Lobbying

Fin dalle origini il processo di costruzione europea ha trovato prevalente espressione nell’ambito economico: dalla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) alla Comunità economica europea (CEE) all’Unione europea (UE). Le Istituzioni comunitarie deputate a elaborare e ad attuare le prime politiche comunitarie anche attraverso un’azione di carattere normativo hanno avuto – e continuano ad avere – un forte impatto su gran parte delle attività economiche del continente a partire dall’azione dell’Alta autorità della CECA e delle sue scelte nel settore dell’industria carbosiderurgica. Era quindi ovvio che gli attori economici, dalle imprese alle associazioni di categoria, agli organismi rappresentanti i lavoratori, non solo mostrassero crescente attenzione verso le decisioni prese dagli organismi comunitari, ma cercassero di influenzarne il processo decisionale al fine di difendere o favorire i propri interessi settoriali.

Si può dunque sostenere che l’azione di lobbying si sia manifestata sin dalle prime fasi della costruzione europea. A questo proposito basti ricordare la creazione agli inizi degli anni Cinquanta dell’Unione delle industrie delle Comunità europee (UNICE), l’associazione degli imprenditori europei. Con i Trattati di Roma e, in particolare, con l’avvio della Politica agricola comune (PAC) gli interessi degli agricoltori trovarono espressione nel Comitato delle organizzazioni professionali agricole (COPA); per quanto riguarda gli imprenditori, all’UNICE, nel frattempo adattata alla nuova realtà della CEE, si sarebbe affiancato il Centro europeo delle imprese pubbliche (CEEP) e infine, nel 1973 nasceva la Confederazione europea dei sindacati (CES).

Fu però soprattutto a partire dagli anni Settanta e con maggiore vigore dopo la metà degli anni Ottanta che l’attività di lobbying si rafforzò sino a divenire una componente importante, per quanto a volta difficilmente definibile, del processo di integrazione (v. anche Integrazione, metodo della).

All’indomani del Vertice dell’Aia del 1969 la Comunità avviava una serie di nuove politiche – Politica ambientale, Politica sociale, regionale (v. Politica di coesione), Politica dell’energia, Politica industriale, ecc. – che avevano ricadute in vari settori della realtà economica dei paesi membri; dopo il 1985, inoltre, il bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) subiva radicali trasformazioni e progressivamente alla PAC, che per lungo tempo aveva impegnato circa l’80% delle risorse finanziarie della CEE, si aggiungevano altre forme di intervento nel quadro dell’obiettivo della “coesione economica e sociale” (v. Fondo di coesione) e delle politiche strutturali.

Inoltre, le iniziative di natura normativa incidevano in maniera forte su vari aspetti delle dinamiche economiche e finanziarie europee. Infine, in particolare dopo il Trattato di Maastricht, al ruolo svolto dalla Commissione europea e dal Consiglio dei ministri si affiancava nel processo decisionale europeo quello del Parlamento europeo, senza trascurare l’influenza esercitata con i loro pareri dal Comitato economico e sociale e il Comitato delle regioni.

Questo processo ha condotto alla nascita o al rafforzamento dei gruppi di pressione e di interesse, sia su scala nazionale, sia più spesso su scala europea, che hanno trovato utile avviare le proprie attività a Bruxelles al fine di compiere un’azione di lobbying presso le varie articolazioni istituzionali dell’Unione europea.

Molti fra questi gruppi – ad esempio l’UNICE, il COPA, la CEIP, ecc. – ormai hanno al loro attivo una lunga esperienza, ma a essi si sono aggiunte altre entità, dalle regioni alle università, ai grandi gruppi economico-finanziari, ed essi svolgono un ruolo che risulta in qualche modo accettato e in parte riconosciuto con la diffusione di informazioni, la presenza di esperti, l’azione di pubbliche relazioni, ecc.

Come è ovvio, accanto a un’azione “pubblica”, si sono manifestati casi di lobbying che hanno posto e pongono seri problemi di trasparenza e correttezza nel contesto del processo decisionale europeo. Vari casi di corruzione verificatisi negli anni Novanta e in tempi più recenti, nonché le difficoltà manifestatesi di sovente nelle relazioni tra la Commissione e il Parlamento – ad esempio le dimissioni della Commissione Santer (v. Santer, Jean Jacques) – hanno sottolineato, in maniera diretta o indiretta, la rilevanza di tale problema, che al momento resta tuttora aperto per l’importanza degli interessi in gioco: basti pensare alle migliaia di persone coinvolte, in modo più o meno aperto, nell’azione di lobbying che rappresenta ormai una delle caratteristiche salienti delle dinamiche comunitarie.

Antonio Varsori (2008)




Lodovico Benvenuti




Lombardo, Ivan Matteo

L. nacque a Milano il 22 maggio 1902. Dopo gli studi intraprese l’attività giornalistica e fu redattore sindacale de “L’Avanti!” dal 1920 al 1922.

Perseguitato dal regime fascista, venne arrestato una prima volta già nel 1922 e prosciolto in istruttoria. Nei tre anni successivi si recò in Libia per prestare servizio militare. Sottoposto dalla polizia a vigilanza speciale dal 1926 fino al 1937, svolse dal 1925, per circa dieci anni, attività di agente incaricato degli acquisti per alcune aziende nordamericane e, in seguito, divenne dirigente in varie imprese industriali sia del settore chimico che di quello tessile.

Richiamato alle armi nell’aprile 1941, l’anno successivo contribuì alla ricostituzione del Partito socialista italiano e nell’aprile 1943 subì il secondo arresto. Liberato subito dopo la caduta del fascismo, riprese l’attività politica e partecipò alla Resistenza sfuggendo spesso fortunosamente alle retate delle truppe tedesche e repubblichine. Nel maggio 1945 fu nominato Commissario all’industria per il Comitato di liberazione nazionale (CLN) della Lombardia.

Membro della Consulta nazionale, nel luglio 1945 assunse l’incarico di sottosegretario all’Industria e al Commercio nel gabinetto guidato da Ferruccio Parri e venne riconfermato nel primo governo di Alcide De Gasperi.

Nell’aprile del 1946 si recò negli Stati Uniti per negoziare l’esportazione dei tessuti italiani e per partecipare, come capodelegazione, alla prima conferenza cotoniera del dopoguerra svoltasi a Washington. Proprio mentre si trovava negli Stati Uniti, durante il Congresso di Firenze dell’aprile 1946, fu nominato segretario generale del Partito socialista italiano di unità proletaria (PSIUP) e rimase in carica fino al gennaio 1947. Eletto deputato all’Assemblea costituente, nel dicembre 1946 fu alla guida della delegazione italiana per i negoziati economici e commerciali con la Francia, mentre dal maggio all’agosto 1947 fu nominato ambasciatore plenipotenziario a Washington per la sistemazione delle pendenze postbelliche e di altre questioni finanziarie tra l’Italia e gli Stati Uniti.

L. era sostenitore di un socialismo riformista, democratico e autonomista, tanto da essere uno dei pochissimi alti dirigenti del partito a manifestare forti perplessità rispetto al patto d’unità d’azione sottoscritto con il Partito comunista italiano (PCI), ma non fu tra coloro che, assieme a Giuseppe Saragat, uscirono dal PSIUP per dare vita al Partito socialista dei lavoratori italiani (PSLI), a seguito della scissione di Palazzo Barberini nel gennaio del 1947.

Essendo tuttavia assolutamente contrario all’alleanza politico-elettorale con i comunisti, che sarebbe culminata nell’esperienza del Fronte democratico popolare, lasciò infine il partito nel febbraio del 1948, contribuendo alla fondazione dell’Unione dei socialisti (UdS), di cui divenne segretario e che raggruppava alcuni importanti settori del socialismo autonomista. Fu rieletto alla Camera dei deputati, il 18 aprile 1948, nella lista denominata di “Unità socialista”, cartello elettorale che riuniva proprio l’UdS e il PSLI, partito al quale egli aderì nel febbraio del 1949.

Ministro dell’Industria e commercio nel V gabinetto De Gasperi, dal maggio 1948 al gennaio 1950, assunse il portafoglio del Commercio estero nel successivo governo presieduto dallo statista trentino, fino all’aprile del 1951.

L. aveva aderito al Movimento federalista europeo (MFE) nell’autunno del 1947, appoggiando la linea di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli a favore di un avvio del processo di integrazione (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), sotto l’ombrello protettivo statunitense, limitato agli Stati dell’Europa occidentale a democrazia liberale, in contrapposizione alle ipotesi di collaborazione paneuropea (Unione Sovietica inclusa) propugnate dai neutralisti e dai “terzaforzisti”.

Egli sostenne inoltre fortemente il Piano Marshall, inteso come primo passo in grado, oltre che di consentire la ricostruzione postbellica, di aprire la prospettiva di una organizzazione federale per l’Europa (v. Federalismo).

Quando il governo De Gasperi, nel settembre del 1951, propose a L. di assumere il compito di capo della delegazione italiana alla Conferenza per l’esercito europeo, al posto di Paolo Emilio Taviani, divenuto nel frattempo sottosegretario agli Esteri, egli non aveva grande esperienza in merito ai problemi militari e istituzionali connessi con tale importante progetto.

Nell’estate del 1951 la Conferenza era giunta ad un punto morto con la presentazione ai governi del Rapport intérimaire che, pur preconizzando la nascita di una forza europea di difesa, arretrava dinnanzi alle ipotesi di trasferimenti di quote di sovranità a un potere sovranazionale. Al di là delle dichiarazioni ufficiali, la stessa delegazione italiana alla Conferenza, mancando di precise istruzioni, aveva finito per attestarsi su una posizione di sostanziale attendismo e di difesa particolarmente puntigliosa delle prerogative della sovranità nazionale. A Roma, sia negli ambienti diplomatici che in quelli militari, si nutrivano infatti non poche perplessità rispetto alla Comunità europea di difesa (CED). La svolta avvenne, su decisione di Alcide De Gasperi, proprio con la nomina di L.

Alla fine dell’estate del 1951 Spinelli inviò al presidente del Consiglio e allo stesso L. un promemoria che conteneva un’ampia e particolareggiata critica del Rapport intérimaire e nell’aide-mémoire che l’esponente socialdemocratico presentò il 9 ottobre 1951, appena giunto alla Conferenza, egli mostrò con chiarezza che l’Italia si sarebbe battuta per far prevalere un modello di tipo sovranazionale e federale, recependo molte delle proposte contenute nel promemoria di Spinelli.

Per L. un’altra delle ipotesi sul tappeto, ossia la neutralizzazione della Germania, non poteva reggere, in quanto ciò avrebbe postulato la sua estensione, sotto garanzia delle Nazioni Unite, a tutta l’Europa, anche a quella orientale e all’URSS, risultato non conseguibile data la natura dei regimi politici dell’Est. L’unica prospettiva credibile rimaneva, quindi, quella di amalgamare l’apporto della Germania occidentale con quello degli altri paesi sotto una comune autorità politica.

L. intuì la centralità che, ai fini di uno sviluppo in senso federale, avrebbe assunto l’Assemblea parlamentare prevista dal Trattato (v. anche Trattati). Affidando ad essa un mandato costituente, si sarebbe innestato nel progetto CED un elemento dinamico, che avrebbe consentito di andare oltre i limiti della semplice comunità settoriale nel campo della difesa per arrivare a una vera unione politica (v. Comunità politica europea).

Con le decisioni assunte dai sei ministri degli Esteri della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), l’11 dicembre 1951, venne infine accolto il principio di un’Assemblea investita di un sostanziale mandato costituente, pur con tutta una serie di importanti limitazioni (v. Assemblea ad hoc). L. mantenne anche dopo la firma del Trattato, avvenuta il 27 maggio 1952, la guida della delegazione italiana al Comitato interinale, organismo che continuò a riunirsi per tutta la fase successiva.

Non si può non rilevare che nella vicenda della CED, come si manifesterà anche in occasione del voto del 30 agosto 1954 all’Assemblea nazionale francese con la bocciatura del trattato, molti partiti socialisti non apportarono un forte sostegno: ostile la Sozialdemokratische Pareti Deutschlands (SPD) tedesca, tiepidi e divisi i socialisti francesi e belgi, assolutamente contrario il PSI.

L. constatava con amarezza come il socialismo avesse talvolta dimenticato l’antico ideale internazionalista, osteggiando i progetti di carattere federativo. Non era però più possibile risanare le singole economie e mobilitare le forze progressiste contro i privilegi nel quadro dello Stato nazionale. La lotta per il progresso economico e la giustizia sociale poteva svilupparsi solo con un governo e un parlamento federali, rafforzando il consenso delle masse popolari nei confronti delle istituzioni democratiche.

Milioni di lavoratori che si erano lasciati attrarre dal mito totalitario comunista, del resto, non sarebbero stati riconquistati al socialismo democratico presentando loro limitati programmi di politica economica interna, perché essi avrebbero sentito istintivamente che in un angusto ambito nazionale sarebbe stato impossibile realizzarli.

Dopo la delusione per la caduta del trattato CED, non condividendo la scelta operata da Spinelli con il “nuovo corso”, ossia l’opposizione radicale alla politica funzionalistica dei governi (v. Funzionalismo) e dei partiti nazionali, L. si allontanò dalla militanza attiva nel MFE e, pur continuando a propugnare l’unificazione su basi federali dell’Europa, pose al centro del suo impegno, fino alla sua scomparsa, avvenuta nel 1980, lo sviluppo dei rapporti tra il vecchio continente e gli Stati Uniti nel quadro dell’Alleanza atlantica.

Europeismo e atlantismo rappresentavano per L. quasi due facce della stessa medaglia: non si rilevava una conflittualità, bensì una complementarità tra le due dimensioni. Gli Stati Uniti, ai suoi occhi, costituivano, infatti, quasi una proiezione del vecchio continente; ciò che univa era la comune appartenenza al sistema di valori dell’Occidente democratico e liberale, per cui l’auspicata Europa federale, agendo in un quadro di equal partnership, non sarebbe entrata in contrasto con gli USA, ma avrebbe contribuito anzi, in un ruolo non più subalterno, alla lotta contro il totalitarismo comunista.

L. vedeva con favore la scelta operata dagli Stati Uniti con il Patto Atlantico, l’abbandono cioè del tradizionale isolazionismo in tempo di pace, e propugnava la nascita di una vera comunità atlantica, un’intesa indissolubile, non solo militare, ma anche politica ed economica, tra il Nord America e un’Europa occidentale sempre più integrata.

L. rivestì un ruolo di primo piano nelle organizzazioni di sostegno politico all’Alleanza atlantica. Il 18 giugno 1954 era nata, su iniziativa del Consiglio atlantico, l’Atlantic treaty association (ATA) di cui L. assunse la presidenza nel biennio 1959-1960, divenendone poi vicepresidente. Nel luglio del 1955 venne fondato il Comitato italiano atlantico (CIA), da lui diretto e dotato anche di una sezione giovanile.

L’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) non solo aveva salvaguardato la pace, grazie alla sicurezza garantita dal suo scudo protettivo, ma aveva favorito nel vecchio continente processi di cooperazione e integrazione quali l’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE), l’Unione europea dei pagamenti (UEP), il Consiglio d’Europa, le tre Comunità (v. Comunità europea del carbone e dell’acciaio; Comunità economica europea; Comunità europea dell’energia atomica), rendendo possibile l’avvio della costruzione europea, che, nel suo sviluppo federale, avrebbe garantito l’unità nella diversità e nel rispetto del pluralismo.

Paolo Caraffini (2010)




Lopez-Bravo De Castro, Gregorio

L.-B. (Madrid 1923-Bilbao 1985) proveniva da una famiglia liberale madrilena. La guerra civile interruppe i suoi studi presso la Institución libre de enseñanza. La difficile situazione economica familiare nel 1939 rallentò la sua carriera accademica, ma L.-B. riuscì a laurearsi con ottimi voti in Ingegneria navale nel 1947. Più tardi si specializzò in direzione di imprese negli USA ed al suo ritorno in Spagna lavorò per la Società spagnola di costruzioni navali. Entrò nell’amministrazione franchista nel luglio del 1959, proprio nel momento in cui si produceva il cambiamento definitivo della politica economica della dittatura con l’approvazione del Piano di stabilizzazione, incoraggiato dal gabinetto tecnocratico nominato da Franco nel febbraio del 1957. Si abbandonava la politica nazionalista, interventista e di sostituzione delle importazioni sviluppata nel 1939 a favore di un’economia mista basata sul libero mercato. Occorreva iniziare da una normalizzazione della gestione economica: controllo dell’inflazione, miglioramento della bilancia dei pagamenti, svalutazione della peseta, mezzi finanziari restrittivi, limitazione del credito e della quantità di denaro in circolazione, associati al progressivo ribasso dell’interventismo statale e una graduale liberalizzazione di importazioni e investimenti esteri. Era giusto stabilizzare l’economia come passo per riuscire a ottenere la convertibilità esterna della peseta (la maggior parte delle monete europee c’erano riuscite nel 1958 grazie all’Unione europea dei pagamenti) e l’integrazione nelle nuove organizzazioni europee – Mercato comune europeo nel 1957 (v. Comunità economica europea), Associazione europea di libero scambio (EFTA) nel 1959 – di fronte al nuovo panorama internazionale di liberalizzazione degli interscambi commerciali.

L.-B. iniziò a lavorare nel nuovo progetto come direttore generale del Commercio estero per il ministro Alberto Ullastres, nonostante non fosse un tecnico come i suoi predecessori. Il suo dipartimento si occupava di controllare le importazioni in un periodo nel quale le riserve di valuta spagnola erano sotto il livello minimo. Nel momento in cui migliorò la bilancia commerciale, diminuì la riduzione della protezione commerciale: la nuova imposta approvata nel 1960 la lasciò intorno al 20-25%, con un 40% di commercio liberalizzato.

Tra il dicembre del 1960 e il luglio del 1962, L.-B. divenne direttore generale dell’Istituto spagnolo della moneta estera, dipendente dal ministero del Commercio non dalla Banca di Spagna (vale a dire non dal ministero delle Finanze), caratteristica che creò problemi di competenza che L.-B. cercò di attenuare. Sotto la sua supervisione si regolò la legislazione dei contratti di assistenza tecnica estera in Spagna, una formula per aprire l’economia spagnola all’investimento estero. La partecipazione di L.-B. nell’operazione che consolidò l’Empresa nacional de autocamiones (ENASA) appartenente al gruppo statale di imprese pubbliche Instituto nacional de idustria (INI), creato nel 1941 grazie all’ingresso di capitale e tecnologia della britannica Leyland Motors, gli valse l’attenzione di Franco.

A partire dal 1961 L.-B. fu nominato deputato in Parlamento, nel gruppo dei rappresentanti dei collegi professionali. Dallo IEME collaborò anche con López-Rodó, amministratore della nuova pianificazione economica adottata nell’elaborazione del I Piano di sviluppo, iniziata nel febbraio 1962: questo nesso era un biglietto da visita infallibile per l’ammiraglio Carrero Blanco, consigliere e uomo di fiducia di Franco e artefice delle crisi di governo. Un altro contatto, quello con l’ammiraglio Nieto Antunez, sottosegretario della Marina mercantile e figura vicino al dittatore, con il quale L.-B. collaborò nella primavera del 1962, facilitò l’approdo di quest’ultimo al governo: i due riuscirono a risolvere, utilizzando porti polacchi, il problema dell’approvvigionamento causato dal boicottaggio di vari sindacati stranieri in segno di solidarietà con uno sciopero dei minatori carboniferi.

Alla fine del luglio del 1962 L.-B. fu nominato ministro dell’Industria, incarico che ricoprì fino all’ottobre del 1969. Formarono parte dello stesso esecutivo anche A. Ullastres al Commercio (verrà sostituito nel 1965 da García Monco, amico di L.-B.) e Mariano Navarro alle Finanze, assieme a López-Rodó a capo della Pianificazione economica. Tutti questi personaggi condividevano la stessa esigente etica professionale, derivata dalla loro appartenenza all’Opus Dei e da una mentalità tecnocratica che intendeva la politica come una mera questione tecnica: il regime di Franco poteva essere aggiornato, con un adeguato sviluppo giuridico e con il cambiamento economico per la liberalizzazione intrapreso dal 1959, senza dover alterare il suo essenziale carattere antidemocratico e ultraconservatore.

Con la nomina al governo di L.-B., anche la politica industriale partecipava alla riforma economica imposta già agli altri settori. Fino a quel momento era stata amministrata da immobilisti promotori dell’autarchia industriale: dal predecessore di L.-B., Joaquin Planell, nemico della liberalizzazione economica, e da Juan Antonio Suances, fondatore e presidente dell’INI dal 1941 che si dimise nell’ottobre del 1963. Fino al 1969, L.-B. avrà solamente scontri con il ministro del Lavoro e con il Partito unico, per le loro differenti opinioni rispetto all’effetto inflazionista degli aumenti salariali difesi da questi istituti.

La nuova politica industriale si basava su una strategia di sviluppo verso l’esterno e non di sostituzione delle importazioni. Cercava la crescita e la diversificazione del sistema produttivo attraverso un maggiore partecipazione dell’industria nell’esportazione e nell’aumento della valuta. Per l’espansione dello stesso settore, si ritenne necessario ridurre progressivamente la protezione doganale, incentivare l’ingresso di capitale straniero e rinnovare la tecnologia con l’importazione di licenze e assistenza tecnica. Bisognava eliminare i vecchi strumenti di intervento diretto ed indiretto dello Stato e l’INI doveva cessare di essere il motore di industrializzazione nazionale.

Nella nuova filosofia, lo Stato doveva sostenere il capitale privato, nazionale e straniero e agire solamente nel caso in cui l’iniziativa privata avesse fallito. Così, nel gennaio del 1963, seguendo le raccomandazioni delle istituzioni economiche internazionali, la pressione americana e la necessità di adeguare il sistema economico all’evoluzione europea, si approvava un nuovo regime d’ordine dell’investimento industriale che attenuava le restrizioni e le interferenze amministrative alle quali erano sottoposte, negli anni 1938-1939, tutte le industrie spagnole, tanto nella fase di avvio, quanto in quella di ampliamento o trasferimento. Le esigenze amministrative scomparivano del tutto per molte imprese e per altre si fissavano requisiti minimi di dimensione e di carattere tecnico; restava peraltro un gruppo per il quale si manteneva il sistema dell’autorizzazione preventiva. Nonostante nel 1968 si producesse un irrigidimento delle esigenze amministrative, dal 1963 queste si erano ridotte di circa il 60%. Inoltre, nel luglio del 1963 si approvò un’altra legge contro le pratiche restrittive della concorrenza, che ebbe però un impatto minore, visto che non condannò i delitti commessi sotto la protezione di decisioni amministrative.

Si ridusse anche l’intervento diretto dello Stato nell’industria attraverso le imprese statali dell’INI o delle industrie a partecipazione statale, che godevano dei massimi privilegi fiscali, di finanziamento e concorrenza. Nel dicembre del 1963 scomparvero le “Industrie di interesse nazionale”, categoria di imprese a partecipazione pubblica che si sostituiva con quella delle “Industrie di interesse preferenziale”: si concedevano gli stessi benefici a tutte quelle, pubbliche e private, che rispettavano gli obiettivi economico-sociali fissati dal governo. Il pensiero originale dell’INI si modificò riconoscendo l’importanza degli investimenti stranieri, abbandonò i progetti non competitivi a livello internazionale, adottò una politica budgetaria di contenimento degli investimenti, dimenticò la ricerca dell’autosufficienza industriale e tecnologica e soppresse i vantaggi dell’impresa pubblica. La maggior parte delle attività produttive doveva essere condotta per iniziativa privata: l’INI restava di riserva per le attività industriali che il governo avrebbe considerato necessarie, laddove l’iniziativa privata non si fosse assunta tale onere (dato il volume o i rischi dell’investimento richiesto, ecc.). l’INI sarebbe intervenuta anche nelle industrie di base, senza produttività, ma dalla quale non si poteva prescindere per ragioni politiche. L’INI doveva essere il precursore industriale (con crediti ufficiali, favorendo la confluenza di soci stranieri per aumentare il capitale) fino a che l’iniziativa privata non avesse preso il suo posto, ma non doveva mai entrare in competizione con il settore privato. L’INI passò alle dipendenze del ministero dell’Industria (1968), non dalla presidenza, come accadeva dal 1941 e la sua situazione finanziaria si deteriorò: l’Istituto si vide costretto a partecipare ed intervenire in settori nuovi, ad assorbire imprese private in fallimento o poco redditizie e a subordinare il suo piano di investimenti ai Piani di sviluppo. In quegli anni, l’INI entrò nel promettente settore del turismo; l’automobilistico si aprì alla concorrenza di più imprese oltre alla semipubblica Seat (vincolata Fiat) e si potenziò la partecipazione statale nel settore energetico: ricerca ed esplorazione petrolifera e acquisizione di giacimenti petroliferi e di gas naturale all’estero per assicurare il rifornimento di greggio, prime centrali nucleari, ecc.

La collaborazione di L.-B. con López-Rodó fu molto stretta nella politica di sviluppo regionale (attraverso azioni di localizzazione industriale) e nella modernizzazione e restauro dei settori concreti tramite le cosiddette “azioni concordate”, che oggi si chiamerebbero riconversioni industriali. I risultati furono ottimi: dal 1964 al 1974 l’industria fu il settore con maggiore tasso di crescita, la sua partecipazione nel PIL aumentò (dal 24,2% al 31,4%), con un tasso medio di crescita annuale del 9%, seconda solo al Giappone. L’industria ebbe un effetto “domino” nella trasformazione della struttura produttiva spagnola. Ma ebbe anche ombre: i principali problemi furono l’eccesso di interventismo statale e la mancanza di concorrenza. Secondo alcuni la pianificazione indicativa promosse un sistema di aiuti individuali a impresari in difficoltà o con influenze o amicizie politiche ed anche se fu un miglioramento, non portò al funzionamento del libero mercato. L’industria pubblica fu utilizzata come minaccia potenziale contro quella privata se questa non avesse rispettato gli obiettivi pianificati per risolvere problemi politici, evitare conflitti lavorativi o incentivare zone depresse: si lasciò un ampio potere discrezionale all’amministrazione, venne conservato un alto grado di protezionismo doganale (incrementato nel 1964 rispetto alla legge del 1960) e restò in vita un eccessivo numero di regolamenti e benefici speciali che limitavano la competenza e permettevano il mantenimento di imprese non competitive.

Rispetto all’Europa comunitaria, L.-B. sostenne l’adesione spagnola al progetto, anche se questo era afferiva per lui essenzialmente all’ambito economico. Dal ministero dell’Industria collaborò con Ullastres (negoziatore dal 1966 dell’accordo commerciale della Spagna con la CEE firmato nel 1970), e sembrò uno di quei membri del governo che meno temeva le liberalizzazioni doganali. La sua brillante gestione fece sì che nell’ottobre del 1969, quando si produsse una grave crisi per uno scandalo che coinvolse i ministeri economici (incluso il suo), Franco gli permettesse di scegliere il posto da occupare nel nuovo governo che si sarebbe formato di lì a poco, guidato dall’ammiraglio Carrero Blanco. L.-B. scelse gli Affari esteri.

In questo nuovo incarico L.-B. cercò di minimizzare i limiti che imponeva il carattere dittatoriale del franchismo nell’ambito internazionale, seguendo le orme del suo predecessore Fernando María Castiella. Poiché la decadenza fisica del dittatore era sempre più evidente, la tecnocrazia del regime (con Carrero Blanco in testa) si preparava a risolvere quelle questioni che avrebbero potuto causare tensioni aggiuntive nel momento in cui si sarebbe prodotto il “cambio della guardia” nella direzione dello Stato. Come priorità si doveva mantenere il vincolo con gli USA, appianare le relazioni con il Vaticano, eliminare la tensione con il Regno Unito per il contenzioso su Gibilterra, rafforzare il vincolo con la CEE e favorire un’uscita a testa alta sul tema della decolonizzazione del Sahara di fronte alla minacciosa posizione del Marocco.

Con gli USA, L.-B. ereditava una relazione tesa dopo di due anni di negoziati per la proroga degli accordi militari del 1953, realizzando i primi accordi dal 1967, che permettevano agli Stati Uniti l’attivazione della base di Zaragoza per compensare la perdita del controllo americano della base libanese di Wheelus dopo il golpe di Gheddafi. Il negoziato si svolgeva seguendo le linee guida del predecessore di L.-B., cercando di ampliare i contenuti non militari degli accordi (economici, di cooperazione scientifica, tecnica, ecc.) senza prescindere dai mezzi di coazione (accordo militare con la Francia e acquisto di armi). Il trattato bilaterale firmato nell’agosto del 1970, per quanto non prevedesse garanzie difensive per la Spagna, né vincoli con l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), servì, almeno, per derogare all’Accordo difensivo del 1953. Da allora in poi gli USA avrebbero dovuto consultare il governo spagnolo prima di usare le istallazioni di alcune basi militari, che non erano più considerate “congiunte” ma ritornavano sotto la giurisdizione spagnola. Rispetto al Vaticano, L.-B. ottenne la riapertura dei negoziati per la revisione del Concordato nel gennaio del 1970. Tuttavia, alla fine di quell’anno, il processo di Burgos tornò a bloccarli.

Quando nel 1972 papa Paolo VI si offrì di visitare la Spagna in cambio della rinuncia da parte di Franco al diritto di presentazione dei vescovi, la risposta fu negativa. La crescente tensione Chiesa-Stato dato l’antifranchismo di molti settori cattolici, culminò nella visita di L.-B. al papa nel gennaio 1973, che provocò un risentimento da parte del Vaticano.

Nel giugno del 1970 L.- B. firmò l’Accordo commerciale preferenziale della Spagna con la CEE, che equiparava il vincolo giuridico del paese con la CEE a quello che la Comunità aveva con Israele, il Marocco e la Tunisia, meno forte del vincolo che la CEE aveva con la Grecia, la Turchia e Malta. L’accordo stipulato con la Spagna in ogni caso stabiliva un abbassamento dei dazi doganali parziali fra la Spagna e i Sei per un periodo minimo di sei anni, senza che si prevedesse la creazione di un’Unione doganale o una zona di libero scambio. Nell’ambito industriale la diminuzione dei dazi doganali medi al quale si sottoponeva la Comunità era del 63%, laddove per la Spagna era del 25%. Nell’ambito agricolo le concessioni erano insufficienti. L’Accordo evitava solamente che la Spagna subisse una disparità di condizioni rispetto ad altri venditori comunitari. Comunque rappresentò un passo importante per il settore delle esportazioni spagnole, considerando che il deficit commerciale della Spagna nei confronti della CEE si riassorbì nel corso di quel decennio. Tuttavia, il precario equilibrio fra le concessioni previste tra le due parti secondo l’Accordo andò deteriorandosi a scapito della Spagna, che richiese l’apertura di un nuovo negoziato per compensare i cambiamenti che le concessioni doganali dell’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT) e l’ingresso nel Mercato comune del Regno Unito, dell’Irlanda e della Danimarca, previsto per il gennaio del 1973, avrebbero avuto sul rapporto tra la Spagna e la CEE.

Qualcosa si ottenne con il Protocollo addizionale previsto per il 1973, il quale estendeva l’Accordo del 1970 ai tre nuovi membri, sebbene i problemi commerciali posti dall’ampliamento non si risolsero del tutto. La politica europea si completò con la diminuzione della tensione rispetto al tema di Gibilterra e con un avvicinamento al Portogallo a partire dalla firma di un nuovo Protocollo addizionale (maggio del 1970) che si sostituiva al vecchio Trattato di amicizia firmato tra Franco e Salazar.

L.-B. cercò di far valere il ruolo che la Spagna avrebbe potuto occupare nella politica di distensione fra i blocchi. I tre punti fondamentali di questa politica furono una peculiare Ostpolitik e il mantenimento dei rapporti con l’America Latina e con i paesi arabi.

L.-B. superò le reticenze anticomuniste di certi settori ufficiali e dalla fine del 1969 al marzo del 1973 si ristabilirono relazioni consolari con Ungheria, Bulgaria e Cecoslovacchia; ci fu pieno riconoscimento diplomatico della Repubblica Democratica Tedesca e della Cina e si firmarono accordi commerciali con URSS, Iugoslavia, Polonia, Romania e con la maggior parte degli altri paesi citati. Grazie all’avvio del riconoscimento dei pasi dell’Est si raggiunsero obiettivi economici (nuovi mercati in un momento nel quale il rapporto con la CEE era complesso) e diplomatici (affinché la Spagna non si trovasse isolata nella questione nordafricana né durante la Conferenza sulla sicurezza europea). L’accordo commerciale firmato con Cuba e il viaggio del ministro in Sudamerica ebbero finalità simili. Lo stesso vale per le visite in diversi paesi arabi e il sostegno concesso alla causa palestinese. Il premio degli sforzi di L.-B. fu il ruolo da protagonista ottenuto per la Spagna franchista nella Conferenza di Helsinki nella primavera del 1973.

Le divergenze di L.-B. con Carrero Blanco, soprattutto nell’ambito della politica vaticana e dell’apertura ai paesi comunisti, determinarono la fine della sua azione alla guida del ministero nel giugno del 1973. L.-B. non accettò l’offerta di Arias Navarro di diventare ambasciatore nella fase finale del franchismo. Nel 1974 Juan Carlos pensò di coinvolgerlo assieme a López-Rodó nel suo primo governo, ma L.-B. non divenne mai ministro a causa del suo passato franchista. Tuttavia, L.-B. aveva sempre cercato di spingere Franco a nominare un presidente del governo e a preparare la sua successione. A questo proposito, fu un fermo sostenitore di Juan Carlos e ne promosse l’immagine pubblica incoraggiando i viaggi del principe all’estero. L.-B. continuò a essere deputato in Parlamento fino al giugno 1977, fu presidente della Commissione sulle Leggi fondamentali e nel febbraio del 1976 fece parte della Commissione mista governo-Consiglio nazionale per la riforma politica. Nel luglio 1976, quando Arias Navarro si dimise dall’incarico presidente del primo governo della monarchia, L.-B., insieme con il cattolico ultraconservatore Federico Silva, fu inserito nella rosa dei nomi presentata dal Consiglio del Regno. Il sovrano però scelse fu Adolfo Suárez. L.B. avrebbe voluto comunque lavorare nel partito di centrodestra dell’Unione di centro democratico (UCD), ma il suo leader Suárez espresse la sua volontà contraria. Su richiesta di Juan Carlos, per potenziare le forze conservatrici, L.-B: diventò membro del partito Alleanza popolare (AP) per il quale fu eletto deputato nel giugno del 1977. Votò a favore della Costituzione del 1978. Abbandonò la politica quando l’AP, agli inizi del 1979, si trasformò nella Coalizione democratica, perché il leader della coalizione, Manuel Fraga, impedì che L.B. tornasse a presentarsi come candidato per Madrid nelle elezioni generali del marzo del 1979. In quegli anni, L.-B. patrocinò la riorganizzazione delle forze conservatrici in un solo partito di centrodestra, obiettivo che si realizzò nei primi anni Ottanta, dopo il crollo dell’UCD.

Abbandonata la politica, L.-B. si dedicò all’imprenditoria privata, e fu consigliere e presidente di importanti banche e imprese. Collaborò anche per il Club di Roma.

Rosa Pardo Sanz (2012)




López-Rodó, Laureano

L.-R. (Barcellona 1920-Madrid 2000) proveniva da una famiglia della borghesia catalana. Terminati nel 1942 gli studi da perito mercantile, si laureò in Diritto a Madrid e a soli venticinque anni ottenne la cattedra di Diritto amministrativo presso l’Università di Santiago de Compostela, dove avrebbe insegnato sino al 1958, quando si trasferì all’Università di Madrid. Dal 1941 fu membro dell’Opus Dei, congregazione nella quale arrivò a rivestire ruoli di un certo rilievo. La sua appartenenza a questa associazione religiosa avrebbe influenzato anche il suo lavoro accademico, professionale e politico, che egli intese quasi come un dovere, una sorta di servizio consacrato a Dio.

Universitario, politico e uomo di Stato, per circa vent’anni esercitò una grande influenza sul franchismo. Pur senza essere un democratico, si impegnò per far sì che l’azione del governo e dell’amministrazione di Franco procedesse nel rispetto delle leggi, e a tal fine partecipò all’elaborazione di varie leggi costituzionali e di importanti leggi di procedura e decreti di applicazione. Negli anni Sessanta fu inoltre il supervisore alla pianificazione economica e industriale del paese. Attraverso la sua stretta relazione con l’ammiraglio Carrero Blanco, braccio destro di Franco, influenzò tra la fine degli anni Cinquanta e il 1973 i cambi di governo del franchismo e promosse il progetto di restaurazione della monarchia nella persona di Juan Carlos di Borbone, come unica possibile via d’uscita politica dal franchismo.

La carriera politica di L.-R. iniziò presto. Il suo brillante lavoro iniziato nel 1952 come organizzatore amministrativo del Consejo superior de investigaciones científicas (istituzione dipendente dal ministero dell’Istruzione, ma sotto il controllo dell’Opus Dei) fece sì che nel 1956 il ministro di Giustizia, il tradizionalista Antonio Iturmendi, sollecitasse la sua consulenza per alcuni progetti di legge, in particolare per la riforma delle Leggi fondamentali, discussa in quello stesso anno. La bozza ufficiale del progetto, su iniziativa di José Luis de Arrese, ministro-segretario del Movimento (vale a dire del partito unico franchista Falange Española de las Juntas de ofensiva nacional-sindicalista, FE-JONS), prevedeva di rafforzare di nuovo il potere del partito, ma una simile prospettiva era rifiutata dalle altre famiglie politiche del regime (tradizionalisti, cattolici, monarchici e militari), nonché da Carrero Blanco. Il parere che L.-R. scrisse per quest’ultimo, fece sì che l’ammiraglio decidesse di nominarlo suo consigliere politico. Nel dicembre del 1956 egli fu pertanto nominato segretario generale tecnico della presidenza del governo. A partire da quel momento L.-R. affrontò la riforma dell’amministrazione.

Il suo progetto consisteva nel modernizzare l’apparato dello Stato attraverso il decentramento, la creazione di organi di coordinamento politico-economici e amministrativi per garantire l’unità d’azione governativa e una maggiore efficacia della burocrazia statale, ottenuta applicando alla sua gestione metodi e concetti derivati dall’impresa privata, e nel contempo interessandosi alla formazione dei funzionari pubblici. Fu il promotore di una legislazione che rivoluzionò la burocrazia franchista, con particolare riferimento alla legge che creava la Segreteria generale tecnica della Presidenza del governo (1956) e alla legge che nel 1957 riorganizzava i dipartimenti ministeriali, e istituì le Commissioni delegate del governo e l’Ufficio di coordinamento e programmazione economica, embrione di quel dicastero dal quale L.-R. avrebbe diretto le trasformazioni economiche alcuni anni più tardi. Di fronte all’arbitrarietà preesistente, egli si preoccupò di assicurare ai cittadini le garanzie giuridiche basilari. Gli stessi propositi erano presenti nelle leggi sul Regime giuridico dell’amministrazione dello Stato (1957), sul procedimento amministrativo (1958), sul regolamento delle procedure economico-amministrative (1959), sulla legge che regolamentava il diritto di petizione (1960), nelle leggi che riformavano l’amministrazione municipale (1962), in quella sulle basi dello Statuto dei funzionari civili dello Stato e infine nella legge quadro sui contratti dello Stato (1963). Alcune di queste norme vennero mantenute anche dopo la fine della dittatura. Inoltre L.-R. promosse la fondazione della Scuola nazionale di pubblica amministrazione (1958) per la formazione dei funzionari e l’Istituto di Studi economici (1963).

Il suo arrivo alla presidenza del governo e il suo ascendente sul franchismo attraverso Carrero Blanco, coincide con quella che è stata definita “la tappa tecnocratica della dittatura”. Dopo il periodo di fascistizzazione della Seconda guerra mondiale e dopo gli anni del nazional-cattolicesimo successivi al 1945, gli anni Cinquanta furono caratterizzati dal fallimento del progetto economico nazionalista incentrato sulla limitazione delle importazioni (fase dell’autarchia), attuato sin dal 1939: inflazione, esaurimento delle riserve di valuta, scarsità di capitali, impianti e tecnologia, caos fiscale e finanziario, stagnazione economica. Franco decise allora di inserire nel suo governo ministri più tecnici (economisti, ingegneri, ecc.), uomini cioè capaci di affrontare i gravi problemi economici e di modernizzare l’apparato amministrativo. Molti di loro provenivano dall’élite della burocrazia dello Stato e non erano legati alle classiche famiglie politiche del franchismo (falangisti, cattolici, militari e tradizionalisti); viceversa, un gruppo rilevante era composto da membri dell’Opus Dei, che condividevano la stessa visione etica di L.-R. Si trattava di una nuova mossa della dittatura per puntellarsi, cercando di adattarsi ai nuovi tempi. Così, nel nuovo governo designato da Franco nel febbraio 1957, la direzione economica del paese venne affidata agli economisti Mariano Navarro Rubio (Finanze) e Alberto Ullastres (Commercio), che avviarono quel processo di razionalizzazione e liberalizzazione dell’economia, culminato nel Piano di stabilizzazione del 1959, che permise sia l’ammissione della Spagna negli organismi economici internazionali – Fondo monetario internazionale, Banca mondiale (1958) e Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) (1959) − sia il riassestamento dell’economia: controllo dell’inflazione, diminuzione dell’intervento statale, miglioramento della bilancia dei pagamenti, svalutazione e convertibilità della peseta, misure restrittive di riequilibrio del bilancio e graduale liberalizzazione delle importazioni e degli investimenti stranieri.

L.-R. ebbe inoltre un ruolo rilevante nel processo di stabilizzazione economica, dapprima nell’ambito del già menzionato Ufficio di coordinamento e programmazione economica, e poi, dopo lo scontro tra questo organismo e il ministero delle Finanze nella definizione delle rispettive competenze, del nuovo Commissariato al Piano di sviluppo, creato nel gennaio 1962, di livello amministrativo superiore ma sempre legato alla presidenza del governo. Il Commissariato avviò infatti un cambio radicale di strategia economica: si adottò il modello concertato di pianificazione indicativa che era stato adottato dalla Francia sin dal 1948 e consigliato alla Spagna dalla Banca mondiale e dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) nel 1961; un mese più tardi, il governo spagnolo avrebbe sollecitato l’apertura di negoziati per essere associato al Mercato comune. L.-R. fu il responsabile della nuova politica come commissario del Piano dal febbraio 1962 al giugno 1973: in un primo tempo con la carica di sottosegretario, quindi, dal 1965 al 1974, come ministro. Nel rispetto delle leggi del mercato, cercò di eliminare l’improvvisazione e l’arbitrarietà in economia, nonché di introdurre rigore e programmi coerenti attraverso una pianificazione generale che diventava norma obbligatoria per il settore pubblico e un indicativo punto di riferimento per gli operatori economici del settore privato. Allo stesso modo venivano via via soppressi organismi inutili e interventi superflui, ed erano progressivamente liberalizzate le importazioni e gli insediamenti industriali. In accordo con il nuovo pensiero, le imprese pubbliche dovevano avere carattere subalterno rispetto all’iniziativa privata e sarebbero perciò entrate solamente in quei settori di alto interesse nazionale non coperti dall’iniziativa privata. Lo Stato avrebbe potuto però attuare la modernizzazione o il risanamento di settori specifici, facilitare il finanziamento e l’assistenza tecnica alle imprese e avviare un programma di investimenti pubblici nelle infrastrutture. Lo scopo era quello di risolvere il problema della scarsa produttività del sistema economico spagnolo, stimolare gli investimenti (soprattutto stranieri), promuovere il turismo, incentivare una politica di industrializzazione competitiva, orientata verso l’esportazione, e affrontare una politica di sviluppo regionale a favore delle zone a basso reddito pro capite. Così si sarebbero prodotti miglioramenti nelle politiche agrarie (politiche di estensione delle aree coltivate, sistemi di irrigazione, concentrazione degli appezzamenti) e si sarebbe incentivata la localizzazione di industrie: nacquero quindi i cosiddetti Poli privilegiati di localizzazione industriale e agraria, e i Poli di promozione e sviluppo industriale nelle città di Burgos, Huelva, La Coruña, Siviglia, Valladolid, Vigo e Saragozza.

Dei tre piani di sviluppo elaborati sotto la sua direzione, il primo, che si prefiggeva l’obiettivo di stimolare la crescita economica, non venne approvato fino al 1963. A tal fine L.-R. aveva previamente cercato finanziamenti stranieri negli Stati Uniti (oltre il 50%) e in Europa occidentale (soprattutto in Francia, Germania, Regno Unito, Belgio e Paesi Bassi). I risultati positivi conseguiti grazie a questo piano favorirono l’apertura dei negoziati tra la Spagna e la Comunità economica europea (CEE) a partire dal 1966. Il secondo piano, entrato in vigore nel 1969, conteneva già un programma per la razionalizzazione del settore pubblico e per la concentrazione delle imprese. Il terzo piano invece, attivato nel 1973 e finalizzato al controllo delle implicazioni sociali dello sviluppo, non fu gestito da L.-R. Nel frattempo, nel giugno 1970, la Spagna aveva firmato il suo primo accordo economico con la CEE. Egli era un convinto sostenitore dell’adesione del suo paese alla Comunità, anche se questa integrazione aveva per lui un significato meramente economico, che non implicava pertanto un parallelo processo di democratizzazione (v. anche Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

La pianificazione indicativa ebbe un’importanza decisiva nella crescita economica della Spagna di quegli anni. Dai 474 dollari di reddito pro capite del 1963, si passò infatti ai 1500 del 1973. In quel momento la Spagna era al terzo posto per la crescita industriale su scala mondiale con il 20,4%, dietro solamente al Giappone e alla Repubblica Federale Tedesca. Si trattò di una rapida industrializzazione che, a sua volta, favorì un’accelerazione dell’esodo dalle campagne e del processo di urbanizzazione, una maggiore mobilità sociale, e l’inizio − sebbene solo a livello embrionale − del welfare state spagnolo. C’era però un risvolto negativo: l’inflazione era alta, lo squilibrio della bilancia dei pagamenti era marcato, erano scarsi gli investimenti per l’istruzione, l’agricoltura e i trasporti, c’erano grandi differenze nello sviluppo regionale e innumerevoli sacche di povertà, ma soprattutto la liberalizzazione economica era stata molto incompleta e i piani di sviluppo avevano lasciato ampio potere discrezionale nelle mani dell’amministrazione dello Stato. Comunque, nel 1975 la Spagna aveva raggiunto quasi l’80% del reddito europeo e al conseguimento di questo risultato aveva contribuito L.-R.

Dal punto di vista politico egli giocò un ruolo importante nella restaurazione monarchica, passaggio chiave nella transizione verso la democrazia a partire dal dicembre 1975. Non fu infatti solamente un professore universitario del principe, ma contribuì anche, su incarico di Carrero Blanco, all’elaborazione e approvazione di varie leggi costituzionali che permisero la restaurazione della monarchia alla morte del dittatore: la Legge fondamentale sui principi del Movimento nazionale (1958) e la Legge organica dello Stato (1967), che limitarono l’influenza del partito unico, FET-JONS, e regolamentarono la successione del generale Franco. Al tempo stesso favorì la nomina di Juan Carlos a principe e successore al trono. A tal fine egli cercò di spingere verso questa opzione la classe politica franchista, in una fase in cui tale opzione aveva pochi sostenitori: né i falangisti, né gli antifranchisti, mentre i tradizionalisti erano divisi e affioravano dubbi nei settori cattolici, dato che alcuni di loro sostenevano Juan di Borbone, padre del futuro successore. L.-R. lavorò affinché Franco, in conseguenza della Legge organica dello Stato, nominasse un capo del governo, separando così tale carica dalla presidenza dello Stato (egli occupò entrambi i posti fino al 1973) e consentisse un certo pluralismo politico controllato. Si trattava cioè di integrare le giovani generazioni franchiste attraverso il canale delle “associazioni politiche”, onde evitare la legalizzazione dei partiti politici dopo l’uscita di scena di Franco, e nel contempo scongiurare il vuoto politico che avrebbe potuto verificarsi qualora il futuro re avesse dovuto contare solamente su un partito unico senza più vigore e sulle Forze armate. Infatti, secondo L.-R., un regime monopartitico poteva essere associato solo a un caudillo, e pertanto bisognava dare forma a questo pluralismo limitato: se Franco non avesse risolto il problema, lo avrebbe ereditato il principe. Egli ispirò anche la riforma della legge di successione, in modo da lasciare senza appigli legali i nemici di Juan Carlos sulla strada verso il trono: ridurre il potere del Consiglio del Regno, (OK) impedire che il re si potesse far interdire, rendere automatico il passaggio della Corona. La sua principale preoccupazione consisteva nel rendere semplice, al futuro re, il cambio di potere nel periodo postfranchista, un potere che peraltro egli non immaginò mai come del tutto democratico. L.-R. non esitò pertanto a scontrarsi né con coloro che continuavano a difendere le vecchie politiche della fase autarchica, né con coloro che cercavano di conservare le prerogative e il potere dell’apparato del partito unico, né, infine, con quanti auspicavano una più rapida evoluzione del regime in senso liberale. Il suo ideale politico nel 1973 era rappresentato da un governo guidato da Juan Carlos, omogeneo e unito (in contrasto con le divisioni interne dei precedenti esecutivi), conservatore, con l’autorità necessaria per garantire la stabilità politica alla morte di Franco. Queste erano le caratteristiche dell’effimero gabinetto formato da Carrero Blanco nel giugno 1973, nel quale L.-R. fu nominato ministro degli Esteri.

Fino al dicembre del 1973, nei mesi che fu a capo della diplomazia spagnola, egli si impegnò ad eliminare quegli ostacoli internazionali che avrebbero potuto rendere difficoltosa la transizione postfranchista. Tentò perciò di ammorbidire la tensione con il Vaticano e si affrettò a preparare il negoziato con gli Stati Uniti per un accordo bilaterale (firmato nel 1953, e rinnovato negli anni 1963 e 1970), il quale sarebbe scaduto nel 1975. La Spagna desiderava una garanzia di reciproca sicurezza, simile al compromesso difensivo che implicava la presenza della Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO, alla quale la Spagna avrebbe voluto appartenere), coordinamento in materia di difesa, con piani e addestramento congiunti, appoggio logistico e crediti per i materiali di guerra. Ma il governo Nixon non poteva ottenere dal Senato un trattato di questo tipo durante la completa ritirata dal Vietnam e inoltre alcuni paesi dell’Alleanza atlantica continuavano ad opporsi alla Spagna. La limitata offerta nordamericana (una formula intermedia fra il Trattato chiesto e un semplice rinnovo) fu presentata da Henry Kissinger a Madrid il giorno precedente all’assassinio di Carrero Blanco.

Nei confronti della CEE, L.-R. provò ad adattare l’Accordo commerciale preferenziale del 1970 ai cambiamenti prodotti nell’economia spagnola dall’allargamento del 1973. Mentre erano in corso i negoziati sull’Allargamento, nel gennaio del 1973 venne infatti firmato un protocollo che manteneva lo status quo nelle relazioni commerciali tra la Spagna e i nuovi Stati membri della Comunità (Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca). L’offerta europea era però insufficiente: si voleva infatti accelerare la liberalizzazione doganale per i prodotti industriali e, viceversa, frenarla per quanto concerneva i prodotti agricoli (in virtù delle pressioni francese e italiana). Egli propose allora di creare una zona di libero scambio industriale con la Spagna a partire dal 1984 e arrivò quasi ad ottenere lo sblocco dei negoziati della Spagna con la CEE, negoziati relativi al gruppo di paesi mediterranei non europei. Ma, proprio quando la Commissione europea approvò un nuovo round negoziale con la Spagna, nel novembre del 1973 la guerra dello Yom Kippur e la crisi petrolifera interruppero sul nascere questo processo.

Nell’ambito degli accordi bilaterali, L.-R. fece poi pressione sulla Francia per riuscire a ottenere la sua collaborazione nella lotta contro l’ETA e per far sì che sì ammorbidisse la sua assoluta avversione nei confronti di una Politica agricola comune della CEE più generosa verso la Spagna, ma questi tentativi non ebbero molto successo. Il suo progetto più originale fu il tentativo di creare un blocco economico con il Portogallo del suo amico Marcelo Caetano (una zona di libero commercio e cooperazione industriale attraverso imprese miste), ma l’imminente caduta del presidente portoghese ne impedì la realizzazione. L.-R. provò inoltre a rafforzare le relazioni con l’America Latina per potenziare la cooperazione economica e portare avanti la linea di apertura verso i paesi comunisti intrapresa dai suoi predecessori. Nel contenzioso per Gibilterra, i cui negoziati ristagnavano a causa della mancanza di volontà da parte britannica, egli optò per riportare la questione al foro delle Nazioni Unite, con un’offerta generosa di autonomia per gli abitanti di Gibilterra. Non scemò invece la tensione con il Marocco per il problema della pesca (Hassan II aveva ampliato le sue acque territoriali da 12 a 70 miglia nel 1973) e il Sahara. L’idea di L.-R. di accelerare la decolonizzazione sahariana e, contemporaneamente, offrire una vasta cooperazione economica al Marocco non fece tuttavia in tempo a dare i suoi frutti. Il suo maggiore successo fu quello di essere riuscito a migliorare le relazioni con la Santa Sede: si sbloccò infatti il negoziato per la revisione del Concordato e sulle nomine dei vescovi. In realtà, con solo pochi mesi di governo, dal giugno al dicembre del 1973, egli non ebbe tempo di attuare i suoi progetti diplomatici.

Dopo l’assassinio di Carrero, avvenuto il 20 dicembre 1973, il suo successore Arias Navarro non incluse L.-R. nella lista dei ministri. Come contropartita gli offrirono un’ambasciata per allontanarlo dalla scena politica. Egli avrebbe preferito città come Parigi, Washington o Lisbona, ma dovette accettare Vienna, dove operò dal settembre 1974. In quel periodo lavorò per creare un ampio fronte politico conservatore e non esitò a riconciliarsi con alcuni vecchi nemici (come Manuel Fraga o José Maria Areilza); non volle, tuttavia, unirsi alla Unión del pueblo español di Adolfo Suárez, capo di governo dal luglio 1976. In questa data, quando cioè il re Juan Carlos I costrinse alle dimissioni da presidente del governo il conservatore Arias Navarro, L.-R. si sentì defraudato, dato che il sovrano aveva scelto Adolfo Suárez come nuovo presidente, aveva messo da parte quei politici che avevano rivestito posizioni di rilievo durante la dittatura e si era schierato in favore di un processo definitivamente democratico in contrasto con lo spirito delle Leggi fondamentali del franchismo.

L.-R. si scontrò poi con Suárez nell’opporsi alla riforma del Codice penale sulle associazioni illegali, che rendeva possibile la legalizzazione del Partito comunista; per questo dovette lasciare l’incarico di ambasciatore. Tuttavia, votò a favore della Legge di riforma politica (dicembre 1976) che apriva la strada delle prime elezioni democratiche. L.-R. fu uno dei fondatori di Alianza popular, associazione politica creata nell’ottobre 1976, che raggruppava personalità politiche di rilievo dell’ultimo franchismo. In essa confluì anche il Partido de acción regional, un’altra associazione politica che egli aveva promossa (in origine, uno dei gruppi parlamentari dell’ultimo parlamento franchista), nonché una delle sette associazioni che si confederarono nel marzo 1977 per costituire il partito di Alianza popular, il primo partito politico legalizzato dalla monarchia, sotto la presidenza di Manuel Fraga, embrione del futuro Partido popular. Eletto a Barcellona deputato dell’Assemblea costituente (giugno 1977-dicembre 1978), L.-R. partecipò presentando molti emendamenti e pronunciando diversi discorsi all’elaborazione della Costituzione del 1978: cercando di salvaguardare un certo potere decisionale del re, la libertà di insegnamento e l’iniziativa privata in economia e avversando la suddivisione territoriale in Comunità autonome, il divorzio e l’aborto. Fece parte della “Commissione dei Venti” che elaborò lo Statuto di autonomia della Catalogna nel novembre 1978 e votò a favore della Costituzione del 1978. Sosteneva in quella fase l’unione delle forze conservatrici (Unión de centro democrático di Suárez e Alianza popular), per provare a frenare con l’aiuto di un governo forte i regionalismi e ad arginare l’avanzata dei socialisti. Quando alla fine del 1978 Alianza popular si trasformò in Coalición democrática, L.-R. si sentì messo in disparte e decise perciò di abbandonare la politica per esercitare dal 1979 la professione di avvocato e insegnare come professore emerito all’Università Complutense.

Rosa Pardo Sanz (2012)




Lothar Bisky




Lotta al razzismo e alla xenofobia

Introduzione

Il razzismo e la xenofobia costituiscono una diretta violazione dei principi di libertà, democrazia, rispetto dei Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, nonché dello stato di diritto, principi sui quali – ai sensi dell’art. 6 paragrafo 1 Trattato costitutivo dell’Unione europea (UE) (v. Trattato di Maastricht) – l’Unione europea è fondata e che sono comuni agli Stati membri. Il secondo paragrafo della disposizione citata, peraltro, ha sancito l’impegno dell’Unione europea in materia di tutela dei diritti garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Roma, 1950) e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto «principi generali di diritto comunitario». Con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000/C 364/01) si è rafforzata ulteriormente la tutela dei diritti umani. La Carta sancisce, tra le altre previsioni, il divieto di ogni discriminazione fondata «sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali» (art. 21 (v. anche Principio di non discriminazione).

È evidente, tuttavia, che i fenomeni razzisti e xenofobi non pregiudicano solo la coesione sociale dell’Unione europea, ma anche quella economica e costituiscono un forte impedimento allo sviluppo dei mercati, ostacolando – tra l’altro – l’effettivo esercizio del diritto alla Libera circolazione delle persone: per questa ragione le Istituzioni comunitarie hanno cominciato a occuparsi della materia sin dagli anni Settanta.

È peraltro innegabile che – sebbene la lotta al razzismo rientri in primo luogo nell’ambito delle responsabilità degli Stati membri – la dimensione sempre più transnazionale dei fenomeni xenofobi e discriminatori sollecita una risposta a livello europeo: con il tempo, dunque, l’impegno delle istituzioni in materia di lotta al razzismo e alla xenofobia è cresciuto e si è diversificato.

Nel corso degli anni Settanta le istituzioni comunitarie, nel ribadire la difesa dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, hanno ripetutamente condannato qualsiasi forma di intolleranza (cfr., in particolare, la Dichiarazione comune del Parlamento europeo, del Consiglio dei ministri e della Commissione europea concernente il rispetto dei diritti fondamentali e della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, del 5/4/1977, pubblicata in “Gazzetta ufficiale delle Comunità europee”, n. C 103 del 27/4/1977).

Il dibattito europeo sui fenomeni d’intolleranza e discriminazione razziale è cresciuto – a partire dagli anni Ottanta – grazie alla diffusione di specifici rapporti elaborati da Commissioni parlamentari che segnalavano il diffondersi di episodi a sfondo razzista e raccomandavano un’opportuna azione di contrasto, indicando anche alcuni problemi specifici da affrontare (cfr. il Rapporto della Commissione d’inchiesta sull’aumento del fascismo e razzismo in Europa del 1985 – c.d. Evrigenis Report – e il Rapporto della Commissione di inchiesta su razzismo e xenofobia del 1990, Ford Report).

Con il tempo, poi, sono andati moltiplicandosi i riferimenti alla lotta al razzismo e alla xenofobia negli strumenti legislativi e nelle politiche europee.

Particolarmente significativa la Dichiarazione comune del Parlamento europeo, del Consiglio e dei rappresentanti degli Stati membri, riuniti in sede di Consiglio, e della Commissione, dell’11 giugno 1986, contro il razzismo e la xenofobia (GUCE, n. C 158 del 25/61986) con cui le istituzioni, constatando «l’esistenza e l’aumento nella Comunità di atteggiamenti, movimenti e atti di violenza xenofobi spesso diretti contro immigrati», hanno condannato «con vigore tutte le manifestazioni di intolleranza, di ostilità e di uso della forza nei confronti di una persona o di un gruppo di persone a motivo di differenze di ordine razziale, religioso, culturale, sociale o nazionale» e hanno sottolineato l’importanza dell’adozione di «tutti i provvedimenti necessari per garantire la realizzazione della loro volontà comune di salvaguardare la personalità e la dignità di ogni membro della società e di rifiutare qualsiasi forma di segregazione nei confronti degli stranieri».

Successivamente, negli anni Novanta, si sono moltiplicate le risoluzioni in materia di lotta al razzismo ed alla xenofobia: sono particolarmente importanti le risoluzioni del Consiglio e dei rappresentanti dei governi degli Stati membri, riuniti in sede di Consiglio, del 29 maggio 1990, sulla lotta contro il razzismo e la xenofobia (GUCE, n. C 157 del 27/6/1990); del 5 ottobre 1995, sulla lotta contro il razzismo e la xenofobia nei settori dell’occupazione e degli affari sociali (GUCE, n. C 296 del 10/11/1995); del 23 ottobre 1995, sulla risposta dei sistemi scolastici ai problemi del razzismo e della xenofobia (GUCE, n. C 312 del 23/11/1995); nonché le risoluzioni del Parlamento europeo del 21 aprile 1993, sulla recrudescenza del razzismo e della xenofobia in Europa e il pericolo della violenza di estrema destra (GUCE, n. C 150 del 31/5/1993); del 2 dicembre 1993, sul razzismo e la xenofobia (GUCE, n. C 342 del 20/12/1993); del 20 aprile 1994, sulla pulizia etnica (GUCE n. C 128 del 9/5/1994); del 27 ottobre 1994 (GUCE, n. C 323 del 21/11/1994) e del 27 aprile 1995 (GUCE, n. C 126 del 22/5/1995), sul razzismo e la xenofobia e del 26 ottobre 1995, sul razzismo, la xenofobia e l’antisemitismo (GUCE, n. C 308 del 20/11/1995). Il Parlamento europeo ha poi più volte compiuto studi dettagliati del problema non solo attraverso l’istituzione delle già citate commissioni parlamentari d’inchiesta, ma anche mediante l’attività della stessa Commissione per le libertà e i diritti dei cittadini, la Giustizia e affari interni, che ha prodotto negli anni numerose relazioni.

Anche il Consiglio europeo, in diverse riunioni, ha adottato conclusioni in materia di lotta al razzismo ed alla xenofobia. In particolare, il Consiglio europeo di Corfù ha istituito nel giugno 1994 una commissione consultiva UE sul razzismo e xenofobia, la cosiddetta Commissione Kahn, la quale ha adottato, nel dicembre 1997, la “Carta dei partiti politici europei per una società non razzista”, un documento che incoraggia un atteggiamento responsabile nei confronti dei problemi legati al razzismo, sia rispetto all’organizzazione dei partiti che con riferimento alle loro attività nel campo della politica (v. anche Partiti politici europei).

Le nuove iniziative contro il razzismo negli anni Novanta

Significativo per l’azione comunitaria di lotta al razzismo ed alla xenofobia è stato l’anno 1997, proclamato “Anno europeo contro il razzismo” con la Risoluzione 96/C 237/01 del Consiglio e dei rappresentanti dei governi degli Stati membri, riuniti in sede di Consiglio del 23 luglio 1996, (GUCE n. C 237 del 15/8/1996).

La proclamazione dell’Anno europeo contro il razzismo – collegata con precedenti iniziative in campo internazionale (la proclamazione in seno alle Nazioni Unite del 1995 quale “Anno internazionale della tolleranza” e la campagna del Consiglio d’Europa contro il razzismo, la xenofobia, l’antisemitismo e l’intolleranza “Tutti diversi, tutti uguali”) – ha dato slancio a nuove iniziative legislative e ha comportato il moltiplicarsi di progetti importanti, quali l’istituzione di un Osservatorio europeo sul razzismo e la xenofobia (European monitoring centre on racism and xenophobia, EUMC) avvenuta con Regolamento (CE) n. 1035/97 del Consiglio, del 2 giugno 1997 (GUCE, n. L 151 del 10/6/1997).

L’Osservatorio è stato creato con il compito di studiare l’ampiezza e l’evoluzione dei fenomeni di razzismo, xenofobia e antisemitismo, analizzandone cause, conseguenze ed effetti. Chiamato a fornire alla Comunità e ai suoi Stati membri dati obiettivi, affidabili e comparabili – utili per adottare o definire gli interventi, nell’ambito dei rispettivi settori di competenza – l’Osservatorio ha creato e coordinato RAXEN, una rete europea costituita da centri di ricerca, organizzazioni non governative (ONG) e centri specializzati, incaricata di raccogliere dati e informazioni in materia. Nello svolgimento delle proprie attività, l’Osservatorio teneva debito conto del lavoro svolto dalle istituzioni comunitarie e da altre organizzazioni internazionali, coordinandosi in particolare con il Consiglio d’Europa ai sensi di un accordo a tal fine stipulato tra il Consiglio d’Europa stesso e la Comunità economica europea (Cfr. decisione del Consiglio, del 21 dicembre 1998, relativa alla conclusione dell’accordo tra la Comunità europea e il Consiglio d’Europa per l’istituzione – ai sensi dell’articolo 7, paragrafo 3, del regolamento CE n. 1035/97 del Consiglio, del 2 giugno 1997 – di una stretta cooperazione tra l’Osservatorio e il Consiglio d’Europa, in GUCE, n. L 44 del 18/2/1999).

Con il regolamento CE 168/2007 del Consiglio del 15 febbraio 2007, l’Osservatorio è stato sostituito dall’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali (European union agency for fundamental rights, FRA); il monitoraggio in materia di razzismo e xenofobia continua a essere una delle attività principali dell’Agenzia, che – a partire dal 1° marzo 2007 – è chiamata a fornire assistenza e consulenza all’UE e ai suoi Stati membri in materia di diritti umani.

Il Trattato di Amsterdam del 1997 ha stabilito inequivocabilmente che la lotta contro il razzismo e la xenofobia costituisce un obiettivo esplicito dell’Unione Europea e che la discriminazione su base razziale è una violazione di un diritto fondamentale tutelato dalle norme UE. Ai sensi dell’art. 29 Trattato UE, come modificato con il Trattato di Amsterdam, infatti, la prevenzione e la repressione del razzismo e della xenofobia sono considerate strumentali rispetto allo scopo di fornire ai cittadini un elevato livello di sicurezza in uno Spazio di libertà, sicurezza e giustizia, mentre il nuovo articolo 13 del Trattato CE abilita la Comunità ad adottare misure atte a contrastare la discriminazione razziale, disponendo che il Consiglio, deliberando con Voto all’unanimità su proposta della Commissione e previa Procedura di consultazione del Parlamento europeo, possa adottare «i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica».

A seguito dell’introduzione dell’articolo citato, il Consiglio ha adottato la direttiva n. 2000/43 del 29 giugno 2000 che attua il principio di parità di trattamento fra persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica (GUCE, n. L 180 del 19/7/2000) e la direttiva n. 2000/78 del 27 novembre 2000 che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizione di lavoro (GUCE, n. L 303 del 2/12/2000). Entrambi gli strumenti contengono una serie di prescrizioni minime: gli Stati membri possono adottare o mantenere disposizioni più favorevoli alla protezione del principio di parità di trattamento (v. anche Libertà di circolazione e di soggiorno).

La direttiva n. 2000/43, in particolare, definisce un quadro vincolante volto a vietare quattro forme di discriminazione razziale: la discriminazione diretta (che sussiste, ai sensi dell’art. 2 par. 2 lett. a, «quando a causa della sua razza od origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in una situazione analoga»), la discriminazione indiretta (che sussiste, ai sensi dell’art. 2 par. 2 lett. b, «quando una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone, a meno che tale disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari»), le molestie (che, ex art. 2 par. 2 lett. c «sono da considerarsi costituire una forma di discriminazione quando consistano in un comportamento indesiderato adottato per motivi di razza o di origine etnica e avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo») e l’ordine di discriminare persone a causa della razza o dell’origine etnica. La discriminazione è vietata nei campi dell’occupazione (rispetto alle condizioni di lavoro, all’orientamento professionale e all’affiliazione), della protezione sociale (compresa la sicurezza sociale e l’assistenza sanitaria), dei servizi sociali, dell’istruzione, dell’accesso ai beni e ai servizi e alla loro fornitura. La Direttiva offre la possibilità alle persone che si ritengono vittime di discriminazione di ricorrere a una procedura amministrativa o giudiziaria per far valere i propri diritti e prevede sanzioni appropriate per le persone che praticano discriminazioni. Infine, essa esige che l’insieme degli Stati membri istituisca uno o più organismi che possano agire in maniera indipendente, al fine di promuovere la parità di trattamento senza discriminazione fondata sulla razza o l’origine etnica. La direttiva è particolarmente importante in quanto costituisce in sostanza il primo strumento vincolante in materia di contrasto alla discriminazione su base razziale; l’Italia vi ha dato attuazione con il decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215 (in “Gazzetta Ufficiale”, n. 186 del 12 agosto 2003).

Il processo di armonizzazione delle legislazioni nazionali e la cooperazione tra gli Stati membri in materia

Un profilo decisivo nella lotta al razzismo è da sempre considerato l’Armonizzazione della legislazione penale negli Stati membri: i provvedimenti di diritto penale, infatti, costituiscono un importante strumento di contrasto ai fenomeni di cui si dice, non solo per la componente punitiva, ma anche e soprattutto per la portata dissuasiva che è loro propria. Sebbene pressoché tutti gli Stati membri dispongano di una legislazione che criminalizza i fenomeni razzisti e xenofobi, esistono spesso significative divergenze tra le diverse disposizioni nazionali: perché possa essere garantita una lotta efficace, è dunque necessaria un’opera di armonizzazione europea (v. Ravvicinamento delle legislazioni).

Un primo significativo strumento adottato a tal fine è l’azione comune contro il razzismo e la xenofobia n. 96/443/Giustizia e affari interni (GAI) adottata dal Consiglio il 15 luglio 1996 sulla base dell’articolo K. 3 del Trattato sull’Unione europea (pubblicata in GUCE, n. L 185 del 2477/1996). L’obiettivo principale di tale azione comune è quello di garantire una cooperazione giudiziaria efficace fra gli Stati membri nella lotta contro il razzismo e la xenofobia. In tale contesto, l’azione comune si riferisce alla necessità di impedire che gli autori di tali reati approfittino delle differenze sussistenti tra le legislazioni degli Stati membri per sfuggire, spostandosi da un paese all’altro, ad azioni penali. A tal fine, viene dunque chiesto agli Stati membri di garantire che le attività razziste e xenofobe, indicate in un’apposita lista, siano sanzionate penalmente ed eventualmente, in attesa di adottare le disposizioni necessarie, che venga derogato il principio di doppia incriminazione per questi comportamenti.

Nel 2001, la Commissione europea ha proposto una decisione quadro – destinata ad abrogare l’azione comune citata – intesa a ravvicinare le disposizioni legislative degli Stati membri per i reati a sfondo razzista e xenofobo. L’obiettivo del progetto di decisione quadro è duplice: in primo luogo garantire che razzismo e xenofobia siano individuati quali fattispecie di reato in tutti gli Stati membri e vengano pertanto perseguiti con sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive, con possibilità di estradizione degli autori e, in secondo luogo, incentivare fra gli Stati la cooperazione giudiziaria in materia.

Con la proposta, viene innanzitutto esteso l’elenco delle fattispecie da individuare quali reati in tutti gli Stati membri, tuttavia con una significativa differenza rispetto all’azione comune, la decisione quadro non chiede agli Stati membri di scegliere tra l’incriminazione e la deroga al principio di doppia incriminazione, ma impone agli Stati di prendere i necessari provvedimenti per punire i comportamenti indicati quali fattispecie penali. La proposta contiene inoltre misure atte a rendere più compatibili le norme applicabili negli Stati membri, attraverso soprattutto disposizioni in materia di estradizione e scambio di informazioni. Ovviamente, la decisione quadro proposta non intende interferire con alcuno degli obblighi che possono incombere sugli Stati membri a norma di altri strumenti internazionali: va in particolare garantito il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, come la libertà d’espressione e la libertà di riunione e d’associazione, garantite dagli articoli 10 e 11 della Convenzione europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. È dunque sempre indispensabile trovare un punto di equilibrio tra l’esercizio di tali libertà e la prevenzione di disordini o di azioni criminali.

La decisione quadro a oggi non è stata ancora adottata, nonostante le numerose sollecitazioni al riguardo. Da ultimo, con la risoluzione del 15 giugno 2006, sull’intensificarsi della violenza razzista e omofoba in Europa, il Parlamento europeo ha insistito sulla necessità di adottare un nuovo strumento normativo e ha inoltre esortato gli Stati ad applicare efficacemente le direttive antidiscriminazione citate. Rivolgendosi alla Commissione, poi, ha chiesto di procedere nei confronti di Stati membri inadempienti e di presentare entro metà 2007 proposte per nuovi strumenti legislativi che contemplino tutti i motivi di discriminazione elencati all’articolo 13 del Trattato CE ed abbiano lo stesso campo d’applicazione della direttiva 2000/43/CE. Ha infine invitato gli Stati membri a rafforzare le misure di diritto penale finalizzate al ravvicinamento delle pene contemplate per tali reati nei vari Stati dell’UE.

Conclusioni e prospettive

Un ulteriore aspetto importante da sottolineare riguarda il carattere per così dire “trasversale” della lotta all’intolleranza e alla discriminazione di natura razzista e la conseguente opportunità di affrontare tale questione nell’ambito di diverse politiche e Programmi comunitari. Da tempo questo profilo è stato messo in evidenza in ambito europeo ed è infatti divenuta significativa ed intensa l’attività di integrazione orizzontale (cosiddetto mainstreaming) dell’antirazzismo. Già nel 1995, in effetti, la Commissione aveva presentato una Comunicazione sul razzismo, xenofobia e antisemitismo che indicava le priorità per il contributo dell’Unione europea in materia di contrasto a tali fenomeni – COM (95) 653) –, sottolineando in particolare che diversi programmi e politiche comunitarie potevano contribuire positivamente alla lotta al razzismo, sia presentando la diversità sotto una luce positiva, sia creando condizioni favorevoli per la tolleranza e il rispetto in una società multiculturale.

Con la Comunicazione del 25 marzo 1998, relativa a un piano d’azione contro il razzismo – COM (1998) 183 –, la Commissione si è poi impegnata a promuovere l’integrazione orizzontale dell’antirazzismo in altre politiche comunitarie: si è dunque inteso non soltanto attuare specifiche misure nel settore, ma usare altresì tutte le azioni e le politiche per combattere il razzismo, tenendo innanzitutto in debito conto l’impatto che ciascuna può avere sul contrasto dell’intolleranza e della discriminazione fondata su ragioni di diversità razziale. I settori nei quali le istituzioni comunitarie hanno promosso il mainstreaming sono quelli dell’occupazione, delle relazioni esterne, nonché dei programmi che forniscono aiuti finanziari. Con riferimento a questi ultimi, l’elemento “antirazzismo” è stato integrato sia nei programmi che si rivolgono esplicitamente alla lotta alla discriminazione sia in quelli che perseguono obiettivi più generali connessi all’istruzione e alla ricerca (cfr. comunicazione della Commissione del 1° giugno 2001, COM(2001) 291, “Contributo alla conferenza mondiale contro il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e l’intolleranza ad esse connessa”).

La lotta al razzismo e alla xenofobia può dunque considerarsi ormai un obiettivo dell’Unione europea che trova applicazione in diversi campi di azione delle istituzioni comunitarie. L’intolleranza e la discriminazione su base razziale costituiscono, a ben vedere, fenomeni di origine antica che tuttavia tendono a riproporsi rinnovandosi nelle forme e utilizzando nuovi canali di comunicazione. Non a caso l’attenzione delle istituzioni europee si è correttamente rivolta anche ai nuovi mezzi di comunicazione, primo fra tutti internet (cfr., in particolare, la Dichiarazione del Consiglio e dei rappresentanti dei governi degli Stati membri riuniti in sede di Consiglio del 28 giugno 2001, relativa alla lotta al razzismo e alla xenofobia su internet mediante l’intensificazione delle iniziative rivolte ai giovani, in GUCE C 196 del 12/7/2001).

Ludovica Poli (2007)




Lotta al riciclaggio di denaro sporco

Per “denaro sporco” si intendono i mezzi di pagamento (moneta legale, moneta bancaria) che sono il risultato (il ricavo) di un’attività lucrosa, ma illegale, e sono destinati a essere investiti in patrimoni legali, o provenendo da affari leciti o illeciti, sono destinati a essere investiti in imprese criminali. Il loro riciclaggio è il loro trattamento finalizzato al conseguimento degli scopi citati. Nel caso di moneta “sporca” a causa del suo processo di acquisizione, il trattamento punta a far sparire il collegamento con gli affari criminali; nel caso di moneta “sporca” a causa della finalità che si propone chi intende acquisirla, il trattamento punta a non far comparire il destinatario finale.

L’individuazione del “riciclaggio di denaro sporco” come reato, ha avuto luogo prima di tutto per iniziativa degli Stati Uniti negli anni ’70 del secolo scorso. Il provvedimento si collocò nell’ambito dello sforzo orientato a potenziare gli strumenti utilizzabili per combattere il traffico di droga e le criminalità organizzate transnazionali a esso dedite. Perseguendo il “riciclaggio” si mirava ad accrescere il rischio cui erano esposti i trafficanti criminali (rendendo quindi minore il profitto atteso) e insieme a identificare e penalizzare almeno alcune delle tipologie dei loro fiancheggiatori.

Per rendere efficace la lotta al riciclaggio, si introdusse negli Stati Uniti un sistema di registrazione dei movimenti di moneta superiori a una data soglia (in principio 10 mila dollari, ora 15 mila). Il provvedimento, tuttora operante, fu oggetto di numerose critiche perché ritenuto molto costoso e tutt’altro che garantito anche sotto il profilo dell’efficacia.

Anche altre legislazioni nazionali, in particolare europee (tra cui quella italiana con l’adozione della legge Rognoni-La Torre nel 1982), vararono all’epoca misure orientate nella stessa direzione, prevedendo ad esempio il sequestro e la confisca dei patrimoni legali riconducibili a soggetti criminali. Non si trattava ancora di legislazioni per colpire il riciclaggio, e comunque, anche in questi casi, i limiti in termini di efficacia si rivelarono significativi.

Nel periodo successivo l’individuazione del reato di riciclaggio di denaro sporco si estese a moltissimi paesi tra cui tutti i paesi europei. Anche in questi paesi si costruirono banche dati cui dovevano affluire tutti i movimenti di moneta superiori a una data soglia (in Europa ora pari a 15 mila euro, 3 mila per alcuni tipi di transazioni o per alcuni dei soggetti coinvolti come informatori), si stabilì quali categorie di operatori legali dovevano cooperare per l’afflusso di dati o per altre segnalazioni (in principio furono coinvolti principalmente gli istituti finanziari [nell’ottobre 2001 il Comitato sulla supervisione delle attività bancarie di Basilea, ha diffuso un rapporto che detta le regole della diligenza dovuta al cliente, detto “Basel CDD paper”]; poi anche altri operatori come i casino, gli agenti immobiliari, i commercianti di gioielli, gli avvocati, i notai, ecc.), si identificarono modalità di individuazione delle cosiddette “operazioni sospette” e autorità incaricate di effettuare le relative indagini.

Le politiche antiriciclaggio restano politiche nazionali, ma esiste da tempo una struttura di coordinamento delle Agenzie finanziarie di Intelligence (FIU) che provvedono alla gestione delle banche dati, all’individuazione delle operazioni sospette e talvolta anche alla realizzazione delle successive indagini (in Italia funge da FIU l’Ufficio Italiano dei Cambi, mentre le indagini sono di competenza della Guardia di finanza).

La struttura di coordinamento è denominata Task force di Azione finanziaria (in inglese FATF). Il suo segretariato ha sede a Parigi presso l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OECD).

Nel 2003 erano membri della FATF, la Commissione europea, il Consiglio di cooperazione del Golfo, e 33 paesi: i 15 paesi dell’Unione europea, la Norvegia, la Svizzera, l’Islanda, la Turchia, gli Stati Uniti, il Canada, il Messico, l’Australia, la Nuova Zelanda, la Federazione Russa, il Sud Africa, l’Argentina, il Brasile, il Giappone, la Cina e Singapore.

La FATF è stata costituita dal summit G-7 di Parigi, nel 1989. La lotta al riciclaggio dopo aver avuto per circa un decennio relazioni privilegiate con il traffico di droga, dal 2001 è stata più frequentemente identificata come uno strumento essenziale per combattere il terrorismo internazionale: seguendo l’attività della FATF si colgono le linee sostanziali di questa evoluzione.

Poco dopo la sua istituzione, nel 1990, la FATF ha emesso 40 raccomandazioni finalizzate a definire le misure da assumere per combattere il riciclaggio. Queste raccomandazioni sono state aggiornata nel 1996, nel 2001 e nel 2003 (v. FAFT, The Forty Recommendations, Parigi, 20 giugno 2003). Dopo la revisione del 1996, le raccomandazioni sono state adottate da cento trenta paesi e sono divenute lo standard internazionale della lotta al riciclaggio. La revisione del 2003 dà, invece, conto del cambiamento intervenuto dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, quando la priorità della lotta al riciclaggio è passata dal perseguimento dei traffici criminali a fini di lucro – primo tra tutti il traffico di droga – alla lotta al terrorismo.

Già nell’ottobre 2001, la FATF aveva emesso una raccomandazione speciale, la numero 8, contro il finanziamento del terrorismo.

Nella revisione delle quaranta raccomandazioni effettuata nel 2003, i reati cui riconnettere il denaro sporco (i cosiddetti reati presupposto) sono ben venti, e al secondo posto, dopo “partecipazione a un gruppo di criminalità organizzata”, viene “terrorismo, incluso il suo finanziamento”.

In contemporanea con l’inizio dell’attività del FAFT, nel 1990, il Consiglio europeo aveva varato una Convenzione sul riciclaggio, l’identificazione, il sequestro e la confisca del denaro di origine criminale, emettendo il 10 giugno 1991 una direttiva (n. 308) che invitava tutti i paesi membri a varare legislazioni coerenti con l’obiettivo enunciato.

Con un’azione congiunta del 3 dicembre 1998, adottata sulla base dell’art. K.3 del Trattato, il Consiglio torna sul tema per invitare gli stati membri a intensificare la propria azione nello stesso campo. Nel 1999, il documento che conclude i lavori della riunione del Consiglio di Tampere, dichiara (parr. 51-58) che «il riciclaggio di denaro è cruciale per la criminalità organizzata, e deve essere impedito ogni qual volta ha luogo. […] Ferme restando le esigenze di protezione dei dati, la trasparenza delle transazioni finanziarie e della proprietà delle azioni delle società deve essere accresciuta e deve essere velocizzato lo scambio di informazioni tra le FIU. Indipendentemente da eventuali condizioni di segretezza previste per le operazioni bancarie o per altre attività economiche, gli apparati giudiziari e le FIU devono avere il diritto […] di ottenere le informazioni necessarie per investigare sul riciclaggio». A tal fine la Commissione è incaricata di redigere un rapporto che indichi al Consiglio i paesi che non ottemperano a queste sollecitazioni.

Il 17 ottobre 2000 una decisione del Consiglio ha raccomandato la cooperazione tra le FIU dei paesi membri.

Una decisione quadro (framework decision) che precisa ulteriormente le azioni da sviluppare, con riguardo anche alla crescente importanza delle nuove tecnologie nei movimenti di moneta, è stata adottata il 26 giugno 2001. A essa ha fatto seguito una nuova direttiva di modifica della 308 del ’91, emanata nel 2001 (n. 97), con cui si adottano le 40 raccomandazioni del FAFT.

Infine il 24 settembre 2002 il Consiglio ha presentato una proposta di regolamento per la prevenzione del riciclaggio mediante la cooperazione doganale.

Una nuova direttiva risulta, allo stato, in preparazione.

Ada Becchi 




Lotta alla criminalità organizzata e alla droga

Il termine “criminalità organizzata” è stato coniato negli Stati Uniti, per fare riferimento a uno specifico fenomeno criminale sviluppatosi in quel paese fin dagli ultimi decenni del XIX secolo.

Le caratteristiche precipue del fenomeno sono state ricondotte al coinvolgimento di questa criminalità in attività a fini di lucro, e ai suoi collegamenti con il mondo della politica e dell’amministrazione (soprattutto a livello locale). Tra le attività intraprese ha rivestito particolare importanza la gestione dei mercati che il potere pubblico aveva inteso condizionare o eliminare, attraverso l’adozione di provvedimenti restrittivi o proibizionistici. La criminalità organizzata americana si è in effetti consolidata nell’epoca del proibizionismo antialcol (1919-1932), e una volta conclusa quest’esperienza, ha esteso le proprie operazioni ad altri mercati illegali (il gioco d’azzardo clandestino, il traffico di droga, ecc.).

La lotta alla criminalità organizzata ha impegnato sia il Congresso (che ha varato leggi progressivamente più dure con una gamma sempre più ampia di azioni di contrasto) sia i corpi di polizia ad essa deputati (il Federal bureau of investigation che esiste dal 1908, e la Drugenforcement administration istituita nel 1973, ma erede del Bureau of prohibition dell’epoca della proibizione degli alcolici).

Il fenomeno della criminalità organizzata così come si è verificato negli Stati Uniti non ha molti punti di contatto con l’esperienza europea che tuttavia è, a sua volta, molto differenziata. Una criminalità organizzata per alcuni aspetti assimilabile a quella di oltre Atlantico è esistita (ed esiste) solo in alcuni paesi, ed in particolare in Italia.

I gruppi criminali operanti in alcuni paesi dell’Europa mediterranea, tra cui le mafie italiane, sono stati attivi, nel periodo immediatamente successivo alla Seconda guerra mondiale, soprattutto nel contrabbando di sigarette. E tra essi si sono instaurate forme di cooperazione.

Dagli anni ’70, con il diffondersi anche in Europa della domanda di stupefacenti e con l’adozione anche qui di provvedimenti proibizionistici nei confronti degli stupefacenti (il ricorso al proibizionismo per eliminare o limitare il consumo di sostanze ritenute dannose, non è specifico solo degli Stati Uniti, e aveva interessato in passato anche alcuni paesi del Nord Europa), il fenomeno criminalità organizzata tende ad investire tutti i paesi. Ma in alcuni la gestione dei traffici illeciti è appannaggio prevalentemente di gruppi autoctoni, mentre in altri lo è di gruppi di immigrati. Stando a quanto emerge dalle indagini, la Colombia ha mantenuto la sua supremazia nel mercato della cocaina; il traffico di eroina continua a essere egemonizzato da turchi (si dice: di etnia curda) che si avvalgono per il trasporto e lo spaccio di bande basate in paesi balcanici o di africani (nigeriani, maghrebini). Le bande autoctone, dove esistono, operano come grossisti sul mercato nazionale soprattutto per l’eroina, ed eventualmente come intermediari per la cocaina.

La mafia siciliana assume inoltre, per alcuni anni, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, un ruolo nella rete – sotto il controllo della Cosa nostra americana (che aveva perso la postazione cruciale di Cuba) – che approvvigionava di eroina la costa est degli Stati Uniti (nel processo che la riguarda, quest’esperienza è stata denominata Pizza connection). Non si è più in presenza di una cooperazione tra gruppi criminali di aree che si affacciano sul Mediterraneo, ma stanno prendendo forma reti transnazionali di trafficanti che possono di volta in volta intrattenere tra loro relazioni cooperative, competitive, o nettamente conflittuali.

Come la criminalità americana, o forse ancor più di essa, la criminalità organizzata italiana esercita il racketeering, e lo esercita soprattutto nei confronti dell’economia legale: il sistema economico locale nelle zone di tradizionale insediamento, o alcuni settori in quelle di emigrazione. Se, perché un gruppo criminale organizzato riesca a imporre all’economia legale un prelievo durevole nel tempo, occorre che si realizzino alcune condizioni: che lo Stato non sia in grado di assicurare un soddisfacente livello di sicurezza, e che i gruppi criminali possano offrire contropartite credibili; si può dire che nelle zone di tradizionale insediamento delle mafie, si è stati frequentemente in presenza di ambedue queste condizioni, che si sono alimentate vicendevolmente.

La lotta alla criminalità organizzata non ha per molto tempo acquisito in Europa il livello di priorità che le è stato attribuito negli Stati Uniti (specialmente negli anni ’20 e a partire dai primi anni ’50), e in molti paesi, dato il limitato radicamento dei gruppi criminali, non l’ha neppure oggi. In Italia, solo a partire dagli anni ’60 si è cominciato a formare un consenso relativamente esteso sulla pericolosità sociale delle mafie, e si sono cominciate ad adottare norme specifiche per contrastarne le azioni (v. S. Lupo, Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri, Donzelli, Roma, 1993). La prima vera legge antimafia è stata adottata nel 1982 (legge Rognoni-La Torre).

Le politiche volte a combattere la criminalità organizzata hanno sostanzialmente mantenuto nell’Europa comunitaria un carattere nazionale. Solo a partire dal Trattato di Maastricht (1992) è stata prefigurata una strategia coordinata di contrasto. Il Trattato ha previsto (art. 29) forme di cooperazione a livello delle polizie e della giustizia. Le nuove disposizioni sono state rafforzate con il Trattato di Amsterdam (entrato in vigore nel maggio 1999) e con il successivo Consiglio di Tampere (15-16 ottobre). Di ciò che concerne la lotta alla criminalità organizzata si occupa il titolo VI del Trattato.

Gli interventi dell’Unione nella lotta alla criminalità organizzata sono stati perciò nell’ultimo periodo assai più significativi di quanto non fossero stati in passato. In precedenza esisteva solo un organismo di coordinamento delle agenzie con compiti di lotta alla criminalità organizzata, l’Ufficio europeo di polizia Europol. Europol, nato nel 1992, ha sede a L’Aia. Il suo organico comprende rappresentanti delle diverse agenzie interessate dei paesi membri (forze polizia, dogane, servizi per l’immigrazione, ecc.). Le attività criminali prese di mira sono generalmente quelle che hanno luogo a scala transnazionale.

Nell’ambito della Commissione le attività finalizzate a combattere la criminalità e le attività che essa intraprende, sono coordinate dalla Direzione generale per la giustizia e per gli affari interni.

Negli ultimi anni ’90, l’Unione partecipa attivamente alla preparazione della Convenzione ONU firmata in occasione della Conferenza di Palermo, che ha avuto luogo dal 12 al 15 dicembre 2000 (GU del 31/3/1999 e GU L 30 dell’1/2/2001).

A conclusione di una serie di seminari e convegni (tenuti a Stoccolma nel 1996, a Nordwijk nel 1997, a Londra nel 1998, a Paria de Falesia nel 2000) il 28 maggio 2001 è costituita la rete europea di prevenzione della criminalità (GU L 153 dell’8/6/2001). Essa consta di un Forum della Commissione sulla prevenzione del crimine organizzato e del network per la prevenzione del crimine, che si riunisce con cadenze semestrali.

Nel febbraio 2002 si decide di procedere alla predisposizione di un potere giudiziario europeo contro la criminalità organizzata (GU L 63 del 6/3/2002). In conseguenza di questa decisione si dà vita nello stesso anno a un Organismo europeo per il consolidamento della cooperazione giudiziaria, è in via di costituzione, Eurojust. Si tratta di una struttura di coordinamento con ampie possibilità di intervento nei casi giudiziari che riguardino più paesi. Ha come priorità la lotta alla criminalità organizzata, alla corruzione, al traffico di droga e al terrorismo, e ha principalmente il compito di favorire la circolazione delle informazioni, favorendo i contatti e il coordinamento delle iniziative.

Sono inoltre previste forme specifiche di cooperazione tra Eurojust ed Europol.

Dal 2003 il Consiglio è tornato più volte sull’esigenza di procedere effettivamente alla formazione di un potere giudiziario europeo per meglio perseguire la criminalità organizzata che opera a scala comunitaria (e globale). Su alcune questioni specifiche (traffico di essere umani, cybercrime, sequestro e confisca dei proventi di attività illecite) già esistono precise posizioni dell’Unione, intese soprattutto a introdurre definizioni omogenee ed a favorire l’armonizzazione delle legislazioni nazionali, specie per ciò che concerne le sanzioni.

Tutto ciò considerato, la Commissione ha ancor di recente ribadito di «essere da parte sua responsabile di proporre politiche ed interventi e di promuoverne l’attuazione. Tuttavia in alcune aree della lotta al crimine organizzato, gli Stati membri hanno l’esclusività quanto al diritto di dar vita a proposte e decisioni» (v. A common EU approach to the fight against organized crime, Bruxelles, 2004).

Parallelamente a queste decisioni, sono stati stanziati fondi finalizzati a premiare le best practices. Sono stati, infatti, varati i programmi Falcone (1998-2002) e Hippokrates (2001-2002), complementari a programmi finalizzati alla cooperazione giudiziaria (Grotius) e delle polizie (OISIN). Questi programmi, con il programma STOP (che si occupava di tratta di esseri umani e di reati sessuali sui minori), nel 2003 sono stati consolidati in un solo programma quadro (AGIS). I programmi sono coordinati con i rispettivi piani d’azione.

Il primo programma a essere varato è stato Grotius (GU L 287 dell’8/11/1996) destinato a favorire la cooperazione tra gli operatori della giustizia civile e penale. Dal momento che con il Trattato di Amsterdam si sono introdotte distinte basi giuridiche per la cooperazione in materia civile o penale, il programma si è articolato in due parti. Nel 2001 Grotius II (GU L 186 del 7/7/2001) è stato prorogato per due anni. Per la cooperazione in materia civile è stato varato un nuovo programma 2002-2006. Con l’introduzione di AGIS, Grotius II è confluito nel nuovo programma.

Il programma OISIN è stato invece varato nel 1997 (GU L 7 del 10/1/1997) e si è configurato come un sostegno all’azione assegnata a Europol. Il programma copriva il periodo 1997-2000, e la dotazione finanziaria era pari a 8 milioni di euro. Il programma è poi stato prorogato fino al 2002.

Il programma Falcone è stato adottato nel 1998 (GU L 99 del 31/3/1998) come strumento per stimolare la cooperazione tra i responsabili della lotta alla criminalità organizzata. Ha cofinanziato ricerche, scambi di personale e di informazioni, attività formative, ecc. La dotazione finanziaria era pari a 10 milioni di ECU per l’intero periodo. Finalizzato a promuovere la cooperazione in attività di prevenzione del crimine è stato invece il programma Hippocrates (GU L 186 del 7/7/2001), che ha comunque avuto breve vita.

Il programma AGIS (il nome fa riferimento a un antico re di Sparta) è stato varato dal Consiglio europeo del 22 luglio 2002 (GU L 203 dell’1/8/2002), e copre il periodo 2003-2007. Cofinanzia progetti di durata massima biennale, e il cofinanziamento può arrivare fino al 70% del costo del progetto, e in casi particolari al 100%. I progetti devono coinvolgere almeno tre paesi membri. Nel 2003 AGIS ha cofinanziato 111 progetti per un totale di 9,3 milioni di euro. Nel 2004 sono stati selezionati 106 progetti, che prevedono un contributo complessivo pari a 14,7 milioni. L’ammontare complessivo del cofinanziamento deve in ogni caso assestarsi sui 12 milioni annui.

Come si è visto, esiste dalle origini un nesso tra lotta alla droga (o all’alcol) e formazione della criminalità organizzata, anche se ciò non implica necessariamente che l’abrogazione della proibizione consentirebbe l’eliminazione di questa criminalità. E il nesso si è riprodotto nella costituzione di network criminali transnazionali, uno dei teatri operativi dei quali è certamente l’Europa comunitaria.

La lotta alla droga si giustifica in tutti gli ordinamenti per una finalità ultima: la tutela del consumatore. Tuttavia sarebbe arduo dire che la sua lunga storia abbia dato luogo a una significativa contrazione del consumo. In altre parole, se il fine della proibizione era l’eliminazione del consumo, essa si è generalmente rivelata poco efficace. E non vi sono indagini approfondite che possano suffragare l’ipotesi che, in assenza di proibizione, il consumo sarebbe molto più elevato, con conseguenze deleterie per la collettività e soprattutto per i giovani.

La tendenziale globalizzazione del proibizionismo antidroga non è perciò la conseguenza dei successi conseguiti dai precursori, ma è semmai il risultato del carattere transnazionale assunto dalle reti criminali coinvolte nella gestione dei traffici. Un ruolo decisivo in questa direzione è stato giocato dagli Stati Uniti. Ma gli organismi internazionali hanno fatto anch’essi la loro parte. Ad esempio, le Nazioni Unite hanno promosso la stipula di vari trattati sul traffico di droga: i principali risalgono al 1961, 1971 e 1988.

I dati rivolti a quantificare l’offerta e la domanda di narcotici (le droghe a cui, per convenzione, ci si riferisce, sono i derivanti dell’oppio, della coca e della cannabis, ed alcune droghe sintetiche) sono – come tutte le fonti serie dichiarano – molto lacunosi, com’è inevitabile sia nel caso di un mercato proibito. Con l’eccezione degli Stati Uniti in cui il consumo di droga è incluso in un’indagine campionaria, il numero dei consumatori è generalmente ricavato dal numero (spesso non affidabile) di coloro che ricevono trattamenti di disintossicazione e da stime dell’offerta basate sui quantitativi di droga sequestrati. L’ufficio creato nell’ambito delle Nazioni Unite per la lotta alla droga, l’Office on Drugs and Crime (ODC), parla di 200 milioni di consumatori a scala mondiale, di cui 14 milioni di oppio-eroina, 14 di cocaina, 163 di derivati della cannabis, 34 di anfetamine e 8 di ecstasy (v. Executive report, Vienna, 2003). Negli Stati Uniti si parla di 19,5 milioni di consumatori, di cui 5,3 tossicodipendenti (v. The White House, National drug control strategy, Washington, marzo 2004). Nell’Unione europea avrebbe fatto almeno una volta uso di droga un cittadino su cinque, ed i tossicodipendenti in senso stretto ammonterebbero a circa 1,5 milioni (Centro di monitoraggio europeo sulla droga e sulla tossicodipendenza, MCDDA). Sempre in Europa la droga più diffusa coincide con i derivati della cannabis e poi con l’ecstasy (una droga sintetica), a conferma del fatto che i consumatori sono prevalentemente persone in età giovanile; tra le droghe pesanti prevale la cocaina, mentre per l’eroina vi sono segnali di stabilizzazione del consumo.

L’Europa è infine uno dei più importanti produttori di droghe sintetiche.

In Europa, le politiche anti-droga che hanno preso corpo tra gli anni ’60 e gli anni ’80, sono state relativamente omogenee. Alcuni paesi hanno intensificato le pene ed esteso i comportamenti sanzionati, includendovi il consumo. Altri si sono limitati a perseguire il traffico o hanno addirittura varato – l’Olanda (v. Paesi Bassi) ad esempio – degli esperimenti di consumo controllato. Alcuni hanno introdotto una distinzione tra droghe pesanti e leggere, altri non l’hanno fatto.

Una qualche forma di cooperazione per la lotta alla droga esiste a livello comunitario dal 1990, quando dal Consiglio di Roma fu adottato un primo piano d’azione, rivisto dal Consiglio di Edimburgo nel 1992, in coincidenza con la stipula del Trattato di Maastricht che prevede, anche su questo tema, forme di cooperazione e la armonizzazione delle legislazioni. Allo scadere di questo, è stato approvato un successivo piano 1995-1999. Nel frattempo ulteriori innovazioni sono introdotte dal Trattato di Amsterdam.

Come conseguenza di quanto previsto dal Trattato (art. 152), il Consiglio delibera nel 1996 un’azione congiunta per l’armonizzazione delle legislazioni e delle politiche in tema di lotta alla doga. Nel febbraio1997 il COREPER istituisce un Gruppo orizzontale sulla droga.

Il monitoraggio sulla droga è curato da MCDDA e da Europol. Il traffico di droga è menzionato con alta priorità tra le materie su cui sono impegnate Europol (che ha al suo interno una specifica unità antidroga) ed ora anche Eurojust.

Nel 1998 interviene sulla materia il Consiglio di Cardiff. Nel 1999 il Consiglio europeo di Helsinki ha varato una strategia europea per la lotta alla droga, che risponde a sei principali obiettivi: ridurre il consumo (soprattutto da parte dei giovani); ridurre i danni alla salute; potenziare la riabilitazione dei tossicodipendenti; ridurre l’offerta; ridurre i crimini connessi alla droga; ridurre il riciclaggio di denaro sporco e il traffico illecito dei precursori (gli agenti chimici utilizzati per la raffinazione di eroina e cocaina).

Nel giugno 2000, il Consiglio di Santa Maria da Feira ha adottato il piano d’azione 2000-2004 che traduce in proposte la strategia identificata. Il piano propone un approccio equilibrato finalizzato alla riduzione sia della domanda che dell’offerta. Tra gli interventi sono indicati: la lotta al consumo e alla produzione di derivati della cannabis, anfetamine ed ecstasy; l’adozione di progetti integrati per combattere la delinquenza urbana, soprattutto giovanile; l’adozione di interventi in materia di salute e di emarginazione sociale. Per la riduzione dell’offerta si propone di sviluppare progetti di cooperazione con i paesi produttori per promuoverne lo sviluppo economico e sociale, Tenuto conto del fatto che la produzione dell’oppio e della cocaina è notevolmente concentrata, ed i principali produttori sono rispettivamente l’Afghanistan e la Colombia (che si avvale per l’organizzazione del traffico di network caraibici), mentre quella della cannabis è invece assai più diffusa, e il mercato europeo sembra essere prevalentemente rifornito dal Marocco, l’iniziativa più significativa varata dall’Unione è quella nei confronti dei paesi caraibici che ha portato anche all’insediamento di uno specifico ufficio alle Barbados.

Ada Becchi




Lotta contro il terrorismo

Inquadramento storico e concettuale

La storia del terrorismo è assai lunga, così come sfuggente è la linea che separa l’eversione terroristica in senso stretto dall’esercizio estremo dell’azione politica, al di fuori e contro le istituzioni riconosciute. Le lotte di liberazione nazionale sono state quasi sempre tacciate di terrorismo dalle istituzioni contro le quali si rivoltavano, e in qualche misura analogo può definirsi il percorso delle rivoluzioni nate da conflitti sociali all’interno degli Stati nazione. Definire una linea di demarcazione fra terrorismo illegale e lotta politica estrema in funzione dell’evolvere del consenso per gli attori extrastatuali appare eticamente complesso e politicamente ambiguo. Il problema è rimasto a tutt’oggi sostanzialmente irrisolto, nonostante numerosi tentativi di codificazione internazionale. A livello generale, e segnatamente in seno alle Nazioni Unite, il progetto di Convenzione globale contro il terrorismo non è stato ancora finalizzato, né possono considerarsi universalmente accettabili i trattati conclusi a livello regionale (ad esempio del Consiglio d’Europa o della Conferenza islamica).

L’11 settembre 2001 ha segnato uno spartiacque decisivo per quanto concerne la natura, la percezione e gli strumenti di lotta al terrorismo. L’attacco alle Torri gemelle ha operato una sorta di mutazione genetica: il terrorismo stempera la sua connotazione essenzialmente territoriale – che non esclude, e anzi in alcuni casi postula, collegamenti internazionali, ma resta comunque saldamente ancorato alla dimensione nazionale, o al massimo regionale, dei problemi – per acquisirne un’altra che, per la sua stessa natura, trascende i confini dello Stato nazione e investe una dimensione strutturalmente transazionale: il fondamentalismo religioso ne è l’immagine più evidente ancorché non l’unica (basti pensare ad alcune manifestazioni del c.d. terrorismo ecologico praticato da alcuni dei gruppi estremi della galassia ambientalista). Il nuovo terrorismo “globale” muove, in buona sostanza, da problematiche che attengono alla condizione universale dell’individuo e al ruolo della società, anziché in opposizione all’insoddisfacente funzionamento del “recinto delle regole” delle istituzioni statali; esso continua a investire gli Stati, ma in maniera per così dire residuale, in quanto strumenti di una politica che tende a negare la validità degli assunti universalistici cui i gruppi terroristi dichiarano di richiamarsi.

Il terrorismo ha sempre avuto una componente internazionale, si potrebbe obiettare, e la solidarietà fra gruppi eversivi in diversi paesi è connaturata alla natura del fenomeno terroristico fin dai suoi albori. Questo è vero, ma essa si riferisce al modus operandi del terrorismo – la costituzione di reti di sostegno incrociato, finanziamenti, coperture, ecc. – e non alle finalità dell’azione, che restano legate al territorio al quale i gruppi afferiscono. Oggi invece, la nuova dimensione meta- o extraterritoriale del terrorismo apre una fase più pericolosa, perché rende più sfuggente la percezione dell’interesse delle parti e la logica che presiede al suo contrasto. Nel caso dell’IRA e del movimento insurrezionale nordirlandese, ad esempio, la lettura delle motivazioni e delle risposte è contrapposta, ma chiaramente definibile proprio perché riferita a una dimensione identificata. Nel caso di al-Qaida per contro, il messaggio eversivo punta a una palingenesi rivoluzionaria, i cui i contorni non si identificano con una rivendicazione precisa e richiedono una adesione di massa che prescinde dalla dimensione nazionale; così come è solo attraverso una mobilitazione eguale e contraria, nei contenuti e nell’articolazione, da parte della totalità della comunità internazionale, che diviene sostenibile un suo contrasto efficace. Come dimostra il fatto che, non appena la tensione tende ad allentarsi, affiorano le smagliature nella capacità di risposta da parte della società internazionale, in una con il riemergere di valutazioni legate ad identità e interessi più specificamente connessi al territorio e allo Stato nazione. Tutto ciò ha richiesto una rivisitazione in profondità degli strumenti tradizionalmente messi in campo per contrastare il fenomeno terroristico.

Va riconosciuto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite il merito di avere fornito alla comunità internazionale una definizione di terrorismo che, in assenza di una convenzione universalmente accettata, avesse comunque, in virtù delle disposizioni di cui al capitolo VII dello Statuto delle Nazioni Unite, valenza generale e cogente. Alcune delle definizioni del Consiglio di sicurezza, in particolare la 1573/2001 e la 1566/2004, costituiscono quindi un riferimento imprescindibile per la comunità internazionale, rispetto alla quale vengono posti precisi obblighi. Partendo da tali definizioni, in specie quella che individua come terroristico qualsiasi comportamento, azione ecc. che si proponga di rovesciare l’ordine costituito all’interno di uno o più Stati, al di fuori delle regole fissate per il confronto politico o per la condotta di conflitti armati – la società internazionale ha cercato per decenni di stabilire parametri comuni che permettessero di sanzionare uniformemente il terrorismo, indipendentemente dal territorio e dalle motivazioni specifiche con cui si manifestasse nella propria azione. Tale tentativo – di cui l’espressione più evidente è la progettata Convenzione globale sulla repressione del terrorismo presentata all’ONU su proposta indiana – si è in pratica infranto sulla suaccennata impossibilità di stabilire un confine comunemente accettato fra contrasto politico rivoluzionario ed eversione terroristica, fra conflitto armato e guerriglia. Il criterio della legittimità della motivazione politica, e della congruità della stessa con l’obiettivo universale della tutela delle libertà individuali e delle istituzioni democratiche, si è scontrato con la difficoltà di applicarne i contenuti alla realtà geopolitica degli Stati (cui non sovvengono nella sostanza le Dichiarazioni universali adottate nell’ambito delle Nazioni Unite, necessariamente generali ed aperte a interpretazioni divergenti).

L’impossibilità di tracciare un discrimine fra lotta di liberazione ed eversione terroristica ha dimostrato, ancora una volta, la relatività dei parametri: quello che oggi è terrorismo può domani, in forza del mutato contesto socio-politico, diventare lotta di liberazione. Il Comitato ad hoc costituito dalla risoluzione 51/210 del 17 dicembre 1996, nel suo rapporto del 30 marzo 2005, non ha potuto che registrare le continue divergenze tra gli Stati membri e la conseguente impossibilità di finalizzare questo testo, limitandosi a rinviarne la discussione all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Su impulso soprattutto degli Stati Uniti, l’Assemblea generale verrà chiamata a compiere un ulteriore tentativo di infondere nuova vita al progetto di Convenzione globale. Nonostante l’impegno verbale, tuttavia, le prospettive non si annunciano favorevoli a questo ennesimo tentativo.

L’era del terrorismo internazionale e la gli strumenti della lotta alla sua diffusione globale

Per uscire da questa contraddizione, rinviando a tempi migliori la ricerca di una categoria generale del terrorismo, ci si è accontentati di una lettura più riduttiva, volta a stabilire cosa si debba intendere per “atto terroristico”, lasciando da parte la questione di come e se esso si inserisca in una dimensione strutturata più ampia. Anche tale lettura si è scontrata con non pochi problemi (il rischio di confusioni concettuali fra “atto” e “movimento” o “fenomeno” è evidente) ed è rimasta anch’essa lungamente trascurata, ma grazie all’emergere della nuova dimensione globale del terrorismo internazionale dopo l’11 settembre ha potuto compiere significativi passi avanti. Davanti a una minaccia a un tempo globale e non riferibile a un campo di interessi o a un ambito istituzionale definito, la ricerca di categorie logiche universali perde di importanza, perché qui non si tratta più di definire – attraverso di esse – il confine fra confronto ed eversione, fra repressione e ordine pubblico, bensì di affrontare, nello specifico e senza riferimenti nazionali identificabili in anticipo, una minaccia che coinvolge indistintamente la società internazionale, prescindendo da schieramenti, logiche politiche e ideologie riconosciute a livello degli Stati nazione.

Per un momento, è sembrato che l’attacco alle Torri gemelle di New York potesse far superare anche la difficoltà di fondo nella definizione del terrorismo: la nuova minaccia era per la prima volta autenticamente “globale” e ignorava gli steccati esistenti. E tuttavia, ancora una volta, la risposta è stata univoca sì, ma puntuale e non tale da superare le contraddizioni di fondo dell’analisi. Fra la Cecenia e al-Qaida vi sono differenze profonde: il primo è sostanzialmente un terrorismo “tradizionale” e può essere affrontato con metodi legati alla dinamica e alla dignità degli Stati – fra cui il rispetto dei Diritti dell’uomo e delle libertà del cittadino – assai meglio di quanto non si possa fare per il secondo, dove la ricerca di un’intesa su metodi di risposta comune passa attraverso un terreno così profondamente diversificato da risultare a volte quasi impercorribile. Il risultato è che, tanto nella definizione come nei mezzi di contrasto al terrorismo, la società internazionale non può fare altro che adattarsi a vivere con questa contraddizione e ricercare forme di risposta che, inevitabilmente, affrontano le conseguenze ma non possono risalire alle cause.

L’attacco terroristico dell’11 settembre ha colpito in primo luogo gli Stati Uniti, e ciò ha determinato una ulteriore complessità. Da un lato, infatti, il colpo inferto alla potenza mondiale egemone ha fatto comprendere senza possibilità di equivoci come la nuova minaccia, che si era andata in modo così spettacolare manifestando, coinvolgesse la società internazionale tutta intera, colpita nel suo punto di maggior forza intrinseca anche per mostrarne la sostanziale impotenza. Dall’altro, ha introdotto una sorta di poison pill nella presa di coscienza collettiva: con il passare del tempo alla solidarietà senza aggettivi si è andata affiancando una valutazione per così dire più “nazionale”, alimentata dal sentimento antiamericano a vario titolo presente in molti paesi. L’ambiguità concettuale dell’equazione lotta al terrorismo/lotta per la democrazia, nella sua accezione afgana ma soprattutto in quella irachena, ha dato ulteriore corpo alla tendenza a deuniversalizzare la minaccia e a ricondurla entro canoni interpretativi per così dire tradizionali. Tale aspetto, tuttavia, è rimasto in larga misura allo stato embrionale e non rappresenta – allo stato attuale – una componente decisiva della reazione istituzionale al terrorismo internazionale: un fattore complicante forse, ma proiettato nel medio periodo.

Gli strumenti posti in essere dalla comunità internazionale dopo l’11 settembre hanno fatto passare in secondo piano le difficoltà che avevano reso praticamente impossibile la messa a punto di una piattaforma comune. Le Nazioni Unite hanno affermato la loro centralità come luogo necessario per una risposta globale ad una minaccia globale: affrontando il fenomeno dalle sue manifestazioni operative, anziché da una base concettuale astratta, esse hanno recuperato una efficienza nella quale gli Stati membri si sono rapidamente riconosciuti, salvo pochissime eccezioni.

Il contrasto al terrorismo internazionale in ambito ONU si è concentrato sugli aspetti finanziari, di individuazione e congelamento delle risorse ascrivibili ad organizzazioni o individui facenti capo ad attività terroristiche. Ciò ha dato vita a critiche da parte di quanti hanno ritenuto che misure del genere riuscissero, al massimo, a scalfire una realtà che, per sua definizione, restava insondabile e che, quindi, non potevano arrecare alcun danno di sostanza all’attività dei terroristi. Critica in parte fondata, ma che ignora l’aspetto fondamentale, e cioè che, attraverso le Nazioni Unite, la comunità internazionale è riuscita a dare una risposta politicamente univoca alla minaccia terroristica: la risoluzione 1373/2001 ha per la prima volta stabilito l’obbligo per gli Stati membri di colpire il terrorismo in tutte le sue forme e ha, fra le altre cose, creato un Comitato ad hoc, il Comitato contro il terrorismo (Counter-terrorism committee, CTC), con il compito di monitorare il rispetto da parte degli Stati membri degli obblighi assunti, anche attraverso la presentazione di rapporti annuali. La risoluzione 1373/2001 si pone come un seguito logico delle risoluzioni 1267/1999, 1333/2000, 1390/2002 e 1455/2003, con le quali il Consiglio di sicurezza ha stabilito le misure di contrasto ai Talebani in Afghanistan. A differenza di queste tuttavia, la risoluzione 1373 colpisce il terrorismo senza distinzioni di luogo o di finalità e, in aggiunta al congelamento, obbliga gli Stati membri ad astenersi da azioni anche indirette di appoggio alle attività di terroristi, a prevenire la perpetrazione di atti terroristici, a negare safe haven ai terroristi, a perseguirli giudizialmente e ad adeguare i propri sistemi legislativi e la propria prassi interna. Il CTC ha il compito di vegliare sul puntuale rispetto di tali obblighi attraverso il meccanismo dei rapporti attuali, come anche quello di porre a disposizione degli Stati in difficoltà strumenti più adeguati di contrasto al terrorismo.

Il ruolo e l’azione delle organizzazioni internazionali e dell’Unione europea contro il terrorismo

Allo stesso tempo, notevole impulso è stato dato al processo di ratifica delle 12 convenzioni in materia di lotta al terrorismo – che languivano da tempo – e il numero degli Stati che ne fa parte è considerevolmente aumentato. Accogliendo l’appello formulato dal segretario generale nel suo rapporto “In larger freedom”, il 14 settembre 2005 è stata aperta alla firma degli Stati membri la Convenzione sulla repressione degli atti di terrorismo nucleare, completando così un processo negoziale durato molti anni.

Anche se in assoluto le cifre sottratte alla disponibilità del terrorismo internazionale sono risultate modeste, è nel contrasto finanziario che – come si diceva – la comunità internazionale si è riconosciuta praticamente senza eccezioni, se non altro sul piano del metodo e della priorità degli obiettivi. Da qui il ruolo crescente assunto dal Gruppo di azione finanziario internazionale (GAFI) nato da un’iniziativa del G7, alla Lotta al riciclaggio di denaro sporco: esso ha ampliato progressivamente il suo raggio d’azione al finanziamento del terrorismo in generale, cercando di colmare il vuoto dovuto all’inesistenza di un organismo societario attivo in tale ambito.

Il G7/G8, in virtù del particolare ruolo giocato nella scena internazionale, ha adottato stringenti piani d’azione, impegnandosi a porre standard di riferimento a livello internazionale. In uno sforzo di outreach, esso ha anche messo a punto un sistema di sostegno economico e finanziario degli Stati terzi maggiormente bisognosi di aiuto nella lotta contro il terrorismo, costituendo il Gruppo d’azione antiterrorismo (Counter-terrorism action group, CTAG). Questa iniziativa, a vocazione universale, ha mostrato tuttavia i limiti di intraprese operate a favore del Terzo mondo da uno specifico gruppo di Stati cui non tutti i paesi in via di sviluppo riconoscono il ruolo di leadership.

Tra le organizzazioni universali, vanno citate anche l’International civil aviation organization (ICAO) e l’International maritime organization (IMO), le quali, nei settori di rispettiva competenza, hanno adottato piani d’azione tendenti ad accrescere la sicurezza nel campo del trasporto aereo e marittimo che – come riscontrato purtroppo in occasione di numerosi attentati – rappresentano un elemento privilegiato dell’azione dei terroristi.

L’Unione europea (UE) ha reagito con tempestività, grazie all’adozione da parte del Consiglio europeo, all’indomani dell’attentato dell’11 settembre, del Piano d’azione contro il terrorismo. Esso contiene un’ampia serie di misure da adottare nei vari settori cruciali della lotta al terrorismo, che comprende svariati ambiti quali Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, sicurezza dei trasporti, controllo delle frontiere e sicurezza dei documenti, lotta al finanziamento, dialogo politico e relazioni esterne, difesa contro attacchi biologico-chimico-radiologico-nucleari, ecc. Il sistema ricalca da vicino quello delle Nazioni Unite anche se, data la particolare natura dell’Unione, la sua efficacia cogente per gli Stati membri è risultata maggiore. L’UE ha dato applicazione alla risoluzione 1373/2001 attraverso il regolamento 2580/2001 e la posizione comune 931/2001, applicate rispettivamente ai terroristi internazionali e ai cosiddetti terroristi “endogeni”. Analogamente a quanto avviene in ambito societario, esse si basano su un meccanismo “per liste”, che individua nominativamente persone e organizzazioni oggetto delle sanzioni. L’UE si è anche dotata di strumenti comunitari di attuazione delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che riguardano individui e gruppi terroristici legati alla galassia di al-Qaeda e dei Talebani (posizione comune 402/2002 e regolamento 881/2002). Il Consiglio europeo straordinario del 25 marzo 2004 ha adottato una importante Dichiarazione sul terrorismo, con una specifica Dichiarazione sulla solidarietà contro il terrorismo, che, anticipando le disposizioni dell’articolo 42 del Trattato sulla Costituzione europea, stabilisce un obbligo di assistenza, «con tutti gli strumenti disponibili, incluse risorse militari», a uno Stato membro colpito da un attacco terroristico.

Come il Piano è oggetto di una costante integrazione, così anche il Consiglio europeo ha via via adottato nuovi atti, dalla Dichiarazione sul terrorismo (marzo 2004), alla Strategia UE contro il terrorismo (dicembre 2005), che si basa su quattro pilastri fondamentali: la prevenzione del fenomeno terroristico; la protezione dei cittadini, delle infrastrutture, dei trasporti, con il necessario rafforzamento delle strutture di sicurezza; il perseguimento, inteso come il tentativo di impedire ai gruppi o singoli terroristi di comunicare, muoversi liberamente e pianificare attacchi, attraverso lo smantellamento delle loro reti di supporto e di finanziamenti; la risposta, intesa come la capacità di gestire e minimizzare le conseguenze di possibili attacchi terroristici in un’ottica di cooperazione e solidarietà.

Nell’ambito del terzo pilastro (v. Pilastri dell’Unione europea), dedicato alla cooperazione nel settore della giustizia (v. anche Giustizia e affari interni), sono state istituite “squadre multinazionali ad hoc”, composte da investigatori dei paesi UE ed operanti nel momento “pre-giudiziale” dell’indagine di polizia. L’Unione europea ha inoltre definito una serie di strumenti in materia di controllo delle frontiere, di scambio di informazioni e di cooperazione giudiziaria e di polizia. In particolare, dal 1° maggio 2005 è divenuta operativa l’Agenzia europea per le frontiere esterne (Frontex).

Sono numerosi anche gli strumenti legislativi adottati nel quadro della cooperazione giudiziaria penale e di polizia. Si possono ricordare le decisioni quadro sul Mandato d’arresto europeo; sulle squadre investigative comuni; sulla lotta al terrorismo; sull’istituzione di Eurojust (organo dell’Unione competente per indagini e azioni penali concernenti almeno due Stati membri e relative a forme gravi di criminalità); sul riciclaggio, sequestro e confisca degli strumenti e proventi di reato; sulle misure specifiche per la cooperazione giudiziaria e di polizia nella lotta al terrorismo; sul reciproco riconoscimento delle decisioni di confisca. In tale contesto vanno poi ricordati la Convenzione del maggio 2000 sulla mutua assistenza in materia penale tra gli Stati membri e i tre protocolli aggiuntivi che hanno emendato la Convenzione istitutiva di Europol (Ufficio europeo di polizia). Grazie alle misure adottate, l’UE ha conseguito sul piano interno un livello di Armonizzazione legislativa prima inesistente (basti pensare che nel 2001 solo una minoranza degli Stati membri, segnatamente quelli che avevano vissuto l’esperienza del terrorismo come Italia, Francia, Germania, Regno Unito, disponeva di una specifica legislazione in questo settore (v. anche Ravvicinamento delle legislazioni).

L’Unione europea ha fatto del terrorismo uno degli elementi cardine del suo dialogo politico verso gruppi regionali e paesi terzi. Una clausola antiterrorismo è prevista in accordi di Associazione e cooperazione, e in strumenti analoghi delle relazioni esterne. Particolare attenzione è stata dedicata all’esame del fenomeno della radicalizzazione violenta e del reclutamento da parte di organizzazioni terroristiche.

A livello regionale, ogni gruppo ha adottato il suo piano d’azione antiterrorismo, dall’Unione africana all’Organizzazione degli Stati americani, a quella dei paesi islamici, all’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) al Consiglio d’Europa. Citare in maniera dettagliata tutte le iniziative poste in atto dopo l’11 settembre richiederebbe la redazione di un lungo catalogo di attività. Certo è che nessuna organizzazione internazionale si è sottratta all’esigenza di emanare dichiarazioni politiche e stilare programmi operativi di lotta al terrorismo. Se forse un rilievo si può fare, è proprio relativo alla proliferazione di iniziative che non hanno sempre avuto il pregio della coerenza.

Riflessioni conclusive

A prima vista, può colpire la relativa lentezza con cui la comunità internazionale ha reagito agli attacchi e la macchinosità del suo processo decisionale; d’altro canto, la natura stessa del fenomeno terroristico non lo rende catalogabile su base dei criteri che si applicano agli attori statuali. Congelare i fondi di un’organizzazione richiede controlli e procedure elaborate, mentre aprire o spostare un conto presso una banca compiacente (per non parlare del sistema hawala) richiede al massimo una telefonata; modificare un regime di visti presuppone un passaggio legislativo o – nel caso di Schengen – un negoziato multilaterale non facile, mentre varcare una frontiera da clandestini e assai meno difficile, e così via.

La risposta della comunità internazionale si è basata su un consenso politico piuttosto che su un fondamento pattizio giuridicamente sanzionato: le risoluzioni del Consiglio di sicurezza sono state adottate ai sensi del cap. VII, e sono quindi direttamente vincolanti, ma non a caso manca in relazione ad esse la previsione di sanzioni esplicite e dirette (per l’UE il caso è in parte diverso, ma qui il fondamento dell’azione sta nel riconoscimento che è la sopravvivenza stessa dei valori comuni di civiltà dell’UE a essere chiamata in causa, per cui è assai più forte in essa la motivazione di autodifesa). Questo consenso rimarrà forte sino a quando sarà largamente determinato dall’emergenza ma, come si diceva all’inizio, esso ha nella sua globalità una delle principali cause di potenziale fragilità.

La caratterizzazione islamica del terrorismo internazionale è, almeno quantitativamente, un dato di fatto: una ulteriore deriva degli attuali focolai di crisi potrebbe aprire crepe difficilmente sanabili e mettere a nudo contraddizioni che, oggi, nessuno ha interesse a sottolineare. C’è poi l’atteggiamento, giustificato da considerazioni di sopravvivenza politica interna, di quegli Stati che si servono più o meno cinicamente della minaccia terroristica per invocare un impegno della comunità internazionale contro estremismi, fondamentalismi, movimenti eversivi religiosi e non, che ne pongono in discussione la legittimità interna e la credibilità internazionale. La distinzione fra terrorismo e movimenti di liberazione nazionale, che già tende a rientrare in una zona dagli incerti confini, si fa in questi casi ancora più confusa e non mancano le situazioni in cui l’invocato rispetto dei principi democratici viene utilizzato per avallare la repressione di forme di opposizione violenta, che è a volte difficile ritenere automaticamente terroristiche.

Che fare dunque? Non certo abbassare la guardia e rinunciare ma, forse, cercare di privilegiare una strategia a due direttrici; l’una, di breve periodo, di contrasto forte anche militare, l’altra di medio-lungo periodo, volta a creare le basi di un consolidamento democratico associato a un più equilibrato sviluppo economico-sociale. La globalizzazione delle economie ha imposto un modello produttivo e un sistema economico unico e vincente, quello delle democrazie liberali dell’Occidente, ma non ha per questo comportato l’automatica globalizzazione della democrazia, né l’accettazione non formale delle sue istituzioni e dei suoi obblighi.

Consolidare la democrazia vuol dire soprattutto creare istituzioni accettate e credibili: quello dell’institution building è uno dei compiti fondamentali della lotta al terrorismo. Esso coinvolge in prima battuta i paesi più industrializzati, che sono i soli in grado di fornire ad un tempo esperienza e mezzi a quanti devono ancora completare il cammino. A parole, nessuno dubita di questa priorità e le stesse risoluzioni delle Nazioni Unite mettono decisamente l’accento su tale aspetto; nella pratica, il discorso si fa più complesso. Da un lato, l’Occidente deve evitare di dare esca alla strumentale – ma non per questo meno sentita e pericolosa – denuncia di imperialismo culturale e di “neocolonialismo di ritorno” da parte dei paesi in via di sviluppo. Dall’altro, deve impegnarsi concretamente a mettere a disposizione la propria expertise, ma soprattutto risorse economiche aggiuntive per programmi di formazione e assistenza: l’institution building non è un’operazione a somma zero. Alla lunga, la coesione internazionale nella lotta al terrorismo richiederà un forte sforzo dei paesi più ricchi per attrezzare meglio quelli più poveri, non solo e non tanto sul piano degli strumenti di polizia e giudiziari ma, più in generale, su quello del consolidamento di istituzioni credibili: uno sforzo che dovrà avere per quadro di riferimento le Nazioni Unite e che dipenderà in maniera decisiva dalla volontà politica e dallo sforzo finanziario delle democrazie, e in primis dell’Occidente.

Antonio Armellini (2008)