Lubbers, Rudolphus Franciscus Marie

L. (Rotterdam 1939) studiò Economia all’Università Erasmus di Rotterdam, laureandosi nel 1962. Un anno dopo, in seguito alla morte del padre, insieme al fratello rilevò la direzione della ditta paterna “Hollandia B.V.”, specializzata in costruzioni metalliche e fabbricazione di macchinari. Nel 1973 entrò nel governo di Den Uyl (11 maggio 1973-19 dicembre 1977) come ministro degli Affari economici. L. era membro del Partito popolare cattolico (Katholieke Volkspartij, KPV), che nel 1980 si sarebbe fuso con altri partiti cristiani olandesi nel Partito cristiano-democratico (Christen democratisch Appèl, CDA). Una delle principali questioni affrontate durante il suo incarico ministeriale riguardò le conseguenze economiche della guerra dello Yom Kippur e la crisi del petrolio. A livello europeo, L. insieme ai suoi colleghi europei perseguì una politica energetica comune.

Al termine del suo incarico di ministro dell’Economia divenne membro del Parlamento e dal 1978 anche leader del gruppo KVP/CDA al Parlamento. Il 4 novembre 1982 rientrò nel governo ricoprendo la carica di primo ministro, che avrebbe mantenuto nei tre governi successivi fino al 22 agosto 1994. L. è stato il primo ministro più a lungo in carica nella storia dei Paesi Bassi. In questo periodo, l’economia del paese venne riformata da numerosi tagli al bilancio volti a ridurre il disavanzo e la disoccupazione. Nella politica olandese egli si affermò come un politico che, spesso con successo, mirava al consenso. Nel cosiddetto Accordo di Wassenaar (24 novembre 1982), riuscì a ottenere un accordo tra governo, sindacati e organizzazioni padronali, che decisero una moderazione salariale in cambio della riduzione della settimana lavorativa. L’accordo gli valse il titolo di “padrino del modello polder” – la versione olandese della politica del consenso (v. Steinmetz, 2000). Tuttavia, durante il suo incarico, incontrò anche forme di opposizione. Poco dopo la nomina a primo ministro, dovette far fronte a una forte opposizione dell’opinione pubblica contraria alla decisione dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) di dispiegare 572 missili balistici americani a medio raggio in diversi paesi europei, tra cui i Paesi Bassi. Nonostante le massicce manifestazioni, nel novembre 1985, il governo decise di accettare i missili alla base aerea militare di Woensdrecht. Tuttavia, a seguito del Trattato Intermediate-range nuclear forces (INF) firmato due anni dopo da Ronald Reagan e Michail Gorbačëv, il dispiegamento dei missili non sarebbe mai avvenuto. L. avrebbe dichiarato in seguito di aver deciso a favore del dispiegamento dopo essere stato informato da Gorbačëv, del probabile e successivo trattato e pertanto dell’imminente cancellazione di quell’operazione (v. Mak, 2004, pp. 984-986).

Al Consiglio europeo di Dublino nel luglio 1990, L. lanciò la proposta di una Carta europea dell’energia al fine di migliorare la cooperazione nel settore energetico tra tutti gli Stati del continente europeo e l’URSS. La Carta venne adottata il 17 dicembre 1991 come dichiarazione politica di principi e una solida base per il Trattato sulla carta dell’energia che sarebbe stato firmato a Lisbona tre anni dopo. Durante i suoi mandati come primo ministro, i Paesi Bassi assunsero due volte la presidenza delle comunità europee (1981 e 1991). L’ultima volta coincise con i negoziati finali della Conferenza intergovernativa (CIG) (v. Conferenze intergovernative) che avrebbero portato al Trattato di Maastricht. Sebbene il Lussemburgo avesse già proposto un documento che era stato accettato da tutti gli Stati membri come punto di partenza per ulteriori negoziati, il governo olandese decise di presentare una proposta alternativa che suggeriva il trasferimento di maggiori poteri alle istituzioni europee. Tuttavia, al Consiglio dei ministri di lunedì 30 settembre, tale versione venne bocciata da tutti i membri eccetto il Belgio. Il governo olandese aveva commesso un errore di valutazione contando sull’appoggio di Stati quali Germania e Italia. Ciò nonostante, questo grave insuccesso diplomatico, noto anche come “Lunedì nero”, non ostacolò ulteriori negoziati. Sempre sotto la presidenza olandese, venne riadottata la proposta del Lussemburgo e il 9 dicembre tutti gli Stati membri approvarono il Trattato per l’Unione europea che sarebbe stato firmato a Maastricht due mesi dopo.

Durante l’ultimo mandato di L. al governo, circolarono voci nei media sulla sua possibile successione a Jacques Delors, presidente della Commissione europea. Tuttavia, il 3 maggio 1994, quando L. dichiarò la sua candidatura, gli venne a mancare il sostegno di Helmut Kohl e François Mitterrand, che gli preferirono il primo ministro belga Jean-Luc Dehaene. L. rese una dichiarazione al “Financial Times” del 2 giugno criticando la procedura secondo cui i piccoli Stati membri apparentemente non avevano voce in capitolo e ciò deteriorò le sue relazioni con Germania e Francia, ma gli fece ottenere il supporto di altri Stati. L’intera vicenda si concluse nel vertice (v. Vertici) dei capi di Stato e di governo nell’isola greca di Corfù. Durante il vertice, L. ritirò la sua candidatura quando era certo che non avrebbe potuto contare sulla maggioranza. Egli ottenne tre voti contro gli otto a favore di Dehaene e uno per il candidato inglese Leon Brittan. Al suo ritiro seguì il veto posto dal primo ministro britannico John Major, il quale esigeva un nuovo candidato che potesse contare sul consenso generale. Nel 1995 venne eletto Jean Jacques Santer come Presidente della Commissione europea. I media imputano generalmente l’opposizione di Kohl alla nomina di L. alla sua disapprovazione delle prime dichiarazioni di L. riguardo alla linea di confine Oder-Neisse e alla Riunificazione tedesca. La spiegazione personale di L. riguardo al “raffreddamento” dei suoi rapporti con Helmut Kohl, che erano stati eccellenti dal 1978 in poi, era differente. Convinto che Kohl fosse a conoscenza del suo sostegno alla riunificazione tedesca, egli sottolineava invece altre divergenze d’opinione sorte all’inizio degli anni Novanta, tra cui quella relativa alla sede della futura Banca centrale europea. Egli ricorda anche l’avversione di Kohl per il suo rifiuto di richiamare all’ordine il ministro degli esteri olandese e presidente di turno delle Comunità europee Hans van den Broek (v. anche Presidenza dell’Unione europea), il quale aveva condannato l’intenzione della Germania di riconoscere la Croazia nell’autunno del 1991 (v. Lubbers, 1999; Mak, 2004; Steinmetz, 2000).

Dal 1995 al 2000 L. fu professore all’Università di Tilburg. Fu anche visiting professor alla John F. Kennedy School of government, presso l’Università di Harvard, a Cambridge (USA). Nel 2001 divenne Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (United Nations high commissioner for refugees, UNHCR), occupandosi di operazioni importanti in Africa, Angola e Afghanistan, dove il rimpatrio di più di tre milioni di rifugiati e di sfollati rappresentò una delle più imponenti operazioni svolte dall’organizzazione. All’UNHCR si affermò per la sua ricerca di approcci innovativi al problema dei rifugiati di tutto il mondo. Dopo quattro anni si dimise in seguito all’accusa di molestie sessuali, ma continuò a sostenere di essere stato ingiustamente accusato. Attualmente è presidente di organizzazioni quali il Centro di ricerca energetica olandese (Energy research centre of the Netherlands, ECN) e la Fondazione per gli studenti rifugiati (University assistance fund, UAF).

Marloes Beers (2006)




Lübke, Heinrich

L. (Enkhausen 1894-Bonn 1972) fu il primo esponente della democrazia cristiana tedesca (Christlich-demokratische Union, CDU) a ricoprire la carica presidenziale nella Germania Ovest (v. anche Germania); il secondo nella storia della Repubblica federale dopo il liberale Theodor Heuss (v. Eiche, 1959).

L. partecipò alla Prima guerra mondiale, ottenendo come riconoscimento al valore militare la croce di ferro di prima e seconda classe. Terminati gli studi universitari, si affermò sul piano professionale nel settore della politica agraria. Eletto nel Consiglio regionale prussiano con il partito del Centro (Zentrumspartei) nel 1931, in seguito all’avvento al potere di Hitler fu costretto a dimettersi da tutti gli incarichi politici. Con l’accusa di essere un nemico dello Stato, L. scontò anche 20 mesi di carcere. Il suo rapporto con il nazismo fu comunque molto controverso, soprattutto per una sua presunta collaborazione alla realizzazione di impianti bellici e di baraccamenti per deportati. Tale accusa, lanciata nel 1964 nell’ambito di una campagna diffamatoria promossa dalla Repubblica Democratica Tedesca, assunse nel giro di pochi anni le dimensioni di uno scandalo di portata nazionale che coinvolse tutti i principali attori della vita politica del paese.

Finita la Seconda guerra mondiale, L. aderì alla CDU e nell’ottobre 1946 fu eletto all’assemblea regionale nel Land del Nordreno-Vesfalia, dove dal 1947 al 1952 fu anche ministro dell’Agricoltura. Rieletto al Bundestag, nel 1953 fu chiamato da Konrad Adenauer a ricoprire l’incarico di ministro federale dell’Agricoltura. Restò al governo fino al 1959. Nel ricordo del connazionale Walter Hallstein, primo presidente della Commissione europea, il ministro L. fu uno dei pochi in Germania a cogliere l’importanza dei Trattati di Roma per l’agricoltura tedesca, alla quale offrivano l’opportunità di «uscire dal vicolo cieco in cui si trovava sin dal 1951» (v. Hallstein, 1971, p. 156 e ss.). In particolare, assieme a Sicco Mansholt, L. fu uno dei protagonisti della Conferenza di Stresa del luglio 1958, nel corso della quale furono precisate le linee guida della Politica agricola comune (PAC) contenute nelle norme quadro del trattato Comunità economica europea (CEE). La sua candidatura alla presidenza della Repubblica federale, nell’estate 1959, coincise con una delle crisi più significative all’interno della CDU, dalla quale soprattutto l’immagine del cancelliere renano uscì fortemente danneggiata. In particolare, nell’aprile 1959 Adenauer aveva presentato la sua candidatura, pensando di poter far accettare nell’ambito della stessa CDU-Christlich-soziale Union (CSU) un’interpretazione della funzione presidenziale che gli consentisse di mantenere un controllo effettivo sulla direzione politica del paese. Quando si era reso conto, solo due mesi dopo, che tale prospettiva era irrealistica, il cancelliere renano aveva deciso di ritirare la sua candidatura per impedire a Erhard (v. Erhard, Ludwig Wilhelm), che egli considerava del tutto inadeguato politicamente, di succedergli alla cancelleria. Solo a questo punto la scelta del candidato presidenziale era ricaduta su L., un personaggio che, privo di una spiccata fisionomia politica, appariva particolarmente adatto per ricostruire l’unità all’interno della CDU–CSU, ma anche per sfidare l’autorevole candidato dei socialdemocratici, Carlo Schmid. D’altra parte, anche l’appartenenza alla confessione cattolica ebbe un peso di indubbio rilievo nella scelta interna ai partiti dell’Unione (v. Morsey, 1996, p. 263 e ss.). Sulla base dell’equilibrio che era stato raggiunto nel 1949, un’eventuale elezione di L. avrebbe di fatto aperto la via alla successione di un protestante alla cancelleria e, nella fattispecie, a quella di Ludwig Erhard (v. Wagner, 1972, p. 15, nota 5). All’Assemblea nazionale che si tenne a Berlino il 1° luglio 1959, L. fu quindi eletto presidente federale, sia pure ottenendo un esiguo margine di sicurezza rispetto al quoziente dei suffragi richiesti (50,9%). Più consensuale fu, invece, la sua rielezione nel 1964, quando ottenne il 69,3% dei voti.

Nel corso dei suoi due mandati presidenziali (1959–1969), L. non si limitò a svolgere una funzione notarile; al contrario, furono numerose le occasioni in cui cercò di esercitare un ruolo politico attivo, andando, a volte, anche al di là dei limiti del dettato e della prassi costituzionale che era stata inaugurata dal suo predecessore (v. Winter, 19882). Così per esempio nel novembre 1960 provò a bloccare, sia pure senza successo, una proposta di legge dalle implicazioni restrittive sul transito delle persone tra Berlino Est e Berlino Ovest, che era stata avanzata dall’allora ministro degli Interni Gerhard Schröder allo scopo di ridurre l’infiltrazione di agenti comunisti nella Germania Ovest. D’altra parte, questo fu solo il primo di una serie di episodi di tensione tra L. e Schröder. Nel novembre 1961, dopo aver cercato di dissuadere Adenauer dall’affidare a Schröder il posto di ministro degli Esteri, il presidente L. contemplò persino la possibilità di non firmare l’atto di investitura. Lo scontro si ripropose quattro anni dopo, allorché la fronda dei gollisti, capeggiata dal cristiano-sociale Guttenberg, decise di esercitare pressioni sul presidente della Repubblica per impedire che il filoatlantico Schröder ottenesse ancora una volta il ministero degli Esteri. Tuttavia, anche questa volta il tentativo di L. di far valere il suo ruolo nella selezione del “formatore” s’infranse dinanzi alle logiche della “democrazia del cancelliere”.

Molto importante fu anche il suo impegno affinché si creassero in Germania le condizioni per la formazione di una grande coalizione, scenario che, in qualità di capo dello Stato, L. caldeggiò sin dalle elezioni del settembre 1961 (v. Morsey, 1996, p. 457 e ss.). Fallite le trattative nel 1961 e nel 1965, nel dicembre 1966 poté finalmente affidare l’incarico a Kurt Georg Kiesinger di formare il primo governo di grande coalizione nella storia della Repubblica federale. L’uscita di scena di L. dalla vita politica coincise, d’altra parte, proprio con la fine dell’esperienza consociativa del governo Kiesinger-Brandt (v. Brandt, Willy). Nell’ottobre 1968, già gravemente malato, L. annunciò che avrebbe lasciato la sua carica il 30 giugno 1969, in modo tale che l’elezione del suo successore potesse avere luogo con un certo intervallo temporale dalle elezioni federali.
Gabriele D’Ottavio (2010)




Luciano Bolis




Ludwig Wilhelm Erhard




Luigi Einaudi




Luigi Salvatorelli




Luns, Joseph

L. (Rotterdam 1911-Bruxelles 2002), diplomatico olandese, membro del partito cattolico (Katholieke Volkspartij, KVP), ministro degli Esteri per quasi un ventennio, nonché segretario generale dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), trascorse gli anni dell’infanzia in un ambiente intellettualmente stimolante e raffinato, di estrazione marcatamente cattolica e di spiccati orientamenti francofili. Conseguita la maturità classica, nel 1929, dopo aver frequentato il liceo ad Amsterdam e a Bruxelles, abbandonò presto le aule del college di Gent per trasferirsi a Den Helder, presso l’accademia della Marina reale olandese, trascinato dalla giovanile passione per le navi da guerra. Un’esperienza affascinante e tuttavia di breve durata, avendo L. superato il limite di età prefissato per intraprendere la carriera militare. Nel 1932, pertanto, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza, dapprima a Leida e poi ad Amsterdam, deciso a cimentarsi nella professione diplomatica. Nonostante l’intensa partecipazione alla vita studentesca, nell’ambito della quale si distinse per carisma e straordinaria disinvoltura negli interventi pubblici, peraltro già ampiamente caratterizzati da accenti conservatori e antisocialisti, concluse con estrema rapidità, e non senza lodevole profitto, il percorso accademico.

Nel 1938, il fidanzamento con la baronessa di Heemstra, Elisabetta Cornelia, la quale vantava legami di sangue con la prestigiosa famiglia di diplomatici Van Rechteren Limpurg, presumibilmente costituì un importante viatico per il futuro professionale del neodottore in diritto. Superato l’esame di ammissione, infatti, nello stesso 1938, L. si ritrovava a prestare servizio come funzionario presso il ministero degli Esteri olandese. Non che l’approdo alla diplomazia gli fosse stato garantito soltanto in virtù della pur preziosa mediazione dei Van Rechteren Limpurg. Sia la solida preparazione – peraltro conseguita, tra il 1937 e il 1938, presso la London School of Economics, nonché presso il Deutsches Institut für Ausländer di Berlino – sia le indiscusse qualità intellettuali e morali del giovane candidato ambasciatore divennero, infatti, oggetto di elogio formale da parte dello stesso presidente della Commissione esaminatrice, Ernst Heldring. (v. Kersten, 1999, p. 212).

Poco prima dell’invasione tedesca dei Paesi Bassi, i coniugi L., il cui matrimonio era stato celebrato in forma solenne il 10 gennaio del 1939, si trasferirono a Berna, ove soggiornarono fino al 1941. Dalla capitale svizzera, nello stesso anno, partirono alla volta di Lisbona, per raggiungere infine, nel 1943, il governo dell’Aia, in esilio a Londra. Si trattava di un itinerario tracciato dal ministero degli Esteri, il quale aveva incaricato L. di coordinare i trasferimenti e l’assistenza dei profughi olandesi diretti nel Regno Unito. Una funzione di grande responsabilità, che nondimeno L. dovette svolgere con successo in quanto, appena un anno dopo il suo arrivo nella capitale britannica, la dirigenza del dicastero esule lo designava ambasciatore presso la Corte di san Giacomo.

Si apriva, nel contesto londinese, una stagione densa di importanti sviluppi per L., il cui intuito politico e la cui lucidità di interpretazione della realtà internazionale balzarono presto agli occhi dell’allora ministro senza portafoglio, nonché eccellente diplomatico, Edgar F.M.J. Michiels van Verduynen, che seppe anche superare la personale insofferenza per «la natura rumorosa ed egocentrica» del giovane ambasciatore, pur di promuoverne l’approdo ai più alti ranghi della diplomazia nazionale. Fu lo stesso Michiels, del resto, ad affidare al suo brillante protetto l’incarico di presentare il fascicolo sulla Germania alla Conferenza di Londra, nel 1947-1948, nonché a proiettarlo entro la cornice che avrebbe consacrato la sua eccezionale caratura internazionale, quella dell’Organizzazione delle nazioni unite (ONU; v. Kersten, cit.).

Nel 1949, infatti, L. veniva inviato a New York, presso l’Assemblea generale dell’ONU, per partecipare all’ultima, delicatissima fase del negoziato sull’Indonesia. Nella metropoli americana, il dirigente del Ministerie van Buitenlandse Zaken (il ministero degli Esteri olandese) ebbe l’opportunità di evidenziare il talento diplomatico di L. anche di fronte alla prestigiosa platea internazionale, nell’ambito della quale, come delegati dell’Aia, figuravano politici del calibro di Geert J.N.M. Ruygers e Marinus van der Goes van Naters, per il partito socialdemocratico (Partij van de Arbeid, PvdA), nonché, tra i cattolici, di padre Leo J.C. de Beaufort, confidente del leader Carl P.M. Romme, e Margaretha Klompé.

Non si trattava peraltro del primo contatto diretto tra L. e gli esponenti del policy-making nazionale. Difatti già ad Amsterdam, nell’ateneo locale, l’allora studente di giurisprudenza aveva instaurato un profondo e duraturo rapporto di amicizia con Romme, già militante del Roomsch-Katholieke Staatspartij (RKSP, il partito cattolico prebellico), nonché cofondatore, nel dicembre del 1945, del KVP. Un legame che andò ulteriormente rafforzandosi all’indomani della Seconda guerra mondiale, giacché i due illustri personaggi, oltre alle convinzioni politiche e confessionali, iniziarono altresì a condividere una decisa avversione all’indipendenza indonesiana, peraltro testimoniata da un fitto e corposo carteggio (v. Kersten, cit.).

Anche in virtù di tali conoscenze eccellenti, la personalità di L. cominciò a guadagnare crescenti apprezzamenti dalla dirigenza del KVP. Più che al suo discusso passato nelle file del Nationaal-Socialistische Beweging (NSB), il movimento filonazista sorto in Olanda all’inizio degli anni Trenta dalla cui deriva autoritaria e antisemita il giovane militante aveva comunque preso le distanze, si guardava a una possibile candidatura del valido diplomatico per la carica vacante di ministro degli Esteri. Una figura istituzionale che, di fatto, all’inizio degli anni Cinquanta avrebbe assunto un ruolo di primissimo piano nel dibattito politico dell’Aia con la costruzione comunitaria agli esordi e le ripetute richieste, soprattutto da parte dei cattolici, per la creazione di una sezione del ministero espressamente dedicata agli affari europei, oltre che con la crescente priorità che le questioni di politica internazionale andavano acquisendo sull’agenda governativa.

Sulla base di tali considerazioni, all’indomani delle elezioni del 1952 – il cui esito aveva ulteriormente rafforzato il PvdA e il KVP, rispettivamente impostisi come primo e secondo partito dei Paesi Bassi – i cattolici iniziarono a premere con insistenza sul formatore socialdemocratico, Willem Drees, al fine di riservarsi l’accesso all’ambito portafoglio. Non che il premier entrante avesse dato qualche segnale di flessibilità in tal senso. Al contrario, il leader del PvdA, oltre a voler limitare gli appetiti del KVP per la distribuzione degli incarichi ministeriali, mirava apertamente a scongiurare che la guida del ministero degli Esteri fosse affidata a un uomo di Romme. Di fronte alla prospettiva di un’“Europa vaticana”, infatti, ampiamente prefigurata dalla fisionomia del Consiglio dei ministri della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), ove cinque dei sei componenti erano membri dei rispettivi partiti cattolici, Drees rifiutava di agevolare la costruzione del mosaico “romano”, offrendo, di fatto, il tassello mancante.

L’acceso confronto tra i due schieramenti di maggioranza dell’Aia, per nulla disposti a recedere dalle rispettive posizioni, condusse all’inedita divisione del dicastero fra due leader, il primo, Johan Willem Beyen, politico senza affiliazione partitica ed ex presidente della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale (FMI), scelto direttamente – e non senza rimpianti – dal primo ministro e incaricato delle questioni multilaterali e della politica europea; il secondo L., espressione del KVP, designato ministro senza portafoglio e responsabile dei rapporti bilaterali e delle relazioni con l’ONU.

Quanto ad autorità decisionale, la ripartizione delle competenze predisposta dal governo sembrava, in realtà, privilegiare Beyen. Tuttavia, con l’abilità propria di un diplomatico navigato, L. provvide autonomamente a ripristinare gli equilibri. Concordò infatti con Beyen, frequentemente impegnato in missioni all’estero, la facoltà di assumere ad interim le sue funzioni, ben consapevole, d’altro canto, del carattere inavocabile delle proprie responsabilità. La nuova asimmetria di ruoli, sapientemente disegnata dal ministro cattolico, non dava certo garanzie di stabilità. Nel primo anno di amministrazione congiunta, difatti, gli uffici degli Esteri furono spesso teatro dei diverbi, più e meno violenti, tra i due vertici, personalità affatto antitetiche, se si escludono la comune ambizione a eccellere e una sostanziale diffidenza reciproca. Sicché all’interno del dicastero, soprattutto a livello di alti funzionari, il barone Samuel J. van Tuyll van Serooskerken in primis, iniziarono a moltiplicarsi le rimostranze, all’indirizzo del governo, rispetto all’insostenibilità del clima venutosi a creare, crescendo altresì le apprensioni sulla possibile collisione tra Beyen e L., ritenuta, peraltro, tanto più prossima quanto più imminente diventava la scadenza per la presentazione del bilancio ministeriale alla Camera. Un nodo problematico, questo, intorno al quale, nel novembre del 1952, si sarebbe effettivamente prodotto il paventato scontro tra i due ministri, caratterizzato da un’inedita veemenza verbale e conclusosi con la richiesta di dimissioni inoltrata da L. all’Aia. Domanda che – pur non ricevendo alcuna considerazione da Drees e Romme, fin troppo provati dalla recente esperienza della distribuzione dei portafogli – si rivelò determinante per sollecitare il Consiglio dei ministri a ripensare, precisandolo, il meccanismo di ripartizione delle competenze fra i due capi del ministero degli Esteri, mirando scrupolosamente ad evitare possibili sovrapposizioni e interferenze. Per quanto ben costruito, il nuovo schema non fu efficace ad allentare la tensione. E sia Beyen sia L. conclusero il mandato, nel 1956, decisi a non voler ripetere analoghi esperimenti di responsabilità condivisa.

Sempre nel 1956, nell’ambito del quarto governo Drees, il ministro cattolico veniva riconfermato nella sua funzione. Leader assoluto e indiscusso del dicastero fino al 1971, godeva di piena autonomia nelle decisioni politiche, mentre le responsabilità dei suoi pur illustri viceministri, da Ernst H. van der Beugel, a Beren J. Udink, ricadevano esclusivamente sull’attuazione pratica di risoluzioni prestabilite. Seppur imperniata sul rigido rispetto della gerarchia, la riorganizzazione del ministero, intrapresa da L. già all’indomani della sua riconferma, fu essenziale per ristabilire l’armonia interna e l’efficienza amministrativa, nonché per garantire all’esperto diplomatico la stima incondizionata dei suoi più stretti collaboratori, per lo più affascinati dal suo straordinario senso dell’umorismo e dalla sua sostanziale ponderatezza. Qualità che, tuttavia, il ministro degli Esteri faticò a esprimere sulla più ampia scena politica nazionale, nell’ambito della quale, a partire dal 1957, si rese protagonista di più di qualche rumoroso alterco, sia con il Parlamento – nei confronti delle cui proposte non mostrava alcuna forma di apertura, soprattutto in tema di politica coloniale – sia con i colleghi degli Affari economici, in ragione di reali o presunti conflitti di competenza, con particolare riferimento alle questioni comunitarie. All’Aia, più in generale, L. venne spesso considerato un ostinato conservatore, incapace di ripensare la propria prospettiva politica, costruita essenzialmente a cavallo tra le due guerre, in funzione dei nuovi e progressivi sviluppi a livello nazionale e planetario. D’altra parte, lo stesso ministro cattolico non aveva mai nascosto la propria insofferenza verso qualsiasi forma di alterazione dei rapporti tradizionali, fossero essi di carattere sociale, istituzionale o interstatale. E, di fatto, la condotta politica che egli adottò, per l’intero corso del suo lungo mandato, fu riflesso coerente di tali concezioni.

Fu la complessa situazione nelle colonie, nella fattispecie il problema della cessione della Nuova Guinea alla Repubblica dell’Indonesia, intorno alla quale, tra la fine del 1954 e il 1963, si infiammò il dibattito nei Paesi Bassi – mobilitando, in varie forme, oltre al Binnenhof (il palazzo del governo dell’Aia), anche l’opinione pubblica nazionale e la stampa – il primo passaggio controverso, nonché fortemente lesivo sul piano del prestigio personale, dell’articolata carriera istituzionale di L.

Nel 1958, in particolare, di fronte alla rinnovata minaccia di uno scontro militare con Giacarta, ove il governo della Repubblica aveva predisposto il rafforzamento dell’apparato bellico nazionale, nonché con l’intensificarsi delle pressioni anglo-statunitensi per una rapida e pacifica soluzione del contenzioso, il ministro degli Esteri fu immediatamente chiamato dall’Aia a un intervento energico e risoluto. Su L. ricadeva, in primo luogo, la responsabilità di rafforzare la politica di congelamento dello status quo, la quale, adottata dal governo dopo la crisi del 1951, mirava a dilazionare quanto più possibile le discussioni sul trasferimento della sovranità sull’isola alla repubblica di Sukarno, adducendo a pretesto la necessità di preparare la popolazione indigena all’autonomia; in secondo luogo, l’onere di elaborare una strategia diplomatica efficace a evitare sia la rottura dei rapporti con l’Indonesia, sia un qualsivoglia coinvolgimento diretto dell’ONU. Con tali finalità, nonché con la certezza del sostegno americano, fu quindi concepito e messo a punto il cosiddetto “Piano Luns”, presentato dallo stesso autore all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, nel settembre del 1961. Il progetto prevedeva la cessione della sovranità agli autoctoni e proponeva, altresì, di porre il territorio sotto il controllo dell’ONU, mentre il governo dell’Aia avrebbe provveduto annualmente a sostenere i costi della decolonizzazione. Largamente discusso, a novembre il Piano Luns non superò la prova della votazione. Di là dalla delusione del promotore, suscitata dal mancato supporto di Washington piuttosto che dal fallimento della sua proposta di risoluzione, l’esito negativo della tentata mediazione olandese ebbe l’effetto di porre la questione papuana all’attenzione internazionale, sollecitando la Casa Bianca, e il presidente John Kennedy in prima persona, a interporsi, a nome delle Nazioni Unite, nel conflitto diplomatico tra Olanda e Indonesia. Pur tra le forti rimostranze di L., pertanto, l’Aia perdeva il primato decisionale sui destini dell’isola, avviandosi altresì a rinunciare definitivamente ai propri possedimenti nel Sud est asiatico.

Nel 1963, la cessione della Nuova Guinea alla Repubblica indonesiana infrangeva bruscamente il sogno romantico del diplomatico nazionalista, il quale continuava a intravedere, nella superstite porzione del già imponente impero coloniale dei Paesi Bassi, un riflesso importante del glorioso passato nazionale, nonché una significativa garanzia di prestigio internazionale per il piccolo Stato. Inoltre, nella circostanza, L. venne improvvisamente investito da una violenta ondata di critiche, impietose e multilaterali, le quali esprimevano, pur con accenti diversi, la condivisa amarezza degli olandesi per una vicenda politica dai presupposti incerti e dagli esiti disastrosi.

Il fallimento della politica coloniale si innestò, peraltro, sulla di per sé logorante controversia che vedeva protagonisti il ministro degli Esteri dell’Aia e il presidente transalpino Charles de Gaulle. Interamente disputato attorno alle contrapposte concezioni sulle finalità e sul metodo dell’integrazione europea (v. Integrazione, metodo della), il conflitto franco-olandese toccò il suo apice nel novembre del 1961, allorché L., dopo aver già manifestato – dopo le conferenze al vertice di febbraio e di luglio – il proprio disappunto rispetto al progetto gollista di Europa confederale, si oppose con inedita decisione, e in assoluta solitudine, al primo progetto per l’unione politica europea presentato dalla Commissione Fouchet (v. Piano Fouchet). Non che L. avesse mai dimostrato un sincero entusiasmo europeista. Tuttavia, nel 1956, alla partenza di Beyen, cioè del promotore dell’integrazione orizzontale e del Mercato comune europeo (MEC) (v. Comunità economica europea), essendo i Sei impegnati con la fase conclusiva delle trattative sulla Comunità economica europea (CEE) e sulla Comunità europea dell’energia atomica (Euratom), aveva risolto di continuare sulla linea perseguita dal suo omologo agli Esteri, sostenendo la rapida ratifica dei Trattati di Roma, istitutivi delle succitate Comunità. Era il 25 marzo del 1957 e di lì a un anno il generale francese sarebbe entrato in scena tentando di riscrivere la storia dell’integrazione continentale, faticosamente costruita intorno all’aspirazione alla sovranazionalità, sul modello dell’Europa degli Stati (v. Integrazione, teorie della).

Con il cancelliere tedesco Konrad Adenauer, fermamente disposto al fianco di de Gaulle, il portavoce del governo dell’Aia, sempre più in apprensione di fronte alla prospettiva di una “confederazione europea” asservita agli interessi dell’asse Parigi-Bonn, trovò il proprio alleato nel nuovo ministro degli Esteri belga, Paul-Henry Charles Spaak, già partner di Beyen nel 1955, nel corso delle trattative sul mercato comune e l’Euratom. Ancorché sostenitore di una maggiore flessibilità, rispetto al deciso ostruzionismo di L., Spaak offrì al collega del Benelux un supporto decisivo nel confronto tra “grandi” e “piccoli” d’Europa. Alterco che, peraltro, dalla metà del 1962 – affossato definitivamente, e per mano dello stesso generale, anche il secondo Piano Fouchet, presentato nel gennaio dello stesso anno – andò inasprendosi contestualmente al dibattito sull’ingresso britannico nel MEC. La candidatura del Regno Unito all’Adesione, infatti, osteggiata a gran voce da Parigi, era ampiamente sostenuta dall’entourage di L. e Spaak, i quali, pur consapevoli del tiepido entusiasmo di Londra per il progetto sovranazionale, riconoscevano nella membership comunitaria dello Stato d’oltremanica un essenziale fattore di riequilibrio nei confronti della straripante egemonia parigina.

Dopo la conferenza stampa del gennaio 1963, durante la quale de Gaulle aveva annunciato il veto francese alla candidatura del Regno Unito, il fronte dei piccoli, con il ministro degli Esteri olandese alla guida della compagine, si trovò impegnato in una nuova operazione di consolidamento e di tutela dell’integrazione continentale a fronte di una vigorosa quanto inedita offensiva gollista. Il 30 giugno del 1965, infatti, il portavoce dell’Eliseo, Maurice Couve de Murville, responsabile del Quai d’Orsay, aveva annunciato la cosiddetta “politica della sedia vuota” – cioè il ritiro immediato dei rappresentanti francesi dalle sedi istituzionali delle Comunità europee – quale contromossa parigina all’iniziativa della Commissione Hallstein (v. Hallstein, Walter) di creare un sistema di risorse proprie comunitarie per il finanziamento della Politica agricola comune (PAC).

Constatata l’eccezionale delicatezza del momento, L., che aveva recentemente assunto il mandato presidenziale al Consiglio dei ministri della CEE, prese le distanze dal consueto atteggiamento massimalista, affidandosi alla consolidata perizia diplomatica. Divenne, quindi, promotore e artefice del Compromesso di Lussemburgo, firmato il 29 gennaio del 1966, il quale costituiva una formula di mediazione “volutamente ambigua” e tuttavia essenziale per uscire dall’impasse (v. Mammarella, Cacace, 2006, p. 126). A ben guardare, il compromesso segnava la conclusione del lungo confronto politico e ideologico tra de Gaulle e L. Un epilogo, in realtà, senza vincitori né vinti, per quanto i due antagonisti, in diverse occasioni, avessero conseguito importanti successi personali.

All’indomani del 29 gennaio 1966, in effetti, la CEE tornava ad affrontare inalterati i nodi problematici emersi ancora all’inizio del decennio: dall’approfondimento dell’integrazione, con particolare riferimento all’unificazione politica; al finanziamento della PAC; all’Allargamento ai candidati all’adesione, e soprattutto alla Gran Bretagna. Tutte questioni discusse dagli Stati membri della Comunità alla Conferenza dell’Aia, del 1-2 dicembre 1969, nella cui cornice L., che peraltro aveva svolto un ruolo di primo piano nella fase preparatoria dell’incontro, si trovò davanti due nuovi interlocutori come rappresentanti dei grandi Stati: il socialdemocratico Willy Brandt, cancelliere della Repubblica Federale Tedesca (RFT), e il gollista Georges Pompidou, presidente francese eletto nello stesso 1969. Per la prima volta, dopo anni di malessere comunitario, il ministro olandese aveva la sensazione che il ricambio al vertice della RFT – dove, fino ad allora, aveva prevalso la linea filoparigina perseguita da Adenauer – prospettasse la svolta definitiva del cammino comunitario verso la costruzione dell’Europa sovranazionale. Ed ebbe ragione del suo entusiasmo, vista la portata degli accordi raggiunti dai Sei all’Aia, sia in materia di Bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) mediante “risorse proprie” della Comunità, sia rispetto all’apertura del negoziato con la Gran Bretagna e con gli altri candidati, sia riguardo all’impegno comune in direzione dell’Unione economica e monetaria (v. Rapone, 2005, pp. 54-55).

Evento conclusivo di un semestre di presidenza olandese (v. anche Presidenza dell’Unione europea) segnato da importanti successi, la Conferenza del dicembre 1969 sanciva altresì il trionfo della politica europea di L., il quale, oltre ad aver offerto un apporto di altissimo valore alla tutela del metodo comunitario, era anche riuscito a salvaguardare la coesione dell’alleanza euro-statunitense, parimenti minacciata dall’ambizione del generale francese all’autonomia europea negli ambiti della sicurezza e della difesa. Per l’atlantista ministro degli Esteri, in effetti, secondo una visione parzialmente mutuata dai predecessori Dirk Stikker e Johan Beyen, la compattezza dell’Occidente, e soprattutto del suo braccio militare, la NATO, saldamente e indiscutibilmente affidata alla direzione di Washington, costituiva la sola garanzia dell’integrità territoriale olandese. Qualsiasi tentativo di sottrarre l’Europa all’egida americana avrebbe comportato il rischio di esporre il fianco del Continente all’invasione sovietica, nonché di allentare l’ancora labile legame tra Bonn e l’ovest europeo. (v. Kersten, cit., p. 222).

La decisa opposizione di L. all’antiamericanismo gollista non fu certo ignorata dai policy-makers statunitensi, che pure non gradivano taluni eccessi di zelo atlantista del politico olandese. Ma proprio in virtù di tale impegno, peraltro straordinariamente efficace a rinsaldare il vincolo euro-americano in campo strategico-militare, nonché per l’appoggio incondizionato all’intervento militare degli USA in Vietnam e per il suo fervente, financo teatrale, anticomunismo, il Dipartimento di Stato suggerì a Richard Nixon, nel 1972, di sostenere la nomina del ministro dei Paesi Bassi a segretario generale della NATO, come successore dell’italiano Manlio Brosio. Si trattava di un’aspirazione di lungo periodo di L., il quale già alla fine degli anni Cinquanta aveva presentato la propria candidatura per il prestigioso incarico, poi assunto dal belga Spaak, essendo il candidato olandese interprete della sconsiderata politica coloniale dell’Aia nei confronti della Nuova Guinea.

Al vertice della segreteria di Bruxelles, l’ex ministro cattolico, personalità imponente e dotata di grande umorismo, affrontò con abilità e rigore le delicatissime questioni all’ordine del giorno sulla scena internazionale, senza peraltro risparmiare accenti critici nei confronti di Washington, con particolare riferimento alla decisione di produrre la bomba a neutroni. In particolare, si adoperò senza riserve per conferire all’Organizzazione una caratterizzazione politica, essenziale per garantirle un ruolo attivo nel processo di distensione, e favorì, nel 1975, la nuova collaborazione europea nel terreno della difesa, avviata dalla Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE).

Dedizione assoluta e iniziative pregevoli non furono tuttavia sufficienti ad assicurare a L. la gloriosa uscita di scena a lungo vagheggiata. Nel 1979, infatti, in piena crisi degli euromissili, l’atteggiamento assunto dal segretario generale della NATO, il quale tentò inutilmente di guadagnare il favore dell’opinione pubblica alla causa del controllo degli armamenti avvalendosi anche del supporto di politici dello spessore di François Mitterrand, Helmut Schmidt e Helmut Josef Michael Kohl, gli scatenò contro le critiche feroci della stampa, europea e internazionale e dei movimenti pacifisti, dai quali fu dipinto come l’emblema del passato, una figura anacronistica e rumorosa, costretta entro i limiti di un’ideologia superata e incapace di recepire nuovi stimoli (v. Prillevitz, 2002). E anche all’Aia – ove il governo progressista di Joop den Uyl era divenuto bersaglio privilegiato degli attacchi di L., causa la politica lassista e la decisione di ridurre le spese per la difesa – e, più in generale, nei Paesi Bassi, la popolarità dell’ex ministro cattolico subì un progressivo e irreversibile declino.

Nel 1984, all’età di settantatré anni, dopo aver stabilito un eccezionale primato per longevità di mandati, sia in patria, ove rimase al vertice del ministero degli Esteri per quasi un ventennio, sia in ambito internazionale, avendo ricoperto per tredici anni la funzione di segretario generale della NATO, L. decise di calare il sipario sulla propria carriera istituzionale. Trascorse gli ultimi anni a Bruxelles, tra le visite, progressivamente più sporadiche, al quartier generale dell’Alleanza atlantica – ove si recava per discutere con gli ex colleghi gli sviluppi concitati della politica internazionale nella seconda metà degli anni Ottanta – la dedizione alla famiglia e la riscoperta della spiritualità cattolica.

Giulia Vassallo (2010)




Lussemburgo

La superficie ridotta del Granducato del Lussemburgo (2586 Km²) e la modesta cifra della sua popolazione giustificano, agli occhi di alcuni, l’opinione che si tratti di una “non nazione” (“Le Monde”, 9 luglio 1991), di un “non country”. Ma dalla sua indipendenza (1839) questo piccolo Paese ha affermato la sua posizione in Europa, non senza andare incontro a numerose vicissitudini.

Alla fine della Seconda guerra mondiale la situazione può essere caratterizzata come segue: il Lussemburgo, Paese la cui neutralità è garantita dal 1867, è stato legato alla Germania attraverso lo Zollverein e un’unione ferroviaria fino al 1918. In seguito alla sconfitta tedesca forma l’Unione economica belga-lussemburghese (UEBL) con il Belgio (1921), e ottiene, come la Svizzera, il riconoscimento di uno status particolare, legato alla sua neutralità, in seno alla Società delle Nazioni (1920).

Sul piano economico, il settore primario occupa un posto importante, ma i problemi che deve affrontare a partire dagli anni Venti sono considerevoli. Avendo beneficiato a lungo del protezionismo dello Zollverein, non ha avviato alcuna ristrutturazione nel momento in cui l’UEBL lo pone nell’incapacità di fronteggiare la concorrenza belga. Sostenuto grazie ai sussidi accompagnati da misure protezionistiche, porrà seri problemi – come del resto la viticoltura che ha però intrapreso la riconversione – al momento di negoziare i Trattati di Roma che istituiscono la Comunità economica europea (CEE).

Il settore secondario è dominato dalla siderurgia, che è gestita da due grandi società: la Société anonyme des aciéries réunies de Burbach-Eich-Dudelande (Arbed) e la Société anonyme des hauts fourneaux et aciéries de Differdange, Saint-Ingbert et Rumelange (Hadir). Il peso di questo settore nell’economia è tale da poter parlare di un monolitismo dell’economia lussemburghese. La trasformazione di «un paese rurale povero in un paese altamente industrializzato» (v. Trausch, 1992, p. 89), lo espone al tempo stesso ai rischi della congiuntura internazionale.

La siderurgia lussemburghese, che oggi è passata sotto il controllo di Mittal Steel, non solo dipendeva dalla situazione internazionale, ma doveva anche venire a patti con le siderurgie dei suoi vicini grandi e piccoli: da una parte il Belgio, dall’altra la Francia e la Germania. In questo contesto è necessario sottolineare il ruolo svolto da Emile Mayrisch, proprietario dell’Arbed, nella prospettiva di un riavvicinamento franco-tedesco nel quadro del cartello internazionale dell’acciaio (EIA, 1926), che riuniva, oltre la Saar, cinque dei sei futuri membri della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), in quanto solo l’Italia non ne faceva parte.

Situato tra Francia, Germania e Belgio, il Lussemburgo mostra in settori diversi da quello economico la sua capacità di realizzare la sintesi delle influenze esercitate dai suoi vicini, conferendo al tempo stesso un carattere peculiare alla commistione che ne deriva. Sul piano linguistico il francese, lingua dell’amministrazione e della cultura, convive con un dialetto tedesco, il mosellano-francone o lussemburghese, che è parlato dalla popolazione. Nella legislazione il Lussemburgo si è ispirato ai modelli belgi e francesi dell’Ottocento, sul piano del diritto e della politica, facendo riferimento anche alla Germania per la vita economica e la legislazione sociale. In questo senso, pur sviluppando nel corso del tempo una forte identità nazionale, il Paese è diventato in certo qual modo una sintesi dell’Europa nordoccidentale.

Sul piano internazionale ed europeo questo piccolo Paese, il cui motto (“Mir wëlle blaive wat mir sin” / “Vogliamo restare quello che siamo”) caratterizza bene la sua forte identità, è anche un ottimo esempio del modo in cui i piccoli Stati sono stati indotti a tener conto dell’interdipendenza, di cui prende consapevolezza in seguito alla Seconda guerra mondiale.

Il 10 maggio 1939, in seguito alla violazione della sua neutralità, il Lussemburgo è germanizzato e integrato nel III Reich. Ottiene di essere considerato un Paese alleato durante l’esilio della sovrana e di una parte del governo in Canada e dell’altra parte a Londra. In altri termini, ottiene la garanzia del ristabilimento della sua indipendenza dopo la guerra. Ma nel periodo bellico Londra e Washington manifestano il desiderio di vedere raggruppati questi piccoli paesi, che Winston Churchill riteneva fossero stati dei «fomentatori di guerra» dopo i trattati seguiti alla Prima guerra mondiale. In questo contesto le autorità lussemburghesi in esilio si avvicinano agli altri governi rifugiati a Londra. Fra questi, quelli belga e olandese occupano una posizione di primo piano fra i partner suscettibili di elaborare modi di cooperazione destinati a dimostrare agli americani e ai britannici la loro capacità di organizzarsi su base volontaria.

Animato dalla costante «preoccupazione di armonizzare la sua azione con quella delle nazioni che riconoscono il principio della sua sovranità e i diritti che ne derivano», il governo lussemburghese in esilio deve evitare due scogli pericolosi. Nel 1941 Joseph Bech, ministro degli Esteri del Granducato dal 1926 al 1959, mette in guardia contro un pericolo in agguato: «Da una parte cadere nell’oblio a causa della nostra modestia, dall’altra sembrare importuni, mettendoci eccessivamente in mostra» (Heisbourg, p. 339-340). Su questa base Bech, sempre nel 1941 aggiunge a proposito dell’Europa del futuro: «Una cosa certa è che i Paesi neutrali nel senso in cui lo eravamo noi, non avranno più spazio. Il nostro Paese dovrà assumersi dei doveri in cambio dei vantaggi di cui beneficerà. La neutralità è morta definitivamente. È interessante seguire le discussioni […] sul nuovo ordine politico e sociale del dopoguerra […]. Questo ordine non sarà né quello […] che ci lasciamo alle spalle, né quello che Hitler vorrebbe imporre al mondo». E conclude: «Comunque vada, vedo per il nostro Paese la possibilità di compiere una missione utile» (v. Heisbourg, p. 340). A partire dal 1942, Bech precisa le grandi linee del suo pensiero europeo, che possono essere sintetizzate in questi termini: «1. Essendo dei buoni lussemburghesi, vogliamo essere dei buoni europei. 2 Siamo pronti a rinunciare alla nostra sovranità nazionale nella misura in cui la nuova struttura internazionale lo esigerà dalle nazioni europee nell’interesse di tutti. 3 L’organizzazione dell’Europa non potrà mai essere realizzata senza che grandi e piccoli rinuncino a certi diritti sovrani nell’interesse comune. 4 Gli utopisti di oggi […] sono i realisti di domani perché permettono all’esperienza e ai valori morali e spirituali di assumere il loro autentico significato» (v. Heisbourg, p. 342).

Sul piano pratico le convinzioni di Bech si traducono in un riavvicinamento significativo al Belgio e ai Paesi Bassi nel quadro degli accordi che gettano le basi del Benelux. I tre governi non partono dal nulla: nel solco della conferenza economica internazionale del 1927 avevano concluso il Patto di Oslo (1930) con i quattro paesi dell’Europa settentrionale – Danimarca, Norvegia, Svezia e Finlandia – che un giorno avrebbero formato il Consiglio del Nord. Dopo aver lavorato alla ricerca di soluzioni multilaterali e bilterali destinate a combattere gli effetti disastrosi della crisi sul piano del commercio internazionale, i sette membri del gruppo di Oslo si preoccupano anche della cooperazione politica. Olandesi e belgi inaugurano così una stretta collaborazione nel quadro delle commissioni miste che si dedicano all’esame di problemi in genere spiccatamente tecnici.

L’esperienza dei tempi di crisi fu di grande aiuto nel periodo della guerra. Belgi, olandesi e lusemburghesi negoziano e firmano a Londra il 21 ottobre 1943 un accordo monetario considerato un’innovazione sul piano tecnico e politico. Esprimendo la convinzione dei partner che «l’organizzazione dell’Europa occidentale non è possibile se non mediante un allargamento graduale» (Bech, 26 marzo 1943), l’accordo monetario è concepito come una tappa. Nella primavera del 1943, in effetti, i tre partner negoziano l’istituzione di una convenzione doganale, che viene firmata il 5 settembre 1944. Essa crea una comunità tariffaria fra i tre paesi, prevede la futura creazione di un’unione economica, istituisce tre organi comuni: un consiglio amministrativo delle dogane, un consiglio per gli accordi commerciali e, secondo la terminologia adottata nel 1946, un consiglio dell’unione economica incaricato dell’amministrazione e dell’esecuzione della regolamentazione comune del commercio estero.

A partire dal 1944 e più ancora dal 1946, data della prima riunione del Consiglio dei ministri del Benelux, i tre membri danno prova di una grande capacità di cooperazione nella prospettiva di sviluppare un’interazione tra la costruzione di un mercato interno e i rapporti di forza internazionali. Senza cadere in un eccesso di semplicismo, dato che talvolta per una serie di motivi si manifestano anche forti resistenze, il Benelux costituisce un’esperienza decisiva. L’Unione economica e monetaria riveste una dimensione politica importante per il semplice fatto della necessità di mettersi d’accordo sui numerosi progetti di cooperazione, addirittura di integrazione dell’Europa occidentale che si moltiplicano nell’immediato dopoguerra. Questa concertazione comporta contatti costanti, la definizione di posizioni comuni, in breve l’emergere di una cultura specifica che non si inscrive solo nella tradizione diplomatica. Dalla CECA ai Trattati di Roma i tre paesi, non senza manifestare tavolta delle divergenze, dimostrano una grande capacità di azione comune. Sotto questo aspetto è esemplare il memorandum Benelux presentato alla Conferenza di Messina nel 1955 per contribuire al rilancio del negoziato paralizzato dopo il rifiuto del progetto di trattato istitutivo di una Comunità europea di difesa (CED), che implicava in prospettiva anche una Comunità politica europea (CPE). Abile e audace, il documento propone l’Unione doganale e il mercato comune, da una parte, e l’elaborazione di una politica comune in materia di uso pacifico dell’energia nucleare, dall’altra. Lasciando la scelta fra i due progetti, che non pregiudicano l’organizzazione istituzionale da creare, il memorandum invita implicitamente ad impegnarsi sulla strada dell’integrazione sopranazionale, senza far mostra di voler imporre qualcosa ai paesi più grandi. Il principio esposto da Bech nel 1941 trova in questo documento la sua perfetta illustrazione.

I tre paesi del Benelux, inseriti in un movimento che si può definire di dialettica fra preoccupazioni “interne” ed europee, hanno elaborato al momento della firma dei Trattati di Roma una cooperazione che, senza poter essere qualificata come una politica estera comune, ha nondimeno innovato profondamente in rapporto alle prassi abituali. La Commissione di coordinamento delle questioni politiche (COCOPO), creata nel 1950 fra Bruxelles, L’Aia e Lussemburgo, va oltre la lettera degli accordi Benelux limitati alle materie economiche, commerciali e monetarie internazionali, poiché approda, per esempio, a rappresentanze combinate degli interessi degli uni e degli altri, concepiti così come interessi comuni, o ancora a ricoprire a rotazione i seggi nelle organizzazioni internazionali. Una prassi che sarà all’origine della posizione molto più recente dei tre paesi in merito alla possibilità di essere rappresentati da un unico commissario all’interno dell’esecutivo comunitario (v. Commissione europea).

Quanto si è detto finora, non deve comunque nascondere il fatto che le convinzioni espresse durante la guerra dal governo lussemburghese l’hanno condotto ad agire con ingenuità dopo il 1945. Tradotta in diritto in occasione della revisione della Costituzione (1948), la rinuncia alla neutralità fa entrare il Lussemburgo in un’era nuova. Deve confrontarsi con la difficoltà, per un paese tanto piccolo, di fronteggiare l’obbligo di disporre di un numero sufficiente di agenti diplomatici, di funzionari e di esperti capaci di assumere la rappresentanza del paese nelle istanze internazionali ed europee, ma non manca di difendere sia i suoi interessi che quelli dell’Europa. Sostenuto, secondo le parole di un diplomatico francese, dal «prudente, intelligente e abile» Bech «osservatore imparziale delle cose europee» (v. Brouwer, p. 509), il Lussemburgo dimostra la sua capacità di ottenere sia delle misure di favore – cioè delle deroghe alle regole generali – sia di cavarsela abilmente proponendo soluzioni a situazioni che appaiono inestricabili.

Nel primo caso il Lussemburgo beneficia di eccezioni che riguardano sia il settore agricolo (clausola di salvaguardia abolita nel 1970), sia la libera circolazione delle persone sia la fiscalità. In questo caso l’espansione dell’attività bancaria della piazza di Lussemburgo a beneficio di numerose imprese e cittadini, soprattutto comunitari, spiega ampiamente gli strappi alla regola. Nel secondo caso, l’esempio più celebre è quello della designazione del Lussemburgo come “sede provvisoria” dell’Alta autorità della CECA nel 1952. I cinque partner del Belgio nella CECA erano favorevoli alla scelta di Bruxelles. Tuttavia il ministro belga degli Esteri, essendo tenuto per obbligo a difendere la candidatura di Liegi, si oppone. Di fronte a questa situazione di stallo, l’abile Bech propone la sua soluzione “provvisoria”, con l’installazione dell’Alta autorità nella sede dell’Arbed a Lussemburgo. È una soluzione che senz’altro riaprirà il dibattito sulla sede, ma intanto offre alla città di Lussemburgo visibilità, uno spazio economico e uno sviluppo culturale che nemmeno i più ottimisti avrebbero potuto sognarsi in altre circostanze.

Ma se il Lussemburgo riesce a cavarsela brillantemente grazie alle eccezioni concesse dai suoi partner e ai vantaggi ottenuti per l’abilità dei suoi rappresentanti, resta il fatto che la questione essenziale è la sua rappresentanza nelle istituzioni. A questo proposito, sia nella Commissione europea che nel Consiglio dei ministri e nell’Assemblea comune, poi Parlamento europeo, il Lussemburgo beneficia di una superrappresentanza in rapporto al suo peso demografico. Nel corso del tempo e degli allargamenti questa superrappresentanza, che gli ha permesso di esercitare un’influenza discreta ma reale, è fortemente diminuita. Il timido “sì” dei lussemburghesi al progetto di trattato costituzionale nel 2005 è stato, insieme ad altri fattori, il segno del loro timore di non “pesare” più niente nell’Europa che all’epoca era quella dei Venticinque.

Questo timore si era già espresso in occasione di precedenti allargamenti (v. Trausch, p. 208). Certo, la costruzione europea ha rafforzato l’apertura del paese all’Europa e al tempo stesso ha anche fortemente rinvigorito la nazione lussemburghese. Il paradosso è solo apparente. Come diceva il negoziatore lussemburghese alla conferenza di Val Duchesse in cui si elaboravano i Trattati di Roma: «Non accetteremo mai che la costituzione del Mercato comune comporti la scomparsa del nostro Stato» (v. Trauch, p. 212). Ma da qui a pretendere che il Lussemburgo non abbia mai smesso di considerare la costruzione europea dal solo punto di vista dei suoi interessi nazionali, compreso quello delle banche che vi si sono stabilite, sarebbe eccessivo. Le presidenze lussemburghesi della Comunità e poi dell’Unione europea (UE) dimostrano il contrario. L’Atto unico europeo è stato preparato e firmato sotto la presidenza lussemburghese (dicembre 1985). Il rapporto che è servito di base al Trattato di Maastricht è stato elaborato in occasione di un’altra presidenza (giugno 1991) (v. anche Presidenza dell’Unione europea). E da Bech a Jean-Claude Juncker passando per Pierre Werner, Gaston Thorn e Jean Jacques Santer, per non citarne che alcuni, le personalità politiche lussemburghesi che hanno dimostrato di essere dei “buoni lussemburghesi e dei buoni europei” sono in proporzione numerose. Ma questa doppia fedeltà alla nazione e all’Europa non sarà il segno che «il Lussemburgo sta diventando una società multiculturale su un fondo comune di civiltà europea?”» (v. Trausch, p. 236).

Michel Dumoulin (2004)