LIAA

Agenzia lettone per l’investimento e lo sviluppo (LIAA)




Libera circolazione dei servizi

Cenni preliminari

I servizi rappresentano, con le merci, le persone e i capitali, uno dei quattro fattori produttivi la cui libera circolazione contribuisce alla realizzazione del mercato interno europeo (art. 3, n. 1, lett. c del Trattato che istituisce la Comunità economica europea). La liberalizzazione dei servizi è disciplinata dagli artt. 49–55 del Trattato istitutivo della Comunità europea (trattato CE) (v. Trattati di Roma), articoli che vengono riportati senza sostanziali variazioni nel Trattato che adotta una Costituzione europea. Le norme sulla libera circolazione dei servizi si completano con quelle sul diritto di Libertà di stabilimento (artt. 43-48 del Trattato CE) e insieme costituiscono il regime giuridico per la libera circolazione dei lavoratori autonomi.

La disciplina sui servizi, come definita dal Trattato CE, è determinata da principi di carattere generale che sono stati completati negli anni dalla Giurisprudenza della Corte di giustizia dellee dall’intervento normativo delle Istituzioni comunitarie.

L’attività autonoma, oggetto della normativa, è caratterizzata dalla temporaneità: il prestatore non esercita stabilmente nello Stato in cui va a operare.

La definizione di servizio viene data dall’articolo 50, in cui si evidenzia l’elemento della retribuzione per l’identificazione delle prestazioni che beneficiano della liberalizzazione; queste attività non devono rientrare tra le previsioni delle norme relative alla Libera circolazione delle merci, alla Libera circolazione dei capitali e alla Libera circolazione delle persone. Si determina così il carattere residuale della categoria dei servizi, definita per esclusione. La sua individuazione non sempre è agevole anche se, in linea di principio, si può affermare che non sono comprese in questa categoria attività che realizzano principalmente la produzione di beni e quelle rientranti nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato.

Il Trattato esemplifica le categorie interessate: attività di carattere industriale, commerciale, artigianale, libere professioni. Questo non ha impedito che negli anni la giurisprudenza della Corte ampliasse tale definizione comprendendo, tra gli altri, le attività sportive, le prestazioni mediche, i servizi turistici. L’articolo 51 esclude i servizi in materia di trasporti che vengono regolati al titolo V del Trattato CE; sono esclusi anche i servizi bancari e assicurativi in quanto legati alla liberalizzazione dei movimenti di capitali, peraltro oggi ormai completata.

La prestazione deve essere “normalmente” retribuita e dunque economicamente rilevante; questo comporta che nella definizione di servizio dovranno essere comprese quelle attività che possono essere, in limitate occasioni, svolte senza retribuzione come, ad esempio, le prestazioni sportive.

Come principio generale, il prestatore deve essere stabilito in uno Stato diverso da quello in cui la prestazione è fornita. La libera circolazione dei servizi è, infatti, garantita ad attività che vedono coinvolti almeno due Stati membri. Essa presuppone lo spostamento, occasionale o temporaneo, di un prestatore che opera nello Stato del destinatario oppure uno spostamento del destinatario che usufruisce occasionalmente del servizio nello Stato del prestatore. Mentre il primo caso è espressamente previsto all’articolo 50, la possibilità che si sposti il beneficiario è stata definita dalla Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) quale necessario complemento per realizzare la liberalizzazione di ogni attività retribuita che non rientri nella libera circolazione delle merci, delle persone e dei capitali (sentenza 31 gennaio 1984, Luisi e Carbone, cause riunite 286/82 e 26/83, “Raccolta della giurisprudenza”, p. 377). La localizzazione dell’attività che rileva per l’applicazione del Diritto comunitario in materia di servizi può interessare uno Stato membro diverso da quello del prestatore e del destinatario. Rientra nella disciplina comunitaria in materia di servizi anche il caso in cui non si spostano né prestatore, né utente ma solo il servizio. È questa una fattispecie particolarmente rilevante, dato lo sviluppo delle tecnologie di comunicazione; interessa attività quali i servizi finanziari e la diffusione di servizi di telecomunicazioni.

Il carattere “transfrontaliero”, richiesto dalla definizione stessa di servizio, fa sì che vengano escluse dalla normativa comunitaria tutte quelle prestazioni che, pur appartenenti alla categoria dei servizi, hanno una rilevanza unicamente interna: dovranno essere considerate tali quelle attività il cui ambito di svolgimento non supera i confini del singolo Stato. Si possono verificare in questi casi situazioni di “discriminazioni a rovescio”; il prestatore che opera stabilmente in un determinato Stato può ricevere da questo un trattamento meno favorevole di quello accordato, in base al diritto comunitario, a un prestatore proveniente da un altro Stato membro.

Soggetti, principi fondamentali e attuazione della libera circolazione dei servizi

Beneficiano della libera circolazione dei servizi i cittadini degli Stati membri, stabiliti in un paese della Comunità che non sia il destinatario della prestazione (art. 49,1). Il requisito della Cittadinanza europea è previsto per il prestatore del servizio ma non per il beneficiario, per il quale è sufficiente essere residente nella Comunità. Lo stabilimento del prestatore all’interno della Comunità consente di condizionare la liberalizzazione all’esistenza di un effettivo legame con il territorio di uno Stato membro ed evitare distorsioni alla concorrenza (v. Politica europea di concorrenza). Il requisito dello stabilimento è richiesto anche dall’art. 49,2 che prevede la possibilità di estendere il beneficio della liberalizzazione a cittadini di Stati terzi solo se stabiliti in uno Stato membro. Tale requisito non deve, però, sommarsi a quello della residenza nello Stato in cui il servizio viene prestato; in questo senso si orientavano le passate proposte della Commissione europea.

Per quanto riguarda le società, esse sono equiparate alle persone fisiche quando le prime sono costituite in base alla legislazione di uno Stato membro, hanno la sede sociale, l’amministrazione centrale o il centro di attività principale all’interno della Comunità.

Il criterio della “temporaneità” della prestazione, richiesto per la definizione di servizio, serve a differenziare tale fattispecie da situazioni che più propriamente rientrerebbero nella disciplina del diritto di stabilimento e della libera circolazione delle persone. La Corte di giustizia ha evidenziato come l’occasionalità della prestazione debba essere apprezzata in base alla durata e alla frequenza; non necessariamente si esclude l’utilizzo di infrastrutture quali un ufficio o uno studio professionale (sentenza 30 novembre 1995, Gebhard, causa C-55/94, “Raccolta della giurisprudenza”, p. I-4165). Sono attività regolate dalle norme comunitarie sulla libertà di stabilimento quelle attività per le quali si può determinare il criterio della continuità della prestazione e della sua stabilità; rientrano, invece, nella libera circolazione dei servizi quelle attività che prevedono occasionalmente l’attraversamento delle frontiere del prestatore o destinatario. Le prestazioni in cui è il servizio a muoversi, come ad esempio le trasmissioni televisive, pur con carattere di continuità, rientreranno nella libera circolazione dei servizi.

Due sono i principi fondamentali che regolano la libera circolazione dei servizi: il divieto di restrizioni basate sulla nazionalità (art. 49) e il diritto al trattamento nazionale (art. 50). Si garantisce, infatti, il diritto a esercitare temporaneamente un’attività autonoma in uno Stato diverso da quello in cui è stabilito il prestatore. Lo Stato in cui viene svolta la prestazione non potrà introdurre restrizioni a tali attività se non quelle imposte ai propri cittadini. In base alla giurisprudenza della Corte, il divieto di restrizioni deve intendersi come principio autonomo. Se, dunque, l’attività sporadicamente svolta in un altro Stato comunitario può essere fornita alle stesse condizioni imposte dal paese di destinazione ai propri cittadini (art. 50,3), questo non significa che debba essere sottoposta alla normativa dello Stato di destinazione come avverrebbe nel caso di stabilimento. La disciplina della libera circolazione dei servizi ha, infatti, come obiettivo quello di non ostacolare la temporanea prestazione con il suo assoggettamento a diverse normative nazionali. Lo Stato dovrà eliminare le restrizioni che nel proprio ordinamento possono impedire lo svolgimento occasionale del servizio da parte di operatori stabiliti in un altro Stato e che, quindi, costituiscono una discriminazione diretta; un esempio è rappresentato dall’imposizione dell’obbligo della residenza del prestatore.

Il divieto di discriminazione imposto dall’articolo 49 si estende anche a tutte le misure che, formalmente indirizzate a nazionali e a stranieri, nascondono, in realtà, delle discriminazioni indirette. Sono considerati tali il requisito del possesso di una determinata qualifica professionale così come l’imposizione di altre formalità che possono dissuadere il prestatore straniero. Lo Stato di destinazione deve riconoscere il controllo dell’attività come effettuato nel paese di origine del prestatore (principio del mutuo riconoscimento), superando così il principio del trattamento nazionale.

Come per le altre libertà fondamentali, anche il divieto di restrizioni alla libera circolazione dei servizi può, in determinate ipotesi, essere derogato. Il richiamo esplicito dell’articolo 55 all’applicazione degli articoli da 45 a 48 sul diritto di stabilimento anche in materia di servizi fa sì che siano, innanzitutto, escluse dalla liberalizzazione le attività a cui partecipino sia pure occasionalmente pubblici poteri (art. 45). È questa una limitazione che la Corte ha interpretato in modo restrittivo, comprendendo attività che implichino una partecipazione diretta e specifica all’esercizio dei pubblici poteri. L’articolo 46 lascia, poi, impregiudicata l’applicabilità delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative che prevedano un regime particolare, discriminatorio, per i cittadini stranieri e si giustifichino per motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica. Deroghe possono essere introdotte anche da misure interne indistintamente applicabili, non discriminatorie, finalizzate a tutelare «esigenze imperative connesse all’interesse generale», via via identificate dalla giurisprudenza della Corte (in particolare, sentenza 25 luglio 1991, Gouda, causa C-288/89, “Raccolta della giurisprudenza”, p. I-4007). Interessi che non vengono adeguatamente salvaguardati dallo Stato del prestatore possono, dunque, rendere legittime deroghe alla libera circolazione dei servizi purché le misure adottate siano necessarie e proporzionali al fine per il quale sono adottate; non devono inoltre celare interessi economici. Nel caso in cui si sia proceduto all’Armonizzazione di un determinato servizio, saranno legittime solo le restrizioni per esigenze nazionali ammesse dalle direttive comunitarie. Tali deroghe sono da considerarsi eccezionali e spetterà allo Stato che le invoca dimostrare la loro ammissibilità.

Il processo di liberalizzazione, come ipotizzato nel Trattato originario, è un processo graduale, basato sulla progressiva eliminazione delle restrizioni ancora esistenti, con l’intervento di armonizzazione delle istituzioni comunitarie tramite l’adozione di direttive (v. Direttiva) (art. 52). Gli Stati, da parte loro, si sono impegnati fin dall’origine a non introdurre nuovi ostacoli (clausola di stand-still, art. 62 ora abrogato) e ad applicare le restrizioni ancora da sopprimere senza distinzione di nazionalità o di residenza dei prestatori di servizi (art. 54). Le direttive per l’eliminazione delle restrizioni avrebbero dovuto essere approvate entro la fine del periodo transitorio in base al Programma generale del Consiglio dei ministri (“Gazzetta ufficiale delle Comunità europee” del 15 gennaio 1962). L’adozione di altre direttive avrebbe favorito l’armonizzazione delle disposizioni per il riconoscimento delle qualifiche professionali e per la liberalizzazione del mercato (art. 47).

Allo scadere del periodo transitorio, la liberalizzazione era tutt’altro che completata. Dalla fine di tale periodo, tuttavia, la giurisprudenza della Corte di giustizia ha affermato la diretta applicabilità degli articoli 49 e 50 (sentenza 3 dicembre 1974, Van Binsbergen, “Raccolta della giurisprudenza”, p. 1299). Il diritto del prestatore di non essere oggetto di discriminazione a causa della sua nazionalità o della sua residenza in uno Stato diverso da quello della prestazione, deve pertanto essere considerato un diritto direttamente azionabile dal singolo davanti al giudice nazionale e impone allo Stato di conformare la propria legislazione in materia. Secondo la Corte, infatti, le direttive avrebbero facilitato la realizzazione della libera circolazione dei servizi; a partire dalla fine del periodo transitorio, la loro mancata adozione non ha condizionato sostanzialmente l’attuazione dell’obbligo di risultato posto a carico degli Stati. Efficacia diretta è sempre stata riconosciuta anche a quelle disposizioni, precise e incondizionate, contenute in direttive il cui obiettivo è rendere concreto lo svolgimento della libera prestazione dei servizi (sentenza 17 ottobre 1989, Carpaneto Piacentino, cause riunite 231/87 e 129/88, “Raccolta della giurisprudenza”, p. 3233). Lo Stato dovrà, pertanto, eliminare tutte le disposizioni nazionali che possano configurarsi come una discriminazione o un ostacolo. Il divieto di applicare norme discriminatorie riguarda anche enti privati, quali le federazioni sportive, che abbiano la capacità di fissare regole in materia di prestazione di servizi.

Sotto l’impulso fondamentale della giurisprudenza della Corte, le istituzioni comunitarie hanno, in questi anni, contribuito al completamento del mercato interno dei servizi con numerose direttive di armonizzazione delle legislazioni soprattutto in materia di reciproco riconoscimento dei diplomi, certificati e altri titoli. Come previsto dal Trattato (art. 47,2), numerose direttive sono state adottate in materia di coordinamento delle disposizioni normative per l’accesso e per l’esercizio di determinate attività non salariate. È stata, pertanto, determinata una liberalizzazione relativa a singole professioni e un sistema generale di riconoscimento dei diplomi. Per quanto riguarda il riconoscimento delle qualifiche professionali, basilare anche per quanto concerne la disciplina sulla libertà di stabilimento, si ricordi la direttiva 2005/36/CE (in “Gazzetta ufficiale dell’Unione europea” n. L 255 del 30 settembre 2005) che raggruppa in un unico testo dodici direttive settoriali, tra cui quelle relative alla professione di medico, e tre direttive relative al sistema generale (v. anche Spazio europeo dell’istruzione superiore).

Gli ostacoli alla piena attuazione della liberalizzazione

Nonostante l’attività normativa delle istituzioni comunitarie e l’impronta liberista sostenuta e propugnata dalla giurisprudenza della Corte, numerosi sono ancora gli ostacoli che impediscono la piena realizzazione della liberalizzazione di questo settore. La soppressione delle barriere giuridiche e amministrative esistenti è diventata la finalità della nuova direttiva, conosciuta anche come “direttiva Bolkestein”, (direttiva n. 2006/123/CE, GUUE, n. L 376 del 27 dicembre 2006). Adottata a fine dicembre 2006, dovrà essere trasposta nell’ordinamento degli Stati membri entro dicembre 2009. Obiettivo della direttiva è il completamento del mercato interno, favorendo la libera prestazione dei servizi e il diritto di stabilimento, promuovendo servizi qualitativamente elevati e la tutela dei destinatari, rafforzando la cooperazione tra le amministrazioni degli Stati. La semplificazione amministrativa stabilisce (v. Semplificazione legislativa), in particolare, l’istituzione di sportelli unici per l’assolvimento delle formalità burocratiche e il potenziamento delle procedure che utilizzano mezzi elettronici. Il capo IV, specifico per la libera circolazione dei servizi, prevede all’articolo 16 che gli Stati assicurino il libero accesso a un’attività di servizi e il libero esercizio della medesima sul loro territorio. Eventuali requisiti devono rispettare il Principio di non discriminazione sulla base della nazionalità, il principio della necessità e della Principio di proporzionalità. Devono, infatti, essere giustificati da ragioni di ordine pubblico, di pubblica sicurezza, di sanità pubblica e di tutela dell’ambiente. Al prestatore non possono essere imposte misure quali lo stabilimento; tranne in determinati casi, l’obbligo di ottenere autorizzazioni compresa l’iscrizione ad un albo professionale; il divieto di dotarsi di un’infrastruttura. Sono anche tutelati i diritti dei destinatari dei servizi per i quali non possono essere fissati requisiti che limitano l’utilizzazione di un servizio da parte di un prestatore stabilito in un altro Stato membro (art. 19) o che costituiscono una discriminazione basata sulla nazionalità o luogo di residenza (art. 20). La direttiva recepisce dunque la giurisprudenza della Corte e ha l’ambizione di costituire un quadro giuridico generale per qualsiasi servizio fornito dietro corrispettivo economico. Il suo campo di attuazione è, però, circoscritto dagli articoli 2 e 17 che escludono l’applicazione della nuova normativa per determinati tipi di servizi, primi fra tutti i servizi di interesse economico generale. Essa si propone di rafforzare il mercato dei servizi per renderlo più competitive, ma non tocca i profili esterni della disciplina; interessa, infatti, solo i prestatori stabiliti in uno Stato membro. Non riguarda i negoziati internazionali per gli scambi di servizi ed esclude esplicitamente (considerando n. 16) le questioni connesse alla partecipazione della Comunità e degli Stati membri all’Accordo generale sugli scambi di servizi (General agreement on trade in services, GATS).

Silvia Cantoni (2007)




Libera circolazione dei capitali

Cenni preliminari

L’articolo 56 (ex 73B) del Trattato istitutivo della Comunità Europea (v. Trattati di Roma) sancisce la libera circolazione dei capitali tra paesi membri, disponendo che «sono vietate tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi». L’articolo 58 poi stabilisce che «le disposizioni dell’art. 56 non pregiudicano il diritto degli Stati membri (lett. a) di applicare le pertinenti disposizioni della loro legislazione tributaria in cui si opera una distinzione tra i contribuenti che non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il loro luogo di residenza o il luogo di collocamento del loro capitale», nonché (lett. b) di «prendere tutte le misure necessarie per impedire le violazioni della legislazione e delle regolamentazioni nazionali, in particolare nel settore fiscale». E infine, ai sensi dell’art. 58 (paragrafo 3), «le misure e le procedure di cui ai paragrafi 1 e 2 non possono costituire un mezzo di discriminazione arbitraria, né una restrizione dissimulata al libero movimento dei capitali e dei pagamenti».

Nella sua formulazione odierna, conseguente alle modifiche intervenute nel 1993 (Trattato di Maastricht istitutivo dell’Unione europea), la norma cristallizza il principio già alla base della direttiva comunitaria 88/361/CEE, la quale stabiliva la completa libertà di movimento dei capitali e dei pagamenti all’interno della (allora) Comunità economica europea.

Prima dell’anzidetta modifica, il principio di libera circolazione del capitale non trovava espressa accoglienza all’interno del Trattato, e il vecchio articolo 67 disponeva semplicemente che «gli Stati membri sopprimono gradatamente tra loro, durante il periodo transitorio e nella misura necessaria al buon funzionamento del mercato comune, le restrizioni ai movimenti dei capitali appartenenti a persone residenti negli Stati membri e parimenti le discriminazioni di trattamento fondate sulla nazionalità o la residenza delle parti o sul luogo di collocamento del capitale».

Orbene, è evidente come tale disposizione, nella sua formulazione testé accennata, poco si prestasse all’attuazione degli obiettivi dichiarati nel Trattato di Maastricht – ossia la creazione di un’Unione economica e monetaria, caratterizzata da una politica monetaria comune e centralizzata – proprio perché mancava quel coordinamento essenziale per l’attuazione di una strategia univoca in materia di libera circolazione del capitale (v. Tesauro, 2003, p. 550).

A tal merito, deve essere individuato un ulteriore evento di estrema importanza nel processo di liberalizzazione dei flussi di capitale, ossia l’entrata in vigore dell’Euro. La moneta unica, uniformando l’unità di conto per la determinazione del valore di beni, servizi, capitali, e più in generale di ogni attività economica a livello comunitario, introduce un elemento di trasparenza nel sistema, grazie al quale sono limitati gli arbitraggi e le alterazioni del (e nel) mercato basati sul valore della moneta e sulle dinamiche valutarie. Laddove i valori economici sono espressi da una stessa moneta, c’è maggiore probabilità che gli investimenti si dirigano verso la fonte economicamente più efficiente.

Nel quadro descritto, è proprio la presenza di aliquote d’imposta differenziate a provocare verosimilmente le maggiori distorsioni nel mercato, se non altro per l’intuibile propensione degli investitori a impiegare il capitale negli Stati che “offrono” livelli di tassazione più contenuti (v. Sacchetto, 2000). Si rende pertanto necessario un coordinamento delle legislazioni tributarie nazionali volto ad assicurare il livello più elevato di competitività del (e nel) sistema.

Il processo europeo di liberalizzazione dei flussi di capitale ha visibilmente inciso sugli aspetti legati alla tassazione diretta, ciò sia con riferimento alle modifiche dell’ordinamento fiscale nazionale (d.l. 28 giugno 1990, n. 167, convertito con la l. 4 agosto 1990, n. 227, normativa sul monitoraggio fiscale), sia con riferimento alla disciplina fiscale in materia di flussi intracomunitari di dividendi e interessi.

Ma le principali innovazioni, nella prospettiva fiscale di implementazione della libertà in esame, si rinvengono al di fuori del contesto normativo in senso tecnico. Ci si riferisce, in particolare, alla Giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, la quale, applicando le disposizioni del Trattato nell’ambito di talune fattispecie impositive nazionali, ne ha dichiarato l’incompatibilità rispetto ai principi fondamentali sanciti dal Trattato (principio di non discriminazione, libera circolazione dei capitali, Libera circolazione delle merci, Libera circolazione dei servizi, Libera circolazione delle persone, Libertà di stabilimento), generando il processo noto con il nome di “integrazione negativa” (v. Boria, 2004) (v. Integrazione, metodo della; Integrazione, teorie della).

La presente analisi sarà svolta considerando separatamente l’attività della Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) in tema di libera circolazione del capitale e il suo influsso sulle legislazioni fiscali dei paesi membri; di seguito, si vedrà la normativa italiana sul monitoraggio fiscale e la c.d. direttiva sul risparmio.

La libera circolazione del capitale negli interventi della Corte di giustizia

Come noto, la Corte di giustizia dell’Unione europea è chiamata – tra l’altro – a pronunciarsi in via pregiudiziale sull’interpretazione del Trattato. In virtù di tale prerogativa, la Corte, considerata la prolungata inattività delle altre Istituzioni comunitarie nel campo della fiscalità diretta, ha assolto una importante funzione nomofilattica, soprattutto negli ultimi anni e con spiccata vocazione nella materia qui in esame (v. Gamme, 2003; García Prats, 2003; Hinnekens, 2002; Pistone, 1995; Sacchetto, 2000).

Il diritto tributario europeo è stato “trainato” dalle interpretazioni della Corte, che, applicando i principi del Trattato, ha dichiarato l’illegittimità delle disposizioni fiscali degli Stati membri direttamente o indirettamente incompatibili con siffatti principi. È qui appena il caso di ribadire che, come puntualizzato inter alia da Roccataglia (v., 2005), una fiscalità europea non esiste, in virtù della semplice constatazione che i Trattati su cui si fonda l’Unione europea (il cui cardine è come noto rappresentato dal Trattato istitutivo della Comunità europea, così come rivisto e corretto dall’Atto unico europeo del 1986, dal trattato di Maastricht sull’Unione europea del 1992, dal Trattato di Amsterdam del 1997 e dal Trattato di Nizza del 2000) non attribuiscono alle istituzioni comunitarie competenze fiscali tali da permettere loro la creazione di una propria imposta, di definire la base imponibile e la determinazione, nonché di assicurarne la riscossione. Pertanto, a parere di Roccataglia, può affermarsi che al concetto di fiscalità comunitaria corrisponde, piuttosto che un ordinamento fiscale vero e proprio, un sistema di regole europee di portata fiscale che hanno un’incidenza sulla struttura e sull’evoluzione delle fiscalità nazionali degli Stati membri per il completamento degli obiettivi della costruzione europea (in tal senso v. Dibout, 1995; per una posizione incline ad accettare l’idea di una futura sovranità impositiva dell’Unione europea, non necessariamente a scapito della sovranità degli Stati membri, v. Gallo, 2003).

Anche in tema di libera circolazione dei capitali si viene sempre più nitidamente delineando la matrice unitaria sottesa alle decisioni della Corte; in proposito, non deve sorprendere il relativo ritardo nella attuazione di detto principio rispetto alle altre libertà fondamentali contemplate dal Trattato, evidentemente dovuto alla tardiva entrata in funzione degli artt. 56 e ss. nella loro veste attuale (di cui si è già detto sopra).

La libertà in parola si riferisce a tutti i tipi di investimenti fruttiferi, siano essi relativi a immobili detenuti in Stati diversi da quello di residenza o cittadinanza (cfr. al riguardo il recente caso D, Corte di giustizia, 5 luglio 2005, C-376/03, sul quale v. Weber, 2005, e Van Thiel, 2007; v. anche Corte di giustizia, Conclusioni dell’avvocato generale J. Mazàk, 26 aprile 2007, C-451/05, Européenne et Luxembourgeoise d’investissements SA – Elisa – vs Directeur général des impôts e Ministère public), siano essi rappresentati da attività più propriamente finanziarie (come ad esempio i rendimenti derivanti da investimenti nei mercati finanziari), siano, infine, correlati allo svolgimento di un’attività economica effettiva in uno Stato membro diverso da quello di residenza dell’investitore. Sul punto, la Corte di giustizia ha specificato che, nell’interpretazione del sintagma “libero movimento dei capitali”, debba farsi riferimento all’allegato I della direttiva n. 88/361/CEE, contenente l’elenco dei “movimenti di capitale” ai quali si applica la libertà in parola (Corte di giustizia, 16 marzo 1999, C-222/97, Trummer & Mayer; Corte di giustizia, 14 dicembre 1995, cause riunite C‑163/94, C‑165/94 e C‑250/94, Sanz de Lera).

A tale merito, è interessante verificare l’impatto delle sentenze della Corte di giustizia in tema di libera circolazione dei capitali, relativamente ai sistemi di coordinamento tra tassazione di società e soci previsti a livello dei singoli ordinamenti tributari nazionali (v. Tesauro, 2005; con specifico riguardo al sistema italiano della participation exemption v. Fedele, 2004; Fantozzi, 2004; Russo, 2004; Lupi, 2007). Occorre a tale proposito premettere che gli Stati più evoluti adottano, alternativamente, il sistema dell’esenzione e il meccanismo del credito d’imposta per eliminare o attenuare la doppia imposizione economica degli utili societari, fenomeno che si realizza quando gli utili sono tassati una volta in capo alla società sotto forma di redditi d’impresa, e una seconda volta quando affluiscono in capo ai soci sotto forma di dividendi. I meccanismi in questione occorrono nell’ipotesi in cui il legislatore abbia optato per un sistema di “imputazione-organizzazione”, ossia nel caso in cui il reddito sia fiscalmente imputato alla società, prima di confluire in capo ai soci; qualora diversamente il legislatore prediliga un sistema di imputazione “per trasparenza”, i risultati dell’ente saranno automaticamente imputati ai soci “pro quota”; in detta ultima ipotesi, non serve provvedere all’eliminazione della doppia imposizione economica dell’utile societario, attraverso il metodo dell’esenzione o del credito d’imposta (v. Porcaro, 2001).

Rispetto allo specifico punto, la Corte ha adottato due diversi approcci, rilevando che mentre nel caso in cui l’azionista detenga una partecipazione qualificata al capitale della società le eventuali distorsioni provocate dal sistema di tassazione dei dividendi debbano essere superate attingendo al principio di libertà di stabilimento (artt. 43 e 48 del Trattato), nella diversa e speculare ipotesi in cui le partecipazioni al capitale non superino le soglie di rilevanza, le eventuali conseguenze pregiudizievoli connesse alla tassazione dei dividendi possano essere risolte alla luce del principio di libera circolazione del capitale. Tanto è lecito desumere da alcune recenti pronunce (ad esempio Corte di giustizia, 12 settembre 2006, C-196/04, Cadbury Schweppes, su cui v. Meussen, 2007; Corte di giustizia, 13 aprile 2000, C-251/98, Baars, ai sensi della quale «l’art. 43 osta alla normativa tributaria di uno Stato membro la quale, nel caso in cui una partecipazione nel capitale di una società conferisca al detentore di azioni un’influenza sicura sulle decisioni della società e gli consenta di indirizzarne le attività, conceda ai cittadini degli Stati membri che risiedono sul suo territorio un’esenzione totale o parziale dall’imposta sul patrimonio a fronte del patrimonio investito in azioni nella società; ma subordini tale esenzione al presupposto che la partecipazione sia detenuta in una società stabilita nello Stato membro interessato, negandola invece ai detentori di azioni di società stabilite in altri Stati membri»). In tali pronunce i giudici comunitari osservano che «si avvale del diritto di stabilimento il cittadino di uno Stato membro il quale detenga nel capitale di una società stabilita in un altro Stato membro una partecipazione tale da conferirgli una sicura influenza sulle decisioni della società e da consentirgli di indirizzarne l’attività» (Corte di giustizia, 13 aprile 2000, C-251/98, punto 22 della motivazione. Identicamente, Corte di giustizia, 21 novembre 2002, C-436/00, Riksskatteverket).

In applicazione dell’articolo 56, è stata ritenuta dalla Corte incompatibile con il Trattato la normativa fiscale finlandese che concedeva un credito d’imposta ai propri residenti esclusivamente per i dividendi ricevuti da una società finlandese e non anche per i dividendi distribuiti da società residenti in altri Stati membri (Corte di giustizia, 7 settembre 2004, C-319/02, Manninen, su cui v. Lupi, 2004; v. Pistone, 2004; v. Franzè, 2005; v. Ballancin, 2004). Analoga soluzione è stata adottata riguardo a una disposizione fiscale olandese che subordinava l’esenzione dei dividendi in capo a una persona fisica residente alla condizione che la società distributrice dei dividendi fosse anch’essa residente nel territorio dello Stato (Corte di giustizia, 6 giugno 2000, C-35/98, Verkooijen, su cui v. Giorni, 2000; v. Lupo, 2000). Infine, la Corte ha dichiarato incompatibile con l’art. 56 la normativa svedese che escludeva che il cedente potesse beneficiare del differimento del pagamento dell’imposta sulle plusvalenze realizzate sulle azioni cedute, qualora la cessione fosse effettuata a favore di una società non residente direttamente o indirettamente controllata dallo stesso cedente (Corte di giustizia, 21 novembre 2002, C-436/00, Riksskatteverket). Si preferisce non introdurre qui il complesso tema, in fieri, del rapporto tra diritto tributario comunitario e convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni (su questo tema v. Pisano, 1995, e più recentemente, v. Denys, 2007, anche alla luce della nuova giurisprudenza della Corte di giustizia – inter alia, Corte di giustizia, 14 dicembre 2006, C-170/05, Denkavit Internationaal, nonché Corte di giustizia, 5 luglio 2005, C-376/03, D case). Tuttavia, alcune circostanze, enucleate nell’art. 58 del Trattato, consentono un superamento – ragionevole e proporzionato all’obiettivo che lo Stato intende raggiungere – del principio di libera circolazione del capitale.

Tra le ragioni più frequentemente addotte dagli Stati per il superamento di detto principio, oltre alla necessità di prevenire e reprimere strumentalizzazioni elusive/evasive della disciplina fiscale nazionale (v. Pistone, 2005), rientra il tema della “coerenza del sistema fiscale nazionale” (Corte di giustizia, 13 aprile 2000, C-251/98, Baars).

L’argomento della coerenza, in rapporto alla tutela del principio de quo, è stato sviluppato dalla Corte adottando diverse opzioni interpretative: a seguito del caso Danner, che implicitamente negava la possibilità per gli Stati di eccepire la coerenza del sistema fiscale nazionale vis à vis con l’attuazione delle libertà fondamentali (Corte di giustizia, 3 ottobre 2002, C-136/00, relativa all’applicazione del principio di libera prestazione dei servizi, la causa riguardava la possibilità di dedurre dal reddito imponibile i contributi assicurativi volontari, concessa nel caso in cui i contributi fossero versati a soggetti erogatori di prestazioni pensionistiche residenti nel medesimo Stato di residenza dell’assicurato, e negata invece nell’ipotesi in cui detti contributi fossero versati a soggetti non residenti), nelle successive sentenze Bachmann (Corte di giustizia, 28 gennaio 1992, C-204/90) e Commissione vs. Belgio (Corte di giustizia, 26 settembre 2000, C-478/98), la Corte ha considerato che l’esigenza di garantire la coerenza di un regime fiscale può giustificare una normativa tale da restringere le libertà fondamentali.

Tale coerenza, ha specificato la Corte nel caso Verkooijen (Corte di giustizia, 6 giugno 2000, C-35/98), deve essere misurata verificando la presenza di un nesso diretto tra la concessione di un vantaggio fiscale e la compensazione di tale vantaggio attraverso un prelievo fiscale, effettuati nell’ambito di una stessa imposta e nei confronti di un medesimo contribuente – osservazione conducibile alla necessità di neutralizzare il fenomeno di doppia imposizione giuridica. La Corte ha di seguito (caso Manninen) parzialmente modificato tale suo avviso (Corte di giustizia, 7 settembre 2004, C-319/02, su cui v. Lupi, 2004; Pistone, 2004; Franzè, 2005; Ballancin, 2004) prescindendo dall’identità oggettiva e soggettiva in precedenza richiesta e ammettendo la rilevanza della correlazione tra due livelli impositivi sulla base dello scopo perseguito dalla normativa interna (v. Pistone, 2004, p. 1546; Franzè, cit., p. 429).

Occorre in ultimo rilevare che la libertà di circolazione dei capitali assume una portata più ampia rispetto al principio di non discriminazione, con il quale pur talvolta viene in contatto. Difatti, mentre il principio di non discriminazione impedisce misure (esplicitamente o implicitamente) difformi per contribuenti che versano nella medesima situazione, la libera circolazione del capitale si applica a prescindere da un confronto tra residenti e non residenti, e dunque tale libertà, nei limiti previsti dalle norme del Trattato – tra cui, lo si ricorda, l’art. 58, in virtù del quale «le disposizioni dell’art. 56 non pregiudicano il diritto degli Stati membri di applicare le pertinenti disposizioni della loro legislazione tributaria in cui si opera una distinzione tra i contribuenti che non si trovano nella medesima situazione per quanto riguarda il loro luogo di residenza o il luogo di collocamento del loro capitale» – deve essere indistintamente concessa a tutti i cittadini europei.

Liberalizzazione valutaria e monitoraggio fiscale

La direttiva 88/361/CEE ha liberalizzato le movimentazioni di denaro, titoli e valute all’interno dell’Unione europea, disponendo che «gli Stati membri sopprimono le restrizioni ai movimenti di capitali effettuati tra le persone residenti negli Stati membri» (art. 1); tale direttiva è stata implementata nell’ordinamento italiano con il decreto interministeriale del 27 aprile 1990. A tale proposito occorre rilevare che una prima liberalizzazione si era compiuta già nel 1988, quando, con d.p.r. 31 marzo 1988, n. 148, la normativa valutaria italiana è stata informata al principio di libertà delle relazioni economiche con l’estero. In tale occasione, in particolare, si era abrogata una disciplina caratterizzata dal divieto, salvo autorizzazione, di compiere atti idonei a produrre obbligazioni tra residenti e non residenti per introdurre una disciplina caratterizzata dall’opposto principio in base al quale è consentito tutto ciò che non è espressamente vietato. Tra le limitazioni a carico dei soggetti residenti, il citato d.p.r. n. 148 stabiliva: l’obbligo di cedere o versare valute estere nei termini previsti dal ministero del Commercio con l’estero e depositare titoli e valori mobiliari esteri presso intermediari con tempi e modalità predeterminate; il divieto di costituire depositi, esportare o detenere all’estero disponibilità in valuta o in lire, aprire linee di credito in valuta o in lire in favore dell’estero, effettuare con contropartite estere operazioni di cambio a termine o con opzione.

Prima della liberalizzazione, i frutti del capitale investito al di fuori dei confini nazionali (ma pur sempre all’interno dell’Unione europea) erano fatti transitare attraverso intermediari abilitati (segnatamente, banche) residenti nel territorio dello Stato, che operavano le ritenute alla fonte (c.d. ritenute d’ingresso) sui redditi corrisposti a soggetti residenti, evitando così il rischio che tali somme fossero totalmente esenti da imposizione.

Dal 1990, non è più previsto alcun obbligo di canalizzazione di detti flussi tramite intermediari abilitati, e pertanto le operazioni valutarie possono essere eseguite anche «attraverso compensazioni di partite di debito e credito tra residenti e non residenti», «movimentazioni di conti all’estero» e, infine, «consegna materiale di mezzi di pagamento in Italia e all’estero».

Per ovviare agli inconvenienti di carattere fiscale, inevitabilmente correlati alla perdita del potere di controllo sui trasferimenti valutari, il legislatore italiano – in esecuzione della facoltà espressamente prevista dall’art. 4, comma 1, della direttiva 88/361 (secondo cui «le disposizioni della presente direttiva non pregiudicano il diritto degli Stati membri di adottare le misure indispensabili per impedire le infrazioni alle leggi e ai regolamenti interni, specialmente in materia fiscale») – ha introdotto il d.l. 28 giugno 1990, n. 167, convertito con la l. 4 agosto 1990, n. 227, concernente “la rilevazione ai fini fiscali di taluni trasferimenti da e per l’estero di denaro, titoli e valori”, nonché il d. legisl. 30 aprile 1997, n. 125.

La normativa reca una disciplina specifica sul monitoraggio fiscale; essa introduce l’obbligo per il contribuente di comunicare alcuni dati e circostanze rilevanti all’amministrazione italiana in caso di esportazione/importazione di flussi di danaro, titoli e valori di altro genere. La disciplina si applica ogni qual volta un contribuente invii o porti al seguito all’estero, ovvero riceva o porti al seguito dall’estero, danaro, titoli di credito, valori mobiliari, mezzi di pagamento. L’articolo 3, comma 1, del d.l. 167/1990, così come sostituito dall’art. 1 del d. legisl. n. 125/1997, dispone che «i trasferimenti al seguito ovvero mediante plico postale o equivalente da e verso l’estero, da parte di residenti e non residenti, di denaro, titoli e valori mobiliari in lire o valute estere, di importo superiore a venti milioni di lire o al relativo controvalore, devono essere dichiarati all’Ufficio italiano dei cambi».

La soglia rilevante ai fini delle comunicazioni in oggetto è stata elevata a 12.500 Euro a seguito dell’introduzione della moneta unica, e recentemente al valore di 10.000 euro per effetto del decreto ministeriale 15 giugno 2007, n. 145; il trasferente pertanto è obbligato a dichiarare all’Ufficio italiano cambi (UIC), al momento del transito o della spedizione della somma di danaro (o di titoli, o di altri strumenti di credito o pagamento, indicati in via esemplificativa dalle circolari UIC, 23 maggio 1997, n. 6020 e ABI – Associazione italiana banche – 30 giugno 1997, n. 92), il controvalore in moneta della somma importata/esportata, qualora complessivamente ammonti a più di 10.000 euro.

La dichiarazione, contenente i dati essenziali dell’operazione e del soggetto trasferente deve essere presentata a una banca (se l’operazione ha ad oggetto titoli o valori emessi dalla stessa banca), all’ufficio della dogana, all’ufficio postale, o presso un comando della Guardia di finanza. L’organo ricevente si occupa della trasmissione dei dati appresi all’Ufficio italiano cambi. Vi si affianca un sistema di comunicazioni che sono veicolate dalle banche e dagli intermediari finanziari (c.d. soggetti monitoranti).

Occorre inoltre puntualizzare che, in sede di dichiarazione annuale dei rediti, il contribuente deve inserire in dichiarazione i dati relativi a operazioni di trasferimento valutario effettuate per il tramite di soggetti non residenti, nonché menzionare in apposito quadro della dichiarazione dei redditi (il quadro RW) gli investimenti e le attività di natura finanziaria detenuti all’estero.

La direttiva sul risparmio

In un contesto europeo unificato, caratterizzato dalla presenza di una moneta unica e che ambisce alla creazione di un’economia competitiva e trasparente, la libera circolazione dei capitali assurge a paradigma di funzionamento stesso del mercato, in assenza del quale ogni altra libertà “comunitaria” scolora – sol che si pensi, a tacere d’altro, alla necessità per gli imprenditori che intendano stabilirsi in un diverso Stato della Comunità di investire in quello Stato il “capitale” necessario all’acquisto degli impianti e dei macchinari, delle materie prime, e via dicendo. Ad avviso di attenta dottrina (per tutti, v. Tesauro, 2003) e della giurisprudenza comunitaria (Corte di giustizia, 23 novembre 1978, C-7/78), la libertà di stabilimento sarebbe vanificata se non vi si accompagnasse la libertà di trasferire le risorse necessarie all’esercizio dell’attività economica.

In siffatto contesto è inevitabile che i diversi ordinamenti cerchino di farsi concorrenza l’un l’altro “offrendo” aliquote d’imposta particolarmente vantaggiose per gli investimenti esteri. E in questo modo, potrebbero venire a crearsi situazioni in cui la leva fiscale, piuttosto che il tasso di efficienza degli investimenti (che potrebbe verosimilmente essere misurato con riguardo al loro rendimento “lordo”), veicola la distribuzione dei capitali all’interno del mercato comune (v. Comunità economica europea).

In questo quadro si innesta il recente intervento del legislatore europeo in tema di tassazione dei redditi da risparmio (direttiva n. 2003/48/CEE; v. Dassesse, 2004; Greco, Jaeggi, 2006); la disciplina, proprio al fine di neutralizzare gli effetti finanziari dannosi derivanti dalla presenza di aliquote fiscali differenziate sui redditi di capitale, stabilisce che gli interessi da risparmio debbano essere tassati unicamente nel paese di residenza del loro beneficiario effettivo. In tal modo, dato che l’aliquota d’imposta applicabile permane quella del paese di residenza del beneficiario effettivo, a prescindere dal luogo presso cui il capitale è stato impiegato, l’investimento si dirigerà verso la fonte “economicamente” più efficiente, quella ovvero che garantisce il miglior rendimento finanziario a prescindere dall’aliquota d’imposta colà applicata.

La disciplina contenuta nella direttiva si applica unicamente nei casi in cui il beneficiario effettivo sia una persona fisica, e non invece nei casi in cui si tratti di un soggetto diverso da una persona fisica, ipotesi viceversa riconducibile – sotto determinate condizioni – nell’ambito della tassazione dei flussi intracomunitari di interessi e royalties. E in effetti, a tale riguardo, mette conto rilevare come le misure introdotte nel 2003 facessero parte di un unico corpus normativo avente a oggetto la fiscalità diretta nell’Unione europea (cosiddetto pacchetto Monti). Invero, la direttiva su interessi e royalties (n. 2003/49) si applica ai flussi di interessi e canoni tra imprese consociate residenti in paesi diversi dell’Unione europea.

Come visto anche con riferimento alla disciplina sul monitoraggio fiscale, le istanze più intimamente correlate al principio di libera circolazione del capitale – e segnatamente quelle riconducibili all’esigenza di non ostacolare o impedire il transito dei flussi di capitale e di pagamenti da un paese all’altro della Comunità – si integrano con la necessità di evitare possibili abusi dei contribuenti in frode alle autorità fiscali dei diversi paesi. E pertanto la direttiva prevede, oltre all’eliminazione della ritenuta sui redditi di capitale corrisposti a soggetti non residenti nel paese della fonte, anche l’attuazione di un efficace scambio di informazioni tra le autorità fiscali nazionali. Tale previsione è finalizzata alla corretta individuazione del beneficiario effettivo del pagamento, onde evitare abusi della disciplina ad opera di soggetti sostanzialmente “non titolati” ai benefici ivi previsti (e, in particolare, al beneficio dell’esenzione alla fonte).

In tale guisa, gli agenti pagatori residenti nel territorio di uno Stato membro sono tenuti a comunicare all’autorità fiscale di quello Stato i dati utili per l’identificazione del beneficiario effettivo del pagamento; i dati così acquisiti dall’amministrazione finanziaria sono comunicati, mediante una procedura automatica di scambio di informazioni, all’autorità fiscale del paese di residenza del beneficiario effettivo.

Giuseppe Marino (2007)




Libera circolazione delle merci

Introduzione

All’interno delle quattro libertà di circolazione previste dal Trattato istitutivo della Comunità economica europea (v. Trattati di Roma; Comunità economica europea) (relative alla Libera circolazione delle merci, Libera circolazione delle persone, Libera circolazione dei servizi e alla Libera circolazione dei capitali), la libera circolazione delle merci ha, fin dalle origini, svolto un ruolo fondamentale, rappresentando il punto di partenza per la realizzazione del mercato comune (v. Comunità economica europea). Questa libertà, enunciata fra gli scopi del Trattato all’art. 2, e prevista in dettaglio dagli artt. 23-31 Trattato CE (Trattato della Comunità europea, TCE), ha trovato attuazione mediante due strumenti: l’Unione doganale (a integrazione della quale si devono considerare le previsioni di cui all’art. 90 sul divieto di imposizioni fiscali interne discriminatorie nei confronti dei prodotti importati), e l’abolizione delle restrizioni quantitative agli scambi (v. Tesauro, 2005, p. 385; Sbolci, 2005, p. 10). In questo modo si è reso possibile il graduale raggiungimento del mercato interno comunitario (sull’identità delle nozioni di mercato interno/mercato comune v. Moavero Milanesi, 1997, p. 466; Tesauro, 2005, p. 380). Alle previsioni contenute nel Trattato si sono poi affiancati numerosi atti di diritto secondario (v. Diritto comunitario), come i regolamenti sull’istituzione della Tariffa doganale comune e le direttive finalizzate ad abolire gli ostacoli alla libertà di circolazione.

Dal lato passivo, le disposizioni sulla libera circolazione delle merci hanno come destinatari gli Stati membri, obbligando anche le rispettive articolazioni interne territoriali o settoriali (regioni, province, enti locali, amministrazioni pubbliche) a garantirne il rispetto, pena l’infrazione del diritto comunitario a opera dello Stato e le relative conseguenze. Nel caso in cui la violazione delle previsioni in materia sia effettuata da soggetti privati (ad esempio operatori commerciali), lo Stato risulterà comunque responsabile della violazione alla libera circolazione delle merci se e in quanto abbia tollerato il comportamento lesivo, non intervenendo per interrompere e/o sanzionare il comportamento di questi (come sancito dalla Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) nella sentenza 9 dicembre 1997, causa C-265/95, Commissione c. Francia, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. I- 6959). Dal lato attivo le disposizioni sulla libera circolazione delle merci sono state più volte valutate dalla Corte di giustizia come produttive di effetto diretto negli ordinamenti nazionali (v. Mengozzi, 2003, p. 315): a prescindere dalla loro mancata attuazione nel diritto interno sarà quindi possibile per i singoli invocarne l’applicazione davanti all’autorità giurisdizionale nazionale (v. anche Giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee).

L’Unione doganale

Nella prima fase dell’integrazione comunitaria (v. Integrazione, metodo della), si è reso necessario procedere all’abolizione dei dazi doganali esistenti per il commercio intracomunitario e delle tasse di effetto equivalente a questi (artt. 23-25 TCE). A tal fine è stata fissata una tariffa doganale comune (v. anche Tariffa esterna comune) verso gli Stati terzi (ora definita “taric”: tariffa integrata comunitaria), alla quale sottoporre tutti i beni al momento del loro primo ingresso nel mercato comunitario. In seguito al pagamento di questa, le merci si trovano in “libera pratica”, ossia circolano fra gli Stati membri senza che sia possibile l’ulteriore imposizione di nuovi dazi doganali. Si è così venuta a creare una c.d. “Unione doganale perfetta”, nella quale la libera circolazione si applica anche ai prodotti già importati da Stati terzi. A tal fine si ricordi che, per determinare lo Stato di origine, si fa riferimento all’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o comunque determinante, non rilevando a tal fine le fasi intermedie come quella di semplice assemblaggio del prodotto. L’attuazione di questa prima fase ha altresì comportato la necessità di instaurare una cooperazione doganale contro le frodi e i traffici illeciti (cfr. sentenza 21 settembre 1989, causa 68/88, cosiddetta Mais greco, in “Raccolta della giurisprudenza”. p. 2965), settore che è stato oggetto di comunitarizzazione a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam. Per rendere effettivo il divieto dei dazi doganali ed evitare la possibilità per gli Stati di aggirarne il dettato tramite artifizi, si prevede che questo si estenda anche alle c.d. “tasse a effetto equivalente” ossia, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza comunitaria consolidata, a ogni onere pecuniario che uno Stato membro richieda in ragione della mera importazione/esportazione di un prodotto (v. Tizzano, 2004, p. 278). Risulta invece ammissibile sottoporre l’importazione a un onere pecuniario non obbligatorio che abbia natura di compenso effettivo per un servizio reso nell’interesse del soggetto importatore/esportatore (sentenza 1° luglio 1969, causa 24/68, Commissione c. Italia, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. 193).

Il divieto di imposizioni fiscali interne discriminatorie

Al divieto di dazi doganali e tasse di effetto equivalente la Comunità europea affianca il divieto di imposizioni fiscali interne (imposte dirette e indirette) discriminatorie nei confronti dei prodotti di altri Stati membri, nonché il divieto di imposizioni protezionistiche a favore della produzione nazionale, entrambi contenuti nell’art. 90 TCE. In questo modo si colpiscono le previsioni fiscali interne non ricollegate all’attraversamento della frontiera, ossia applicabili a tutti i prodotti, importati e non, qualora abbiano come risultato quello di discriminare i prodotti di altro Stato membro. Si vuole così evitare che gli Stati eludano le previsioni in materia di libera circolazione delle merci.

Il rispetto di questa previsione sarà verificato tramite una comparazione fra la tassazione dei prodotti importati e quella di prodotti nazionali “similari”: ove la prima risulti quantitativamente superiore ci si troverà di fronte a un’imposizione fiscale discriminatoria.

Allo stesso modo risultano vietate le disposizioni fiscali che proteggono indirettamente le produzioni interne non similari, ma comunque in concorrenza col prodotto importato perché ne rappresentano una possibile alternativa, come ad esempio è stato stabilito dalla Corte di giustizia con riferimento alla birra in rapporto al vino (sentenza 12 luglio 1983, causa 170/78, Commissione c. Regno Unito, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. 2265; sentenza 7 maggio 1987, causa C-193/85, Co-frutta, ivi, p. 2085; sul punto v. Sbolci, 2005, p. 18). Ogniqualvolta si sia alla presenza di una violazione dell’art. 90 TCE lo Stato dovrà provvedere alla restituzione del tributo illegittimamente riscosso.

L’abolizione delle restrizioni quantitative agli scambi

L’attuazione del divieto di restrizioni quantitative agli scambi e di misure di effetto equivalente a queste (artt. 28-29 TCE) ha dato origine a un’interessante evoluzione a opera della giurisprudenza comunitaria.

Quanto alle restrizioni quantitative, rientrano in questa categoria sia disposizioni nazionali che prevedano un divieto assoluto di importazione (o un rifiuto di rilasciare licenze di esportazione), sia disposizioni nazionali che prevedano un quantitativo massimo di beni.

Quanto alle misure di effetto equivalente, fondamentale sul punto è la c.d. “formula Dassonville” (desunta dall’omonima sentenza 11 luglio 1974, causa 8/74, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. 837), secondo la quale rientrano in questa nozione tutte le misure che, direttamente o indirettamente, in atto o in potenza, restringano gli scambi commerciali fra gli Stati.

Il punto di partenza iniziale si basava sulla differenza di trattamento fra prodotti nazionali e importati: erano così valutate in violazione degli artt. 28-29 TCE le c.d. misure distintamente applicabili, come ad esempio la richiesta di un certificato o di una licenza per i prodotti importati e la previsione di controlli sanitari sistematici (sentenza 17 dicembre 1981, causa 272/80, Biologische Producten, ivi, p. 3277, la quale prevede che non si possano esigere nuovamente i controlli già effettuati nel paese di origine). Allo stesso modo, anche le misure che scoraggiano o impediscono le importazioni parallele rientrano in questa previsione.

Successivi interventi interpretativi hanno portato a ritenere possibile la ricaduta nel divieto, a certe condizioni, anche delle misure indistintamente applicabili ai prodotti nazionali e a quelli importati (a favore dell’estensione anche a quelli esportati v. Sbolci, 2005, p. 34, in senso contrario v. Tesauro, 2005, p. 424), come ad esempio le norme su qualità e presentazione del prodotto. Proprio al fine di eliminare i residui ostacoli derivanti da questa tipologia di disposizioni è stato introdotto, tramite la sentenza Cassis de Dijon (sentenza 20 febbraio 1979, causa 120/78, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. 649) il principio di mutuo riconoscimento, in base al quale gli Stati devono avere una fiducia reciproca nelle rispettive norme tecniche sulla commercializzazione dei prodotti (v. Mengozzi, 2003, p. 319), non potendo quindi richiedere ai prodotti importati il rispetto delle proprie norme nazionali sul punto, salvo la necessità di salvaguardare le esigenze imperative quali ad esempio la tutela dei consumatori e la lealtà dei negozi commerciali.

Per quanto riguarda le misure che stabiliscono modalità di vendita (come ad esempio la vendita sottocosto) la giurisprudenza comunitaria ha subito un revirement: mentre inizialmente la Corte di giustizia aveva previsto che anche queste misure andassero valutate caso per caso sulla base del Principio di proporzionalità, a partire dalla sentenza Keck (sentenza 24 novembre 1993, cause riunite C-267 e 268/91, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. I-6097) si è ritenuto che non costituiscano misure di effetto equivalente alle restrizioni quantitative ove incidano allo stesso modo sui prodotti nazionali e su quelli importati (v. Tizzano, 2004, p. 293).

A fianco dell’applicazione del principio di mutuo riconoscimento, si pone la preesistente esigenza di procedere anche all’Armonizzazione delle normative nazionali sulla base degli artt. 94 e 95 TCE. L’applicazione combinata di questi due approcci, entrambi finalizzati al raggiungimento e buon funzionamento del mercato interno, ha fatto sì che si passasse da un primo periodo in cui le direttive adottate tendevano a garantire un’armonizzazione completa dei settori interessati, a una seconda fase nella quale l’armonizzazione è stata limitata allo stretto necessario a favore della più ampia applicazione del principio di mutuo riconoscimento. Per preservare le peculiarità di certe produzioni nazionali nel settore alimentare si è poi reso necessario creare un sistema di tutela dei prodotti tipici tramite l’introduzione di denominazioni di origine protetta (DOP) e indicazioni geografiche protette (IGP) previste (da ultimo) dal regolamento del Consiglio n. 510 /2006/CE (in “Gazzetta ufficiale dell’Unione europea” L 93 del 2006).

Nozione di merce e deroghe alla libera circolazione

Il Trattato istitutivo non prevedeva alcuna nozione di merce. Si è quindi reso necessario attendere l’intervento interpretativo della Corte di giustizia, la quale ha basato il proprio ragionamento sul principio di valutazione economica. Rientreranno perciò nella nozione di merce tutti i beni valutabili in denaro, a prescindere dall’entità della valutazione stessa. A carattere esemplificativo, si può vedere come, sulla base dell’evoluzione giurisprudenziale, siano stati via via inclusi nella nozione di merce i seguenti beni: beni di interesse artistico, storico e archeologico (sentenza 10 dicembre 1968, causa 7/68, Commissione c. Italia, in “Raccolta della giuisprudenza”, p. 562), i beni che incorporano opere dell’ingegno (libri, sentenza 10 gennaio 1985, causa 229/83, Leclerc, ivi, p. 1; dischi, sentenza 8 giugno 1971, causa 78/70, Deutsche Gramophon, ivi, p. 487; videocassette, sentenza 11 luglio 1985, causa 60/84, Cinetheque, ivi, p. 2605), le monete non aventi corso legale (sentenza 23 novembre 1978, causa 7/78, Regina c. Thompson, ivi, p. 2247), i beni di interesse economico per lo Stato (petrolio, sentenza 10 luglio 1984, causa 72/83, Campus Oil, ivi, p. 2727), energia elettrica (sentenza 15 luglio 1964, causa 6/64, Costa c. Enel, ivi, p. 1129; sentenza 27 aprile 1994, causa C-393/92, Comune di Almelo, ivi, p. I-1477), gli stupefacenti (sentenza 28 marzo 1995, causa C-324/93, Evans Medical, ivi, p. I-563; sul punto vedi Marini, 2006, p. 190; v. Tesauro, 2005, p. 386; Sbolci, 2005, p. 12). Anche i rifiuti, riciclabili o meno, possono rientrare nella qualifica di merci, in quanto ne risulta possibile, seppur difficilmente quantificabile, la valutazione economica (sentenza 9 luglio 1992, causa C-2/90, Commissione c. Belgio, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. I-4431).

Quanto ai prodotti agricoli, la disciplina della libera circolazione delle merci troverà applicazione nei loro confronti solo nel caso in cui non rientrino, ai sensi della Politica agricola comune, in un’organizzazione comune di mercato.

Una ulteriore espressa esclusione è prevista dall’art. 296 TCE in relazione ai prodotti che riguardano la sicurezza compresi in apposito elenco, come, ad esempio, le armi: gli Stati avranno in questo caso la facoltà di ostacolarne il commercio.

Il Trattato, all’art. 30, prevede un elenco tassativo di motivi in base ai quali è possibile restringere la libera circolazione delle merci, imponendo restrizioni quantitative e misure di effetto equivalente (ma non dazi doganali o tasse di effetto equivalente). Si tratta di ragioni di moralità pubblica, pubblica sicurezza, ordine pubblico, salute (di persone, animali e vegetali), protezione del patrimonio storico-artistico-culturale e tutela della proprietà industriale e commerciale. Trattandosi di deroghe al principio generale, queste sono state interpretate restrittivamente e potranno essere applicate solo in assenza di armonizzazione comunitaria completa e nel rispetto del principio di proporzionalità: saranno ammissibili le misure necessarie alla tutela dell’obiettivo previsto a patto che siano quelle meno restrittive possibili per gli scambi comunitari.

La Corte di giustizia ha esteso il novero delle eccezioni tramite la previsione della c.d. tutela delle esigenze imperative (sentenza Cassis de Dijon, cit.), concetto nel quale rientrano interessi generali ulteriori rispetto all’elencazione di cui all’art. 30 TCE. Le esigenze imperative verranno però in rilievo solo per le misure indistintamente applicabili (v. supra), mentre le deroghe previste dall’art. 30 trovano applicazione anche nei confronti delle misure distintamente applicabili (sulla distinzione fra deroghe ex art. 30 e tutela delle esigenze imperative cfr. Sbolci, 2005, p. 44; Tizzano, 2004, p. 300).

Elisabetta Bergamini (2007)




Libera circolazione delle persone

Introduzione

Il Diritto comunitario ha avuto come obiettivo principale la creazione di un mercato interno (v. Comunità economica europea) nel quale si realizzassero le c.d. quattro libertà di circolazione (Libera circolazione delle merci, libera circolazione delle persone, Libera circolazione dei servizi e Libera circolazione dei capitali). La libera circolazione delle persone sulla base del diritto comunitario, dapprima prevista a favore dei soli lavoratori subordinati e autonomi, è stata nel tempo estesa a opera della Giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee anche ai destinatari di servizi: si pensi ad esempio ai turisti e ai soggetti che usufruiscono di trattamenti medici all’estero (v. sentenza 31 gennaio 1984, cause riunite 286/82 e 26/83, Luisi e Carbone, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. 377; sentenza 2 febbraio 1989, causa 186/87, Cowan, ivi, p. 195; sentenza 19 gennaio 1999, causa C-348/96, Calfa, ivi, p. I-11). A questi viene riconosciuto un diritto di ingresso e di soggiorno ricollegato al loro status di soggetti che circolano al fine di ricevere una prestazione economicamente valutabile. Il cittadino può poi decidere di circolare anche per un periodo di tempo più lungo, esercitando una vera e propria attività economica stabile: in tal caso il soggetto sarà sottoposto a regole diverse a seconda che si tratti di lavoratore subordinato o di lavoratore autonomo, sulla base dei principi sanciti dagli artt. 39 e ss. e 43 e ss. del Trattato istitutivo delle Comunità europee (TCE) (v. Trattati di Roma).

Un’estensione si è poi avuta, in tempi recenti, con l’introduzione della Cittadinanza europea dell’Unione europea, relativamente alla possibilità per il cittadino “comunitario” di circolare a prescindere dallo svolgimento di un’attività economica (in proposito v. Tizzano, 2004, p. 248).

Libera circolazione dei lavoratori subordinati

L’art. 39 del Trattato prevede la libera circolazione dei lavoratori subordinati e il conseguente divieto di discriminazione sulla base della nazionalità, principio che ha da sempre rivestito un ruolo fondamentale nell’ordinamento comunitario (v. Principio di non discriminazione), (v. Tizzano, 2004, p. 356 e ss.). Al fine di garantire l’effettività di questo principio gli Stati devono consentire il diritto di ingresso e di soggiorno sul proprio territorio, nonché provvedere affinché la normativa interna in materia di lavoro non sia discriminatoria nei confronti dei soggetti che provengono da un diverso Stato membro (v. Condinanzi et al., 2006, p. 105 e ss.). A complemento delle previsioni di cui all’art. 39 e ss. si è reso necessario adottare due strumenti. Il primo è il regolamento 1612/1968 sulla libera circolazione dei lavoratori (in “Gazzetta ufficiale delle Comunità europee” L 257 del 1968) nel quale si estendono i diritti (di libera circolazione e parità di trattamento) alla famiglia del lavoratore (coniuge, figli minorenni a carico, gli ascendenti propri e del coniuge se a carico, indipendentemente dal possesso da parte di questi della cittadinanza comunitaria). Ulteriori estensioni del diritto potranno essere previste dai singoli ordinamenti nazionali (sulla situazione del convivente del lavoratore cfr. la sentenza 17 aprile 1986, causa 59/85, Reed, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. 1283). Il regolamento è stato modificato su questo punto dalla direttiva 2004/38/CE (in “Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea” L 158 del 2004) che prevede l’estensione dei diritti al partner con il quale sia stata contratta un’unione stabile registrata se il paese ospitante equipara queste unioni al matrimonio.

Il secondo strumento è il regolamento 1408/71 (in GUCE L 149 del 1971) relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati e ai loro familiari che si spostano all’interno della Comunità, determinato dalla necessità di stabilire un coordinamento fra i diversi sistemi previdenziali nazionali finalizzato a poter valutare i periodi contributivi effettuati all’estero allo scopo di accedere alle prestazioni sociali.

Un primo punto da definire ha riguardato la nozione di “lavoratore” ex art. 39 TCE e la sua estensione. Se è vero che la ragione alla base della scelta di consentire la circolazione ai soli soggetti che esercitano un’attività economica era dovuta alla volontà di evitare la circolazione di coloro che potevano gravare sui sistemi di sicurezza sociale interni agli Stati membri, la giurisprudenza comunitaria è comunque intervenuta per interpretare estensivamente questa nozione. Potrà pertanto circolare anche un soggetto che svolga un’attività lavorativa a tempo parziale, così come beneficerà di questa libertà il soggetto che svolga un semplice tirocinio preparatorio all’attività lavorativa, purché retribuito (v. sentenza 3 luglio 1986, causa 66/85, Lawrie-Blum, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. 2121 e sentenza 23 marzo 2004, causa C-138/02, Collins, ivi, p. I-2703).

Caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è lo svolgimento di un’attività retribuita per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra persona e sotto la direzione di quest’ultima, indipendentemente dalla natura giuridica del contratto concluso col datore e dal numero ridotto di ore di lavoro (v. Foglia, 2006, p. 989). La presenza del carattere economico dell’attività deve essere valutata sulla base di un giudizio concreto e di fatto (cfr. sentenza 5 ottobre 1988, causa 196/87, Steymann, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. 6159, relativa alle attività economiche esercitate da membri di una comunità religiosa).

Questa giurisprudenza, sulla base del parallelismo interpretativo fra libera circolazione dei lavoratori subordinati e autonomi (sentenza 15 dicembre 1995, causa C-415/93, Bosman, ivi, p. I-4921), potrà trovare applicazione anche al settore del lavoro autonomo.

Il diritto di soggiorno riguarda sia il soggetto che già svolge l’attività lavorativa, sia colui che ha cessato di svolgerla (per anzianità, o inabilità) sia colui che è alla ricerca di nuova occupazione (v. anche Libertà di circolazione e di soggiorno e diritto alla parità di trattamento dei cittadini dell’Unione europea). Questi potrà usufruire del diritto di ingresso e di soggiorno per un periodo di tempo ragionevolmente necessario al fine di trovare lavoro, purché dimostri di ricercare attivamente un’occupazione.

Diritto di soggiorno e parità di trattamento

Il diritto di soggiorno deriva al lavoratore dal rispetto dei requisiti previsti dal Trattato e non da un provvedimento delle autorità dello Stato ospitante. La carta di soggiorno avrà pertanto valore meramente indicativo e non costitutivo del diritto. Di conseguenza, l’obbligo di denunciare la propria presenza sul territorio non potrà essere sanzionato con la reclusione (sentenza 12 dicembre 1989, causa 265/88, Messner, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. 4209) così come l’omissione delle formalità necessarie per ottenere il documento di soggiorno non potrà essere sanzionata con l’espulsione del soggetto (sentenza 8 aprile 1976, causa 48/75, Royer, ivi, p. 497)

Il soggetto che beneficia della libertà di circolazione non potrà essere oggetto di discriminazioni basate sulla nazionalità: avrà quindi diritto alla parità di accesso al lavoro e alla parità di trattamento. Ciò significa che egli (e i suoi familiari nel senso ristretto sopra indicato) avrà diritto a ottenere lo stesso trattamento riservato ai lavoratori di quello Stato membro. In particolare egli avrà diritto ai vantaggi sociali derivanti dallo status di lavoratore: si pensi alla retribuzione e a tutti gli accessori della medesima, all’accesso alla formazione, alla rappresentanza nelle organizzazioni sindacali (sentenza 4 luglio 1991, causa C-213/90, ASTI, ivi, p. I-3507). I familiari mantengono questi diritti anche a seguito di decesso del lavoratore (sentenza 30 settembre 1975, causa 32/75, Cristini, ivi, p. 1085).

Limiti alla libera circolazione

Nel garantire la libera circolazione delle persone, il diritto comunitario prevede anche le ipotesi in cui questa libertà può essere oggetto di limiti e le condizioni in base alle quali può essere deciso l’allontanamento dal territorio nazionale di un cittadino di un altro Stato membro. Sarà possibile limitare la libera circolazione sulla base di ragioni di ordine pubblico, pubblica sicurezza e salute pubblica. Trattandosi di limiti a una libertà prevista dal Trattato, questi sono stati interpretati restrittivamente dalla giurisprudenza comunitaria. Potranno quindi trovare applicazione solo se il limite risulta non solo giustificato, ma anche proporzionato al comportamento del soggetto. Non è stata, ad esempio, considerata possibile l’espulsione di un soggetto basata non sul suo comportamento individuale e sulla sua effettiva pericolosità, bensì sulla volontà per lo Stato ospitante di conseguire un effetto deterrente nei confronti della generalità dei lavoratori migranti (sentenza 26 febbraio 1975, causa 67/74, Bonsignore, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. 297).

Il provvedimento che nega la libera circolazione deve poter essere impugnato davanti a un’autorità indipendente, diversa da quella che ha proceduto all’adozione dello stesso (sentenza 18 maggio 1982, cause 115 e 116/81, Adoui e Cornuaille, ivi, p. 1665).

La direttiva 64/221/CEE (in GUCE 56 del 1964) sull’applicazione dei limiti alla libera circolazione delle persone è stata recentemente abrogata (e sostituita) dalla direttiva 2004/38/CE dal contenuto equivalente. I limiti alla libera circolazione si applicano sia ai lavoratori (subordinati e autonomi), sia ai loro familiari che beneficiano della libera circolazione.

Un ulteriore limite è quello relativo alle attività che prevedono una diretta e specifica partecipazione ai pubblici poteri, per le quali gli Stati membri possono mantenere la possibilità di accesso a favore esclusivo dei propri cittadini. Questa previsione potrà trovare applicazione a settori specifici della pubblica amministrazione che implichino la partecipazione effettiva ai pubblici poteri. Non troverà applicazione a coloro che lavorino in enti pubblici che eroghino gas, acqua, elettricità, né in relazione all’attività di addetto alle poste (cfr. sentenza 12 febbraio 1974, causa 152/73, Sotgiu, in “Raccolta della giurisprudenza” p. 153; v. Foglia, 2006, p. 1006 e ss.; Daniele, 1998). La Corte di giustizia ha altresì stabilito l’impossibilità di applicare questo limite alla professione di avvocato (sentenza 21 giugno 1974, causa 2/74, Reyners, in “Raccolta della giurisprudenza” p. 631; v. Condinanzi et al., 2006, p. 152). Quanto al possibile utilizzo della richiesta di conoscenze linguistiche, come limite alla libera circolazione, questo potrà trovare giustificazione solo se proporzionato rispetto all’obiettivo meritevole di tutela, ad esempio la salvaguardia di una lingua minoritaria come il gaelico in Irlanda (sentenza 28 novembre 1989, causa 379/87, Groener, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. 3967; cfr. in senso negativo, causa C-506/04, Wilson e causa C-193/05, Commissione c. Lussemburgo, sentenze del 19 settembre 2006).

 Libera circolazione dei lavoratori autonomi (libertà di stabilimento)

Alla libera circolazione dei lavoratori subordinati si affianca la libera circolazione dei lavoratori autonomi. Anche in questo caso dovrà trattarsi di soggetti che intendono esercitare un’attività economica in un altro Stato membro, senza però la presenza di un vincolo di subordinazione. Quanto alla differenza fra Libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi, questa è fondata sul carattere permanente e non occasionale dell’attività esercitata (per i criteri distintivi cfr. sentenza 30 novembre 1995, causa C-55/94, Gebhard, in “Raccolta della giurisprudenza”, p. I-4165).

La giurisprudenza comunitaria ha avuto modo di occuparsi della libertà di stabilimento principalmente con riferimento alle attività libero-professionali a partire dalla pronuncia nel caso Reyners (cit.) nel quale l’art 43 del Trattato è stato dichiarato direttamente applicabile anche prima dell’adozione delle direttive ivi previste, che avrebbero dovuto eliminare le restrizioni esistenti. D’altronde il Trattato, già nella sua prima formulazione, si occupava di regolamentare la libera prestazione dei servizi professionali, annoverando espressamente al suo articolo 60, lettera d (oggi art. 50) le “attività delle libere professioni” all’interno dell’ampia categoria dei servizi e indicando come mezzi per la soppressione delle restrizioni a tale libertà l’adozione di un “programma generale” e la predisposizione di direttive. All’inizio, pertanto, l’interesse della Comunità europea per l’esercizio delle professioni si è focalizzato sull’aspetto della libera circolazione delle persone, da conseguire attraverso una sempre maggiore Armonizzazione dei percorsi formativi, ove possibile, e basandosi altresì sul principio di mutuo riconoscimento. Ciò ha portato all’introduzione di un primo sistema di direttive settoriali (rivolto principalmente alle professioni medico-sanitarie), e alla successiva previsione di due direttive generali applicabili a tutte le professioni regolamentate per le quali non esiste una direttiva settoriale: la dir. 89/48/CEE (in GUCE L 19 del 1989) che prevede un sistema generale di riconoscimento dei diplomi d’insegnamento superiore che coronino corsi di formazione professionale di una durata minima di tre anni e la dir. 92/51/CEE (in GUCE L 209 del 1992), relativa a un sistema generale di riconoscimento per formazioni professionali di durata inferiore a tre anni.

Il sistema è stato recentemente modificato tramite la direttiva 2005/36/CE (in GUUE L 255 del 2005) che ha convogliato in un unico strumento le precedenti direttive, semplificando e coordinando il quadro giuridico in materia (v. Condinanzi et al., 2006, p. 366). Per la professione di avvocato, è stato previsto un sistema parzialmente diverso, con una prima direttiva sulla libera circolazione dei servizi (77/249/CEE in GUCE L 78 del 1977) e una seconda sulla libertà di stabilimento (98/5/CE, ibid., L 77 del 1998), che non esclude il possibile riconoscimento del titolo professionale tramite la direttiva 89/48/CEE e sue modifiche.

Elisabetta Bergamini (2007)




Liberaldemocratici europei

L’acronimo LDE (ELD nei paesi di lingua inglese) indica dal 1976 la Federazione, poi Partito, dei liberali democratici europei e il loro gruppo nel Parlamento europeo; dal 1986 l’acronimo è stato modificato in ELDR (liberali democratici e riformatori europei), mentre dal 2004 il loro gruppo al Parlamento europeo si chiama ALDE (Alleanza di liberali e democratici per l’Europa). La segreteria ha sede in Bruxelles.

L’origine del partito risale all’aprile del 1947, con la fondazione a Oxford dell’Internazionale liberale. Il processo federativo dei partiti liberali europei era stato avviato nel 1974 a Firenze nel congresso dell’Internazionale liberale.

Il primo congresso della federazione si riunì il 27 marzo 1976 a Stoccarda. I partiti liberaldemocratici della Comunità europea adottarono la costituzione e lo statuto della federazione e una dichiarazione che ne costituiva la prima pietra. La Dichiarazione di Stoccarda stabiliva l’unione dei partiti liberaldemocratici dei paesi comunitari intesi a perseguire il fine dell’Unione politica europea.

L’idea della federazione fu alimentata a partire dai primi anni Settanta in una serie di incontri nell’ambito dell’Internazionale liberale fra personalità eminenti quali l’italiano Giovanni Malagodi, il lussemburghese Gaston Thorn, il tedesco Walter Scheel e, negli anni successivi, il presidente del Parlamento europeo, Simone Veil, il leader dei liberali inglesi David Steel, i tedeschi Hans-Dietrich Genscher e Martin Bangemann.

Con la Dichiarazione del 1976 la federazione assumeva i seguenti compiti: ricercare fra i fondatori una linea comune sui principali problemi della Comunità; promuovere le prime elezioni del Parlamento europeo a suffragio universale (v. Elezioni dirette del Parlamento europeo) e con il sistema proporzionale al fine di rafforzare il carattere democratico della Comunità (v. anche Deficit democratico); sviluppare l’informazione e la partecipazione dei cittadini alla costruzione di un’Europa unita nella condivisione dei principi liberali. La Dichiarazione prevedeva che il primo Parlamento europeo eletto a suffragio universale dovesse approvare una dichiarazione dei Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali direttamente azionabile nella Comunità europea, con la possibilità per ogni cittadino di ricorrere alla Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) qualora quei diritti fossero lesi da decisioni emanate dalle Istituzioni comunitarie. Il programma di Stoccarda prevedeva inoltre: l’eliminazione delle residue restrizioni alla Libera circolazione di persone, alla Libera circolazione delle merci, alla Libera circolazione dei servizi e alla Libera circolazione dei capitali; l’attribuzione al Parlamento europeo di maggiori competenze legislative anche in materia di Cooperazione politica europea; la responsabilità della Commissione europea davanti al Parlamento e al Consiglio dei ministri; l’Unione economica e monetaria con la creazione di una Banca centrale europea; la riduzione delle diseguaglianze interne alla comunità da attuarsi con una politica redistributiva gestita dal Fondo sociale europeo per ridurre le diseguaglianze fra individui, e del Fondo europeo di sviluppo regionale per ridurre le diseguaglianze fra le regioni.

La Dichiarazione di Stoccarda è rimasta il testo di riferimento per i programmi successivi della federazione, a cominciare dal programma apprestato nel 1977 in vista delle prime elezioni europee, in cui i partiti fondatori della federazione raccolsero il 14% dei voti e 39 seggi su 410.

Al congresso di Stoccarda i partiti fondatori comprendevano otto paesi: per il Belgio i liberali della Fiandra (Parti voor vrijheid en vooruitgang, PVD) della Vallonia (Parti réformateur libéral, PRL) e di Bruxelles (Parti libéral, PL); per l’Olanda (v. Paesi Bassi) il Partito per la libertà e la democrazia (Volkspartij voor vrijheid en democratie, VVD); per il Lussemburgo il Partito democratico; per la Germania la Freie demokratische Partei (FDP); per la Francia il partito radicale di Place de Valois (Parti radical socialiste); per la Danimarca il partito democratico liberale Venstre; per il Regno Unito il Liberal party; per l’Italia il Partito liberale italiano. Al congresso di Stoccarda erano inoltre presenti il Partito repubblicano italiano, i Republicains indépendants e il Mouvement des radicaux de gauche francesi, nonché il Radikale venstre danese, che in seguito aderirono a pieno titolo alla federazione. Sin dal 1976 la federazione è affiancata dall’organizzazione giovanile Liberal and radical youth movement of the European community (LYMEC), dal novembre 2003 European liberal youth, Gioventù liberale europea (www.lymec.org).

Altre adesioni o affiliazioni seguirono negli anni: nel 1983, il partito liberale greco per la Grecia; nel 1985, il Partido de la revolución democrática (PRD) per la Spagna; nel 1986, il Partido social democrata (PSD) per il Portogallo; nel congresso di Catania il nome della federazione è modificato da ELD in ELDR, Federation of liberal democratic and reform parties. Nel 1988 aderiscono i Progressive democrats irlandesi (v. Irlanda); nel 1989 il Centro democrático y social (CDS) spagnolo; nel 1991, il Partito liberale svedese (v. Svezia); nel 1992, il Radikal venstre danese, il Fiatal demokraták szövetsége (FIDESZ) ungherese (v. Ungheria), il Centre party finlandese (v. Finlandia), lo Szabad demokraták szövetsége (SzDSz) ungherese, lo Swedish people’s party finlandese, il Liberal democratic party sloveno (v. Slovenia), l’Hungarian civic party slovacco (v. Slovacchia); nel 1993, il partito liberale macedone, il Liberal party finlandese e il Freisinnig demokratische Partei-Parti radical démocratique (FDP-PRD) svizzero, il nuovo partito spagnolo Foro de Izquierdas (FORO), il Liberales forum austriaco (v. Austria). Sempre nel 1993, nel congresso di Torquay (UK), la federazione si trasforma in partito con il nome di European liberal democratic and reform party. Nel 1994 entrano il partito liberale della Bosnia-Erzegovina e il partito sociale liberale croato, lo Svobodi demokrat della Repubblica Ceca, il D66 olandese, mentre al disciolto Partito liberale italiano subentra la Federazione dei liberali italiani; nel 1995 aderiscono la Democratic union slovacca e il Reform party estone (v. Estonia); nel 1996, il Partito liberale di Andorra, il Partito liberale del Kosovo, il Partito democratico e gli United democrats di Cipro; nel 1997, il Magyar polgári párt-Madárská občianska strana (MPP-MOS) e il Coexistence movement slovacchi, la Centre union lituana (v. Lituania) e il National party rumeno (v. Romania), la lettone Latvia way (v. Lettonia) e la Liberal union lituana; nel 1998, il Hrvatska socijalno liberalma stranka (HSLS) croato; nel 1999, la Liberal democratic union bulgara (v. Bulgaria) e il Democratic alliance party albanese; nel 2000, la Lista Di Pietro, i Democratici italiani e il Partito liberale di Gibilterra; nel 2001, la New democracy serba, Rinnovamento italiano; nel 2002, l’Alliance of the new citizen slovacca; nel 2003, l’Unia wolnosci polacca (v. Polonia) e il Simeon II national movement bulgaro. In occasione dell’ultimo congresso tenutosi a Bucarest alla fine del 2006, hanno aderito all’ELDR anche il partito Hrvatska narodna stranka (HNS) croato, il partito russo Yabloko, il norvegese Venstre e il Liberal movement della Lituania.

Nel 2007 l’ELDR riunisce cinquanta partiti europei come membri di pieno diritto e quattro affiliati, presenti complessivamente in 34 paesi. Della federazione e poi del partito ELDR sono stati presidenti Gaston Thorn (Lussemburgo, 1976), Willy De Clercq (Belgio, 1981), Colette Flesch (Lussemburgo, 1985), Willy De Clercq (Belgio, 1990), Uffe Ellemann-Jensen (Danimarca, 1995), Werner Hoyer (Germania, 2001), Annemie Neyts-Uyttebroeck (Belgio, 2005).

Nel Parlamento europeo i seggi del gruppo ELDR sono stati 39 nel 1979, 31 nel 1984, 49 nel 1989, 43 nel 1994, 51 nel 1999, 90 nel 2004, con percentuali intorno al 10% dei seggi.

I presidenti del gruppo parlamentare ELDR sono stati: il tedesco Martin Bangemann (1979-1984); la francese Simone Veil (1984-1989), primo presidente del Parlamento europeo eletto a suffragio universale diretto; il francese Valery Giscard d’Estaing (1989-1991); il francese Yves Galland (1992-1994); l’olandese Gijs de Vries (1994-1998); l’irlandese Pat Cox, eletto nel gennaio 2002 presidente del Parlamento europeo, e in seguito Graham Watson (UK). Le principali linee seguite dal gruppo riguardano: il sostegno all’Allargamento dell’Unione; la Semplificazione legislativa e codificazione dei Trattati in una costituzione di cui sia parte integrante la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; l’estensione della solidarietà globale alle sfide ambientali, alla pressione migratoria e al contrasto internazionale contro le organizzazioni criminali; la lotta contro l’antisemitismo e ogni altra forma di razzismo e di discriminazione (v. Lotta al razzismo e alla xenofobia), in nome del rispetto per la dignità individuale; l’apertura dei mercati alla libera circolazione dei lavoratori e degli investimenti.

Nel luglio 2004 gli europarlamentari facenti capo al partito ELDR presieduto dalla belga Annemie Neyts-Uyttebroeck si sono uniti ai membri del Partito democratico europeo, presieduto dal francese François Bayrou e dall’italiano Francesco Rutelli, per formare il gruppo dell’Alleanza di liberali e democratici per l’Europa (ALDE, www.alde.eu). Tale gruppo, così allargato nel 2004 a 90 membri, ha rieletto Graham Watson (Regno Unito) presidente. Dal 1° gennaio 2007, grazie all’allargamento dell’Unione a Romania e Bulgaria, i membri del Gruppo ALDE sono aumentati fino ad arrivare a 106 (dato aggiornato a marzo 2007).

La cooperazione transnazionale si svolge, a livello organizzativo, in forma di interrelazione fra i Partiti politici europei associati all’Internazionale liberale, e a livello istituzionale fra i membri del Parlamento europeo aderenti al gruppo ALDE.

Fra il 1976 e il 2006 sono stati celebrati ventisette congressi dell’ELDR. Il V, tenuto a Bruxelles il 29 e 30 aprile 2004, ha approvato un nuovo statuto che definisce il partito come associazione internazionale no profit secondo la legislazione del Belgio. Alla fine del 2006, a pochi giorni dalla data del più recente allargamento dell’Unione europea, il National liberal party del primo ministro rumeno Calin Popescu-Tariceanu ha ospitato il Congresso dell’ELDR nella capitale rumena Bucarest. Qui, l’ELDR ha dato il benvenuto a Romania e Bulgaria che dal 1° gennaio 2007 hanno portato a ventisette il numero di Stati membri dell’Unione europea, e ha reiterato il suo sostegno alla politica di allargamento dell’Unione.

Tema centrale del congresso di Bucarest è stata la Politica europea di sicurezza e difesa (PESD): sia per gli aspetti interni all’Unione (Politiche dell’immigrazione e dell’asilo, Lotta contro la criminalità internazionale e contro la droga, protezione dei dati personali, Libertà di circolazione e di soggiorno e diritto alla parità di trattamento dei cittadini dell’Unione europea, Lotta contro il terrorismo) sia per gli aspetti esterni in relazione alla PESD. La Politica europea di sicurezza e difesa richiede secondo i liberali: la costante collaborazione e la complementarietà fra Unione europea e Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO); un impegno degli Stati membri proporzionale alle rispettive tradizioni nazionali; norme costituzionali e capacità militari; la partecipazione preventiva del Parlamento europeo al Processo decisionale; l’ammodernamento dello strumento militare, da perseguire con l’effettiva formazione della Forza di reazione rapida e dell’Agenzia di difesa europea, ai fini di prevenire i conflitti, gestire le crisi e ristabilire la pace. Le risoluzioni di Bucarest in materia di difesa comune anticipano le opportunità che si attendono dalla ratifica del trattato costituzionale (v. Costituzione europea), e confermano il forte connotato europeista che ha sempre distinto il Partito dei liberaldemocratici europei.

Valerio Zanone (2005)




Libertà di circolazione e di soggiorno e diritto alla parità di trattamento dei cittadini dell’Unione europea

Le sei libertà fondamentali

La storia dei popoli europei è caratterizzata da una ricerca incessante di libertà e diritti, dall’epoca greco-romana al Medio Evo, dalla Magna Carta del 1215 alla Petizione dei diritti del 1628, dall’Habeas corpus del 1679 al Bill of rights del 1689, dalla Dichiarazione del 1793, scaturita della Rivoluzione francese, alla Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo del 1948. Questa ricerca ha scandito le tappe della lunga marcia dei popoli europei verso la conquista di uno spazio privilegiato della speranza umana, uno spazio di pace, di rispetto della dignità umana, di libertà, di democrazia, di giustizia, di sicurezza, di solidarietà – valori identitari che hanno forgiato la nostra “europeità”.

Il Mercato unico europeo e le tre direttive del 1990, il Trattato di Maastricht del 1992 – che ha conferito la Cittadinanza europea a tutti i cittadini degli Stati membri dell’Unione europea – la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 (v. anche Trattato di Nizza), la direttiva 2004/38 del 29 aprile 2004, relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei membri delle loro famiglie di circolare e soggiornare liberamente sul territorio comunitario, e infine la giurisprudenza progressista ed illuminante della Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea), costituiscono le tappe decisive della lunga marcia del cittadino europeo.

Il titolo III dei Trattati di Roma del 25 marzo 1957, istitutivo della Comunità economica europea (CEE), ha come titolo La libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali. L’espressione “Libera circolazione delle persone” va precisata. La parola “persona”, dal latino persona e dal greco prosopon, opposta a res (cosa) designa, in generale, ogni essere umano, senza esclusione alcuna. Sicché, se è vero che nel suo significato strettamente etimologico l’espressione “libera circolazione delle persone” dovrebbe riguardare il diritto di circolazione di ogni cittadino della Comunità, senza eccezione alcuna, è altrettanto indubbio che le disposizioni del Trattato oggetto del titolo III – quelle di cui agli articoli da 39 a 55 – riguardano in realtà tre categorie di persone ben definite, ossia cittadini europei economicamente attivi, prestatori cioè di attività economiche, reali ed effettive: i “lavoratori salariati”, e cioè i cittadini europei che esercitano la loro attività in un paese della Comunità diverso da quello del quale hanno la cittadinanza, alle dipendenze di un datore di lavoro (artt. 39-42 Trattato CEE, TCE); i “lavoratori indipendenti”, e cioè i cittadini europei stabiliti in un paese della Comunità diverso da quello del quale hanno la cittadinanza, nel quale svolgono la propria attività economica come indipendenti e in maniera durevole (artt. 43-48 TCE); i “prestatori (o destinatari) di servizi”, e cioè i cittadini europei che prestano la loro attività economica a favore di un destinatario recandosi, a titolo occasionale, in un altro paese della Comunità, o che di detta attività sono, alle stesse condizioni, beneficiari (artt. 49-55 TCE).

Trattasi dunque di tre diverse fattispecie giuridiche, disciplinate da norme diverse, che il Trattato contempla in tre diversi capitoli: “Lavoratori”, “Diritto di stabilimento”, “Servizi”. Discende da quando precede che il Trattato di Roma aveva preso in considerazione unicamente l’homo oeconomicus, ignorando così il “cittadino europeo” in quanto tale e cioè “economicamente non attivo”. Il che è del resto perfettamente comprensibile ove si consideri che detto trattato aveva istituito una Comunità economica europea, una Comunità cioè che perseguiva finalità di carattere meramente economico.

L’aggettivo “economica” è stato in seguito cancellato dal Trattato di Maastricht, che proclamando la “cittadinanza europea” ed elevando a rango di norma costituzionale il diritto di circolazione e di soggiorno – affermato da tre direttive del 1990 – dei cittadini europei non aventi la qualifica di “prestatori di attività economiche”, introduceva nel Trattato una “sesta” libertà fondamentale. Si continua ancora a parlare, come per “sentito dire”, e quindi poco “cartesianamente”, di quattro libertà fondamentali del Trattato di Roma, benché i conti non tornino: 1), Libera circolazione delle merci (artt. 23-31 TCE); 2), libera circolazione dei lavoratori (artt. 39-42 TCE); 3), diritto di Libertà di stabilimento (articoli 43-48 TCE); 4), Libera circolazione dei servizi (artt. 49-55 TCE); 5), Libera circolazione dei capitali e dei pagamenti (artt. 56-60 TCE). A queste cinque libertà previste dal Trattato di Roma, il Trattato di Maastricht (artt. 17 ss. TCE) ne ha aggiunto una sesta: la libertà di circolazione e di soggiorno dei cittadini dell’Unione europea.

Discende dalle considerazioni appena svolte che la lunga marcia del cittadino dell’Unione europea ha raggiunto, con il Trattato di Maastricht, una tappa importante verso la sua piena integrazione nel processo di unificazione europea. Anche se “dimenticato” dal Trattato di Roma istitutivo della Comunità economica europea, il cittadino comunitario ha progressivamente acquistato un suo status juris grazie non solo al Diritto comunitario, ma anche a una giurisprudenza illuminante e progressista della Corte di giustizia, normativa e giurisprudenza che hanno conferito diritti che vanno ben al di là dei diritti economici e dei vantaggi sociali o fiscali conferiti ai “soggetti economici”.

I diritti delle persone “economicamente non attive”

Tra i principali atti della legislazione comunitaria mirante a dare attuazione alle disposizioni del Trattato di Roma relative alla libertà di circolazione e di soggiorno dei prestatori d’attività economica, ricordiamo in particolare il regolamento 1612/68 del 15 ottobre 1968 (in “Gazzetta ufficiale della Comunità europea” L257 del 19/10/1968) per i lavoratori salariati e la direttiva 75/34 del 17 dicembre 1974 (ibid., L014 del 20/01/1975) per i lavoratori non salariati. Questi due atti normativi hanno conferito, sin dagli anni Sessanta, nuovi diritti a persone non rientranti, stricto sensu, tra le “persone economicamente attive”.

Il regolamento 1612/68 e la direttiva 75/34 affermano il diritto dei membri della famiglia del lavoratore, anche se “economicamente non attivi”, di stabilirsi con lui nel paese ospitante. La stessa normativa comunitaria prevede inoltre che il lavoratore migrante e i membri della sua famiglia, anche se “economicamente non attivi” godano sul territorio dello Stato membro ospitante degli «stessi vantaggi sociali e fiscali dei lavoratori nazionali», quali, ad esempio, insegnamenti impartiti dalle scuole professionali e dai centri di riadattamento o di rieducazione, indennità scolastiche, prestiti agevolati, sgravi fiscali, ecc.

Come già ricordato, la Corte di giustizia ha elaborato una giurisprudenza progressista che ha proclamato diritti che vanno al di là dei diritti economici e dei vantaggi sociali e fiscali derivanti dall’appartenenza a una Comunità economica. Accenneremo brevemente ad alcuni di questi diritti, raggruppandoli in tre categorie.

La prima è quella dei diritti riguardanti la dignità dell’individuo: i diritti fondamentali della persona umana, la cui tutela, secondo la Corte, «pur essendo informata alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, va garantita entro l’ambito della struttura e delle finalità della Comunità» (sentenza Internationale Handesgesellschaft del 17 dicembre 1970); il diritto alla non discriminazione (v. Principio di non discriminazione), previsto dall’articolo 12 del Trattato (ex articolo 6), mirante ad assicurare l’uguaglianza di trattamento a ogni cittadino della Comunità (sentenza Defrenne II dell’8 aprile 1976); il diritto al rispetto della vita privata e, in particolare, la protezione del segreto medico e il diritto al rispetto della vita familiare (sentenza Legge tedesca sui medicinali dell’8 aprile 1992); il diritto all’inviolabilità del domicilio, in particolare da perquisizioni di natura amministrativa (sentenza Hoechst del 21 settembre 1989); il diritto alla tutela giuridica degli amministrati, che comporta l’obbligo per la pubblica autorità di motivare le proprie decisioni di rifiuto e indicare le istanze di ricorso presso le quali impugnarle (sentenza Heylens del 15 ottobre 1987); il diritto di ogni amministrato, sottoposto a procedure amministrative suscettibili di concludersi con provvedimenti che comportino sanzioni o con decisioni che risultassero a lui sfavorevoli, di difendersi e di far conoscere il proprio punto di vista (sentenza Hoffman-La Roche del 13 febbraio 1979); il diritto alla libertà di espressione delle diverse componenti sociali, culturali, religiose e filosofiche esistenti in uno Stato membro.

La seconda categoria è quella dei diritti riguardanti la piena integrazione di un cittadino comunitario nell’ambiente sociale di un altro Stato membro. Tali sono: il diritto di ogni cittadino comunitario di utilizzare la propria lingua in una procedura davanti agli organi giurisdizionali dello Stato membro ospitante (sentenza Mutsch dell’11 luglio 1985) (v. Lingue); il diritto del partner che abbia una relazione stabile con un lavoratore comunitario a essere equiparato al coniuge (sentenza Reed del 17 aprile 1986); il diritto all’integrità fisica, alla protezione contro rischi di aggressione e alla concessione di compensi pecuniari previsti dal diritto nazionale in caso di aggressione (sentenza Cowan del 2 febbraio 1989); il diritto di ogni cittadino comunitario di recarsi in un altro Stato membro e di cercarvi un impiego per un periodo di tempo ragionevole (sentenza Antonissen del 21 febbraio 1991).

La terza categoria, infine, comprende il diritto di circolazione per i destinatari di servizi. Il diritto di circolazione, sancito dalla Corte nelle sentenze Luisi-Carbone del 30 gennaio 1984 e Cowan del 2 febbraio 1989, pur essendo inserito nel contesto della prestazione dei servizi ai sensi dell’articolo 49 del Trattato, ha come destinatari anche i cittadini comunitari che non prestino attività economiche. Nella sentenza Luisi-Carbone la Corte ha anzitutto precisato che, nell’ambito dell’articolo 49 del Trattato, al fine di permettere l’esecuzione della prestazione di servizi, si può avere sia lo spostamento del prestatore che si reca nello Stato membro dove è stabilito il destinatario del servizio, sia lo spostamento del destinatario del servizio che si rechi nello Stato in cui è stabilito il prestatore. In particolare, la Corte afferma che il diritto dei destinatari dei servizi comprende la libertà di recarsi in un altro Stato membro al fine di beneficiarvi di un servizio. Il godimento di tale diritto – che non deve essere ostacolato da alcun tipo di restrizioni – si estende a tutti i cittadini comunitari, anche se “economicamente non attivi”, che si rechino, quali destinatari di servizi, in un altro Stato membro, per ragioni di turismo o di studi.

L’Atto unico europeo e le direttive del 1990

È indubbio che né l’espressione “cittadino europeo” né altre simili figurano nell’Atto unico europeo (AUE) entrato in vigore il 1° luglio 1987. Esso riprende infatti la stessa espressione “libera circolazione delle persone” del Trattato CEE, con tutte le ambiguità alle quali abbiamo fatto già riferimento. Tuttavia è altrettanto vero che mai, sino a quel momento, nella storia dell’integrazione europea (v. Integrazione, metodo della; Integrazione, teorie della), un obiettivo (quello della realizzazione del Mercato unico europeo) e una scadenza (quella del 31 dicembre 1992) avevano mobilitato con un consenso così ampio le forze progressiste del mondo politico ed economico e avvicinato all’idea europea il cittadino comunitario con una partecipazione così diretta (v. Mattera, 1990).

L’articolo 14 dell’AUE enuncia una regola innovatrice, oseremmo dire rivoluzionaria: la soppressione delle frontiere interne. Gli obiettivi indicati sono infatti ambiziosi: eliminare definitivamente le barriere doganali, tecniche, fiscali, amministrative che avevano fatto del nostro continente una sorta di Europa feudale per creare uno spazio economico, sociale, culturale unificato (v. anche Unione doganale). Il 14 giugno 1985 i paesi del Benelux, la Francia e la Germania, firmavano a Schengen l’accordo relativo alla soppressione dei controlli alle frontiere comuni. Il 16 giugno 1990 i cinque paesi firmavano la Convenzione di applicazione di questo Accordo, convenzione che istituisce il principio della soppressione dei controlli alle frontiere interne nei confronti di ogni persona ed indica le necessarie misure di accompagnamento.

Attualmente, sia gli Stati che hanno firmato l’Accordo del 1985 sia quelli che vi hanno aderito in seguito (Italia, Spagna, Portogallo, Austria, Grecia, Danimarca, Finlandia, Svezia) fanno parte del cosiddetto “Spazio Schengen”. Soltanto il Regno Unito e l’Irlanda vi hanno aderito, mentre un periodo transitorio di adattamento è previsto per i nuovi Stati che hanno aderito all’Unione a decorrere dal 1° maggio 2004. Ricordiamo infine che l’“acquis Schengen” è stato incorporato nel Trattato di Amsterdam.

Lo spazio unificato senza frontiere interne, quale delineato dagli autori dell’AUE e previsto dall’articolo 14, sarebbe rimasto un voeux pieux senza l’effettiva attuazione del diritto di circolazione e di soggiorno di tutti i cittadini facenti parte di questo spazio unico. L’AUE non aveva tuttavia previsto alcuna fonte normativa per l’attuazione di tale diritto. Si è dovuto pertanto ricorrere allo “strumento normativo di emergenza”: l’articolo 308 del Trattato. Il 28 giugno 1990 (vale a dire undici anni dopo l’adozione da parte della Commissione europea della proposta in merito) il Consiglio dei ministri dell’Unione, grazie ai “venti favorevoli” della scadenza del 1992, adottava contemporaneamente tre direttive (v. Direttiva) volte a conferire a ogni cittadino europeo “economicamente non attivo” il diritto di soggiorno su tutto il territorio della Comunità. I cittadini comunitari economicamente non attivi sono stati classificati in tre categorie: i cittadini comunitari diversi da quelli rientranti nelle due categorie di cui appresso (direttiva 90/364); i cittadini comunitari che hanno cessato la propria attività lavorativa (direttiva 90/365) e cioè i lavoratori pensionati o licenziati; gli studenti (direttiva 90/366).

Il Trattato di Maastricht e la cittadinanza europea

Il termine “cittadinanza” deriva dal latino civitas, che deriva a sua volta da civis: membro libero di una città alla quale costui appartiene per origine o per adozione. La parola civitas (che va distinta da quella di urbs, che designa invece una comunità di persone stabilitasi su un territorio ben delimitato) ha dunque il significato di “condizione di cittadino”, status civitatis. Discende da queste nozioni etimologiche che la nozione di “cittadinanza” possiede intrinsecamente, sin dall’epoca romana, un significato che va ben al di là del semplice legame di appartenenza a una città, a un paese o a una nazione. È uno status civitatis che conferisce libertà, diritti e al tempo stesso doveri, che attribuisce al legame di appartenenza al territorio o a una comunità un contenuto sostanziale, uno status giuridico e fa del titolare di detto status juris un “soggetto di diritto”.

Nel 212 d.C. la cittadinanza romana fu estesa a tutti i residenti dell’Impero in virtù di una nuova costituzione promulgata dall’imperatore Antonino Caracalla (Costitutio antoniana) il cui principio fondamentale era il seguente: in orbe Romano qui sunt, ex costitutione imperatoris Antonini, cives romani effecti sunt. La concezione della cittadinanza romana implicava una par condicio piena ed effettiva in virtù della quale i cittadini dell’Impero che beneficiavano di tale status e gli abitanti dell’Urbs godevano delle stesse libertà e degli stessi diritti ed erano tenuti all’osservanza degli stessi doveri.

L’articolo 17 del Trattato CE, introdotto dal Trattato di Maastricht prevede l’istituzione di una cittadinanza dell’Unione («è cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro»), e stabilisce che «i cittadini dell’Unione godono dei diritti e sono soggetti ai doveri previsti dal presente Trattato».

Tali diritti devono essere altresì distinti dalla possibilità concessa ad ogni cittadino di rivolgersi al Mediatore europeo istituito conformemente alle disposizioni dell’articolo 195 del Trattato CE e al quale vanno presentati i ricorsi contro la cattiva amministrazione delle Istituzioni comunitarie e degli organi comunitari (a eccezione della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado). Si tratta di possibilità non strettamente legate allo status di cittadino e che avrebbero potuto e dovuto esistere già prima dell’istituzione di un tale status.

Considerazioni analoghe possono essere formulate con riferimento all’istituto della “protezione diplomatica e consolare” di cui gode, in virtù dell’articolo 20 dello stesso Trattato, ogni cittadino dell’Unione sul territorio di un paese terzo dove lo Stato membro del cittadino non è rappresentato; la Protezione diplomatica e consolare del cittadino europeo è in tal caso assicurata al soggetto in questione dalle autorità diplomatiche e consolari di qualsiasi Stato membro rappresentato sul territorio di detto paese terzo.

Gli articoli 17 e ss. del trattato CE conferiscono ai cittadini dell’Unione i seguenti tre diritti. In primo luogo, il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali nello Stato membro in cui il cittadino risiede (articolo 19, paragrafo 1: «Ogni cittadino dell’Unione residente in uno Stato membro ha il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali nello Stato membro in cui risiede, alle stesse condizioni dei cittadini di tale Stato. Tale diritto sarà esercitato con riserva delle modalità che il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, dovrà adottare entro il 31 dicembre 1994; tali modalità possono comportare disposizioni derogatorie ove problemi specifici di uno stato membro lo giustifichino»). Le modalità di esercizio del suddetto voto sono state poi fissate attraverso la direttiva 94/80/CE del Consiglio del 6 dicembre 1993 (GUCE L368 del 31/12/1994).

In secondo luogo il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo nello Stato membro in cui il cittadino risiede (articolo 19, paragrafo 2: «Fatte salve le disposizioni dell’articolo 138, paragrafo 3 e le disposizioni adottate in applicazione di quest’ultimo, ogni cittadino dell’Unione residente in uno Stato membro di cui non è cittadino ha il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni del Parlamento europeo nello Stato membro in cui risiede alle stesse condizioni dei cittadini di detto Stato. Tale diritto sarà esercitato con riserva delle modalità che il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, dovrà adottare entro il 31 dicembre 1993; tali modalità possono comportare disposizioni derogatorie ove problemi specifici di uno Stato membro lo giustifichino»). Le modalità di esercizio di detto voto sono state poi fissate con la direttiva 93/109/CE del Consiglio del 6 dicembre 1993 (GUCE L239 del 30/12/1993).

Infine, il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri (articolo 18, paragrafo 1).

Si tratta incontestabilmente di diritti che, da un canto, permettono ai cittadini comunitari di esercitare i propri “diritti civici” e, di conseguenza, di garantire un certo livello di rappresentatività democratica all’interno dell’Unione (diritto di voto e di eleggibilità) e, dall’altro, assicurano a questi stessi cittadini la possibilità di godere di tale status non in quanto “fattori di produzione” ma in quanto “cittadini”.

Per quanto riguarda il diritto di circolazione e di soggiorno del cittadino europeo e la diretta applicabilità dell’articolo 18 CE, l’articolo 18 del Trattato CE dispone che «ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dal presente Trattato e dalle disposizioni adottate in applicazione dello stesso. Il Consiglio può adottare disposizioni intese a facilitare l’esercizio dei diritti di cui al paragrafo 1; salvo diversa disposizione del presente Trattato, esso delibera secondo la procedura di cui all’articolo 251. Il Consiglio delibera all’unanimità durante tutta la procedura».

Sin dalla firma del Trattato di Maastricht, le disposizioni dell’articolo 18, paragrafo 1 sono direttamente applicabili nell’ordinamento giuridico di ogni Stato membro e conferiscono ai cittadini europei il diritto di «circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri», diritto che le giurisdizioni nazionali devono tutelare. Dette disposizioni consacrano il diritto di circolazione e di soggiorno del cittadino europeo quale diritto fondamentale riconosciuto dalla Comunità e lo elevano a rango di diritto costituzionale comunitario. In virtù di detta norma il cittadino europeo assurge a “soggetto di diritto comunitario”.

Nella sentenza Baumbast del 19 ottobre 2004, la Corte di giustizia ha confermato la diretta applicabilità dell’articolo 18 del Trattato, sostenendo che il diritto di soggiorno è riconosciuto direttamente a ogni cittadino dell’Unione da una disposizione “chiara e precisa quale quella dell’articolo 18, par. 1 (punto 84 della motivazione).

Il Trattato di Amsterdam

I dibattiti che hanno preceduto la ratifica da parte degli Stati membri del Trattato di Maastricht avevano posto in luce come tra i cittadini comunitari si fosse diffusa una forte corrente di scetticismo nei confronti della costruzione europea (v. anche Euroscetticismo).

Il Trattato di Amsterdam ha risposto solo parzialmente alle attese dei cittadini europei. È vero che è stato loro dedicato un capitolo intero di tale Trattato: proclamazione dei diritti fondamentali, allargamento della sfera di applicazione del principio di non discriminazione; applicazione alle istituzioni e agli organi della Comunità degli atti comunitari relativi alla protezione delle persone fisiche con riferimento al trattamento dei dati personali e alla libera circolazione di tali dati; diritto di accesso ai documenti comunitari, ecc. Occorre tuttavia riconoscere che alcuni di questi diritti formavano già parte integrante dell’ordinamento giuridico comunitario in virtù della Giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee (diritti fondamentali della persona umana). Inoltre, l’allargamento della sfera di applicazione di altri diritti (non discriminazione e parità di trattamento) è più formale che sostanziale. Infine, gli altri diritti introdotti dal Trattato di Amsterdam sembrano avere una portata alquanto modesta.

Vanno comunque sottolineate alcune innovazioni significative in tema di tutela dei diritti dei cittadini: il meccanismo di sanzione, previsto dagli articoli 6 e 7 de trattato sull’Unione europea, contro uno Stato che non rispetti i diritti fondamentali (v. Monjal, 1998); l’integrazione nel regime comunitario (c.d. “comunitarizzazione”) di alcuni regimi e politiche (segnatamente, il regime applicabile alle frontiere esterne, la politica dei visti, le Politiche dell’immigrazione e dell’asilo, la Cooperazione giudiziaria in materia civile). Questa integrazione ha prodotto cambiamenti importanti di cui si sono avvantaggiati i cittadini comunitari: adozione di direttive e regolamenti in sostituzione delle Convenzioni; controllo giurisdizionale da parte della Corte di giustizia; potere esclusivo di iniziativa da parte della Commissione (allo scadere di un periodo transitorio quinquennale di iniziativa congiunta Commissione-Stati membri); incorporazione dell’acquis di Schengen nel regime comunitario attraverso un Protocollo allegato al Trattato. Quest’ultima operazione, pur complessa, ha consentito di inserire la libera circolazione delle persone nel primo pilastro (v. Pilastri dell’Unione europea), lasciando nel terzo (v. Petite, 1997) unicamente la disciplina degli aspetti relativi al diritto penale e alle attività di polizia (v. Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale).

I risultati non esaltanti raggiunti con il Trattato di Amsterdam inducevano Mario Monti, commissario europeo responsabile del Mercato interno, a forzare i tempi, convinto che le sfide che l’Unione europea era chiamata ad affrontare all’alba del terzo millennio – Allargamento, riforma delle istituzioni, tutela dell’ambiente (v. anche Politica ambientale), lotta contro la disoccupazione, Lotta contro la criminalità internazionale e contro la droga, Lotta contro il terrorismo, l’integralismo, ecc. – potessero essere colte solo con il consenso democratico dei popoli europei. La partecipazione di tutti i cittadini a tale processo rappresentava perciò per Monti un’esigenza imprescindibile.

In diverse comunicazioni rivolte al Consiglio e al Parlamento europeo, la Commissione europea, su proposta di Monti, sottolineava l’urgente necessità di garantire a tutti i cittadini della Comunità un’effettiva libertà di circolazione e di soggiorno. In una di queste comunicazioni, quella del 1° luglio 1998, Monti identificava i quattro obiettivi da raggiungere: creare un regime unico di libera circolazione ai sensi dell’articolo 18 del Trattato per tutti i cittadini dell’Unione e per i membri delle loro famiglie, indipendentemente dal fatto che essi esercitino meno un’attività economica; chiarire lo status dei membri della famiglia di un cittadino comunitario; definire con maggiore concretezza e limitare al massimo le deroghe che permettono di giustificare il divieto di ingresso o l’espulsione di un cittadino comunitario dal territorio di uno Stato membro; adottare un nuovo approccio in tema di esercizio del diritto di soggiorno, limitando in particolare l’obbligo di presentare un titolo di soggiorno ai soli casi in cui esso risulti necessario. Questi quattro obiettivi saranno raggiunti grazie alla direttiva 2004/38.

La direttiva 2004/38

Il 30 aprile 2006, il cittadino europeo ha raggiunto un importante, decisivo traguardo nella “lunga marcia”, iniziata con i Trattati di Roma, verso la conquista di diritti e libertà che gli consentono di circolare senza restrizioni nei paesi dell’Unione europea, di soggiornarvi liberamente, di beneficiarvi dello stesso trattamento accordato ai cittadini dello Stato ospitante.

Questo traguardo è stato raggiunto grazie alla direttiva 2004/38 del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004 che gli Stati membri sono stati chiamati a recepire nel proprio ordinamento giuridico entro la precitata data del 30 aprile 2006. La direttiva 2004/38 ha dunque esteso ai cittadini dell’Unione che non esercitano alcuna attività economica gli stessi vantaggi e diritti concessi ai cittadini dello Stato ospitante. Prima di aver ottenuto il soggiorno permanente in quest’ultimo Stato, il cittadino europeo potrà beneficiare di detti diritti e vantaggi solo se dispone (come previsto dalle precitate tre direttive del 1990) di risorse sufficienti a evitare che diventi un onere irragionevole per l’assistenza sociale dello Stato ospitante, e abbia inoltre provveduto ad assicurarsi contro ogni forma di malattia, invalidità, ecc.

Ai sensi dell’articolo 1 della direttiva 2004/38 i beneficiari dei diritti da essa conferiti sono: i cittadini dell’Unione e cioè ogni cittadino avente la cittadinanza di uno Stato membro; i membri della sua famiglia, e cioè: il coniuge; i discendenti diretti (figli, nipoti, ecc.) di età inferiore a 21 anni o a carico, nonché quelli del coniuge o del partner registrato; gli ascendenti diretti a carico (genitori, nonni, ecc.), nonché quelli del coniuge o del partner registrato; il partner del cittadino dell’Unione, anche se “extracomunitario”, che abbia contratto con detto cittadino un’unione registrata sulla base della legislazione di uno Stato membro, se quest’unione è riconosciuta nello Stato membro ospitante.

Gli Stati membri ospitanti hanno inoltre l’obbligo di agevolare l’ingresso e il soggiorno di altri parenti, anche se non sono cittadini dell’Unione (fratelli e sorelle, cugini, zii, ecc., genitori non a carico o figli di età superiore ai 21 anni se vivono con il cittadino) nonché di persone che convivono con il cittadino dell’Unione, ivi compreso il partner, con cui il cittadino dell’Unione abbia una relazione stabile debitamente attestata, se dette persone sono a carico del cittadino dell’Unione o se gravi motivi di salute esigono che da questi vengano personalmente assistiti. Un eventuale rifiuto del loro ingresso o soggiorno dovrebbe formare oggetto di una decisione debitamente motivata e suscettibile di impugnazione davanti alle giurisdizioni nazionali.

Il diritto del cittadino europeo di lasciare il proprio paese con i suoi familiari per stabilirsi in un altro Stato membro è espressamente previsto e disciplinato dall’articolo 4 della direttiva 2004/38 che ha modificato le direttive esistenti.

Discende da detto articolo che tale diritto comporta per lo Stato membro di origine l’obbligo di: consegnare e rinnovare i documenti necessari (carta d’identità o passaporto) ai cittadini comunitari; autorizzare l’uscita dei familiari del cittadino che non hanno la nazionalità di uno Stato membro, se muniti di un passaporto in corso di validità; non subordinare il beneficio di questo diritto ad alcuna condizione restrittiva (visti di uscita o obblighi equivalenti, restrizioni in materia di trasferimento dei capitali, l’obbligo di rientrare dopo un certo periodo o di trasferire una parte del salario nel paese di origine, ecc.).

Come precisato dalla Corte nella sua sentenza Pieck del 3 luglio 1980, i termini “visto d’ingresso o obbligo equivalente” si riferiscono a «qualsiasi formalità, mirante ad autorizzare l’ingresso nel territorio di uno Stato membro, prescritta oltre al controllo del passaporto o della carta d’identità alla frontiera, indipendentemente dal luogo o dal momento del rilascio di detta autorizzazione e dalla forma che essa può avere».

Il diritto di ingresso in un altro Stato membro è disciplinato dall’articolo 5 della direttiva 2004/38, dal quale discende che un cittadino europeo ha il diritto di entrare in un altro paese dell’Unione: con i suoi familiari, cittadini dell’Unione, se muniti di una carta di identità o di un passaporto in corso di validità; con i familiari che non hanno la nazionalità di uno Stato membro se muniti di un passaporto in corso di validità; nessun visto d’ingresso né obbligo equivalente possono essere imposti al cittadino dell’Unione.

Ai sensi e per gli effetti delle disposizioni del paragrafo 4 della stessa direttiva, lo Stato membro ospitante non può bloccare alla frontiera né respingere un cittadino dell’Unione o un familiare che non abbia la nazionalità di uno Stato membro, qualora questi non dispongano dei documenti di viaggio richiesti o, se richiesto, del visto necessario. È quanto discende con assoluta chiarezza dal testo di detto paragrafo che così recita: «Lo Stato membro interessato concede a queste persone, prima di procedere al respingimento, ogni possibile agevolazione affinché possano ottenere o far pervenire entro un periodo di tempo ragionevole i documenti necessari, oppure possano dimostrare o attestare con altri mezzi la qualifica di titolari del diritto di libera circolazione». L’espressione “periodo di tempo ragionevole” implica innegabilmente che lo Stato membro ospitante è tenuto ad accettare sul suo territorio le persone in questione e accordare loro ogni possibile agevolazione prima di respingerle. Come il diritto di ingresso, anche il diritto di soggiorno sul territorio dello Stato membro ospitante è conferito ai cittadini comunitari direttamente dal trattato CE. L’articolo 6 della direttiva 2004/38 prevede che tutti i cittadini dell’Unione hanno il diritto di soggiornare sul territorio di un altro Stato membro fino a tre mesi, senza limitazioni né vincoli di sorta. La sola esigenza richiesta è di possedere una carta d’identità o un passaporto in corso di validità. Analogo diritto è conferito ai familiari che non hanno la cittadinanza di uno Stato membro, e che accompagnano o raggiungono il cittadino dell’Unione, se muniti di un passaporto in corso di validità.

Il medesimo articolo dispone che ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di soggiornare nel territorio di un altro Stato membro per una durata di più di tre mesi se rispetta le già citate condizioni (risorse sufficienti e assicurazione contro ogni rischio). I familiari che lo accompagnano o raggiungono godono dello stesso diritto. La “Carta di soggiorno” sinora richiesta è stata soppressa. Tuttavia, lo Stato membro ospitante può richiedere ai cittadini dell’Unione di iscriversi presso le autorità competenti entro un termine non inferiore ai tre mesi dall’ingresso, iscrizione che comporta l’immediato rilascio – dietro presentazione di una carta d’identità o di un passaporto – di un “attestato di iscrizione” contenente le generalità e il domicilio della persona iscritta. Ai familiari che non sono cittadini UE è rilasciata, alle già citate condizioni, una “Carta di soggiorno di familiare di un cittadino dell’Unione”, valida cinque anni. I familiari del cittadino UE, qualunque sia la loro nazionalità, conservano il diritto di soggiorno, alle condizioni previste dalla direttiva, sia in caso di decesso o partenza del cittadino dell’Unione sia in caso di divorzio, di annullamento del matrimonio o di scioglimento dell’unione registrata.

La direttiva 2004/38 conferisce altresì il diritto di soggiorno permanente nello Stato ospitante ai cittadini dell’Unione e ai familiari che hanno soggiornato legalmente in via continuativa per cinque anni nel territorio di questo Stato. Questo diritto è conferito, alle stesse condizioni, anche ai familiari che non hanno la cittadinanza di uno Stato membro Gli Stati membri rilasciano ai cittadini dell’Unione un documento che attesta il soggiorno permanente mentre i familiari “extracomunitari” riceveranno una carta di soggiorno permanente rinnovabile ogni dieci anni.

Ai sensi del primo paragrafo dell’articolo 24 della direttiva 2004/38 i cittadini dell’Unione e i loro familiari che soggiornano sul territorio dello Stato membro ospitante beneficiano della parità di trattamento rispetto ai cittadini nazionali in tutti i settori di competenza comunitaria. Tale diritto è esteso anche ai familiari che non sono cittadini dell’Unione.

In deroga al primo paragrafo, lo Stato membro ospitante ha la facoltà di non attribuire il diritto a prestazioni d’assistenza sociale durante i primi tre mesi di soggiorno e, se del caso, durante i primi cinque anni, né è tenuto a concedere a studenti, prima dell’acquisizione del diritto di soggiorno permanente, borse di studio o prestiti, anche se a scopo di formazione professionale. Come osserveremo a breve, tale limitazione va tuttavia interpretata alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia.

La direttiva 2004/38 ha fortemente limitato le eccezioni al diritto di soggiorno del cittadino europeo previste dalla precedente normativa. Quest’ultima prevedeva eccezioni per cittadini affetti da malattie a rischio per la salute pubblica quali, ad esempio, la tubercolosi, la sifilide, e altre malattie infettive, parassitarie o contagiose, ecc. In virtù della nuova direttiva le sole malattie che possono giustificare misure restrittive del diritto di circolazione e di soggiorno sono quelle potenzialmente epidemiche, quali definite dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS). In nessun caso l’insorgere di malattie dopo tre mesi dalla data di arrivo può giustificare l’espulsione.

In quanto deroga a un diritto fondamentale, dette misure restrittive devono essere proporzionate e debitamente motivate. Inoltre, eventuali provvedimenti di ordine pubblico e di pubblica sicurezza devono essere proporzionati e devono essere adottati esclusivamente in relazione al comportamento personale dell’interessato, comportamento che deve comunque rappresentare una «minaccia reale, attuale e sufficientemente grave» tale da pregiudicare un interesse fondamentale della società. L’esistenza di condanne penali anteriori non giustifica in sé la limitazione del diritto di libera circolazione e di soggiorno. I provvedimenti restrittivi non possono inoltre basarsi solo su considerazioni di prevenzione generale. Infine, prima di adottare un provvedimento di espulsione per motivi di ordine pubblico o pubblica sicurezza, lo Stato membro ospitante deve tenere conto di aspetti quali la durata del soggiorno dell’interessato, la sua età, le condizioni di salute, la situazione familiare ed economica, l’integrazione culturale e sociale e l’intensità dei suoi legami con il paese d’origine. Maggiori garanzie sono offerte ai cittadini dell’Unione e ai loro familiari che hanno acquisito il diritto di soggiorno permanente.

La direttiva 2004/38 prevede inoltre importanti garanzie procedurali. In particolare, ogni decisione di espulsione o di rifiuto d’ingresso deve essere motivata e comunicata all’interessato. Essa deve inoltre specificare l’organo dinanzi al quale potrà essere impugnata – con possibile effetto sospensivo – nonché il termine entro il quale la procedura dovrà essere espletata.

Nella sua illuminante giurisprudenza la Corte ha affermato e consacrato il principio della parità di trattamento che lo Stato membro ospitante è tenuto ad accordare ai cittadini europei, un diritto fondato sul combinato disposto degli articoli 12 (principio di non discriminazione) e 17 (cittadinanza europea accordata a tutti i cittadini dell’Unione). La Corte opera inoltre una sapiente distinzione tra il diritto di soggiorno – subordinato, sino all’ottenimento del soggiorno permanente, al possesso di risorse sufficienti e di una assicurazione contro ogni rischio – e la possibilità di beneficiare dello stesso trattamento del cittadino nazionale. La Corte afferma infatti che i cittadini europei, e quindi gli studenti, possono invocare il diritto alla parità di trattamento ai sensi degli articoli 12 e 17 CE, se soggiornano legalmente nello Stato membro ospitante.

Nell’affermare detto principio, la Corte non esclude che lo Stato membro ospitante possa subordinare il beneficio della parità di trattamento a condizione che esso non costituisca “un onere irragionevole” per le finanze dello Stato ospitante, e che i cittadini degli altri Stati membri che godono di tale beneficio abbiano raggiunto un certo livello d’integrazione nel tessuto sociale e culturale dello Stato ospitante. Va sottolineato al riguardo che il concetto di “integrazione” comporta, in eo ipso, l’accettazione delle diversità e delle identità del soggetto che si integra in un corpus che non è quello dal quale proviene. Nell’affermare quanto precede la Corte ricorda agli Stati che, l’essere membri di una “Comunità”, richiede da parte loro una certa solidarietà finanziaria nell’organizzazione e nell’attuazione dei loro sistemi di assistenza sociale.

La carta dei diritti fondamentali dell’Unione

La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione è stata proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 ed è stata pubblicata nella Gazzetta ufficiale delle Comunità europee. La Carta accorpa in un medesimo testo tutti i diritti delle persone: diritti civili, politici, economici e sociali e diritti dei cittadini dell’Unione europea. Tali diritti erano già stati consacrati da diverse fonti (Trattati, giurisprudenza della Corte di giustizia, Convenzione europea dei diritti dell’uomo, Carta sociale europea, Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, ecc.), ma erano stati “proclamati” in testi diversi, con una conseguente, disagevole dispersione. La Carta di Nizza ha posto fine a tale inconveniente assicurando una migliore accessibilità e visibilità, e quindi una tutela più efficace.

Il Trattato di Roma, istitutivo della Comunità economica europea, aveva limitato i diritti che abbiamo illustrato (circolazione, soggiorno, parità di trattamento) ai soli “prestatori di attività economiche”, dimenticando quindi i cittadini europei in quanto tali. La lunga marcia di quest’ultimi verso l’ottenimento di un proprio status juris e la loro piena integrazione nel processo di unificazione europea è dunque iniziata cinquant’anni or sono ed è proseguita sino ad oggi attraverso una serie di tappe decisive e di altrettante conquiste.

Possiamo perciò oggi affermare che ogni cittadino dell’Unione può rivendicare ormai il diritto di circolare attraverso i paesi della Comunità, di soggiornarvi liberamente e godere dello stesso trattamento riservato ai cittadini nazionali, invocando semplicemente come Paolo di Tarso, davanti al tribuno Lisia, il suo status juris di cittadino europeo: «civis europaeus sum».

Alfonso Mattera (2004)




Libri bianchi

I Libri bianchi, al pari dei Libri verdi, sono pubblicati dalla Commissione europea. Come spiegava Jacques Delors (Presidente della Commissione europea negli anni 1985-1995), «un Libro verde è uno studio preliminare destinato a sensibilizzare i lettori e dunque i governi su un argomento, allo scopo di prepararli a un’altra discussione, che si svolgerà a partire da un Libro bianco. In altri termini, un Libro bianco è più vicino alla decisione e invita il Consiglio europeo a pronunziarsi» (J. Delors, Mémoires, Plon, Paris 2004, p. 204).

Il Libro bianco serve quindi a preparare le Istituzioni comunitarie – e non il solo Consiglio europeo – a una decisione o a una serie di decisioni importanti. È talvolta preceduto, ma non necessariamente, da un Libro verde. La Commissione pubblicò per la prima volta un Libro bianco – inteso nel senso sopraindicato – nel maggio 1984 (Televisione senza frontiere) e, da allora, la formula si è progressivamente sviluppata. Libri bianchi sono stati pubblicati, ogni anno, in vari settori dell’azione comunitaria o su temi generali, con un massimo di cinque nel 2000. Il Libro bianco non è il solo strumento al quale la Commissione ricorre per preparare una svolta in una data politica o nella politica dell’Unione europea tout court. Alcune comunicazioni della Commissione rispondono alle stesse finalità di un Libro bianco, senza però possederne la riconoscibilità e, in qualche modo, la solennità. I Libri bianchi, insieme ai Libri verdi, corrispondono all’obiettivo di “legiferare meglio” perseguito dalle istituzioni dell’Unione a partire dagli anni Novanta e riconosciuto poi quale elemento essenziale di una migliore governance europea.

Per quanto riguarda le politiche settoriali, ricordiamo il Libro bianco sullo statuto della società europea del giugno 1988 (tentativo di rilancio di questo statuto, proposto dalla Commissione nel 1970 e adottato dal Consiglio solo trent’anni dopo, nel 2001, ed entrato in vigore nel 2004); i Libri bianchi sulla Politica comune dei trasporti della CE (Unificare lo spazio aereo europeo, marzo 1996, Strategia di rilancio delle ferrovie comunitarie, luglio dello 1996, Politica europea dei trasporti fino al 2010, settembre 2001). Incoraggiata dalle altre istituzioni, la Commissione Prodi (v. Prodi, Romano) ha preso, su questa base, iniziative che hanno condotto a importanti riforme nel campo aereo e ferroviario. Dal canto suo, il Libro bianco Modernizzazione delle norme per l’applicazione degli articoli 85 e 86 del Trattato (aprile 1999) via apriva la strada alla semplificazione della legislazione relativa alle regole di concorrenza applicabili alle imprese (v. Politica europea di concorrenza), decisa dalla Commissione nel settembre 2003 (riforma Monti) (v. Monti, Mario).

Altri Libri bianchi, a carattere più generale, hanno rappresentato delle tappe importanti dell’evoluzione della Comunità. Ad esempio il Libro bianco sul completamento del Mercato unico europeo, pubblicato dalla Commissione Delors (v. anche Rapporto Delors) nel giugno 1985, comportava un programma dettagliato scandito da un calendario preciso al fine di realizzare entro il 1992 un grande mercato unico, caratterizzato dalla soppressione delle frontiere (v. anche Unione doganale). Il documento, il cui architetto era stato il commissario Francis Cockfield, fu presentato al Consiglio europeo di Milano del 28-29 giugno 1985, che lo approvò. Fu però evidente alla Commissione e alla maggioranza degli Stati membri che il 90% dei provvedimenti previsti nel programma avrebbe richiesto il Voto all’unanimità), rendendo così estremamente aleatorio il raggiungimento dell’“obiettivo 1992”, e che occorreva perciò modificare il Trattato, al fine di estendere le possibilità di ricorso al voto a Maggioranza qualificata. Fu questa una delle ragioni che condussero il Consiglio europeo di Milano a votare la convocazione della conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) che portò all’Atto unico europeo del 1986. Questo Libro bianco contribuì quindi al rilancio dell’integrazione, dopo i vent’anni di ristagno seguiti alla crisi istituzionale del 1965 (Integrazione, metodo della; Integrazione, teorie della). Va ricordato altresì il Libro bianco Crescita, competitività, occupazione (dicembre 1993), l’ultima grande iniziativa di Jacques Delors. L’Europa attraversava un periodo di rallentamento economico e si trovava a fronteggiare due fenomeni nuovi, la rivoluzione della società dell’informazione e l’accelerazione della mondializzazione. Il Libro bianco proponeva una serie di riflessioni che miravano ad un’economia sana, aperta, decentralizzata, più competitiva e più solidale. A differenza del Libro bianco del 1985, che implicava essenzialmente il ricorso agli strumenti legislativi comunitari, quello del 1993 faceva appello soprattutto, oltre che ad azioni d’accompagnamento a livello comunitario, a misure di competenza nazionale: una delle ragioni per cui questo piano non ebbe la stessa fortuna delle altre iniziative di Jacques Delors. Il Libro bianco del marzo 2000 sulla riforma della Commissione – riforma essenzialmente amministrativa – fece seguito alla dimissione della Commissione Santer (v. Santer, Jean Jacques) nel 1999 e agli impegni presi dalla Commissione Prodi. Il Libro bianco contiene gli orientamenti della riforma: lo sviluppo d’una cultura fondata sul servizio; la pianificazione delle attività in funzione della disponibilità delle risorse umane e finanziarie; la gestione delle risorse umane; la gestione finanziaria, il controllo e l’audit. La realizzazione di tale riforma si è svolta lungo tutto il mandato della Commissione Prodi, dal settembre 1999 all’ottobre 2004, sotto la responsabilità d’un vicepresidente del collegio (Neil Kinnock) incaricato unicamente di questo compito. Il Libro bianco sulla governance europea (luglio 2001) aveva per oggetto la maniera in cui l’Unione europea utilizza i poteri che le sono conferiti dai Trattati (ma non proponeva la modifica di questi ultimi). I cambiamenti proposti si ispiravano ai principi di apertura, partecipazione, responsabilità, efficacia e coerenza, e si sarebbero dovuti applicati a tutti i livelli di governo (mondiale, europeo, nazionale, regionale o locale). Il Libro bianco venne esaminato dal Consiglio europeo e dalle varie istituzioni e organi comunitari, le cui reazioni state furono generalmente piuttosto favorevoli. Ma su alcuni temi non vi fu l’adesione che la Commissione sperava; altri temi ebbero invece successo, come il ricorso alle agenzie esecutive e talune iniziative per “legiferare meglio”, in particolare per semplificare e snellire l’Acquis comunitario.

I Libri bianchi, in alcuni casi, hanno fatto seguito a un dibattito preparato dai Libri verdi. Così è avvenuto per i Libri bianchi sulla Politica sociale (luglio 1994), sulla Politica commerciale comune (gennaio 1999), sulla Politica della ricerca spaziale (novembre 2003), sui servizi d’interesse generale (maggio 2004), sui fondi d’investimento (novembre 2006), sugli aspetti sanitari dell’alimentazione, del sovrappeso e dell’obesità (maggio 2007). Due casi meritano un’attenzione particolare. Il primo è il Libro bianco della Commissione del novembre 1997 Strategia di promozione delle fonti energetiche alternative, che teneva conto degli insegnamenti tratti dal dibattito avviato dal Libro verde della Commissione di un anno prima. Il dibattito consentì alla Commissione di passare dallo stadio della riflessione a quello del progetto politico. Il Libro bianco proponeva infatti di raddoppiare l’utilizzo delle fonti energetiche rinnovabili entro il 2010 (6% del consumo totale nel 1996, 12% nel 2010). Nel 1998, il Parlamento europeo, il Consiglio, il Comitato economico e sociale e il Comitato delle regioni accoglievano favorevolmente il contenuto del Libro bianco, e, da allora, l’Unione agisce in applicazione di questa strategia. Il secondo caso è il Libro bianco sulla sicurezza alimentare del gennaio 2000, che costituiva la conclusione del dibattito aperto dal Libro verde pubblicato nell’aprile 1997, nel difficile contesto istituzionale segnato dalla crisi causata dall’epidemia di encefalopatia spongiforme bovina e dalla polemica sugli organismi geneticamente modificati (OGM). Il libro bianco del 2000 fu il preludio a vari provvedimenti di tutela della salute dei consumatori che sarebbero stati adottati successivamente, e alla creazione dell’Autorità alimentare europea, con sede fissata a Parma.

Giuseppe Ciavarini Azzi (2008)




Libri verdi

I Libri verdi, al pari dei Libri bianchi, sono pubblicati dalla Commissione europea, ma con funzioni diverse. Il Libro verde è uno studio preliminare destinato a sensibilizzare i governi su un dato argomento, ma anche a sondare e preparare il terreno per future iniziative della Commissione. Il primo Libro verde fu pubblicato dalla Commissione nel 1985, ed era dedicato alle prospettive della Politica agricola comune. Progressivamente, i Libri verdi sono divenuti più frequenti (fino a un massimo di 15 nel 1996) in quasi tutti i settori dell’Unione europea, e in particolar modo in quelli in cui la Commissione intende prendere iniziative innovative.

I Libri verdi non si occupano di relazioni esterne, sebbene uno sia stato dedicato al tema dell’aiuto allo sviluppo, ma vertono principalmente su due gruppi di tematiche. Il primo comprende le questioni attinenti al Mercato unico europeo, alla Libera circolazione delle merci, Libera circolazione dei capitali, Libera circolazione dei servizi, Libera circolazione delle persone, alla Cooperazione giudiziaria in materia civile, ecc., in quanto i progressi dell’integrazione richiedono un adeguamento delle regole in questo campo (v. anche Integrazione, metodo della). Ne sono esempi i Libri verdi: Modelli di utilità nel mercato interno (luglio 1995), La protezione giuridica dei servizi criptati nel mercato interno, (marzo 1996), Il ruolo del revisore legale dei conti (luglio 1996), Il risarcimento alle vittime di reati (settembre 2001), L’ingiunzione di pagamento, (dicembre 2002), Le obbligazioni contrattuali (gennaio 2003), Gli obblighi alimentari (aprile 2004), Successioni e testamenti (marzo 2005), Il sequestro conservativo di depositi bancari (ottobre 2006). Il secondo gruppo di tematiche riguarda la società dell’informazione e le telecomunicazioni, in quanto i progressi continui delle nuove tecnologie rendono necessarie nuove politiche e nuove discipline a livello europeo. Ne sono esempi i Libri verdi: Diritto d’autore e sfide tecnologiche (giugno 1988), Un approccio unico nel campo delle comunicazioni via satellite (novembre 1990), Un approccio comune alla fornitura delle infrastrutture di telecomunicazione nell’UE (gennaio 1995), Vivere e lavorare nella società dell’informazione (luglio 1996), Politica della numerazione (novembre 1996), Politica di spettro radio (dicembre 1998), Applicazioni di navigazione satellitare (dicembre 2006).

Si tratta dunque, in entrambi i casi, di temi molto specifici. Ma altri Libri verdi toccano temi più generali. Ne sono esempi i Libri verdi: Il mercato unico dei servizi postali (giugno 1991), La dimensione europea dell’istruzione (settembre 1993), La politica sociale europea (novembre 1993), Una politica energetica dell’Unione europea (gennaio 1995), Il ruolo dell’Unione in materia di turismo (aprile 1995), Le relazioni tra l’UE e i paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico (ACP) all’alba del 21° secolo (novembre 1996), Gli appalti pubblici nell’UE (novembre 1996), Il futuro della politica comune della pesca (marzo 2001), La tutela dei consumatori nell’UE (ottobre 2001), Verso la futura politica marittima dell’Unione (giugno 2006), Lo spazio europeo della ricerca (aprile 2007).

In alcuni casi, il dibattito aperto dai Libri verdi è stato seguito da un Libro bianco che ha condotto a una decisione. È quanto è avvenuto nel caso dei Libri verdi Politica sociale (novembre 1993), Commercio (novembre 1996), Politica spaziale (gennaio 2003), Servizi d’interesse generale (maggio 2003), Fondi d’investimento (luglio 2005), Aspetti sanitari dell’alimentazione, del sovrappeso e dell’obesità (dicembre 2005). Due casi meritano un’attenzione particolare. Il primo è un Libro verde adottato dalla Commissione nel novembre 1996, dedicato alla Promozione delle energie rinnovabili. Esso si limitava a esporre i problemi e a fornire prime indicazioni sulle maniere possibili di risolverli. Nel primo semestre del 1997, le altre Istituzioni comunitarie, il Comitato economico e sociale e il Comitato delle regioni accoglievano positivamente il Libro verde e si esprimevano anche sui mezzi da utilizzare. La Commissione pubblicò quindi, nel novembre dello stesso anno, un Libro bianco per definire una strategia e un piano d’azione precisi, adottati in seguito dall’Unione, allo scopo di contribuire alla realizzazione dell’obiettivo di raddoppiare l’utilizzo delle fonti energetiche rinnovabili entro il 2010 (6% del consumo totale nel 1996, 12% nel 2010).

Egualmente significativo fu il Libro verde Principi generali della legislazione alimentare nell’Unione europea, pubblicato dalla Commissione nell’aprile 1997, nel difficile contesto istituzionale segnato dalla crisi causata dall’epidemia di encefalopatia spongiforme bovina e dalla polemica sugli organismi geneticamente modificati (OGM). In questo Libro verde, la Commissione lanciava il dibattito sul modo in cui rendere tale normativa più adeguata agli obiettivi della protezione della salute (v. anche Politica della salute pubblica) e degli interessi dei consumatori (v. anche Politica dei consumatori), e, al contempo, della libera circolazione e della competitività dell’industria. Al di là delle iniziative puntuali imposte dalle necessità del momento, la Commissione pubblicò, nel gennaio 2000, un Libro bianco sulla sicurezza alimentare che teneva conto delle reazioni del Parlamento europeo e degli altri interlocutori, e che costituisce ormai la base della strategia dell’Unione in questo delicatissimo campo.

I Libri verdi costituiscono quindi uno degli strumenti che consentono alla Commissione di realizzare le consultazioni di cui può aver bisogno prima di elaborare le sue iniziative, anche se altre comunicazioni che non rientrano nella categoria dei Libri verdi assolvono talvolta alla stessa funzione. I Libri verdi si rivolgono tanto alle istituzioni europee (chiamate a pronunziarsi soprattutto quando si tratta di temi generali e politici) quanto all’insieme della popolazione interessata. Talvolta, la Commissione indica ai lettori le modalità da seguire per rispondere, in particolare per via elettronica, alle domande poste dal Libro verde. In quanto strumento di consultazione, i Libri verdi rispondono all’obiettivo di “legiferare meglio” che le istituzioni dell’Unione hanno fatto proprio sin dagli anni Novanta, e che hanno riconosciuto quale elemento essenziale di una migliore governance europea.

Giuseppe Ciavarini Azzi (2007)




Lietuvos nacionalinis Raijas ir Televizija

Radio e Televisione nazionale lituana