventa presidente del Bundesrat nelle funzioni di primo ministro del Saarland, secondo il principio di rotazione. Assieme al presidente della SPD Björn Engholm avvia la cosiddetta “svolta di Petersberg”, un rivolgimento politico che prevede anche modifiche ed emendamenti della Costituzione tedesca con riferimento al diritto di asilo e alla partecipazione di soldati tedeschi a missioni militari delle Nazioni Unite (v. anche Missioni di tipo “Petersberg”).

In questi anni L. è coinvolto in numerosi scandali politici. Nel 1992 l’importante rivista “Spiegel” rivela che dal 1986 ha continuato a ricevere pensioni per il suo incarico di sindaco di Saarbrücken. L. ammette che si è trattato di un “errore tecnico” e restituisce una somma di circa 228.000 marchi tedeschi (intorno ai 114.000 Euro) nel giugno 1993, dopo che la Corte dei conti decide che quelle pensioni erano illegali. Nell’ambito del cosiddetto “scandalo a luci rosse”, nel 1993, l’Alta corte regionale di Saarbrücken apre un’indagine anche sul primo ministro. Il sospetto che L. abbia concesso agevolazioni fiscali a un night bar non viene totalmente dissipato, ma L. si difende energicamente da tali accuse.

Nel frattempo, L. acquista ulteriori funzioni direttive all’interno del partito e diventa presidente federale della SPD. Nel giugno 1993, dopo la nomina di Rudolf Scharping a nuovo presidente del partito, L. viene messo a capo di una commissione della SPD che si occupa di politica economica. Nel 1994 forma la cosiddetta “troika” insieme al candidato alla cancelleria Scharping e al primo ministro della Bassa Sassonia Gerhard Schröder, e diventa ministro-ombra delle Finanze. Quando la SPD perde di nuovo le elezioni federali nell’ottobre 1994, questa volta sotto Scharping, L. riprende la presidenza della SPD con una sorta di colpo di mano, riuscendo a ottenere un voto cruciale contro Scharping dopo aver pronunciato un discorso particolarmente efficace all’assemblea del partito a Mannheim nel 1995.

Nel 1995-1996 L. è presidente della commissione arbitrale fra Bundesrat e Bundestag. Nel 1996 chiede al governo federale di stipulare un patto europeo sulla crescita economica e l’occupazione. Nel 1997, un anno prima delle elezioni, il governo federale accusa L. di “ostruzionismo” per il prevalere di considerazioni strategiche da parte del Bundesrat, dominato dalla SPD, con riguardo alle progettate riforme di tasse e pensioni. Nel 1998 il neodesignato sfidante di Helmut Kohl, Gerhard Schröder, nomina L. ministro-ombra delle Finanze e delle Politiche europee. Dopo la vittoria alle elezioni di settembre L. diventa effettivamente ministro delle Finanze. Poco dopo aver assunto la carica, critica apertamente la politica della Banca centrale tedesca in quella che viene considerata come una pesante intromissione nella politica monetaria indipendente della Banca. Alcuni giornali britannici di orientamento euroscettico (v. Euroscetticismo) diffondono voci allarmanti per mettere in guardia dalla minaccia da parte di Bruxelles di gestire l’economia e stabilire le tasse nel Regno Unito, scegliendo L. come bersaglio prediletto. Il giornale scandalistico “The Sun” lo definisce addirittura «l’uomo più pericoloso d’Europa».

Nel marzo 1999, comunque, L. si dimette sia dalla carica di ministro che da quella di presidente della SPD, dichiarando che la sua carriera politica è conclusa. Nell’ottobre dello stesso anno pubblica il libro Das Herz schlägt links (München 1999), in cui deplora le diatribe interne, specialmente sulla politica fiscale, indicandole come la ragione del suo ritiro, e lamenta altresì la mancanza di “spirito di squadra” all’interno del gabinetto, dichiarazione interpretata come un attacco alla leadership di Schröder. Questa pubblicazione è oggetto di violente critiche sia all’interno della SPD che al di fuori del partito. Malgrado il suo ritiro ufficiale L. continua a intervenire negli affari politici. Per esempio, nel 2003 suggerisce la fusione della SPD dell’Est con il Partito del socialismo democratico (Partei des demokratischen Sozialismus, PDS), succeduto alla Sozialistische Einheitspartei Deutschlands (SED), e nel 2004 viene fatto il suo nome quando alcuni membri dell’ala sinistra della SPD discutono la proposta di creare un nuovo partito di sinistra.

Elke Viebrock (2004)




Láin Entralgo͵ Pedro

L.E. (Urrea de Gaén Teruel 1908-Madrid 2001) studia scienze chimiche e poi medicina, prima a Zaragoza, poi a Valencia, laureandosi rispettivamente nel 1927 e 1930. Lo stesso anno si trasferisce a Madrid per seguire i corsi di dottorato, poi, con una borsa di studio, soggiorna nel 1932 per qualche tempo a Vienna, dove fa esperienze significative presso la Clinica universitaria del prof. Pötzl e dove studia psichiatria. Al rientro esercita per qualche tempo come medico a Siviglia, per poi (dal 1933) prestare servizio come psichiatra nel manicomio di Valencia. Dopo la sollevazione militare del 1936 si iscrive alla Falange e lavora dapprima alla redazione di “Arriba España”, poi, alla Sezione editoriale del Servicio nacional de propaganda, a Burgos, dove nel 1938 si trasferisce con la famiglia. Dall’anno successivo è a Madrid come consigliere nazionale della Falange. Nella capitale fonda assieme a Dionisio Ridruejo la rivista “Escorial” e dirige fino al 1942 la Editora Nacional. Nel frattempo, nell’aprile del 1941, pubblica Los valores morales del Nazionalsocialismo, un testo emblematico della temperie e della peculiare via spagnola al totalitarismo. Nel 1942 vince la cattedra di Storia della medicina dell’Università centrale di Madrid (poi Complutense). Nel 1945 pubblica La generación de ’98. Il suo libro España como problema provoca la risentita replica di Rafael Calvo Serer con España sin problema. È poi rettore dell’Università complutense dal 1951 al 1956, quando deve dimettersi per aver manifestato solidarietà agli studenti in lotta, restandovi come docente fino alla pensione nel 1978. Sempre nel 1956 abbandona formalmente e definitivamente il partito unico, iniziando a prendere anche le distanze dal franchismo per avvicinarsi agli ambienti cattolici meno chiusi e integralisti, che conosceranno un significativo sviluppo in seguito al Concilio vaticano II.

Medico e storico della medicina, giornalista e saggista dalla prosa felice, filologo e drammaturgo, P. è stato uno dei principali intellettuali cattolici degli anni della dittatura franchista, dalla quale andò lentamente allontanandosi, fino alla completa rottura, come testimonia la sua autobiografia, da leggere con il necessario filtro critico, Descargo de conciencia (1976). Dagli anni Sessanta a quelli dell’ultimo franchismo, P. non mancò di esercitare una discreta influenza in vari circoli e ambienti culturali, contribuendo a orientare le giovani generazioni verso un cattolicesimo dai tratti meno illiberali e verso la democrazia. In quel periodo egli auspicò inoltre non solo il riavvicinamento della Spagna all’Europa, ma anche una sorta di europeizzazione del paese, al fine di superare quelle storiche fratture e quei tragici manicheismi che avevano caratterizzato il suo recente passato. Poligrafo instancabile, ha lasciato decine di libri e di studi che spaziano dalla medicina e dalla psicologia all’antropologia, da Menéndez Pelayo, Miguel de Unamuno, José Ortega Y Gasset a Marañón e Ramón y Cajal, mentre mantenne profondi rapporti di amicizia con Xavier Zubiri. Membro della Real Academia Nacional de Medicina (1946), di quella di Historia (1956) e di quella della Lengua (1954), di quest’ultima fu anche presidente dal 1982 al 1987.

Alfonso Botti (2010)




Lalumière, Catherine

L. (Rennes 1935) è laureata in diritto pubblico e diplomata in scienze politiche e storia del diritto. Nel 1960 inizia la sua carriera a Rennes come assistente nella Facoltà di diritto, poi come docente nell’Università di Bordeaux I e all’Institut d’études politiques, prima di trasferirsi all’Università di Parigi I.

Simpatizzante socialista, aderisce al Partito solo nel 1973. Ma la sua ascesa è rapida perché viene nominata delegata nazionale incaricata della funzione pubblica nel 1975 ed è eletta nel comitato direttivo in occasione del congresso di Metz del 1979. Partecipa al gruppo di lavoro sul decentramento costituito da Pierre Mauroy in vista delle elezioni presidenziali del 1981, a fianco di parlamentari come Hubert Dubedout, di professori di diritto come suo marito Pierre L. e di membri del Consiglio di Stato. Dopo la vittoria socialista nel maggio 1981 entra a far parte del governo Mauroy come segretario di Stato presso il primo ministro, incaricata della funzione pubblica e delle riforme amministrative. Poiché il nuovo presidente François Mitterrand ha sciolto l’Assemblea, L. è eletta deputata di Bordeaux in giugno ma cede il suo seggio a Marcel Join per diventare ministro per i Consumi nel secondo governo Mauroy (1981-1983), poi segretario di Stato presso il ministro dell’Economia e delle Finanze nel terzo (1983-1984). Dopo la sostituzione di Mauroy con Laurent Fabius, L. dà inizio alla sua carriera europea come incaricata degli Affari europei presso il ministro degli Esteri Roland Dumas (1984-1986).

Alle elezioni legislative del 1986 la sinistra torna all’opposizione e L. è eletta deputata socialista della Gironda. Dal 1989 al 1995 è anche consigliere comunale di Talence, municipalità alla periferia di Bordeaux. Ma porta avanti soprattutto il suo impegno europeo. È segretario generale del Consiglio d’Europa dal giugno 1989 al maggio 1994 e consigliere comunitario per la comunità urbana di Bordeaux.

Allontanatasi dal Partito socialista, alle Elezioni dirette del Parlamento europeo del giugno 1994 è eletta nella lista del Partito radicale di sinistra in cui è capolista Bernard Tapie. Quindi presiede il gruppo parlamentare dell’Alleanza radicale europea fino al 1999. È membro della Commissione affari esteri, per la sicurezza, per la politica di difesa, della sottocommissione per la sicurezza e il disarmo, della Delegazione per i rapporti con la Russia, l’Ucraina, la Bielorussia e la Moldavia, infine membro supplente della Delegazione alla Commissione parlamentare mista Unione europea-Ungheria. Nel 1999 è rieletta deputato europeo nella lista “Costruiamo la nostra Europa” ed entra nell’ufficio del gruppo parlamentare del Partito socialista europeo (PSE). È membro della Commissione affari esteri, per i Diritti dell’uomo, per la sicurezza comune e la politica di difesa (v. anche Politica europea di sicurezza e difesa) e membro supplente della Commissione per lo sviluppo e la cooperazione (v. anche Politica europea di cooperazione allo sviluppo). È anche membro della delegazione per i rapporti con l’Assemblea parlamentare dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) e della delegazione alla commissione parlamentare di cooperazione Unione europea-Russia. Nel 2002 è eletta vicepresidente del Parlamento europeo. In occasione del rapporto sull’Allargamento in dicembre, si rammarica che non sia stata promossa nessuna vera campagna d’informazione, nei riguardi sia delle popolazioni interessate che degli abitanti dell’Unione europea.

Dopo aver perso il marito, il professor Pierre L., scomparso il 21 gennaio 1996, si impegna nella vita politica dell’Ile-de-France ed è consigliere regionale radicale di sinistra di questa regione dal 1998 al 2004. Entra a far parte dell’Alto consiglio di cooperazione internazionale, istanza consultiva presso il primo ministro, alla sua creazione nel 1999 e conserva questo mandato fino al 2002.

Nel giugno 2004 non rientra al Parlamento europeo e si dedica alla presidenza della Maison d’Europe a Parigi. Vicepresidente del Partito radicale di sinistra dal gennaio 2005, fa campagna a favore della Costituzione europea in occasione del referendum di maggio. membro dell’ufficio del Mouvement européen France, presieduto da Pierre Moscovici, vicepresidente del Mouvement européen international (v. anche Movimento europeo) e dirige il Relais culture Europe, creato nel 1998 e destinato ad accompagnare l’attuazione del programma “Cultura 2000”.

Noëlline Castagnez (2005)




Lambert Schaus




Lamberto Dini




Lamers, Karl

L. (Königswinter, Vestfalia 1935) consegue il diploma presso l’Aloisiuskolleg di Bad Godesberg (Vestfalia meridionale) nel 1956 e intraprende, poi, gli studi in giurisprudenza e politologia, prima all’università di Bonn e poi di Colonia. Il suo impegno politico comincia nel 1955 tra le fila della Christlich demokratische Union (CDU) ed è immediatamente così intenso che si accontenta di sostenere solo il primo esame di Stato per dedicarsi completamente alla politica.

Nel novembre del 1966 L. dirige l’istituto scolastico Karl Arnold a Bad Godesberg, nel 1968 diventa presidente regionale (Renania) della Junge Union (unione dei giovani cristiano-democratici) e si mette in luce nel gruppo regionale della CDU nel cui consiglio direttivo è eletto nel 1971. Dal 1975 al 1981 ne è invece il vicepresidente regionale.

Per ben due volte, nel 1972 e nel 1976, cerca di ottenere senza successo un mandato al Bundestag e il fallimento è ascritto dalla stampa dell’epoca alle sue idee spesso poco convenzionali che gli valsero il nomignolo di Roter Karl (“Karl il rosso”; “Süddeutsche Zeitung”, 23 aprile 1992). In occasione delle elezioni del 1980 L. è eletto finalmente al Bundestag, ma attira l’attenzione su di sé solo nel 1987 quando sostituisce Jürgen Todenhöfer alla presidenza della sottocommissione al disarmo della commissione esteri e diventa portavoce per la politica del disarmo all’interno del gruppo parlamentare CDU/Christlich-soziale Union (CSU). Egli si dimostra sempre più un antesignano di quella che sarà la “politica di distensione” nei confronti degli Stati dell’Est e sostenitore di una più stretta collaborazione tra Francia e Germania dell’ovest (v. Germania). Nella primavera del 1989 L. presenta le sue 17 riflessioni sul riassetto politico dell’Europa all’interno delle quali sottolinea gli obblighi morali di Bonn nei confronti di quegli Stati dell’Est europeo ormai liberi dall’influenza dell’Unione Sovietica. Egli lotta per l’allontanamento da una visione isolata della politica per il disarmo e propone invece di operare all’interno di un grande contesto politico che veda impegnate tutte le nazioni europee.

Dopo le elezioni politiche del 1990, succede a Michaela Geiger (CSU) alla carica di portavoce per la politica estera del gruppo parlamentare CDU/CSU. In questo ruolo L., secondo gli osservatori dell’epoca, è uno degli ideatori e promotori dell’unione fra CDU e CSU. Nel 1993 interviene nella discussione aperta in merito alla partecipazione delle forze armate tedesche, come di “forze di pace”, all’intervento dell’ONU nei Balcani.

Nel 1994 L. è coautore del cosiddetto “Documento Schäuble-L.” (v. anche Schäuble, Wolfgang) sull’evoluzione dell’Unione europea (UE): i due autori espongono l’idea per la quale gli Stati che rappresentano il cuore dell’Europa (Germania e Francia) sarebbero i precursori del processo di unificazione europea. Grazie a questo documento L. è confermato nel suo incarico e diventa un interlocutore molto richiesto in tutte le grandi capitali europee. Nel corso della legislatura 1994-98 L. preme per un veloce Allargamento ad est dell’Europa, promuove il completamento europeo dell’allargamento a Est dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Altantic treaty organization, NATO) e si esprime a favore del proseguimento dell’impiego della Stabilization force (SFOR) in Bosnia.

Dopo le elezioni del 1998 che portano al governo la coalizione guidata da Gerhard Schröder (Sozialdemokratisce Partei Deutschlands, SPD), l’Unione (CDU/CSU), ormai all’opposizione, conferma nuovamente a L. l’incarico di portavoce per la politica estera. Il suo intervento del dicembre del 1998, in merito a una riforma della NATO in cui l’Europa intervenga come un soggetto unico, ottiene grande considerazione. L. lavora per ottenere un maggiore coinvolgimento europeo nelle questioni mediorientali e nel Nord Africa. Egli esprime al Bundestag il proprio scetticismo sull’intervento nell’ex Iugoslavia e nel Kosovo e nel 1999 afferma che per raggiungere una pace durevole nei Balcani è necessario riformare la politica della NATO. L. si esprime in favore dell’abbandono dell’idea falsata di un Kosovo unito e multietnico che si collochi all’interno dei confini della federazione iugoslava: è necessario, invece, riconoscere e realizzare un’effettiva divisione del paese in due zone indipendenti, una albanese e l’altra serba.

Nelle discussioni sull’allargamento a Est dell’Unione europea, L. chiede un’ampia riforma istituzionale e sollecita l’allora ministro degli Esteri Joschka Fischer a dare più sostanza al discorso sull’Europa che avrebbe tenuto nel maggio 2000 a Berlino (“Die Woche”, 19 maggio 2000).

L. causa irritazione all’interno del suo stesso partito all’inizio del 2001 con le sue critiche al sistema di difesa antimissile degli Stati Uniti e con le sue affermazioni secondo le quali gli europei non dovrebbero lasciare solo agli americani il compito di rappresentare gli interessi occidentali nel mondo.

Con il suo ultimo discorso sulle “relazioni transatlantiche”, L. si congeda dal parlamento e dai suoi colleghi di partito. Si dimette dai suoi incarichi pubblici alla fine della legislatura nell’ottobre del 2002.

Agata Marchetti (2005)