MacDougall, George Donald Alastair

Il 26 ottobre 1912, M. (Glasgow 1912-Londra 2004) frequentò la Kelvinside Academy fino a 14 anni. Dopo un periodo alla Shrewsbury School, si iscrisse al Balliol College dell’Università di Oxford, dove studiò filosofia, politica ed economia. Nell’anno accademico 1933-1934, decise di specializzarsi in economia. Dopo alcuni corsi postlaurea al Balliol, ottenne il primo incarico come professore ausiliario presso il dipartimento di economia dell’Università di Leeds. Nell’estate del 1939 venne assunto dalla Divisione Statistica dell’ammiragliato da Frederick Lindman, un fisico che fu anche consigliere di Winston Churchill (v. MacDougall, 1987, p. 20). Nel 1945, alla fine della guerra, divenne membro del Wadham College, dove insegnò economia. Tre anni dopo, andò a lavorare a Parigi per l’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE), di recente istituzione, assumendo il ruolo di capo economista. Il suo primo compito fu contribuire alla produzione di una relazione interinale sul Piano di ricostruzione europea, richiesta dagli americani nell’ambito del Piano Marshall (v. MacDougall, 1987, p. 72).

Tra il 1952 e il 1957 effettuò numerosi viaggi, e si fermò in Venezuela per studiare il suo sistema fiscale, in Australia come visiting professor in Economia e Finanze presso l’Università nazionale australiana di Canberra e in India, dove collaborò al progetto del Centro di studi internazionali del Massachusetts Institute of Technology. Nel luglio del 1961 divenne il primo direttore economico dell’Ufficio nazionale per lo sviluppo economico (National economic development office, NEDO) che sostenne il neo istituito Consiglio nazionale per lo sviluppo economico. Questo ente tripartito riunì governi, management e sindacati ed esaminò i metodi per migliorare il rendimento economico e industriale del Regno Unito. Il compito di M. era quello di elaborare un programma dettagliato delle politiche necessarie per raggiungere l’obiettivo di crescita del 4% (v. Croham, 2005, p. 246). Dopo varie consultazioni con i soggetti interessati, furono pubblicati un Libro verde sulla crescita dell’economia del Regno Unito nel 1966 e un Libro arancione che descriveva dettagliatamente le politiche. Nel 1964, dopo le elezioni politiche, M. divenne direttore generale del Dipartimento degli affari economici, dove presiedette un gruppo di consiglieri che venivano consultati dal governo su questioni macroeconomiche. Alle elezioni politiche del 1966 il governo ottenne una maggioranza sicura alla Camera dei Comuni. Nel 1966 il governo di Harold Wilson attuò un pacchetto di misure deflazionistiche a cui seguì nel 1967 una svalutazione che secondo M. giunse con un ritardo di tre anni (v. MacDougall, 1987, p. 173).

Due anni dopo, M. lasciò il Dipartimento per dirigere il Government economic service e diventare consulente economico al Tesoro, sotto la guida del Cancelliere Roy Jenkins. La svalutazione era stata proficua, considerando che la bilancia dei pagamenti si era riequilibrata, la spesa pubblica era diminuita e gli investimenti privati e le esportazioni erano aumentati notevolmente (v. MacDougall, 1987, p. 177).

Nel 1973 M. accettò di partecipare a un gruppo di studio sull’Unione economica e monetaria 1980 della Comunità economica europea (CEE) formato da quindici economisti, avvocati e sociologi e presieduto da Robert Marjolin, ex vicepresidente della Commissione europea. Il rapporto che seguì giunse a due conclusioni principali. In primo luogo, un’unione economica e monetaria sarebbe dipesa da un bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) più consistente; secondariamente, era necessario valutare gli effetti dell’unione economica sulle finanze pubbliche. Sulla base di tali conclusioni, un gruppo più ristretto di economisti si riunì sotto la guida di M. per approfondire lo studio relativo agli effetti dell’integrazione economica europea sulle finanze pubbliche, soprattutto sulla spesa pubblica e sulla tassazione (v. MacDougall, 1987, p. 202). Rilevando gli squilibri del reddito a livello regionale e tra gli Stati membri, il Comitato suggerì spese comunitarie supplementari in modo da rafforzare gli interventi comunitari strutturali. Il rapporto M., pubblicato nell’aprile del 1977, affermava che il bilancio comunitario avrebbe dovuto raggiungere la dimensione del 2-2,5% del PIL degli Stati membri nella fase prefederale, poi del 5-7% nella fase federale con un piccolo settore pubblico, fino a giungere al 25% in una fase federale con un settore pubblico maggiore più esteso – obiettivi molto distanti dall’attuale PIL aggregato.

Dopo essersi ritirato dal servizio pubblico nel 1973, M. divenne economista della Confederazione dell’industria britannica ove rimase fino al 1984. Fu anche presidente della Royal economic society dal 1972 al 1974 e presidente del Comitato esecutivo del National institute of economic and social research.

Sarah Wolff (2012)




Macmillan, Harold

M. (Londra 1894-Birchgrove 1986) proveniva da una famiglia di origine scozzese che sin dalla metà dell’Ottocento aveva dato avvio a un’attività imprenditoriale nel settore dell’editoria creando nel 1843 l’omonima casa editrice. M. visse un’austera infanzia vittoriana, caratterizzata dalla preboarding school dell’epoca, nel 1906 passò a Eton e nel 1912 si iscriveva al Balliol college di Oxford. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, come molti altri giovani della sua generazione e della sua condizione sociale, M. si affrettò ad arruolarsi nell’esercito. Entrato dapprima nei King’s royal rifles, poi trasferito alle Grenadier guards nell’agosto del 1915 il sottotenente M. veniva inviato sul fronte delle Fiandre, dove fu ferito in alcune azioni; l’anno successivo veniva trasferito sulla Somme, dove nel settembre restava gravemente ferito. Tornato nel Regno Unito trascorse il resto del conflitto affrontando una lunga e difficile convalescenza. Alla conclusione delle ostilità, M. decise di compiere un’esperienza all’estero e, grazie alle conoscenze materne, venne nominato aiutante di campo del governatore generale del Canada; durante la permanenza nel dominion nordamericano egli fece la conoscenza di Lady Dorothy Cavendish, appartenente a una nobile famiglia dell’establishment britannico, che M. sposava nell’aprile del 1920. Rientrato in Inghilterra, M. si impegnava nell’attività editoriale di famiglia. Tuttavia, anche quale conseguenza dell’esperienza canadese e dei legami con la famiglia della moglie, nel 1923 decideva di darsi all’attività politica, presentandosi quale candidato del Partito conservatore alle elezioni del dicembre di quell’anno per la circoscrizione di Stockton-on-Tees, un’area del nord dell’Inghilterra, tradizionalmente legata all’industria cantieristica e fortemente colpita dalle difficoltà economiche del dopoguerra. M. vinse con un minimo scarto di voti, ma nelle successive elezioni del 1924 venne confermato con un ampio successo.

Si apriva così una lunga carriera politica, mentre la vita privata di M. era segnata dalla parziale rottura con la moglie, la quale si innamorò del collega di partito e amico di M., Robert Boothby. Nel 1931, inoltre, M. fu colpito da una grave depressione, che lo condizionò per qualche anno. Intorno alla metà degli anni Trenta, in parte ripresosi, M. si avvicinò a un gruppo di giovani membri del Partito conservatore, i quali auspicavano una politica di audaci riforme al fine di affrontare i gravi problemi economici che affliggevano il Regno Unito. In tale ambito significativa fu la pubblicazione da parte di M. del pamphlet The middle way, che venne però accolto con sfavore dalla maggioranza del partito tory. Con il crescente manifestarsi dell’aggressività delle dittature italiana e tedesca, M. si avvicinò a Winston Churchill e all’esiguo gruppo di conservatori, i quali si opponevano alla politica di appeasement che caratterizzava al contrario l’atteggiamento della leadership tory nella seconda metà degli anni Trenta.

Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, per quanto Neville Chamberlain restasse primo ministro, Churchill usciva dall’isolamento politico in cui era stato tenuto a lungo dal suo stesso partito e diveniva Primo Lord dell’ammiragliato. Quanto a M., incoraggiato da Churchill alla fine del 1939 entrava a far parte di un comitato governativo guidato da Leo Amery, incaricato di fornire aiuto alla Finlandia, che era stata aggredita dall’Unione Sovietica. La svolta nella carriera di M. si manifestò comunque nell’estate del 1940. La caduta della Francia rappresentò la sconfitta definitiva di Chamberlain e dei settori del partito conservatore che avevano sostenuto l’“appeasement”. Churchill veniva nominato primo ministro di un governo di unione nazionale del quale entravano a far parte anche i laburisti; nell’ambito del nuovo gabinetto il premier offriva a M. la responsabilità di parliamentary secretary del ministero degli Approvvigionamenti, guidato dall’esponente laburista Herbert Morrison. In questo nuovo ruolo egli ebbe l’opportunità di sperimentare alcune delle idee di programmazione economica che egli aveva esposto in The middle way; inoltre, a partire dal 1941 il Ministry of Supply, ora sotto l’energica guida di Lord Beaverbrook, si dovette confrontare con l’impegnativo compito di inviare aiuti all’Unione Sovietica, divenuta alleata di Londra a seguito dell’aggressione tedesca. Agli inizi di febbraio del 1942 M. veniva nominato sottosegretario al Colonial office. La sua permanenza a questo ministero fu comunque breve. Nel novembre del 1942 gli angloamericani lanciavano l’operazione “Torch” con lo sbarco di truppe statunitensi, sotto la guida del generale Dwight Eisenhower, in Marocco e in Algeria.

A causa della scarsa fiducia di Franklin Delano Roosevelt nei confronti di Charles de Gaulle e della “Francia libera”, Washington aveva riposto le proprie speranze affinché le truppe francesi fedeli a Vichy in Nord Africa non offrissero resistenza nella figura del generale Henry Giraud, un alto ufficiale di sentimenti conservatori. L’azione di quest’ultimo si era rivelata inefficace e per porre rapidamente fine ai combattimenti fra i francesi di Vichy e le truppe americane, Dwight Eisenhower aveva accettato di siglare un compromesso con l’ammiraglio François Darlan, il quale sino a quel momento si era qualificato come uno dei più stretti collaboratori di Philippe Pétain. Tale accordo, per quanto utile sul piano militare, aveva sollevato forti critiche presso la stampa americana, provocando una seria crisi politica. In tale contesto Churchill ritenne, anche al fine di salvaguardare gli interessi britannici nell’area del Mediterraneo, di affidare a M. la funzione di resident minister e consigliere politico presso Eisenhower. Tra il gennaio del 1943 e la metà del 1945 M. avrebbe esercitato un’influenza politica crescente divenendo di fatto il “proconsole” di Londra nell’area del Mediterraneo. Fra i primi problemi che egli dovette affrontare vi fu quello dello scontro tra de Gaulle e Giraud per la leadership nel Nord Africa francese; era evidente che chi fosse uscito vincitore da questo conflitto avrebbe posto una seria ipoteca alla guida, non solo della “Francia libera”, ma anche del paese una volta che questo fosse stato liberato. Come ricordato, nei confronti di de Gaulle si era spesso manifestata l’ostilità dell’amministrazione americana e lo stesso Churchill, che nel 1940 aveva favorito la nascita del movimento gaullista, aveva incontrato difficoltà nel trattare con il leader francese. Da parte sua M. si convinse delle superiori capacità politiche di de Gaulle e, per quanto in maniera cauta, ne favorì l’affermazione rispetto a Giraud.

Successivamente M. ebbe un ruolo di rilievo nelle vicende militari e politiche che condussero all’armistizio italiano del settembre 1943 e alla parziale liberazione della penisola, con le note conseguenze sul piano della politica interna italiana. In tale contesto, M. ebbe modo di intrattenere stretti rapporti con i principali attori della scena italiana: da Vittorio Emanuele III a Pietro Badoglio, agli uomini politici del CLN di Napoli, a Carlo Sforza, ai responsabili angloamericani del governo militare alleato. I diari di questi mesi, pubblicati in seguito, hanno offerto una galleria di ritratti, a volte non immuni da annotazioni ironiche, sulle vicende politiche del Regno del Sud, per quanto vada notato come M. non condividesse pienamente la politica punitiva nei riguardi della penisola, sostenuta sin da questo periodo dal segretario di Stato Anthony Eden. Alla fine del 1944 l’attenzione di M. dovette concentrarsi su altri due paesi dell’area del Mediterraneo, la Iugoslavia e la Grecia. Quanto alla prima, egli dovette gestire i non facili rapporti con il leader della resistenza comunista, il futuro maresciallo Tito, le cui ambizioni cominciavano a contrastare con i piani britannici, mentre per ciò che concerneva la seconda, il ministro residente fu costretto a fronteggiare in dicembre in una nazione appena liberata l’insurrezione comunista ad Atene contro il governo monarchico conservatore sostenuto da Londra. La fase conclusiva del conflitto riservò a M. una parentesi particolarmente tragica, poiché egli dovette assumere la responsabilità della consegna di migliaia di russi che avevano militato nelle truppe naziste e che erano stati catturati dalle truppe britanniche in Austria. Gran parte di loro furono giustiziati e la decisione di M., che traeva in ampia misura origine da accordi siglati dai tre grandi a Yalta, sarebbe stata soggetta a dure critiche in particolare in un volume apparso nella metà degli anni Ottanta.

Con la fine delle ostilità M. fece ritorno alla vita politica, ma in occasione delle elezioni del luglio del 1945 fu sconfitto dal candidato laburista; pochi mesi dopo l’esponente conservatore eletto per la circoscrizione di Bromley moriva, M. veniva candidato alla by-election e rientrava quindi ai Comuni con una confortevole maggioranza. Ciò nonostante, con l’affermazione del partito laburista di Richard Attlee, si apriva per M. un lungo periodo di permanenza sui banchi dell’opposizione. L’interesse di M. in questi anni continuò a concentrarsi sui temi di politica internazionale, sollecitato anche dalle grandi trasformazioni del secondo dopoguerra: dalla crisi dell’impero britannico all’avvio della “Guerra fredda”, ai primi passi della costruzione europea. In quest’ultimo ambito fin dal 1947 Churchill si impegnò affinché si sviluppasse una qualche forma di cooperazione fra le nazioni dell’Europa occidentale, una dinamica che il leader tory vedeva inserita nel rafforzamento dell’Occidente di fronte alla minaccia rappresentata dalla politica staliniana. Churchill fu così all’origine dello European movement (v. Movimento europeo), che avrebbe avuto tra le sue più importanti manifestazioni il Congresso dell’Aia del maggio 1948. Per l’esponente conservatore, comunque, la costruzione europea, pur sostenuta dalla Gran Bretagna, non doveva vedere il coinvolgimento diretto di Londra, né uno sviluppo in senso federalista (v. Federalismo). M. entrò a far parte del Movimento europeo, prese parte alla conferenza dell’Aia e divenne membro dopo il 1949 dell’assemblea del Consiglio d’Europa a Strasburgo. È significativo inoltre come nel 1950 egli esprimesse i suoi timori di fronte alla decisione presa dal governo Attlee di non far partecipare la Gran Bretagna al Piano Schuman per la creazione di una Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA).

Nell’ottobre del 1951 i laburisti subivano una sconfitta in occasione delle elezioni politiche e i conservatori ritornavano al potere con un gabinetto guidato da Churchill, che vedeva ancora una volta Anthony Eden al vertice del Foreign Office. Nel nuovo governo a M. veniva affidato il ruolo di housing minister, un ruolo solo in apparenza secondario, ove si consideri come la costruzione di nuove abitazioni fosse una delle priorità che si erano imposte nel secondo dopoguerra; in tale funzione M. mostrò particolare attenzione ed efficienza. Nell’ottobre del 1954, in occasione di un rimpasto ministeriale a M. venne offerto il dicastero della Difesa, che egli accettò nonostante la sua aspirazione fosse quella di tornare a occuparsi di questioni internazionali. Egli era rimasto d’altronde nei primi anni cinquanta uno dei pochi esponenti conservatori di spicco attento alle questioni europee e convinto che Londra dovesse giocare un qualche ruolo nel processo di costruzione di un’Europa unita. Nella primavera del 1955 per ragioni di salute Churchill dava le dimissioni e veniva sostituito dal suo “erede designato”, Eden, il cui mandato era confermato dalla netta affermazione in occasione delle elezioni politiche tenutesi nel maggio. M. veniva posto alla guida del Foreign office. L’attenzione del nuovo segretario di Stato si concentrò sui tentativi di prima distensione, nel cui ambito la Gran Bretagna sperava di giocare una parte di rilievo: dal summit di Ginevra nel luglio alla conferenza dei quattro ministri degli Esteri svoltasi nella città svizzera nell’autunno di quell’anno. Nel frattempo si teneva la Conferenza di Messina e aveva avvio il “rilancio dell’Europa”.

Per quanto M. si rendesse conto della possibile importanza di tali eventi, il suo atteggiamento si rivelò molto cauto, a quanto pare a causa dell’influenza del Foreign office che si mostrava scettico, se non ostile, nei riguardi dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) di stampo funzionalista (v. Funzionalismo). M. d’altronde fu costretto a concentrare la sua attenzione sulla sempre più grave situazione manifestatasi a Cipro e sulla incombente crisi nei rapporti con l’Egitto. Nel dicembre del 1955 Eden decideva comunque di togliere a M. il ruolo di segretario di Stato, affidato a Selwyn Lloyd, e di nominarlo cancelliere dello Scacchiere, una decisione che irritò M. e che non resero facili i rapporti con il primo ministro. Nella sua responsabilità di ministro del Tesoro il leader conservatore tornò ad occuparsi del “rilancio dell’Europa”, che egli seguiva con attenzione. Ancora una volta i suoi collaboratori si rivelarono scettici circa l’esito dei negoziati fra i “Sei”, sebbene M. esprimesse il timore che, nel caso della creazione di una comunità economica europea, la Gran Bretagna si sarebbe trovata di fronte al pericolo di un serio isolamento rispetto ai maggiori partner del continente. Tra il luglio e il novembre del 1956, d’altronde, M. si trovò direttamente coinvolto in una delle più gravi crisi vissute dalla Gran Bretagna nel dopoguerra, la vicenda di Suez. A dispetto del ruolo di cancelliere dello Scacchiere, M. svolse una parte significativa nelle decisioni che, dopo la nazionalizzazione della compagnia del Canale da parte di Nasser, condussero il governo Eden a scegliere l’opzione di carattere militare. In una prima fase M. sembrò favorevole alla linea dell’intervento scelta dal primo ministro, ma una volta prospettatasi la netta opposizione degli Stati Uniti, con le sue pericolose conseguenze di carattere economico e finanziario, egli parve sostenere l’ipotesi di disimpegno. Nel gennaio del 1957 Eden, ammalato e profondamente colpito dal fallimento politico di Suez, dava le dimissioni e veniva sostituto proprio da M., che avrebbe mantenuto la carica di primo ministro sino al 1963.

Giunto a Downing Street, M. concentrò la sua attenzione, per ciò che concerneva la politica estera, sulla ricostruzione della special relationship con Washington, posta in discussione da crisi di Suez. Questo obiettivo parve raggiunto in breve tempo e nel 1958 gli Stati Uniti e la Gran Bretagna agivano congiuntamente in Medio Oriente di fronte alla crisi irachena. Un altro ambito internazionale cui il primo ministro dedicò la sua attenzione fu quello dei rapporti Est-Ovest, caratterizzati dall’avvio della seconda crisi di Berlino e dal fallimento della conferenza al vertice di Parigi del 1960. Nel frattempo la popolarità di M. sul piano interno raggiungeva l’apice, favorita anche da un’iniziale congiuntura economica favorevole, e nel 1959 i conservatori ottenevano un ampio successo elettorale. Quanto all’Europa, M. lasciava questo ambito al segretario di Stato Selewyn Lloyd e Londra decideva di fronteggiare la nascita della Comunità economica europea (CEE) con l’istituzione dell’Associazione europea di libero scambio (European free trade agreement, EFTA).

Tra il 1960 e il 1961 M. si convinse però che la posizione inglese verso la Comunità Europea dovesse mutare. In primo luogo l’economia britannica cominciava a mostrare i primi segni di difficoltà le quali contrastavano con il boom delle economie dei Sei. Nel 1960 la Gran Bretagna concedeva la piena indipendenza a gran parte delle colonie africane e nel noto discorso sui winds of change, compiuto in occasione di un viaggio in Africa M. si mostrava cosciente del tramonto del “sogno imperiale”; infine, l’elezione di John F. Kennedy negli Stati Uniti sembrava aprire una fase diversa nella special relationship e il nuovo presidente non nascondeva il desiderio affinché Londra divenisse a pieno titolo una potenza “europea” entrando a far parte del Mercato comune europeo (MEC) (v. Comunità economica europea). Dopo una serie di contatti con vari leader dell’Europa dei Sei avvenuti nei primi mesi del 1961, M. decise che per la Gran Bretagna era giunto il momento di aderire alla CEE, e nell’estate di quell’anno egli annunziò ufficialmente ai Comuni la candidatura inglese alla Comunità. M., come gran parte della classe dirigente britannica, era dell’opinione che, a dispetto delle difficoltà, Londra sarebbe riuscita nel proprio intento: la Repubblica federale (v. Germania), l’Italia e i paesi del Benelux si erano dichiarati favorevoli all’ingresso di Londra nel MEC, gli Stati Uniti sostenevano tale ipotesi e il Regno Unito appariva ancora una potenza in grado di apportare numerosi elementi di vantaggio alla costruzione europea. Inoltre, il primo ministro ben sapeva che la visione inglese del processo di unione non era lontano dal concetto di “Europa delle patrie” di de Gaulle, un leader che M. conosceva dagli anni della Seconda guerra mondiale.

Il negoziato, apertosi a Bruxelles nell’autunno del 1961, venne impostato da Londra sugli aspetti economici, e la delegazione inglese pose onerose condizioni sulla questione dell’agricoltura (v. anche Politica agricola comune) e sui rapporti con il Commonwealth. Nel frattempo, M. dovette occuparsi in ambito internazionale di altre questioni di rilievo, dalla costruzione del Muro di Berlino alla crisi dei missili di Cuba. In entrambi i casi il primo ministro non sembrò rendersi conto come le due vicende finissero con l’avvicinare sempre più de Gaulle a Konrad Adenauer e a far crescere i dubbi dei due leader del continente circa la posizione inglese. Gli accordi Kennedy-M. di Nassau sulla fornitura di missili Polaris alla Gran Bretagna, se sembravano confermare la special relationship, apparvero agli occhi de Gaulle la prova che se la Gran Bretagna fosse entrata nella CEE sarebbe divenuta il “cavallo di Troia” degli Stati Uniti. M. sperava comunque che contatti diretti con Adenauer e de Gaulle avrebbero consentito di superare gli ostacoli che si frapponevano all’ingresso di Londra nella CEE. Ma nel gennaio del 1963 il presidente francese, in una conferenza stampa, espresse pubblicamente il suo “veto” all’Adesione inglese alla CEE. Si trattava di una grave sconfitta politica per M., alla quale si aggiungevano le crescenti difficoltà dell’economia, l’esplodere del cosiddetto “scandalo Profumo” e seri problemi di salute. Nell’ottobre del 1963 M. dava le dimissioni, sostituito da Lord Alec Douglas-Home.

Negli anni successivi M. dedicò gran parte del suo tempo alla scrittura, alla casa editrice e all’Università di Oxford di cui divenne Chancellor. Non mancò comunque di interessarsi anche alla vita politica del suo paese nel ruolo di “saggio” del partito conservatore. Si spegneva nel 1986, all’età di novantadue anni, nel pieno dell’era di Margaret Thatcher, che segnava una trasformazione radicale sia nei caratteri dei tories, sia nella posizione inglese nei riguardi dell’Europa.

Antonio Varsori (2010)




Madariaga, Salvador de

M. (La Coruña, Galizia, 1886-Locarno 1978), figlio di un militare del Corpo di Intendenza, si trasferì dalla Galizia a Madrid nel 1898. Nel 1900 fu mandato dalla sua famiglia a Parigi, dove studiò al Politecnico laureandosi in ingegneria nel 1911. Tornato in Spagna iniziò la sua carriera politica iscrivendosi alla Liga de educación política fodata da José Ortega y Gasset, nonché la sua attività di scrittore e saggista. In virtù di questo retroterra M. si inquadra in quella generazione di intellettuali spagnoli del 1914, profondamente segnata dall’impatto della Prima guerra mondiale su una Spagna neutrale.

Abbandonata l’attività di ingegnere, M. si dedicò al giornalismo trasferendosi a Londra nel 1916 come corrispondente per le questioni spagnole del “Times” e collaborando, al contempo, all’organizzazione guerra della propaganda bellica britannica in lingua spagnola. In questo periodo prende forma anche l’impegno europeista di M, che consolida altresì il suo prestigio come scrittore e pubblicista.

Tornato in Spagna nel 1921, M. fece parte, in qualità di tecnico, della delegazione spagnola alla Conferenza sul regime internazionale delle strade ferrate organizzata a Barcellona dalla Società delle Nazioni. In questa occasione entrò in contatto con Robert Haas, il quale gli propose di iniziare a lavorare nella Segreteria generale della Società delle Nazioni a Ginevra. Cominciò così la carriera di funzionario internazionale di M., che tra il 1921 e il 1927 fece parte della commissione tecnica, dell’ufficio stampa e infine divenne capo dell’Ufficio della Commissione per il disarmo. Frutto della sua esperienza a Ginevra fu la pubblicazione, nel 1929, del libro Disarmament, in cui si indicava nella carenza di fiducia reciproca il problema principale per la cooperazione internazionale.

Nel 1928 M. abbandonò la Società delle Nazioni, e dopo un viaggio negli Stati Uniti – dove tenne varie conferenze alla Foreign policy association e alla League of Nations Union – divenne professore di letteratura spagnola all’Università di Oxford. Tuttavia, insofferente dei formalismi e delle limitazioni della vita accademica, nel 1931 chiese un anno sabbatico e iniziò un giro di conferenze negli Stati Uniti, Messico e Cuba.

Mentre M. era all’estero nelle elezioni municipali del 12 aprile il trionfo dei partiti repubblicani in Spagna decretò la fine della monarchia, e M. si vide proporre l’incarico di ambasciatore della Repubblica spagnola a Washington. Nonostante i dubbi e le incertezze iniziali (non si era mai dichiarato repubblicano), accettò l’incarico, conservandolo però solo poche settimane. Va ricordato altresì il suo ruolo di deputato nella Costituente della II Repubblica e la militanza in un partito repubblicano galiziano, vicino all’Azione repubblicana di Manuel Azana, allora presidente del governo.

Tuttavia, le cause della breve permanenza di M. a Washington in qualità di ambasciatore non vanno cercate nella politica interna quanto nelle convulsioni della società internazionale e nella priorità data dalla diplomazia repubblicana alla Francia e alla Società delle Nazioni. Ciò spiega la nomina di M. ad ambasciatore a Parigi (10 dicembre 1931) e il suo immediato stanziamento a Ginevra in qualità di capo della delegazione spagnola alla Società delle Nazioni e di rappresentante nella Conferenza per il disarmo (settembre 1932), incarichi che M. cercò di conciliare negli anni seguenti svolgendo una intensa attività sia come presidente della Commissione per il disarmo aereo, sia partecipando tra le altre cose ai dibattiti in seno al Consiglio sui conflitti tra Cina e Giappone, Italia ed Etiopia e Bolivia-Paraguay.

In questa duplice veste diplomatica, bilaterale relativamente al governo francese, multilaterale nell’ambito della Società delle Nazioni, M. partecipò attivamente alla formulazione della politica estera spagnola fino alla guerra civile. Nella fattispecie, nel saggio Nota sobre política exterior de España M. evidenziava la necessità di una interazione fra gli obiettivi della politica estera spagnola, i propositi degli organismi internazionali, la cooperazione bilaterale o multilaterale per il mantenimento della pace e la sicurezza internazionale, il sostegno delle relazioni di amicizia fra i paesi e la soluzione dei problemi internazionali di carattere politico, economico o culturale: «Il principio supportare fondamentale su cui deve basarsi la politica estera spagnola sarà, in ambito politico, il Patto della Società delle Nazioni; per quanto riguarda la classe operaia, quello che guida l’Ufficio internazionale del lavoro; nell’ambito dei conflitti internazionali, la giurisprudenza e l’attività della Corte di giustizia dell’Aia».

Per M. l’instaurazione della pace europea non avrebbe potuto avere che ripercussioni positive nella posizione internazionale spagnola. Pertanto la delegazione spagnola alla Società delle Nazioni perseguì una politica caratterizzata dalla libertà e dall’indipendenza rispetto alle grandi potenze, tanto che il suo ispiratore divenne presidente del gruppo dei paesi neutrali europei – paesi scandinavi, Olanda (v. Paesi Bassi), Belgio, Cecoslovacchia, Svizzera e Spagna.

Come osserverà in seguito M., «la Spagna continuò a perseguire a Ginevra una politica di collaborazione con le nazioni democratiche di secondo ordine. Neutrale nei confronti della lotta per il potere, endemica in Europa, mantenne uno stretto contatto con la Francia e la Gran Bretagna senza per questo scontrarsi con altre grandi potenze; e astenersi pur astenendosi da qualsiasi pretesa o azione come paese dirigente di un qualche gruppo, seguì con particolare interesse l’attività delle nazioni di lingua e cultura spagnola all’interno del Parlamento delle nazioni».

M. fu certamente uno dei politici e diplomatici spagnoli tra le due guerre che possedeva una visione più ampia, per certi versi utopistica delle relazioni internazionali. Alla base del suo pensiero vi era la convinzione che l’esistenza della Società delle Nazioni avrebbe potuto costruire l’inizio di una nuova fase nelle relazioni interstatali, a patto che le circostanze mondiali fossero favorevoli e che gli Stati membri identificassero i propri interessi particolari con lo schema di sicurezza collettiva elaborato dalla Società delle Nazioni. La missione principale di quest’ultima era a suo avviso quella di diventare un ente permanente, universale e di carattere ufficiale, destinato a mantenere la pace fra le nazioni e, in ultima istanza, a favorire l’istituzione di uno Stato federale di portata mondiale (v. Federalismo).

Nel frattempo, però, la Società si impegnava in missioni concrete, quali la salvaguardia della pace o la costituzione di un ente di polizia per il disarmo. Secondo M., gli Stati avrebbero dovuto consolidare la giurisdizione e le competenze della Società delle Nazioni in tali campi, utilizzando i poteri coercitivi riconosciuti dal suo patto costitutivo e favorendo una coscienza universalistica nonostante i particolarismi nazionali. Tipico prodotto dello spirito ginevrino degli anni Venti, il diplomatico spagnolo operava all’interno della Società delle nazioni con un misto di realismo di fronte ai problemi concreti e di afflato utopistico tipico di un liberale che credeva nel futuro di un sistema internazionale agonizzante, potenzialità che però, a suo parare, erano in procinto di svilupparsi.

Dopo le elezioni legislative del 1933, il nuovo presidente del governo di centrodestra Alejandro Lerroux offriva a M, in settembre, il ministero degli Esteri, che egli rifiutò. In seguito però, nel marzo 1934, dopo una crisi di governo, accettò il ministero dell’Istruzione che gestì contemporaneamente al ministero di Giustizia. In questa circostanza emerse lo scarso opportunismo politico di M., che di in breve tempo riuscì a inimicarsi la sinistra concedendo un’amnistia che beneficiava i cospiratori antirepubblicani. Nel complesso, la sua permanenza al governo durò appena cinque settimane, dato il contesto politico conflittuale e in via di radicalizzazione della Seconda repubblica. Dopo questa breve parentesi, M. riprese il suo incarico di capo della delegazione spagnola alla Società delle Nazioni fino termine alla fine della Conferenza sul disarmo, nel giugno 1934.

Durante un viaggio ufficiale in Sudamerica M. venne a conoscenza del tentativo di rivoluzione dell’ottobre 1934 in Spagna e della durissima repressione messa in atto dal governo. M. si mostrò particolarmente critico nei confronti di questa reazione, soprattutto dopo l’arresto dell’ex presidente del governo, Manuel Azana. Ciò gli procurò la sfiducia della destra al potere, che non lo nominò rappresentante permanente nella Società delle Nazioni, e tuttavia, in mancanza di personale qualificato, non mancò di servirsi di lui in caso di necessità.

Nel gennaio 1935 M. tornò quindi a Ginevra e in aprile fu incaricato di presiedere la commissione arbitrale incaricata di risolvere le controversie tra Germania e Francia in seno alla Società delle Nazioni. In questo ruolo assistette nel settembre 1935 alla sessione del Consiglio in cui emersero tutte le difficoltà che attraversava non solo l’organizzazione ginevrina, ma anche l’intero meccanismo di sicurezza collettiva in Europa così faticosamente costruito durante anni Venti. Nello stesso periodo M. partecipò anche in veste di presidente al Comitato dei Cinque – Spagna, Francia, Gran Bretagna (v. Regno Unito), Polonia e Turchia, che cercò invano di impedire l’aggressione italiana in Abissinia.

Il pessimismo indotto sia dalla situazione interna della Spagna, sia dalla situazione internazionale, indusse M. a scrivere un altro saggio di tono polemico, Anarquía o Jerarquía, Ideario para la creación de la Tercera República Española, in cui illustrava il pericolo che correva la democrazia liberale tanto per la sinistra quanto per la destra, proponendo un modello alternativo allo Stato totalitario.

Nei primi mesi del 1936 M. si recò in visita a Budapest per conto della Società delle Nazioni, e e poi a Vienna e a Praga per conto del governo spagnolo. L’obiettivo del viaggio era quello di valutare problemi internazionali esistenti fra Austria, Ungheria e Cecoslovacchia da un lato e Germania dall’altro. Allo stesso tempo, assistette alla disfatta della Società delle Nazioni in occasione della aggressione dell’Italia contro l’Etiopia.

Dopo la vittoria del Fronte popolare in Spagna (febbraio 1936), M. fu oggetto di duri attacchi da parte della stampa repubblicana e socialista, dovuti principalmente ai risentimenti suscitati durante la sua breve permanenza al ministero di Giustizia, ma anche alla posizione da lui assunta rispetto al progetto di riforma del Patto della Società delle Nazioni, nella fattispecie dell’articolo 16 relativo alle sanzioni nell’ambito della crisi in Abissinia. M. si trovò così in una situazione insostenibile, sia Ginevra che in Spagna; alla metà del 1936 si considerava già, per citare le sue parole, «un parlamentare europeo liberale in un momento in cui nessuno era interessato all’Europa, né al sistema parlamentare o al liberalismo. Questa fu la vera ragione che mi spinse a emigrare».

Lo scoppio della guerra civile spagnola, il 18 giugno 1936, a seguito di un fallito colpo di Stato militare, sorprese M. a Toledo, sul punto di essere fucilato perché scambiato da miliziani repubblicani per un deputato di destra. In agosto riuscì a fuggire dalla Spagna rifugiandosi temporaneamente a Ginevra. A partire da questo momento M. criticò attivamente le due fazioni in lotta, una equidistanza che gli procurò l’ostilità di ambo le parti. Paradossalmente, in questo stesso anno fu proposta la sua candidatura per il premio Nobel per la pace.

La guerra spagnola e la situazione internazionale improntarono l’attività di M. nei due anni seguenti. Da una parte avviò una serie di contatti con diverse cancellerie con l’obiettivo ultimo di porre fine alla guerra, sia attraverso un accordo fra i due contendenti, sia attraverso un intervento delle potenze straniere. In questa circostanza emerse il “donchisciottismo” di M., il quale era convinto di avere i mezzi sufficienti per porre definitivamente fine al conflitto, e si impegnò personalmente nella creazione di una “Fondazione mondiale” per la promozione della pace e l’integrazione mondiale.

Nello stesso tempo M. svolse una intensa attività pubblicistica e scrisse varie opere sulla teoria delle relazioni internazionali chiaramente influenzate dalla sua esperienza nella Società delle Nazioni negli anni Trenta e dall’atteggiamento internazionale nei confronti della guerra civile spagnola (Theory and practice in international relations, 1937; Le grande dessein, 1939).

In realtà, in quel momento ci sarebbe voluto ben altro che non il prestigio politico, l’autorità morale e la capacità di azione di M. per porre fine alla guerra. Le sue proposte erano considerate dalle principali ambasciate “fantastiche e pericolose”, mentre la sua equidistanza dalle due fazioni spagnole in guerra gli attirava le ire sia della destra che della sinistra. Dopo il fallimento delle sue missioni – soprattutto dopo la caduta del gabinetto di Anthony Eden, suo principale sostenitore – M. si ritirò a Oxford, riprendendo la propria attività letteraria e universitaria e collaborando con la BBC.

Durante la Seconda guerra mondiale M dedicò tutte le sue energie al sostegno della causa degli Alleati e al ristabilimento della democrazia in Spagna, interpretando la crisi spagnola e la guerra mondiale come una conseguenza della perdita di libertà spirituale causata dai totalitarismi. Proseguirono nel frattempo i suoi tentativi di creare un governo alternativo a quello Franco in grado di ottenere il sostegno degli Alleati, scontrandosi ancora una volta con le fratture esistenti in seno all’opposizione antifranchista, assai frammentata.

Il secondo dopoguerra segnò l’inizio di una seconda tappa nell’attività internazionale di M., imperniata attorno all’obiettivo dell’unità europea. Nell’ambito della sua attività europeista M. fu eletto presidente dell’Internazionale liberale nel 1947 (Congresso dei partiti liberali europei di Bruxelles), presidente del Comitato culturale del Congresso dell’Aia nel 1948 e della Sessione culturale del Movimento europeo internazionale, infine, nel 1949, presidente del Collegio d’Europa a Bruges.

Parallelamente, i suoi attacchi a Franco tramite la radio e la stampa internazionali lo trasformarono in uno dei peggiori nemici del regime franchista. Infatti, M. finì per incarnare l’immagine di una Spagna civile, umanitaria, laica e democratica, a fronte della dittatura nazionale cattolica di fasciste matrice fascista rappresentata dal regime di Franco. La posizione indipendente assunta durante la guerra civile gli assicurava un grande prestigio politico.

Come europeista, M. cominciò ad acquistare notorietà a partire dall’invito da parte del Comitato internazionale di coordinament dei Movimenti per l’unità europea a partecipare a un Congresso sull’Europa svoltosi tra il 7 e il 10 maggio 1948 all’Aia. In questa occasione fu nominato presidente della Commissione culturale, incaricata di individuare i principi essenziali di una identità e di una coscienza europee. La Commissione costruita era costituita, oltre che da M., da altri illustri personaggi quali R. Aron (v. Aron, Raymond), L. Curtis, R. Dautry, T.S. Elliot, E. Gilson, K. Lindsay, A. Moravia, P. Montel, C. Morgan, J. Rathinger, B. Russell, C. Schmid (v. Schmid, Carlo), e D. Rougemont (v. Rougemont, Denis de).

In questa occasione M. pronunciò uno dei suoi discorsi più brillanti e senza dubbio il più conosciuto e il più citato: «Bisogna fare l’Europa. Siamo qui per questo, spinti da due sentimenti, uno negativo, la paura, e l’altro positivo, l’ispirazione creatrice dall’altra. L’Europa deve nascere affinché le nostre nazioni non muoiano. L’Europa deve nascere perché l’abbiamo concepita. Le tradizioni si completano. Il pericolo stimola l’essere e l’essere allontana il pericolo. Ma quel che uno e l’altro esigono è differente […]. Quest’Europa vivrà quando lo spirito che governa la Storia pronuncerà le parole: Fiat Europa».

La risoluzione approvata dal Congresso de L’Aia secondo la Commissione Culturale si proponeva di creare un organismo permanente con il compito di studiare la natura e la composizione di un Centro europeo della cultura. Questo organismo, senza essere posto sotto il controllo di alcun governo, avrebbe dovuto trasmettere ai cittadini l’idea di Europa, stimolando la presa di coscienza di una comunità europea per mezzo di informazioni e iniziative nel campo della stampa, della pubblicità, della radio e del cinema, così come nell’insegnamento dalle scuole secondarie e superiori.

Il primo passo in questa direzione fu la creazione nel febbraio 1949 nella Sezione culturale del Movimento europeo, presieduta da M., di un gruppo di studio per la creazione di un Centro europeo della cultura, che avrebbe convocato una Conferenza sulla cultura tenuta a Losanna nel dicembre dello stesso anno approvando nel contempo la creazione di tre organismi indipendenti: il Centro europeo della cultura a Ginevra, il Collegio europeo a Bruges e il Laboratorio europeo di fisica nucleare.

M. partecipò attivamente alle due prime iniziative. Presidente del Consiglio di direzione del Centro europeo della cultura tra il 1951 e il 1954 (incaricò che però lasciò di sua iniziativa), ebbe un ruolo da protagonista soprattutto nella creazione del Collegio europeo di Bruges.

L’idea di creare un’istituzione europea nell’ambito dell’istruzione superiore era un’aspirazione dei gruppi europeisti manifestata tanto all’Aia quanto a Losanna. Date le difficoltà del progetto, tuttavia, in un primo momento si cercò di promuovere un insegnamento europeo nelle università già esistenti mezzo attraverso una federazione europea del tutto autonoma rispetto agli Stati nazionali e alle pressioni politiche di qualunque tipo.

Questo approccio prudente derivava dalla posizione di M. e di Dennis de Rougemont, personalità tra le più influenti della Sezione culturale del Movimento europeo, i quali non ritenevano opportuno conferire a un’unica istituzione lo status di università europea, né credevano possibile creare una nuova città europea a questo scopo, tra le altre cose per la situazione economica e per la convinzione che ciò fosse consono all’obiettivo della costruzione di un’Europa unita.

Ciononostante, nel gennaio 1949 iniziò una serie di consultazioni tra Julius Hoste, M. e le autorità municipali di Bruges, fortemente europeiste, per valutare la possibilità di fare di questa città la sede di una università europea. La proposta finale fu la creazione di un istituto europeo di formazione postuniversitaria, un’idea alla quale M., negli anni Trenta, aveva fatto spesso riferimento. Poco dopo fu scelto il nome di Collegio d’Europa per tale istituto, finalizzato a sviluppare una coscienza europea, a rivitalizzare la sua base spirituale comune e a preparare i giovani ad una carriera europea. Dopo una sessione preparatoria nell’estate del 1949, nel biennio successivo ebbe inizio il primo corso accademico con Hendrik Brugmans come rettore.

Per quel che riguarda l’europeismo spagnolo, una settimana dopo il Congresso dell’Aia M. cercò di creare un Consiglio nazionale spagnolo del Movimento europeo tra gli esiliati. In prima istanza, cercò di ottenere l’appoggio del vecchio leader socialista Indalecio Prieto, il quale però si mostrò riluttante, influenzato dall’atteggiamento dei laburisti britannici nei confronti dell’unità europea e del Movimento europeo in generale, nonché dalla collaborazione di catalani e baschi. Difatti, durante la Seconda guerra mondiale, M. si era e scontrato a Londra con i nazionalisti baschi e catalani, sottolineando come fosse un errore politico per gli esiliati repubblicani non presentare un fronte compatto nelle varie manifestazioni politiche o culturali. Questa situazione, associata ad attriti personali e a problemi di protagonismo, avevano fatto naufragare i primi contatti.

I nazionalisti baschi, al pari di quelli catalani, tendevano alla costituzione differenziata di un consiglio basco ed uno catalano, tale obiettivo non era realizzabile all’interno del Movimento europeo per una serie di fattori: in primo luogo per l’immagine di disunione e di fallimento di fronte alla permanenza del franchismo offerta dall’opposizione democratica in esilio e il progressivo disinteresse occidentale per la “questione spagnola”; in secondo luogo per il fatto che l’opinione pubblica europea favorevole a formule di unione sopranazionale, e infine a seguito dei progressi compiuti dal processo di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), che avrebbero portato alla creazione dell’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa.

Di fatto, le illusioni alimentate da quella che si riteneva fosse un’imminente unione europea risvegliò convinsero gli esiliati spagnoli della necessità di reagire, di non perdere un’occasione che in futuro avrebbe potuto offrire prospettive concrete per la caduta del franchismo e il ritorno alla democrazia in Spagna. Tutto ciò rese possibile la creazione del Consiglio federale spagnolo del Movimento europeo (CFME) nel febbraio 1949, il quale, secondo il giudizio dello stesso M., era «la prova vivente del fatto che esisteva ed esiste tra gli spagnoli un’unione sufficiente per fondare proprio su quest’ultima un regime libero».

Per M. entrambe le linee di azione, quella europeista e quella spagnola, erano in realtà parte di una stessa concezione politica che emerse con la massima chiarezza nell’attività svolta negli anni Cinquanta dal CFEME, del quale egli fu presidente fino al 1966. Tra queste, per le ripercussioni e gli ulteriori sviluppi che ebbe, spicca il contributo di M. al IV Congresso del Movimento europeo internazionale, svoltosi tra il 5 e l’8 giugno del 1962 a Monaco, in cui 118 delegati spagnoli (80 provenienti dalla Spagna e 38 esiliati) di entrambe le fazioni belligeranti si riunirono per la prima volta dopo la guerra civile, conclusa 23 anni prima, al fine di cercare una soluzione per il futuro all’insegna del motto “Spagna-Europa”.

In occasione del Congresso, M. dichiarò: «La guerra civile, iniziata l’8 luglio 1936 e alimentata artificialmente dal regime franchista con la censura, il monopolio della stampa, della radio e le parate, è terminata l’altro ieri, il 6 giugno 1962», e aggiungeva: «quanti allora scelsero la patria perdendo la libertà, e quanti scelsero la libertà perdendo la patria si sono riuniti per percorrere il cammino che porterà insieme alla patria e alla libertà».

Senza dubbi, il Congresso di Monaco segnò una nuova tappa per l’opposizione democratica alla dittatura, allorché come condizione per l’ingresso della Spagna nella Comunità economica europea fu posto il rispetto di requisiti minimali di democrazia, condizione che avrebbe avuto un’influenza decisiva sul processo di transizione democratica avviatosi in Spagna alla morte del dittatore nel 1975.

Il Congresso si concluse con un ispirato discorso di M., il quale manifestò la sua fede nella idea europea e nelle sue ripercussioni sulla Spagna: «L’Europa non è solo un mercato comune né il prezzo del carbone o dell’acciaio; è anche, e soprattutto, una fede comune, il premio dell’uomo e la libertà. Non è forse essenziale per l’Europa che la vita pubblica sia condivisa da tutti i suoi membri?».

La repressione attuata dal regime contro quanti avevano partecipato al Congresso di Monaco (definito “congiura” dalla stampa di regime) si spiega col fatto che il governo di Franco si sentì minacciato da una possibile convergenza tra le diverse forze democratico in esilio e in patria dell’esilio che non avevano avuto, fino ad allora, l’opportunità di dialogare. Nella campagna diffamatoria messa in atto dal franchismo M. fu come definito un «decrepito osceno».

Gli ultimi anni della vita di M. furono contrassegnati da una serie lusinghiera di onorificenze e riconoscimenti. Nel 1964 gli fu conferito il Premio “Europa” della Fondazione Hans Deutsche della Svizzera; nel 1967 ricevette il Premio Goethe dalla città di Amburgo, con il quale la Germania riconosceva il ruolo da lui svolto nella costruzione dell’idea e della realtà europea. Infine nel 1973 ricevette il premio Carlomagno per «il suo fecondo lavoro critico e il suo contributo all’unità europea».

Tornato in Spagna nell’aprile del 1976, M. morì nel 1978, una settimana dopo l’approvazione referendaria della Costituzione della Spagna democratica.

Si può affermare che le idee di M. sull’Europa sono sintetizzate dal concetto di integrazione della diversità nell’unità sviluppato nel suo libro Bosquejo d’Europa, pubblicato nel 1951.

Seguendo il pensiero espresso da Ortega nel suo Meditación sobre Europa (1949), M. vedeva l’Europa esposta a una doppia minaccia nel secondo dopoguerra: quella dell’Unione Sovietica da una parte, e, dall’altra, quella delle «proprie tendenze suicide». Nonostante l’entusiasmo europeista manifestato da M. nell’immediato dopoguerra e il suo protagonismo al Congresso dell’Aia, egli riteneva che la crisi europea fosse tanto profonda da risultare quasi mortale per il continente. Ai suoi occhi l’ideale europeo doveva essere quello di «una unità cosciente di vita spirituale che avanza lungo i sentieri del sapere con piedi di piombo e dubbio socratico e lungo i sentieri dell’azione con audacia e spirito d’amor cristiano».

Questa prospettiva esigeva per M. una revisione della storia d’Europa al fine di costituire un’autentica identità europea che prescindesse dai pregiudizi storici e favorisse la mutua comprensione. Questo processo di comprensione dell’altro si nutre dei caratteri e dei tipi nazionali, dimodoché la coscienza comune si formi a partire dall’integrazione delle diversità imposta dall’esistenza delle identità nazionali. L’Europa avrebbe dovuto sviluppare una propria autocoscienza attraverso l’integrazione dei contrari.

Pur con queste concessioni al linguaggio esistenzialista del periodo postbellico, M. insisteva sull’importanza dei fattori psicologici. L’Europa è per sua costituzione una simbiosi armonica d’intelletto e volontà, di ragione e passione. Per questo, lo spirito europeo si manifesta nelle sue molteplici forme culturali e artistiche. Inoltre, il confronto dei miti letterari collettivi come incarnazioni dei tipi nazionali dava a M. la possibilità di sviluppare le sue tesi sulla lingua come espressione dei caratteri nazionali, a loro volta manifestazioni delle filosofie e psicologie collettive. L’Europa emerge così come un mosaico di diversità, pieno di sfumature e di termini differenti che si esprimono nelle idiosincrasie delle Lingue europee.

In questo processo di incontro e di scontro delle psicologie nazionali l’Europa emerge come una comunità dinamica e spirituale d’integrazione dei caratteri nazionali, in cui le rispettive lingue sono, a loro volta, origine e frutto del carattere nazionale.

Ricollegandosi a Ortega, M. considerava l’Europa non solo come risultato storico e culturale delle differenze nazionali, linguistiche, letterarie o psicologiche, bensì, di tutti quegli elementi che compongono l’identità di ciascuno dei paesi europei. L’unità d’Europa è inoltre, e innanzitutto, la conseguenza specificatamente europea di questo dialogo e questa apertura verso l’altro che si manifesta attraverso la convivenza e la concorrenza fra i paesi europei.

Juste Antonio Moreno (2010)




Maggioranza qualificata

Introduzione al sistema di voto nel Consiglio e suo funzionamento

L’articolo 205 del Trattato istitutivo della Comunità europea (CE) (v. Trattati di Roma) stabilisce le regole generali in materia di voto in seno al Consiglio dei ministri, ma sono poi le altre disposizioni del Trattato (v. anche Trattati) che attribuiscono a tale istituzione specifici poteri decisionali – le cosiddette basi giuridiche – a precisare caso per caso il metodo di voto applicabile. Il più originale ed anche il più applicato tra questi metodi è il voto a maggioranza qualificata.

Fin dalle origini il meccanismo del voto a maggioranza qualificata ha costituito un punto d’equilibrio tra il principio generale di diritto internazionale dell’uguaglianza degli Stati e il riconoscimento del fatto che, in realtà, ciascuno di essi ha un peso diverso. Tale meccanismo si fonda essenzialmente sulla ponderazione del voto (v. anche Ponderazione dei voti nel Consiglio), vale a dire sull’attribuzione a ogni singolo membro del Consiglio di un numero determinato di voti in funzione di criteri economici e demografici, nonché in funzione di considerazioni più complesse finalizzate a mantenere delicati bilanciamenti politici, a evitare la contrapposizione di blocchi stabili di Stati membri e soprattutto a disinnescare il latente conflitto tra Stati “grandi” e “piccoli”, alimentato dal timore della costituzione di un direttorio degli uni a scapito degli altri.

Attualmente, in virtù delle modifiche apportate dal Trattato di Adesione di Bulgaria e Romania, l’articolo 205 del Trattato CE stabilisce che i 27 Stati membri della Comunità economica europea si ripartiscono in seno al Consiglio un totale di 345 voti, così distribuiti: Francia, Germania, Italia e Regno Unito 29 voti; Polonia e Spagna 27 voti; Romania 14 voti; Olanda (v. Paesi Bassi) 13 voti; Belgio, Grecia, Portogallo, Repubblica Ceca e Ungheria 12 voti; Austria, Bulgaria e Svezia10 voti; Danimarca, Finlandia, Irlanda, Lituania e Slovacchia 7 voti; Cipro, Estonia, Lettonia, Lussemburgo e Slovenia 4 voti; Malta 3 voti (v. anche Paesi candidati all’adesione).

La maggioranza qualificata è raggiunta quando una deliberazione del Consiglio raccoglie almeno 255 voti favorevoli, il che corrisponde a una quota pari quasi al 74% del totale dei voti attribuiti. È inoltre necessario che i voti favorevoli siano espressi da una maggioranza delle 27 delegazioni nazionali – vale a dire almeno 14 Stati membri – qualora il Consiglio deliberi su proposta della Commissione europea e da almeno due terzi di tali delegazioni – vale a dire almeno 18 Stati membri – negli altri casi. Infine, qualora le due soglie di voti e di Stati membri favorevoli siano raggiunte, vi è ancora la possibilità per ogni membro del Consiglio di chiedere di verificare che gli Stati membri che compongono la maggioranza qualificata rappresentino almeno il 62% della popolazione totale dell’Unione europea. Qualora tale condizione aggiuntiva non sia soddisfatta, la maggioranza qualificata non è valida e il Consiglio non può quindi adottare la decisione in questione (v. anche Decisione).

La perdita del potere di veto per ogni singolo Stato costituisce il principale fattore di successo del sistema di voto a maggioranza qualificata rispetto al Voto all’unanimità, ma anche l’aspetto che ha provocato – e continua ancora a provocare – problemi in taluni Stati membri. In effetti, da un lato, la dinamica attivata dal metodo della maggioranza qualificata facilita il negoziato e il raggiungimento del compromesso in seno al Consiglio, dal momento che gli Stati che percepiscono il rischio di essere messi in minoranza divengono immediatamente più disponibili a farsi reciproche concessioni e preferiscono addivenire a posizioni consensuali. Tuttavia, d’altro lato, tale sistema implica una forte dose di fiducia reciproca tra i membri del Consiglio e l’accettazione di una potenziale compressione della sovranità nazionale, in quanto nei casi in cui uno Stato viene messo in minoranza è costretto ad accettare una decisione che produce conseguenze giuridiche anche nei suoi confronti e nei confronti dei suoi cittadini.

Compromessi raggiunti e riforme del sistema di voto in seno al Consiglio

Queste ultime considerazioni permettono di comprendere certe difficoltà di funzionamento del sistema, la più nota delle quali è quella relativa al cosiddetto Compromesso di Lussemburgo. Nel gennaio 1966 – al fine di disinnescare la crisi originata dalla cosiddetta “politica della sedia vuota” della delegazione francese, che da oltre sei mesi aveva sospeso la sua partecipazione alle riunioni del Consiglio a causa di una controversia in merito al finanziamento della Politica agricola comune – il Consiglio adottò appunto il Compromesso di Lussemburgo, un testo atipico sotto forma di comunicato, che formalizzava l’impegno dei sei Stati membri dell’epoca a cercare di definire soluzioni consensuali senza procedere subito al voto a maggioranza qualificata nei casi in cui fossero in gioco questioni di rilevante interesse per uno o più Stati. Il testo rendeva inoltre conto di una dichiarazione della delegazione francese secondo cui, in simili casi, un eventuale accordo avrebbe sempre richiesto il sostegno unanime dei membri del Consiglio. Pur ponendosi in conflitto con il chiaro disposto delle disposizioni del Trattato CE che prevedevano il voto a maggioranza qualificata, questa seconda parte del testo venne sostanzialmente fatta propria da tutte le delegazioni nazionali al Consiglio, le quali di volta in volta cominciarono a invocare l’esistenza di rilevanti interessi nazionali per bloccare l’adozione di decisioni a maggioranza qualificata in merito alle questioni più diverse. Si introdusse così per via di prassi un metodo di deliberazione per consenso, che comportava di fatto un diritto di veto per ogni Stato membro anche nei casi in cui ciò non era previsto dal Trattato CE, con conseguente rallentamento del processo di integrazione comunitaria (v. Integrazione, metodo della). Fu necessario attendere oltre vent’anni perché gli Stati membri decidessero finalmente d’invertire questa tendenza e di attivare una nuova dinamica favorevole al voto a maggioranza qualificata, che si tradusse, da un lato, in un’estensione dei casi di ricorso a tale metodo di voto nel Trattato CE a seguito delle riforme ivi introdotte dall’Atto unico europeo del 1986 e, d’altro lato, in una serie di modifiche regolamentari delle procedure di voto al Consiglio, che facilitavano in pratica un più rapido ricorso al voto e scoraggiavano dunque le pratiche dilatorie instaurate dal Compromesso di Lussemburgo, caduto da allora in desuetudine.

Il sistema della ponderazione tende per sua natura a comprimere le differenze demografiche tra gli Stati, riconoscendo a quelli più piccoli un peso proporzionalmente maggiore. Questa peculiarità è andata accentuandosi in seguito ai vari allargamenti (v. Allargamento) dell’Unione europea a paesi di dimensioni prevalentemente medie o piccole, che hanno provocato – almeno teoricamente – una progressiva riduzione della capacità degli Stati membri grandi o medio-grandi di influire sulle decisioni del Consiglio. Per fronteggiare tale problema fu dapprima elaborato il cosiddetto Compromesso di Ioannina (decisione del Consiglio del 29 marzo 1994, “Gazzetta ufficiale delle Comunità europee” n. C 105 del 13/4/94 – modificata da decisione del Consiglio del 1° gennaio 1995, “Gazzetta ufficiale delle Comunità europee” n. C 1 del 1/1/95), un nuovo modus vivendi che impegnava la presidenza di turno (v. anche Presidenza dell’Unione europea) a cercare in tempi ragionevoli un sostegno più largo per l’adozione di specifiche misure che inizialmente avessero incontrato l’opposizione di un gruppo di Stati membri consistente, ma tuttavia insufficiente per impedire formalmente la decisione. Successivamente, con il Trattato di Nizza del 2001 è stata prevista la nuova, attuale ponderazione che è certamente più favorevole ai grandi Stati: infatti il peso dei quattro Stati più popolati (Germania, Francia, Italia e Regno Unito) è quasi triplicato, passando dai 10 voti previsti in precedenza a 29; quello degli Stati di taglia media (Belgio, Grecia, Portogallo) è poco più che raddoppiato, passando da 5 a 12 voti; quello dei piccoli Stati (Lussemburgo) è semplicemente raddoppiato, passando da 2 a 4 voti. Nella stessa logica di riequilibrio, il Trattato di Nizza ha introdotto anche la precitata condizione aggiuntiva di natura demografica – il voto favorevole da parte di un gruppo di Stati membri che rappresentino il 62% della popolazione – che nella pratica è in grado di produrre effetti significativi soltanto in favore della Germania, in quanto è possibile che una coalizione di Stati raggiunga le soglie della maggioranza qualificata senza però soddisfare questa condizione solo in certi casi in cui proprio la Germania si opponga alla decisione.

Malgrado le modifiche strutturali appena accennate, il dibattito sulla necessità di definire il peso rispettivo degli Stati membri in maniera tale da meglio riflettere le differenze demografiche è continuato, dando luogo ad una più radicale riforma ideata nel quadro dalla Convenzione europea che aveva elaborato il trattato costituzionale mai entrato in vigore e ripresa poi sostanzialmente nel Trattato di Lisbona, che modifica gli attuali Trattati UE (v. Trattato di Maastricht) e CE. Questa riforma prevede in particolare, a decorrere dal 1° novembre 2014, la sostituzione del sistema della ponderazione con quello della Duplice maggioranza degli Stati e della popolazione; ai sensi dell’articolo 9c del Trattato UE modificato, la nuova maggioranza qualificata richiede il voto favorevole del 55% dei membri del Consiglio – e comunque di almeno 15 Stati membri – che totalizzino almeno il 65% della popolazione dell’Unione nel caso in cui il Consiglio deliberi su proposta della Commissione o, in materia di Politica estera e di sicurezza comune, su proposta del ministro degli Affari esteri dell’Unione.

La disposizione in questione precisa ancora, al fine di controbilanciare il rafforzamento dei grandi Stati, che la minoranza di blocco deve comprendere almeno 4 Stati. In effetti, in assenza di tale precisione, il criterio demografico permetterebbe a 3 tra gli Stati più grandi – le cui popolazioni rappresentano più del 35% della popolazione complessiva dell’Unione – di impedire al Consiglio di adottare una decisione. Una norma transitoria prevede inoltre il mantenimento dell’attuale sistema della ponderazione fino al 1° novembre 2014, nonché la possibilità per ciascuno Stato di chiedere l’applicazione di tale sistema, in luogo del nuovo sistema della doppia maggioranza, per ogni votazione che si tenga nel periodo compreso tra il 1° novembre 2014 e il 31 marzo 2017. In altri termini, il nuovo sistema sarà completamente e definitivamente applicabile soltanto a partire da quest’ultima data. Va aggiunto che l’articolo 205 del Trattato CE modificato (che sarà denominato Trattato sul funzionamento dell’Unione europea) riprende la norma secondo cui, nel caso in cui il Consiglio non deliberi su proposta della Commissione, è necessario un sostegno più ampio di Stati membri, in specie il voto favorevole del 72% dei membri del Consiglio che totalizzino almeno il 65% della popolazione dell’Unione. Infine, a margine della riforma in questione, gli Stati membri si sono accordati – Dichiarazione n. 4 allegata all’Atto finale della Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) – per adottare una decisione che, riprendendo la sostanza del Compromesso di Ioannina, impegna il Consiglio a non adottare subito certe decisioni a maggioranza qualificata e a continuare le sue deliberazioni per un tempo ragionevole al fine di definire soluzioni più consensuali, nei casi in cui si riscontri un’opposizione a tali decisioni da parte di un gruppo di membri del Consiglio pari almeno ai tre quarti delle soglie necessarie per formare una minoranza di blocco per il periodo compreso tra il 1° novembre 2014 e il 31 marzo 2017, o al 55% di tale minoranza a partire dal 1° aprile 2017.

Innalzando sia la soglia degli Stati membri che la soglia demografica necessarie per formare una coalizione vincente rispetto alla situazione attuale, questo nuovo – e al momento ipotetico – sistema di calcolo della maggioranza qualificata permette allo stesso tempo di soddisfare sia le rivendicazioni dei grandi Stati che quelle dei piccoli. Per di più, sebbene il sistema in questione sembri a prima vista facilitare la formazione di minoranze di blocco e dunque rendere meno agevoli le deliberazioni del Consiglio, esso dovrebbe in realtà poter accrescere la capacità decisionale di questa istituzione (v. Istituzioni comunitarie) grazie all’effetto derivante dalla soppressione dei voti ponderati; in effetti, la percentuale di coalizioni suscettibili di costituire la maggioranza qualificata (passage probability nella terminologia statistica) aumenta dall’attuale 4,5% a circa il 13%.

Stato attuale del sistema di voto, ambiti d’applicazione e sue prospettive future

La maggioranza qualificata costituisce oggi il metodo di voto più diffuso a seguito delle varie modifiche del Trattato CE che ne hanno ampliato progressivamente l’ambito d’applicazione, conformemente alla tendenza verso l’Approfondimento dell’integrazione e verso la realizzazione di un’unione sempre più stretta tra gli Stati e i popoli europei. Allo stato attuale, salvo rare eccezioni, il Consiglio delibera a maggioranza qualificata per adottare le misure relative alla realizzazione dell’unione doganale, del mercato interno (v. Comunità economica europea) e delle libertà di circolazione (v. Libera circolazione delle merci; Libera circolazione dei capitali; Libera circolazione delle persone; Libera circolazione dei servizi), nonché quelle concernenti l’attuazione di varie politiche della Comunità europea: ad esempio, agricoltura, Politica comune dei trasporti, Politica europea di concorrenza, Politica commerciale comune, Politica della salute pubblica, politica dei consumatori, Politica della ricerca scientifica e tecnologica, Politica ambientale, Politica europea di cooperazione allo sviluppo. Il Trattato di Lisbona prevede l’estensione di questo metodo di voto anche ad altri settori, in cui è attualmente previsto di norma il voto all’unanimità: ad esempio, visti, asilo, immigrazione (v. Politica dell’immigrazione e dell’asilo), Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, politica regionale e di coesione economico-sociale (v. Politica di coesione).

Come detto, nei casi invero alquanto rari in cui il Consiglio può agire anche in mancanza di una formale proposta della Commissione – ad esempio nell’ambito della politica economica e monetaria (v. anche Unione economica e monetaria) e della politiche in materia di sicurezza interna e di giustizia (v. anche Giustizia e affari interni) – è necessario per il raggiungimento della maggioranza qualificata un numero maggiore di Stati membri favorevoli; questa fattispecie è definita da alcuni commentatori “maggioranza qualificata rafforzata”. L’aggravamento del meccanismo di voto in questione trova la sua giustificazione nell’assunto secondo cui la Commissione incarna il superiore interesse generale comunitario e le sue proposte tendono a definire soluzioni equilibrate che tengono conto delle posizioni di tutti gli interessi in gioco, anche di quelli che in linea di principio appaiono minoritari. Per controbilanciare il deficit derivante dall’assenza di proposta della Commissione è dunque necessario un più largo sostegno da parte degli Stati membri. Questa medesima considerazione permette peraltro di comprendere la ragion d’essere dell’articolo 250 paragrafo 1 del Trattato CE – una delle disposizioni più importanti su cui si fonda il complesso e delicato equilibrio della meccanica comunitaria – secondo cui il Consiglio è obbligato a deliberare all’unanimità qualora voglia emendare una proposta della Commissione contro la volontà di quest’ultima, anche nel caso in cui teoricamente il Trattato preveda nel settore in questione l’adozione di decisioni a maggioranza qualificata.

Infine, alcune disposizioni del Trattato CE prevedono maggioranze qualificate speciali che non corrispondono alla definizione generale sopra evocata. In primo luogo, in tutti i casi in cui certi Stati membri non prendono parte all’attuazione di determinate politiche comunitarie – ad esempio la politica monetaria dell’Euro (articolo 122 paragrafo 5 del Trattato CE), le misure relative all’attraversamento delle frontiere interne nel quadro del cosiddetto “spazio di Schengen” (articolo 5 del protocollo sull’integrazione dell’acquis di Schengen nell’ambito dell’Unione europea), le azioni adottate nel quadro di eventuali altre cooperazioni rafforzate (articolo 44 paragrafo 1 del Trattato UE) – questi Stati non prendono parte alle votazioni in Consiglio e, di conseguenza, le soglie della maggioranza qualificata vanno ricalcolate senza prendere in considerazione i voti attribuiti a tali Stati, ma mantenendo le proporzioni previste (in particolare la soglia dei voti favorevoli rispetto al totale dei voti attribuiti deve corrispondere alla stessa percentuale prevista per la maggioranza qualificata ordinaria). Inoltre, in determinati casi sono previste formule del tutto peculiari: ad esempio, l’articolo 104, paragrafo 13, del Trattato CE in materia di sanzioni per deficit eccessivo prevede deliberazioni a maggioranza dei due terzi dei voti ponderati dei membri del Consiglio, con l’esclusione dal voto dello Stato direttamente interessato dalla decisione in questione; al contrario, l’articolo 156 del Trattato CE in materia di Reti transeuropee prevede che il voto a maggioranza qualificata sia accompagnato dall’approvazione dello Stato membro direttamente interessato al progetto sottoposto a decisione; infine, l’articolo 7 del Trattato UE in materia di sanzioni applicabili ad uno Stato membro che rischi di violare gravemente i principi fondamentali dell’Unione prevede la deliberazione del Consiglio alla maggioranza dei quattro quinti dei suoi membri, con l’esclusione dal voto del rappresentante dello Stato membro in causa.

Paolo Stancanelli (2008)




Major, John

Proveniente da una famiglia di umili origini, M. (Sutton 1943) crebbe a Brixton dove la famiglia si trasferì dopo il fallimento dell’azienda paterna. Aderì alla sezione giovanile del partito conservatore fin dal 1959 e sviluppò le sue abilità oratorie al mercato di Brixton (v. Major, p. 28). Studente non molto brillante, iniziò a lavorare a 16 anni contribuendo a risollevare la difficile situazione finanziaria della famiglia. A 18 anni, venne assunto al London electricity board a Elephant and Castle (v. Major, 1999, p. 30). Nel 1965, dopo aver seguito corsi per corrispondenza di tecnica bancaria, lavorò per la District Bank e in seguito per la Standard Bank of West Africa, per la quale trascorse un periodo in Nigeria. Tornato a Londra, divenne portavoce della direzione del Partito conservatore. Nell’aprile 1968 venne eletto nella circoscrizione di Lambeth.

L’esperienza come consigliere locale fu molto utile a M. per la sua carriera. Dopo la fusione della Standard Bank con la Chartered Bank, divenne responsabile del marketing per l’Africa e l’Asia, incarico che lo portò a viaggiare molto. Conseguì la laurea nel 1972 e nel 1976 divenne il primo direttore del dipartimento di pubbliche relazioni della nuova banca nata dalla fusione, la Standard Chartered Bank. Perseguì contemporaneamente la carriera politica candidandosi nel 1974 per un seggio parlamentare nella circoscrizione di St. Pancreas. Perse con il 28,3% dei voti e il seggio rimase ai laburisti (v. Seldon, 1998, p. 44).

Il primo impegno politico di M. sulle questioni europee si ebbe con il referendum di giugno del 1975 sulla permanenza del Regno Unito nella Comunità economica europea (CEE), sebbene non sia chiaro quale fosse la sua posizione all’epoca (v. Seldon, 1998, p. 46). Scelto come candidato dei conservatori nel distretto di Huntingdonshire, conquistò un seggio parlamentare alle elezioni politiche del 1979. Fu allora che M. sviluppò le sue abilità politiche nel collegio gestito da Sir David Renton sin dal 1945. Il più giovane deputato alla Camera dei Comuni, M. continuò a battersi per le questioni a lui più note: l’edilizia e il governo locale. Ciò contribuì a creargli la fama di “conservatore di sinistra”, in seguito attenuata dalle posizioni assunte sulle questioni economiche (v. Seldon, 1998, p. 54).

Nel 1982 M. aderì al Blue chip group, un gruppo progressista di deputati nato nel 1979, favorevole all’integrazione europea. Gli anni Ottanta furono un periodo caratterizzato da intensi conflitti e dibattiti sulle questioni europee tra i conservatori. Sebbene ci fossero notevoli divisioni all’epoca dell’adesione sotto la leadership di Edward Heath e persino durante il dibattito riguardo all’Accordo di Fontainebleau sulla compensazione britannica, fu alla fine degli anni Ottanta che l’Europa, con il progetto dell’Unione economica e monetaria (UEM), divenne un elemento rilevante di divisione (v. Cowley, Garry, 1998, p. 480). Il progetto causò una serie di dimissioni nel governo Margaret Thatcher e preannunciò l’importanza delle questioni europee per le elezioni del 1990.

In quegli stessi anni M. quale riuscì a guadagnare gradualmente i favori della Thatcher, che nel 1986 lo nominò ministro della Sicurezza sociale. Durante quell’incarico M. subì vari attacchi dai laburisti e dal suo stesso partito in merito ai sussidi di disoccupazione e dalla stampa sulla riduzione dei sussidi per l’emergenza invernale del 1987.

Nel 1987 M. fu viceministro al Tesoro e nel 1989 rivestì la carica di ministro degli Affari esteri per tre mesi, da luglio a ottobre. A causa del conflitto interno tra i conservatori sulla questione europea, durante il suo mandato non prese posizione. Poco dopo, divenne cancelliere dello Scacchiere, a seguito delle dimissioni di Nigel Lawson. In queste vesti dovette affrontare la questione dell’adesione britannica al meccanismo di cambio (Exchange rate mechanism, ERM). Nel tentativo di trovare un compromesso con la posizione della Thatcher, M. non escluse l’adesione all’ERM, ma presentò il problema come una questione di tempi. Per M., l’ingresso nell’ERM era «un mezzo per raggiungere uno scopo, cioè una migliore gestione dell’economia nazionale e relazioni più armoniose con i partner della Gran Bretagna» (v. Seldon, 1998, p. 111). Ciò gli permise anche di familiarizzare con gli altri ministri europei delle finanze in seno al Consiglio dei ministri dell’economia (ECOFIN). In questo periodo, sostenne la creazione della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (BERS) proposta dal presidente François Mitterrand e ne difese la causa di fronte a una Thatcher scettica. M., che intendeva trovare un compromesso sul progetto dell’UEM rifiutato dalla Thatcher, rilanciò l’idea di una “ECU forte” (v. Unità di conto europea), una moneta europea in circolazione accanto alle valute nazionali da utilizzare per transazioni commerciali e personali, senza arrivare a una moneta unica europea, che a suo avviso presentava enormi difficoltà e pericoli. Il dibattito sull’ERM non si era ancora esaurito, ed era ferma convinzione di M. che l’ERM avrebbe fornito alla Gran Bretagna uno strumento per combattere l’inflazione. L’ingresso britannico nell’ERM avvenne il 5 ottobre 1990, mettendo fine ai tassi d’interesse del 15% di cui l’economia britannica aveva beneficiato fino a quel momento.

Nell’autunno del 1990 si aprì la corsa per la leadership del partito conservatore. Dopo lo scontro con Michael Heseltine e il ritiro della Thatcher, M. alla fine riuscì ad affermarsi grazie al sostegno di Douglas Hurd. Sebbene M. non avesse la maggioranza necessaria, entrambi i suoi avversari annunciarono che non avrebbero concorso al terzo ballottaggio. M., quindi, divenne leader del partito e primo ministro (v. Cowley, Garry, 1998, p. 474).

Quando M. divenne primo ministro, i conservatori erano seriamente divisi sulle questioni europee, partito una spaccatura che si approfondì in vista degli imminenti negoziati sul Trattato di Maastricht. In tale contesto, M. era ritenuto un «candidato di compromesso, un pragmatico che rifuggiva ogni ideologia» (v, Turner, 2000, p. 142). Per evitare scontri all’interno del suo partito, M. decise di tenere l’Europa in secondo piano nell’agenda politica, dando a molti l’impressione di essere un gollista e un euroscettico (v. Turner, 1998, p. 143) (v. Euroscetticismo). Durante i negoziati sul Trattato di Maastricht M. riuscì a far eliminare in parte la terminologia federalista utilizzata nel progetto di trattato (v. Federalismo), battendosi per l’inclusione del concetto di “sussidiarietà” (v. Principio di sussidiarietà) e fece in modo che il capitolo sociale rimanesse al di fuori dalla cornice del Trattato. A giugno, il Regno Unito assunse la presidenza del Consiglio (v. anche Presidenza dell’Unione europea) e dovette far fronte a una serie di eventi difficili: la situazione in Bosnia, il rifiuto danese del Trattato di Maastricht e diversi attacchi speculativi sulle valute europee che costrinsero la sterlina a uscire dall’ERM il 16 settembre 1992, noto come il “mercoledì nero”. In altre parole, «la presidenza semestrale UE si era trasformata da trionfo della diplomazia britannica a un esercizio di riduzione del danno» (v. Wallace, 1994, p. 295).

Il “mercoledì nero” svolse un ruolo importante nella sconfitta del 1997dei conservatori, che da quel momento in poi continuarono a accumulare sconfitte elettorali. «L’uscita forzata della Gran Bretagna dall’ERM assestò un duro colpo a due delle più importanti e correlate politiche di Major: l’Europa e l’economia» (v. Turner, 1998, p. 161). La difficile ratifica in Parlamento del Trattato di Maastricht con alcuni ribelli tra le file dei conservatori che votarono contro, coincise con una serie di sconfitte alle elezioni locali. Gli ultimi due anni della leadership di M. furono contrassegnati dal suo ostruzionismo verso un’ulteriore integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). La vicenda della mucca pazza lo portò a seguire una campagna di non cooperazione con il veto posto a 72 misure che richiedevano l’unanimità (v. Turner, 1998, p. 171).

Con la perdita della maggioranza in Parlamento, M. indisse le elezioni politiche per il marzo 1997. I conservatori si ritrovarono ostaggio del dibattito sull’Europa. La vittoria schiacciante del new labour e l’amara sconfitta dei conservatori, rimasti con soli 165 seggi, mise fine al premierato di M. Dopo le sue dimissioni, avvenute il 2 maggio 1997, M. rimase deputato nella circoscrizione di Huntingdon e cedette la leadership a William Hague un mese dopo. Da allora, è stato deputato al parlamento senza incarichi e membro dell’Advisory Board europeo del Carlyle Group, un fondo di investimento di private equity.

Sarah Wolff (2005)




Malagodi, Giovanni Francesco

M. (Londra 1904-Roma 1991) derivò dalla famiglia una forma mentis cosmopolita, la convinzione di appartenere alla classe dirigente, una formazione non comune per ricchezza di stimoli. Nel 1926 si laureò in giurisprudenza a Roma con 110 e lode, discutendo con Gaetano Mosca una tesi che, grazie all’intercessione di Benedetto Croce, sarebbe stata pubblicata dalla Laterza due anni dopo col titolo Le ideologie politiche. L’aver riflettuto sulle ideologie da giovane, nel contesto culturale degli anni Venti, condizionò l’attività pubblica di M. fino alla morte, portandolo a concepire la politica contemporanea come uno scontro ultimativo fra il fascismo e il comunismo da un lato, e il liberalismo democratico – ossia l’Occidente – dall’altro.

Nel 1927 M. si impiegò nella Banca commerciale (COMIT). Fino al 1930 viaggiò per l’Istituto in Grecia, negli USA, nel Regno Unito, e soprattutto in Germania. Dal 1930 al 1937, negli anni della grande crisi economica e finanziaria, fu a Milano, nella sede centrale dell’Istituto, dove lavorò a stretto contatto con Raffaele Mattioli sia al salvataggio della Commerciale e alla sua riconversione da banca d’affari in banca di credito ordinario, sia alla creazione della Società finanziaria industriale Italiana (Sofindit) prima e dell’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI) poi. Nell’aprile del 1937 fu nominato direttore generale della Banca francese e italiana per l’America del Sud (Sudameris), e si trasferì a Parigi. Nel febbraio del 1940 la Direzione generale di Sudameris fu trasferita da Parigi a Buenos Aires. M. rientrò in Italia nella primavera del 1947 con la carica di direttore centrale della COMIT.

Nell’estate di quello stesso anno, conservando la propria posizione nella Commerciale, M. partecipò alla Conferenza parigina sulla Cooperazione economica europea quale consulente del governo italiano per le questioni bancarie e monetarie. Nell’aprile del 1948, quando nacque l’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE), fu chiamato a far parte della delegazione permanente italiana. Da quel momento in poi, e fino al 1953, rappresentò l’Italia in conferenze e organismi internazionali, oltre a svolgere opera di consulenza per il governo. Nell’agosto del 1949 fece parte del “comitato dei saggi” OECE che arbitrò la suddivisione degli aiuti del Piano Marshall. Nel 1950 fu nominato presidente del Comitato manodopera dell’OECE, incarico al quale dedicò molte energie e che lo portò a occuparsi dell’emigrazione italiana. A quella presidenza sarebbe stato riconfermato nel 1952, e l’avrebbe abbandonata soltanto nel 1953 in seguito all’elezione a deputato. Nel luglio del 1950 con Attilio Cattani fu l’estensore del memorandum italiano per l’integrazione economica europea, il cosiddetto “Piano Pella” (v. Pella, Giuseppe). Fra la fine del 1950 e l’inizio del 1951 partecipò con Alcide De Gasperi e Carlo Sforza alla Conferenza di Washington sulle materie prime. Nel 1951-1952 fu membro della delegazione italiana presso l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), e nel settembre del 1951 partecipò alla Conferenza atlantica di Ottawa. Queste attività collocano M. all’interno di quel ristretto gruppo di “tecnici” (fra gli altri Guido Carli, G. Cigliana Piazza, C. Bresciani Turroni, F. Giordani) che alla fine degli anni Quaranta e all’inizio dei Cinquanta avviarono la reintegrazione soprattutto ma non solo economica dell’Italia nel mondo euroatlantico.

In questa sua opera di grand commis d’Etat e di consulente del governo per le questioni economiche e internazionali M. fu guidato da un insieme di principi tanto semplice quanto chiaro e strutturato, della cui validità cercò costantemente di convincere la classe dirigente italiana, sia politica sia amministrativa sia economica. In primo luogo la fiducia nella civiltà occidentale e l’opinione ferma che col comunismo non dovesse scendersi a patti per nessuna ragione. Poi, la convinzione che l’Occidente dovesse procedere il più rapidamente possibile verso una più stretta integrazione sovranazionale; che qualsiasi tentativo di integrazione non dovesse tuttavia in alcun modo rischiare di spezzare l’unità del mondo libero, aprendo fratture all’interno dell’Europa o fra l’Europa e gli Stati Uniti; che l’integrazione infine, pur dovendo senz’altro avere una componente economica fondamentale, non potesse in alcun modo ridursi a quella, dovendo al contrario ancorarsi a un disegno ben più alto e ambizioso di protezione e diffusione di valori spirituali (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). In terzo luogo, la persuasione che per la ricostruzione dell’Italia la dimensione internazionale fosse imprescindibile, e che la Penisola dovesse quindi partecipare a tutte le iniziative di integrazione, prendendo se del caso pure l’iniziativa, e aprirsi il più possibile all’aria politica ed economica dell’Occidente.

Alla fine del 1952 M. assunse un importante incarico di consulenza presso Confindustria e, d’accordo con l’organo di rappresentanza degli imprenditori, si candidò con successo alla Camera per il Partito liberale italiano. Nell’aprile del 1954 fu eletto segretario generale del partito – una carica che avrebbe abbandonato soltanto nel 1972, nel momento in cui sarebbe diventato ministro del Tesoro nel secondo governo di Giulio Andreotti. La segreteria M. si caratterizzò per un rapporto molto stretto – di convergenza e cooperazione, però, mai di subordinazione – fra il Partito liberale italiano (PLI) da un lato e Confindustria e Confagricoltura dall’altro; per un importante sforzo di rilancio organizzativo del partito; per il rifiuto di qualsiasi ipotesi di “grande destra” che prevedesse un’alleanza fra i liberali e i neofascisti del Movimento sociale; per la fedeltà all’alleanza centrista e l’opposizione fermissima a qualsiasi ipotesi di allargamento della maggioranza di governo al Partito socialista italiano, che il leader liberale riteneva non si fosse distaccato a sufficienza dal marxismo nella teoria e soprattutto da un Partito comunista organicamente legato a Mosca nella pratica. In politica estera il PLI di M. si schierò su posizioni di contrapposizione ferma dell’Occidente al blocco sovietico e sostenne con convinzione sia il processo di integrazione europea sia la partecipazione italiana a quel processo, considerando l’Europa un possibile partner e anche contrappeso degli Stati Uniti, ma rifiutando qualsiasi interpretazione “terzaforzista” dell’integrazione che vi vedesse un momento di rifiuto o indebolimento della solidarietà atlantica. Sulla base di queste posizioni, il PLI raggiunse nelle elezioni del 1963 il suo massimo storico del 7%. Consolidatosi tuttavia il centrosinistra, il partito si trovò politicamente emarginato, e negli anni perse progressivamente suffragi fino a giungere al suo minimo storico dell’1,3% nella tornata del 1976. Nel gennaio del 1979 M. perse definitivamente il controllo del partito, nel quale sarebbe comunque rimasto presente e attivo fino alla morte.

Oltre che nel PLI, fra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta M. si impegnò anche assiduamente nell’Internazionale liberale (IL). Dopo esserne stato vicepresidente, ne fu presidente dal 1958 al 1966 e poi nuovamente dal 1982 al 1989, e presidente d’onore dal 1974 al 1982 e dopo il 1989. Dell’Internazionale volle soprattutto concentrare gli sforzi intellettuali, incentrandone i congressi annuali su specifici argomenti che commissioni apposite dovevano istruire. Nel 1964, per dare ai rapporti che si intrecciavano intorno all’IL uno sbocco più specificamente politico, introdusse la prassi degli incontri periodici fra i leader liberali. Negli anni Ottanta cercò di rafforzare i legami dell’Internazionale liberale coi singoli partiti liberali e di consolidarne le finanze; ne sollecitò una revisione dello Statuto che la rendesse più agile e politicamente efficace; creò dei collegamenti con le Nazioni Unite e promosse la collaborazione con le altre internazionali, socialista e democristiana, sui temi della democratizzazione, soprattutto dell’America Latina. Nel 1967 preparò la bozza della Dichiarazione di Oxford del 1967, aggiornamento del Manifesto del 1947 sul quale l’Internazionale liberale si fondava. Nel 1980-1981 presiedette il comitato incaricato di preparare la bozza d’un nuovo documento programmatico, da cui sarebbe uscito l’appello di Roma del 1981. Superati nei primissimi anni Cinquanta i timori che esso potesse risolversi in un elemento di divisione economica e politica dell’Occidente, del processo di integrazione europea l’Internazionale liberale fu una convintissima sostenitrice, richiedendone anzi con sempre maggiore convinzione lo sviluppo del versante politico. Dell’europeismo liberale M. fu senza alcun dubbio non soltanto del tutto partecipe, ma anche un convinto protagonista. Al congresso dell’IL di Firenze del 1974 presentò una corposa relazione su La realizzazione dell’Unione Europa come contribuito alla stabilità e alla pace mondiali.

Il 22 aprile del 1987 M. fu eletto presidente del Senato della Repubblica – carica che avrebbe tenuto per poche settimane. Dal febbraio 1989 al maggio 1990 fu professore a contratto presso l’Università di Siena, insegnando sulle questioni inerenti al processo di unificazione europea.

Giovanni Orsina (2012)




Malfatti, Franco Maria

M. (Roma 1927-ivi 1991) ha esercitato la professione di giornalista e si è dedicato fin da giovane all’azione politica, facendo parte tra il 1949 e il 1951 della corrente di Giuseppe Dossetti. Come delegato nazionale del movimento della Gioventù democratico-cristiana prese parte al Congresso di Ostia della DC del febbraio 1951, aderendo in seguito al gruppo Nuove cronache di Amintore Fanfani. Membro della Direzione centrale della DC, diresse l’Ufficio di propaganda, l’Ufficio delle attività culturali e la casa editrice 5 Lune. Fu anche anche direttore de “Il Popolo” e “La Discussione”. Scrisse su alcune riviste di riferimento storico della DC, tra le quali “Per l’Azione”, dei giovani, “Cronache Sociali” del gruppo dossettiano, e “Nuove Cronache” del gruppo fanfaniano. Nel 1958 per la prima volta fu eletto alla Camera dei deputati per la circoscrizione Perugia-Terni, rinnovando il proprio mandato per otto legislature, fino alle elezioni del 1987.

Tra il 1958 e il 1980 ricoprì diversi incarichi nel governo italiano. Dopo essere stato sottosegretario all’Industria e al Commercio, agli Affari esteri, al Bilancio e alla Programmazione, nel 1969 divenne ministro delle Partecipazioni statali, incarico che lasciò l’anno dopo, nel giugno 1970, per essere nominato, primo italiano a ricoprire tale ruolo, presidente della Commissione europea. La Commissione presieduta da M. entrò in carica il 2 luglio 1970, in un momento particolarmente importante nella storia della Comunità europea (v. anche Comunità economica europea), che viveva il passaggio da una Comunità a Sei a una Comunità a Dieci. M. espresse fin dall’inizio la sua ferma intenzione che la Commissione non risultasse estranea da un passaggio così rilevante. Le decisioni prese al Vertice dell’Aia del dicembre 1969, dopo l’uscita di scena di Charles de Gaulle, avevano aperto una nuova fase di sviluppo e rafforzamento dell’integrazione (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). I nuovi cantieri della costruzione europea erano l’apertura dei negoziati di Adesione con quattro paesi candidati (Regno Unito, Irlanda, Danimarca e Norvegia), l’inizio dei lavori di due Comitati, che portano il nome di Pierre Werner ed Étienne Davignon, incaricati di formulare proposte (v. Rapporto Werner) sulla realizzazione di un’Unione economica e monetaria e sul rafforzamento della cooperazione in materia politica (v. Cooperazione politica europea), la crescita del ruolo del Parlamento europeo attraverso nuovi poteri di bilancio (v. Bilancio dell’Unione europea). M., leader politico non di primo piano, fino a quel momento con scarsa conoscenza delle questioni europee, seppe scegliere a Bruxelles collaboratori con grande esperienza degli affari comunitari, tra i quali Renato Ruggiero come capo di gabinetto.

L’inizio degli anni Settanta vide attenuarsi nelle relazioni internazionali il bipolarismo rigido che aveva caratterizzato il periodo iniziale della Guerra fredda, per muoversi verso un multipolarismo che esigeva una presenza europea che sarebbe stata più autorevole quanto più unitaria. Assumendo le sue funzioni di Presidente della Commissione europea, M. riteneva fondamentale superare il settorialismo della Comunità davanti ai principali appuntamenti sulla scena internazionale: il negoziato multilaterale nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del commercio (GATT) sulle relazioni commerciali nel 1973, la riforma del sistema monetario internazionale, la ridefinizione globale dei rapporti dell’Europa ampliata con gli Stati Uniti, inclusa una nuova distribuzione delle responsabilità in materia di difesa. Preoccupavano le tensioni transatlantiche, soprattutto in materia commerciale, che scaturivano dai timori statunitensi verso l’Europa allargata. Proprio per questo M., ottenuto il consenso dei governi, propose al presidente Nixon, in occasione della sua visita a Washington nell’aprile 1971, l’apertura di un negoziato multilaterale in seno al GATT. Per migliorare il dialogo con le realtà emergenti dal superamento del bipolarismo, la Commissione M. intensificò i rapporti della Comunità con il Giappone, il Canada, la Cina. Altre direzioni della proiezione esterna della Comunità, i paesi in via di sviluppo, l’Europa dell’Est, richiedevano un’attenzione aggiornata. I paesi europei dell’Est in particolare chiedevano, anche in previsione dell’Allargamento, di sviluppare accordi commerciali e di cooperazione economica con la Comunità, mentre da parte dell’Unione sovietica era venuta la proposta di una Conferenza europea sulla sicurezza. Fu questo uno dei primi temi che M. dovette affrontare, preoccupato che la Commissione, e il suo presidente, non fosse lasciata ai margini delle prime prove della Cooperazione politica europea, cioè la preparazione e la partecipazione della Comunità alla Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE). All’interno del Comitato politico istituito sulla base del Rapporto Davignon fu creato su insistenza del presidente M. un gruppo ad hoc sulla CSCE, in modo che la Commissione europea fosse presente quando erano chiamate in causa le Competenze comunitarie, gruppo nel quale i commissari affiancavano i delegati nazionali nello studio degli aspetti economici del negoziato. Mentre un sottocomitato a carattere intergovernativo (v. anche Cooperazione intergovernativa) aveva competenza sulle altre tematiche legate a un nuovo sistema di “sicurezza” europea.

Importante per il presidente della Commissione era stabilire il principio che la cooperazione politica tra i governi dei paesi membri iniziasse in stretto collegamento con le Istituzioni comunitarie, e non al di fuori come si era prefigurato nel 1962 con i progetti Fouchet (v. Piano Fouchet). Il ruolo della Commissione ormai non poteva essere rimesso in discussione. Nel perseguire questo obiettivo M. ebbe il sostegno del governo italiano. Il ministro degli Esteri Aldo Moro lo invitò infatti a Roma il 5 novembre 1971, per partecipare alla riunione dei ministri degli Esteri della Comunità e dei quattro Paesi candidati all’adesione che doveva affrontare proprio i problemi sollevati dalla CSCE e dalla partecipazione della Commissione nel quadro della Conferenza.

La concezione del carattere politico della Commissione europea fu affermata da M. fin dall’inizio. Il 24 settembre 1970 in occasione della sua prima visita a Parigi, durante il colloquio all’Eliseo con Georges Pompidou, di fronte alle cautele del presidente francese verso il ruolo dell’esecutivo comunitario, M. richiamò l’importanza che attribuiva al rafforzamento del ruolo politico della Commissione, facendo notare che «se volevate un tecnocrate o un eurocrate avete sbagliato nella vostra scelta». Al Presidente del Consiglio francese, Jacques Chaban-Delmas, dopo aver ribadito che la Commissione era un’istituzione politica che doveva avere alla testa un uomo politico, non esitò a dichiarare: «Se volete un tecnocrate mi dimetto».

I negoziati di adesione con i quattro paesi candidati, che si aprirono a Bruxelles il 21 luglio 1970, furono indubbiamente il principale compito che M. dovette affrontare subito dopo il suo insediamento. Anche attraverso un’intensa attività diplomatica, egli difese con forza il ruolo della Commissione nello svolgimento dei negoziati e si adoperò affinché questi non si trasformassero in una “guerra di cifre”, perdendo di vista l’obiettivo politico dell’allargamento. Di fronte al rallentamento dei negoziati, soprattutto a seguito delle divergenze tra i partner comunitari e il governo di Londra sul contributo finanziario britannico al bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea), M. ebbe un ruolo decisivo nel superare le difficoltà scaturite dall’irrigidimento di Pompidou e della diplomazia francese. L’esito positivo dei negoziati di adesione il 22 giugno 1971, dopo estenuanti trattative, fu anche un successo personale del presidente della Commissione, che si era impegnato personalmente a condurre a termine il negoziato, e sulle cui proposte in tema di bilancio si era lentamente formato un consenso tra i Sei e gli inglesi. Esprimendo il proprio rammarico al momento dell’annuncio delle dimissioni dalla presidenza della Commissione, lo stesso governo di Londra riconobbe a M. di avere contribuito molto al successo delle trattative.

Dopo la decisione presa il 15 agosto 1971 dal presidente Nixon di porre fine alla convertibilità del dollaro in oro, M. si dichiarò subito favorevole alla proposta avanzata all’inizio della crisi monetaria, il 19 agosto 1971, dal presidente francese Pompidou relativamente alla convocazione «al momento opportuno» di un vertice europeo. Di fronte al rischio che i paesi membri attuassero politiche nazionali divergenti e fosse degradata tutta la realtà della costruzione europea, M. prese l’iniziativa di scrivere una lettera ai capi di Stato e di governo dei paesi membri della Comunità. La lettera, scritta il 10 settembre 1971 e conservata presso gli Archivi storici delle Comunità europee a Firenze insieme alle altre carte di M., è un’importante testimonianza dell’iniziativa politica assunta dalla Commissione M. in un momento cruciale dell’integrazione comunitaria. La lettera sottolineava non solo lo stretto nesso politico esistente tra i problemi monetari e il rafforzamento della Comunità, sia sul piano delle sue istituzioni che delle politiche, ma individuava anche nelle riunioni al vertice dei capi di Stato e di governo uno strumento utile di impulso (v. Vertici). Decisioni al più alto livello politico avrebbero infatti potuto consentire un’azione efficace per superare i contrasti rimasti irrisolti in sede di Consiglio. La Commissione M. puntava a fare del vertice un evento comunitario, e non relegarlo solo a un passaggio intergovernativo.

Pieno appoggio all’iniziativa di M. fu comunicato già il 22 settembre dal governo italiano, che condivideva sia la necessità di salvaguardare gli sviluppi politici e economici delle Comunità, che l’opportunità di una conferenza al vertice. Più a lungo si fece attendere la risposta del presidente francese Pompidou, che arrivò il 27 ottobre 1971. Risposta che, oltre a riconoscere il ruolo «fecondo e utile» svolto dalla Commissione nella gestione della crisi apertasi a seguito delle decisioni americane, spianava di fatto la strada al vertice, pur sottolineando che doveva essere «accuratamente preparato». In questa preparazione si nascondevano non poche insidie per la Commissione, che M. riuscì a evitare. Soprattutto non doveva essere esclusa da una riunione, che non rientrava nelle articolazioni istituzionali e procedurali della Comunità, quando erano discusse questioni comunitarie. Ciò che premeva al presidente M. era garantire il carattere e il ruolo politico della Commissione, e non vederla ridotta a un semplice segretariato. Con fermezza e costanza difese pertanto la presenza e la partecipazione attiva della Commissione a quello che sarebbe stato il primo vertice della nuova Comunità allargata, così come agli incontri per la sua preparazione. Il 28 febbraio 1972, in sede di Consiglio dei ministri degli affari Esteri della Comunità, dopo che alcuni paesi, tra cui la Francia, si erano espressi con cautela nei confronti della conferenza al vertice, fu M. a insistere per l’iscrizione del punto “Conferenza al vertice” all’ordine del giorno dei lavori del Consiglio (v. anche Consiglio europeo), ottenendo alla fine soddisfazione dal presidente di turno, il lussemburghese Gaston Thorn (v. anche Presidenza dell’Unione europea). M. ribadì l’importanza di dare una strategia unitaria alla costruzione europea, eliminando l’innaturale divisione tra aspetti politici e aspetti economici. Egli riteneva che la Commissione dovesse partecipare a ogni discussione, anche quelle concernenti progressi in campo istituzionale e politico, ed essere quindi pienamente associata ai lavori preparatori del Vertice. La data dell’intervento di M. in Consiglio, il 28 febbraio 1972, è importante. Alla vigilia dell’annuncio ufficiale, il 2 marzo, delle sue dimissioni a seguito della decisione di candidarsi alle elezioni anticipate in Italia, costituisce infatti una testimonianza importante di come M. mantenesse fermo il suo impegno in qualità di presidente della Commissione a tutelare ruolo e possibilità di azione politica dell’esecutivo comunitario e, al tempo stesso, delle esitazioni dei governi di fronte alle proposte della Commissione.

Il vertice ebbe poi un lungo iter di preparazione e si tenne a Parigi il 19-20 ottobre 1972, con la partecipazione anche dei paesi che sarebbero entrati nella Comunità il 1° gennaio 1973. Soltanto nove dei dieci partner che avevano negoziato il trattato di allargamento (v. anche Trattati) furono però presenti, a seguito della risposta negativa dei norvegesi in occasione del referendum sull’adesione alla Comunità. Nonostante M. si fosse adoperato a favore di un ruolo incisivo per l’organismo da lui presieduto, la Commissione partecipò ai lavori del Vertice di Parigi solo quando furono discusse le questioni comunitarie. Non si può non rilevare che la parte più insoddisfacente delle conclusioni raggiunte a Parigi fu proprio quella relativa agli sviluppi istituzionali dell’Europa comunitaria.

A causa delle prospettive aperte all’inizio degli anni Settanta dall’istituzione del sistema delle Risorse proprie e dall’aumento dei poteri di bilancio del Parlamento europeo, la Commissione M. procedette nel luglio 1971 all’insediamento del gruppo ad hoc presieduto dal costituzionalista francese Georges Vedel, che fu incaricato di studiare l’insieme dei problemi connessi con l’ampliamento delle competenze del Parlamento europeo e di presentare proposte in merito. Né va trascurato che si adoperò per accelerare il processo di unificazione economica e monetaria. Durante il suo incarico M. trovò nel governo italiano un sostanziale appoggio verso le iniziative di rafforzamento della Comunità e del ruolo della Commissione. Tuttavia, non mancò di fare pressioni sulle autorità di Roma perché fossero superate le perplessità nutrite sull’attuazione dell’Unione economica e monetaria (UEM) per le difficoltà derivanti dalle inferiorità strutturali rispetto agli altri partner, e perché l’Italia mantenesse l’impegno dell’introduzione dell’imposta sul valore aggiunto.

Nell’esercizio delle sue funzioni come presidente della Commissione M. fu certo più prudente del secondo membro italiano designato insieme a lui come commissario, Altiero Spinelli. Peraltro, come si evince dalla lettura dei diari dell’esponente federalista (v. anche Movimento federalista europeo), tra i due non vi furono solo divergenze, talvolta aspre, di vedute. In più di un’occasione si ritrovarono su una linea comune. In particolare, entrambi condividevano la convinzione che fosse necessario evitare che gli sviluppi della cooperazione politica e del coordinamento in politica internazionale, al di fuori del campo d’azione della Comunità in quanto tale, finissero per portare a un indebolimento delle Comunità stesse, se non a una loro riduzione in termini puramente economici. In sostanza a una perdita di slancio politico.

Il presidente M. non sempre ebbe rapporti facili con l’insieme del collegio dei commissari, di cui faticò in alcuni casi a mantenere la coesione interna. In particolare, non furono buoni i rapporti con i due commissari tedeschi, Wilhelm Haferkamp e Ralf Dahrendorf. Con quest’ultimo, a seguito di alcuni articoli pubblicati nel 1971 su “Die Zeit” con lo pseudonimo “Wieland Europa”, articoli fortemente critici verso la stessa Commissione, le tensioni furono maggiori.

Prima della scadenza del suo mandato, che essendo stato nominato per due anni sarebbe terminato il 30 giugno 1972, M. il 2 marzo 1972 annunciò che si sarebbe dimesso per candidarsi alle elezioni anticipate italiane del 7 maggio. Una decisione presa dopo «approfondita riflessione». A indurlo a compiere questo passo non furono probabilmente estranei, oltre alle sirene della politica italiana, i contrasti con i governi di fronte alle proposte della Commissione. A seguito delle critiche e discussioni provocate dalla decisione di M. lo stesso Spinelli affermò di ritenere ingiustificata ogni critica, in quanto la forza delle cose, per il fatto stesso che non esisteva una carriera politica europea, lo costringeva a scegliere il ritorno alla vita politica nazionale.

M. ritenne di lasciare una Commissione che aveva tenuto fede al suo ruolo di iniziativa politica in un momento in cui l’inefficienza del sistema istituzionale comunitario richiedeva progressi in campo politico. Le dimissioni anticipate di M. hanno poi finito per oscurare tutta la sua azione in qualità di presidente della Commissione. Grazie alla disponibilità di nuove fonti archivistiche è ormai possibile una valutazione obiettiva, che consente di individuare gli aspetti positivi di una presidenza attiva, che ha saputo muoversi con impegno e successo nella difficile fase del negoziato di adesione e della preparazione della conferenza al vertice.

Nella misura in cui dimostrava il limitato interesse del mondo politico italiano per le questioni comunitarie nel momento in cui nuove prospettive si aprivano all’integrazione, la scelta di M. di lasciare anticipatamente la presidenza della Commissione ha tuttavia influito negativamente, non tanto sul prestigio europeo dell’Italia come spesso è stato sostenuto, quanto su una presenza italiana incisiva e concreta nelle istituzioni europee.

Nell’ottobre 1972 M. fu eletto dalla Camera dei deputati quale membro della rinnovata delegazione italiana al Parlamento europeo. Per la prima volta un ex presidente della Commissione europea entrava al Parlamento europeo. L’esponente politico italiano teneva così fede all’affermazione che aveva fatto lasciando Bruxelles e cioè che non avrebbe abbandonato l’Europa.

Per un breve periodo – dall’agosto 1979 al gennaio 1980 – quando si dimise per motivi di salute, M. ricoprì l’incarico di ministro degli Esteri. Nel 1987, fu chiamato ad assumere la guida della delegazione italiana presso l’Unione dell’Europa occidentale (UEO). Nel 1989 il segretario politico della DC Arnaldo Forlani lo nominò capo della segreteria politica.

Marinella Neri Gualdesi (2010)




Malta

Storia delle relazioni tra Malta e Comunità/Unione europea

Malta ottenne l’indipendenza il 21 settembre 1964 dopo 150 anni di dominio britannico, proprio l’anno in cui entrò in vigore l’attuale Costituzione. Malta allora aderì al Consiglio d’Europa e alle Nazioni Unite. L’isola rimase membro del Commonwealth e la regina inglese continuò a essere il capo di Stato simbolico. Il futuro di uno Stato indipendente maltese dipendeva dall’economia. Era necessaria una completa ristrutturazione economica per renderla meno dipendente dalle spese inglesi per la difesa e al contempo una diversificazione per allentare la dipendenza dagli scambi con l’ex colonizzatore. I due partiti principali che tuttora dominano la scena politica erano il Partito laburista maltese (o Partit laburista, PL) e il Partito nazionalista (o Partit nazzjonalista, PN). Avendo scalzato il PL alle elezioni del 1962, il PN iniziò a sviluppare un’economia basata sul turismo. Dopo le elezioni del 1971, quando venne eletto Dom Mintoff del PL come primo ministro, le relazioni strette con il colonnello libico Gheddafi assicurarono a Malta ingenti aiuti economici.

Considerata la disastrosa situazione economica, la sua posizione periferica, la mancanza di materie prime e un mercato interno di meno di 400.000 persone, Malta cominciò a muovere i suoi primi passi verso lo sviluppo di relazioni con il blocco europeo di allora, la Comunità economica europea (CEE), costituita nel 1957. Sebbene il PN avesse firmato nel 1970 un accordo di Associazione con la CEE come primo passo verso l’adesione a pieno titolo all’organizzazione (v. De Battista, 2006), Dom Mintoff era interessato ad allargare la portata dell’accordo. L’amministrazione del PL riteneva l’accordo uno strumento economico piuttosto che una dichiarazione politica.

Nel 1974, la Costituzione venne riformata e Malta diventò una Repubblica con il suo primo presidente (Sir Anthony Mamo). Sebbene Mintoff fosse stato un tempo sostenitore dell’integrazione con il Regno Unito, egli perseguì una politica estera di non allineamento e rinominò la sterlina maltese “lira”. Tuttavia, l’arcipelago maltese dipendeva ancora da una presenza straniera a Malta; forniva all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) una base militare e la Gran Bretagna era ancora presente militarmente. L’accordo militare con la Gran Bretagna terminò nel 1979 e Mintoff, per liberarsi per sempre da occupazioni straniere, stabilì una clausola di neutralità nella costituzione. Allo scopo di garantire una protezione militare per la Neutralità di Malta, negoziò un accordo con l’Italia che avrebbe offerto assistenza finanziaria e intervento militare nel caso in cui Malta fosse stata minacciata (un accordo ancora valido). Nel 1981, il primo ministro Mintoff propose un’«unione più stretta» e chiese alla CEE un nuovo accordo che avrebbe portato a una «particolare relazione tra Malta e la CEE» e a un impegno maggiore da parte della CEE in materia finanziaria, economica e politica. Tuttavia, la CEE non approvava ciò che considerava l’erosione della democrazia a Malta come conseguenza del governo autocratico di Mintoff né vedeva di buon occhio i forti legami di Mintoff con la Libia. Forse erano poco apprezzate le intenzioni di Mintoff di ottenere il meglio da entrambi i mondi nello scenario della Guerra fredda. Mintoff entrò anche in contrasto con la Chiesa cattolica.

Nel 1984, il PN salì al potere e tentò di stabilire nuovi e più stretti legami con gli Stati Uniti e con l’Europa occidentale. Nel 1987, Malta venne dichiarata uno Stato neutrale e non allineato, senza alcuna base militare o interferenza straniera. Il governo di Eddie Fenech Adami attuò ampie riforme economiche che stimolarono la crescita. Nel luglio 1990, il PN propose la candidatura di Malta alla CEE. Questo fu un importante cambiamento politico per l’arcipelago maltese, che fino a quel momento non aveva perseguito l’obiettivo dell’adesione a pieno titolo alla CEE. Nel 1993, la Commissione europea pubblicò una Relazione contenente un parere favorevole (aggiornata nel febbraio 1999). Il summit UE di Corfù nel giugno 1994 stabilì che la fase successiva dell’Allargamento dell’UE avrebbe coinvolto Cipro e Malta. In quel periodo si ottenne la piena occupazione, il turismo registrò il livello più alto mai raggiunto e Malta andò incontro a un boom economico che portò alla nascita di una nuova classe media, istruita e socialmente liberale. Il partito dei Verdi, Alternattiva Demokratika, (AD, Alternativa democratica) si presentò alle elezioni del 1992 con una piattaforma contenente preoccupazioni ambientali e diritti civili, ottenendo quasi il 2% dei voti, una percentuale che mantenne alle elezioni successive.

Adesione di Malta all’UE

Nel 1992, il PN ottenne una larga maggioranza e si impegnò in riforme economiche e fiscali. Tuttavia, quando a metà degli anni Novanta l’economia subì un rallentamento e fu introdotta l’impopolare IVA (imposta sul valore aggiunto), il PN perse il sostegno. Seguendo l’esempio del primo ministro britannico Tony Blair, Alfred Sant, leader del principale partito d’opposizione ed economista di Harvard, rinnovò l’immagine del PL secondo i principi del new labour e ottenne la vittoria alle elezioni del 1996. L’amministrazione laburista “congelò” la domanda di adesione di Malta alla CE adottando un’agenda di politica estera “graduale” e Sant portò avanti l’idea di una “Svizzera del Mediterraneo”. Il suo partito promosse un modello di associazione alla CE sull’esempio dell’Associazione europea di libero scambio (EFTA). Il motivo principale per questa linea di politica estera era che un piccolo paese come Malta aderendo all’UE avrebbe presto perso la tanto faticosamente conquistata (nel 1979 per i laburisti) indipendenza “dallo straniero” per via delle direttive emesse da Bruxelles.

Il congelamento della candidatura maltese all’UE e l’imposizione di un bilancio rigoroso portò ai primi segni di divisioni all’interno del Nuovo partito laburista maltese. Le misure economiche di Sant colpirono duramente la classe operaia. Ciò portò il vecchio ed ex leader laburista Mintoff a un’azione di boicottaggio in parlamento votando contro vari disegni di legge. Con l’aumentare del malcontento all’interno del Nuovo PL, Sant non poté far altro che richiedere elezioni immediate nel settembre del 1998 che fecero ritornare il PN al governo. La domanda di adesione all’UE di Malta venne riattivata e i negoziati formali ebbero inizio nel 2000. Su 31 capitoli in totale di negoziato dell’Acquis comunitario, Malta ne aveva chiusi 20 alla fine del 2001, ma i restanti 11 comprendevano alcune delle questioni più spinose, in particolare i capitoli su tassazione, ambiente e concorrenza. Le parti più controverse dei negoziati sull’ambiente riguardavano la caccia degli uccelli e l’uso di trappole per la loro cattura, non perché questo fosse il problema ambientale principale del paese, ma perché la diffusione di queste attività come passatempo principale di migliaia di persone era tale da poter influenzare il risultato delle serrate competizioni elettorali a cui Malta era abituata. Forse il maggiore successo si ottenne sul capitolo sulla concorrenza, dove fu concesso di continuare a sovvenzionare l’industria cantieristica e di riparazioni navali statale ai tassi di allora per i primi quattro anni di adesione. Fu un’eccezione e la Commissione chiarì che non doveva essere considerato un precedente, poiché era stata compiuta alla luce della particolare importanza storica e politica che questa industria rivestiva per Malta. Nel complesso, il trattato di adesione sottoscritto, che prevedeva un finanziamento netto di 194 milioni di euro per i primi tre anni di adesione, era più che soddisfacente confrontato con quello di altri paesi candidati (v. anche Criteri di adesione).

L’adesione all’Unione europea (UE) fu il tema dominante della politica del paese fino al referendum svoltosi nel marzo 2003, che divise il paese ancora una volta in due fazioni che ricalcavano le divisioni di partito. Dopo i successi ottenuti al referendum sull’UE nel marzo 2003 e alle elezioni generali il mese successivo, il governo di centrodestra (PN) di Fenech Adami portò avanti ulteriori politiche di libero mercato. Malta entrò nell’UE il 1° maggio 2004.

Nel febbraio 2007 Malta seguì Cipro nel presentare la propria candidatura di adesione all’Euro entro il 2008. Il primo ministro Lawrence Gonzi presentò tale richiesta alla riunione dei ministri delle finanze svoltasi il 27 febbraio 2007 a Bruxelles. Nel 2007 il disavanzo pubblico di Malta era previsto essere pari al 2,4% del PIL, quindi al di sotto della percentuale del 3% stabilita dall’UE, e l’inflazione all’1,6%, più bassa della soglia fissata al 2,6%. Il tasso di inflazione aveva suscitato in precedenza alcune preoccupazioni, e alcuni temevano che la proposta di Malta sarebbe finita come la richiesta della Lituania nel 2006, che mancò l’obiettivo per 0,1 punti percentuali (la proposta della Lituania di adottare l’euro nel 2007 stata venne rifiutata). I tentativi compiuti dal governo maltese per ridurre il deficit pubblico, soddisfacendo il criterio principale dell’area dell’euro di non superare il 3% del PIL, andarono a scapito del debito pubblico che alla fine del 2006 si aggirava intorno al 70% del PIL, superando la soglia dell’UE del 60%. La percentuale era insolita rispetto a quella di altri nuovi Stati membri, tra cui solo l’Ungheria registrava livelli simili di debito, mentre la media di altri paesi dell’Europa centrale e orientale era di circa il 25%. Secondo alcuni analisti la regola del debito pubblico non era stata applicata rigidamente in precedenza nel caso dell’Italia, del Belgio e della Grecia. La decisone finale sia per quanto riguardava Malta che per Cipro fu presa al summit dei leader europei nel giugno 2007 e i due paesi entrarono nell’eurozona il 1° dicembre 2008.

Ruolo svolto dai partiti politici nel dibattito sull’UE

La rivalità storica tra il PN e il PL richiama le divisioni tra élites e lavoratori e tra la popolazione urbana e rurale, che in una certa misura sono ancora esistenti a Malta. La polarizzazione della politica maltese è profonda e comprende anche divisioni linguistiche. I due partiti sopraccitati sono gli unici partiti rappresentati in parlamento. Essi hanno le proprie reti televisive, le loro stazioni radio e i loro quotidiani nonché una rete di sezioni di partito e di comitati sparsi in tutta l’isola. Il Partito nazionalista possiede un canale televisivo, NET television, una radio, Raio 101, e recentemente ha creato un quotidiano online, “Maltarightnow”. Il Partito laburista possiede One TV (ex Super one television), Super one radio nonché il settimanale in uscita la domenica, il “KullHadd” e un quotidiano online al sito www.maltastar.com.

A dispetto della sua storica avversione all’adesione all’UE, il PL accettò il risultato del referendum del 2003, riconoscendo l’attrazione che questa sembrava esercitare soprattutto sui giovani, e modificò il suo orientamento passando dall’isolamento all’interdipendenza. Abbandonando il modello di Alfred Sant di una “Svizzera del Mediterraneo”, il partito adottò inizialmente un modello di “partenariato”, che indicava un rapporto di collaborazione più stretta con l’UE senza gli impegni e il carattere permanente dell’adesione. Ciò nonostante, il concetto di partenariato rimase astratto e difficile da comunicare, anche perché i portavoce della Commissione non nascosero il loro disinteresse verso un modello a cui bisognava ancora dare una forma specifica. In seguito, il PL dichiarò che se fosse salito al potere non avrebbe cercato in alcun modo di tener fuori Malta dall’UE, anche se ciò determinò uno scontro all’interno del partito e la minaccia di spaccature. Ciò, fortunatamente per il PL, non avvenne e fu emesso un documento di compromesso (approvato dal Congresso generale del partito) in cui si sosteneva che il partito, pur accettando la volontà del popolo, si impegnava a lottare contro le difficoltà derivanti dall’adesione. Il PL partecipato partecipò con successo alle elezioni per il Parlamento europeo, ottenendo il 60% dei seggi disponibili per Malta. Attualmente il partito è membro del Partito socialista europeo (PSE).

L’atteggiamento dell’opinione pubblica verso l’UE

In un sondaggio condotto nell’ottobre del 2004, sei mesi dopo l’adesione di Malta all’UE, una grande maggioranza di maltesi riteneva di poter mantenere o migliorare la propria situazione finanziaria e la qualità della propria vita. I risultati quindi indicavano che i maltesi pensavano di poter sostenere le sfide poste dalla ristrutturazione economica del paese. Ciò poteva anche riflettere la crescente importanza attribuita ai settori della vita non finanziaria, quali la qualità dell’ambiente, e al ruolo dell’UE nell’introdurre livelli qualitativi più alti in tali settori. L’età dei partecipanti al sondaggio influiva sulle percezioni relative alle prospettive della qualità della vita. Erano soprattutto gli appartenenti alle fasce d’età tra i 15 e i 24 anni che prevedevano un miglioramento della loro vita nel giro di un anno. Nel medio termine (5 anni), circa metà dei partecipanti riteneva che la propria situazione personale sarebbe migliorata. Tuttavia, dietro queste previsioni ottimistiche e in termini di aspettative a medio termine, traspariva un alto livello di pessimismo sulle prospettive future dell’economia del paese. I partecipanti compresi nella fascia d’età tra i 40 e i 54 anni erano i meno ottimisti riguardo alle loro prospettive di vita. E questo risultato rispecchiava le difficoltà che i campioni di età più matura prevedevano di dover affrontare a causa del cambiamento dell’ambiente di lavoro. La percentuale di maltesi che sosteneva di non sapere quale posizione avrebbe raggiunto nel giro di cinque anni era la più alta tra quella registrata negli allora 25 paesi membri dell’UE. In realtà, confrontando i sondaggi condotti nei 25 paesi membri, i partecipanti maltesi davano maggior rilievo alla situazione economica, ma esprimevano minore preoccupazione riguardo ad altre questioni quali per esempio la criminalità.

Dal sondaggio risultò che i maltesi ritenevano di avere un “modesto” livello di conoscenza dell’Unione europea. Tale percezione era collegata alle opinioni dei partecipanti riguardo all’adesione di Malta all’UE e i livelli più scarsi di conoscenza dell’UE erano percepiti dai contrari all’adesione. Tuttavia, alle domande sulle nozioni di base riguardanti l’UE, i partecipanti maltesi ottennero ottimi risultati rispetto a quelli raggiunti dai partecipanti degli altri 25 Stati membri. Le campagne di informazione condotte prima del fondamentale referendum sull’adesione all’UE del 2003 e le elezioni dei rappresentanti al Parlamento europeo del giugno 2004 suscitarono l’interesse della popolazione. Il basso livello di conoscenza “percepita” e il livello relativamente alto di “reale” conoscenza delle questioni fondamentali erano in netto contrasto. Ciò poteva in parte riflettere l’aspirazione dei maltesi a capire il funzionamento dell’UE nei dettagli. La televisione era di gran lunga la fonte più popolare di informazioni sull’UE, seguita dalla radio e dai quotidiani. Una classifica compilata in base all’età mostrava che la televisione era lo strumento più popolare per tutte le fasce, ma la meno popolare nella fascia compresa tra i 15 e i 24, che preferiva internet per ricercare informazioni sull’UE. Una suddivisione dei partecipanti in base alla loro professione indicava che tra gli studenti, internet era ancora più popolare della televisione. Il livello di informazione sulle istituzioni dell’UE risultava molto alto tra i partecipanti maltesi.

Dal sondaggio dell’ottobre 2004 emerse che la percentuale di partecipanti convinti che l’adesione di Malta all’UE avrebbe portato a uno sviluppo positivo del loro paese era diminuita dopo il picco massimo registrato nell’autunno del 2003. Tuttavia, questo calo non determinò un aumento della percentuale di coloro che ritenevano l’adesione all’UE dannosa per il paese. Al contrario, si verificò uno spostamento verso l’opinione che l’adesione avrebbe prodotto un effetto nel complesso neutro. Tale cambiamento rifletteva probabilmente una consapevolezza maggiore che le sfide del paese, in particolare quelle relative alle finanze pubbliche e alla concorrenza internazionale, non potessero risolversi soltanto con l’adesione all’UE. In quel momento, invece, sembrò che ci fosse una crescente accettazione del fatto che tali sfide richiedevano soluzioni all’interno del paese. Alla domanda su cosa pensassero dei progetti e delle politiche chiave dell’UE, i maltesi risposero che approvavano soprattutto l’insegnamento del funzionamento dell’UE ai bambini nelle scuole, una Commissione europea composta da Commissari di ogni Stato membro e un ulteriore allargamento dell’UE. Al pari di altri Stati membri, i maltesi espressero uno scarso sostegno all’idea che ci fosse un gruppo di paesi che procedeva con un ritmo più veloce rispetto ad altri alla costruzione dell’Europa. I maltesi furono anche i più incerti sulla possibilità di sostenere o meno l’unione monetaria, e ciò era dovuto a una mancanza di informazioni a questo riguardo in quel momento.

Per molti maltesi, l’UE significava soprattutto libertà di viaggiare, studiare e lavorare nonché avere più voce in capitolo nel mondo. Ciò rifletteva il desiderio di superare attraverso l’adesione all’UE alcuni degli svantaggi di vivere in un piccolo Stato isola, in particolare l’insularità. Inoltre essi associavano l’UE alla pace e alla democrazia. La percentuale di maltesi che erano convinti che l’UE fosse associata alla prosperità economica fu molto alta in confronto alla media degli allora 25 Stati membri. La maggior parte dei maltesi era anche convinta che la voce di Malta avrebbe contato nell’UE e che in futuro il paese avrebbe acquisito maggiore influenza nell’UE. Sul fronte internazionale, i maltesi ritenevano che l’UE avesse raggiunto ottimi risultati nella Lotta contro il terrorismo e in generale nelle relazioni esterne. Nel complesso, i maltesi espressero un livello di paura minore riguardo alla costruzione dell’Europa rispetto ai partecipanti degli altri 25 Stati membri. Come negli altri Stati membri, manifestarono un alto livello di preoccupazione riguardo al trasferimento di posti di lavoro verso i paesi con costi di produzione più bassi. Altra fonte di preoccupazione era l’aumento del traffico di droga e della criminalità organizzata internazionale, facilitato probabilmente dall’eliminazione dei controlli transfrontalieri e dalla Libera circolazione delle persone. Su un altro versante, i maltesi non ritenevano che l’adesione all’UE avrebbe causato il declino dell’uso della lingua maltese o la perdita della loro identità nazionale: in effetti, essi espressero un forte senso di identità europea. La percentuale di maltesi che si identificavano esclusivamente con la propria nazionalità era più bassa di quella registrata in generale nei 25 Stati membri. La maggior parte dei maltesi riferì di sentirsi ugualmente maltesi ed europei, sebbene le donne tendessero a esprimere un minor senso di identità europea rispetto agli uomini (v. anche Cittadinanza europea). Da questo sondaggio dell’ottobre 2004 risultò anche che il sostegno alla Costituzione europea era sceso al 56% dal 70% della primavera del 2003. In generale, il livello di sostegno di Malta fu anche più basso rispetto a quello dei 25 Stati membri. Circa un quarto dei partecipanti sostenne di essere incerto sul proprio sostegno alla Costituzione. Tra i 25 Stati membri UE di allora e i paesi candidati, i partecipanti maltesi espressero il livello più basso di sostegno all’uso di una forza di reazione rapida di fronte a situazioni di crisi internazionali.

Dopo 18 mesi di adesione all’UE, i partecipanti maltesi erano un po’ più positivi riguardo ai vantaggi derivanti dall’adesione. Più della metà riteneva che Malta avesse tratto dei benefici dall’adesione. Erano soprattutto gli uomini e gli appartenenti alla fascia d’età tra i 40 e i 54 anni a percepire maggiori vantaggi rispetto alle loro controparti. Le donne e gli appartenenti alla fascia d’età tra i 25 e i 39 anni non erano così convinti di tali vantaggi. Un altro dato importante fu che circa un quarto dei giovani partecipanti non aveva alcuna opinione in merito. Le percentuali di “europragmatici” e “antieuropeisti” erano leggermente aumentate. Gran parte dei maltesi ricadeva nella prima categoria, e ciò indicava che la stragrande maggioranza della popolazione era in grado di riflettere sugli aspetti positivi e negativi dell’UE. A sostenere il futuro e ulteriore allargamento dell’Unione europea era la maggioranza dei maltesi, i quali avevano una posizione più positiva rispetto a quella diffusa in tutta l’UE. Il paese meno sostenuto dai partecipanti maltesi risultava la Turchia. Tuttavia, rispetto alla media europea i maltesi erano meno contrari all’adesione turca.

Conclusioni

Secondo uno studio condotto in tutta Europa nel 2007, circa 8 maltesi su 10 avrebbero voluto un referendum sulla possibilità o meno di concedere più poteri all’UE attraverso un nuovo trattato costituzionale e il 44% avrebbe votato contro. In merito all’euro, altra questione su cui verteva il sondaggio, i maltesi sembravano essere più favorevoli. La maggioranza degli intervistati maltesi si espresse a favore dell’introduzione dell’euro, con un tasso di approvazione del 46%, il secondo più alto tra i 14 Stati membri UE che non fanno ancora parte dell’area dell’euro. I risultati, tuttavia, indicavano che il 41% avrebbe preferito mantenere la lira maltese.

Piccoli Stati come Malta hanno alcune cose in comune. In particolare, nell’ambito dell’adesione all’UE, devono affrontare la sfida di dover negoziare con Stati più grandi e spesso più potenti. A causa dei disuguali poteri contrattuali, i piccoli Stati devono spesso scendere a compromessi, rinunciando a volte a importanti obiettivi nazionali e cedendo alle richieste degli Stati più grandi. Al contempo, gli Stati piccoli non rappresentano una minaccia per nessuno. Ciò diventa un vantaggio poiché consente agli Stati come Malta di fungere da interlocutori nel processo di integrazione (v. Integrazione, metodo della). È importante che i piccoli Stati si impegnino a far sentire la propria voce e per farlo devono sedersi al tavolo dell’UE. I piccoli Stati così come i grandi hanno ciascuno le proprie specificità. Quindi, ognuno contribuisce in modo diverso al processo di integrazione dell’UE. Il contributo di Malta è condizionato dal suo background storico e dalla sua posizione geografica. In merito alle relazioni esterne dell’UE, Malta ha agevolato, e continuerà a farlo, il dialogo con i partner vicini tra i quali l’importante Medio Oriente e la regione nordafricana. Su scala più ampia, Malta è stata coinvolta in diverse iniziative internazionali. Nel 1982, partecipò all’iniziativa sul diritto marittimo che ha portò all’adozione della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare come patrimonio comune dell’umanità. Nel 1988 avanzò una proposta sulla tutela del clima globale che riteneva i cambi climatici un interesse comune dell’umanità e che portò ad adottare la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici a cui fu allegato il Protocollo di Kyoto. Il processo continuo di integrazione europea darà più voce in capitolo a paesi come Malta nei diversi settori, incluso il decision-making nell’ambito delle regioni d’Europa.

Michelle Pace (2008)




Malvestiti, Piero

M. (Apiro, 1899-Milano 1964), dopo aver completato la propria formazione presso alcuni istituti religiosi, partecipò come volontario alla Prima guerra mondiale ricevendo la croce di guerra al merito. Al rientro dal fronte, congedato per le gravi lesioni riportate nel corso del conflitto, iniziò a lavorare per la Banca popolare di Milano, riprendendo anche i contatti con le realtà associative cattoliche in cui era cresciuto. Attivo propagandista della Gioventù cattolica milanese, rifiutò di aderire alla sezione locale del Partito popolare sturziano, mantenendo tuttavia rapporti di collaborazione con il mondo sindacale e del lavoro. In particolare, l’attenzione verso quest’ultimo aspetto costituirà un tratto ricorrente del pensiero e dell’attività politica di M. La sua traduzione del riferimento al cattolicesimo nell’impegno pubblico rivelerà la forte influenza delle istanze solidali e sociali della Rerum Novarum di Leone XIII senza tuttavia mai declinare verso quelle tendenze di “sinistra regolare” che, invece, avrebbero caratterizzato altri filoni del cattolicesimo politico organizzato. Sarà, la sua, la ricerca di una soluzione cattolica alle questioni economiche e sociali attraverso l’affermazione della partecipazione alla gestione d‘impresa, della ripartizione degli utili senza penalizzare il sistema produttivo: in altre parole, il tentativo di affermare un modello economico solidale e sociale che non rinnegasse i presupposti del capitalismo, ma mirasse a correggerne gli errori e le inefficienze.

Gli anni tra le due guerre segnarono per M. un passaggio decisivo nella direzione di una riflessione più matura sul ruolo dei cattolici nello Stato. Deciso avversario del fascismo, non rinuncerà a contestare la linea conciliante della Chiesa sancita dalla firma del Concordato nel 1929, promuovendo un’opera di preparazione e crescita politico-culturale dei ceti potenzialmente antifascisti, ma rassegnati ad accettare la volontà totalizzante del regime. In questa direzione avrebbe scelto di fondare, nel 1928, il Movimento guelfo d’azione partendo dalla necessità di combattere il fascismo attraverso la sua condanna come «regime di classe» retto «sul sacrificio e sull’oppressione della classe lavoratrice». Lo slogan della propaganda del gruppo era sintetizzato nella formula «Cristo Re e Popolo-Popolo e Cristo Re», che esprimeva l’aspirazione a un ideale di democrazia identificato con i valori del cristianesimo, tuttavia non orientato a una cristianizzazione delle istituzioni e dello Stato. Il cattolicesimo non era di per sé una forza politica poiché, in quanto realtà spirituale, non in grado di formulare programmi o di identificarsi con un partito. Esso rimaneva, però, un principio cui gli uomini potevano ispirarsi, godendo di quel «punto di vista privilegiato sul mondo» che concedeva loro la possibilità di rispondere meglio di altri alle necessità di una società provata dalla dittatura e dalla guerra.

L’antifascismo cattolico del gruppo di Milano traeva la sua derivazione ideologico-culturale dal duplice richiamo alle tematiche proprie dell’intransigenza ottocentesco da una parte, e del cattolicesimo liberale lombardo di Jacini, Casati, Gallarati Scotti dall’altra. Un connubio originale e, a tratti, apparentemente contraddittorio che tuttavia avrebbe trovato una concreta attuazione nell’apporto che il gruppo avrebbe dato alla fondazione della Democrazia cristiana.

Per M. la collaborazione con Alcide De Gasperi sarebbe stata preceduta dalle persecuzioni subite da parte del fascismo, dalla condanna a 5 anni di reclusione emessa dal Tribunale speciale e dalla partecipazione attiva alla guerra partigiana. L’imminenza della caduta del regime creava le condizioni per dare concretezza a quel discorso ideologico-politico, nelle sue applicazioni di ordine economico e sociale, avviato nella clandestinità del ventennio e pronto per venire allo scoperto.

Tra la fine del 1942 e l’inizio del 1943, a Borgo Valsugana, avevano così inizio i contatti tra i neoguelfi e gli ex popolari; nel luglio del 1943, M. diffondeva un documento, il Programma di Milano, che definiva l’impegno programmatico del movimento per la successione al regime. Nonostante l’affermazione del gruppo ex popolare alla guida della DC, M. non rinunciò, almeno fino alla inaugurazione della stagione centrista, a svolgere un ruolo dialettico e di critica concreta alla politica degasperiana. Consigliere nazionale, direttore, insieme a Luigi Meda, di “Democrazia”, periodico del gruppo parlamentare dell’Assemblea costituente, avrebbe messo a disposizione dell’impegno politico tutta la propria esperienza politica e professionale. Sottosegretario alle finanze nel IV governo De Gasperi, sottosegretario al Tesoro nel V e VI governo De Gasperi, ministro dei Trasporti nel VII, avrebbe rinunciato ad assumere dicasteri nell’ultimo esecutivo presieduto dallo statista democristiano per tornare all’Industria e commercio con Giuseppe Pella al fianco del quale si era già schierato negli anni precedenti contro quanti avevano criticato, dall’interno e dall’esterno, la sua linea economica.

Negli anni di governo avrebbe continuato a combattere le battaglie che lo avevano visto strenuo difensore, nelle file della stessa Dc, delle ragioni e dei diritti del lavoro. Nel processo di ricostruzione postbellica le logiche dell’economia capitalistica dovevano cedere il passo all’affermazione di una concreta democrazia economica che, stabilito il diritto costituzionale del lavoro e della difesa della proprietà privata, restituisse a quest’ultima la sua funzione sociale attraverso iniziative che garantissero una concreta libertà di accesso alla proprietà stessa. Diritti e libertà sarebbero stati concetti ai quali avrebbe ispirato tutta la sua attività politica. Anche all’interno del suo partito avrebbe difeso fino alla fine “il partito dei liberi”, degli uomini, delle idee contro gli apparati e le logiche correntizie che sembravano sempre di più incanalare la dialettica democristiana verso forme ed equilibri nuovi e non condivisibili.

Sarà proprio la successione di Amintore Fanfani a De Gasperi e, soprattutto, il successo della strategia politica di una parte della corrente di Iniziativa democratica nell’ascesa di Aldo Moro alla segreteria, a spingerlo ad allontanarsi dalla vita politica italiana e dedicarsi all’Europa.

Con l’entrata in vigore dei Trattati di Roma, avrebbe infatti assunto prima la vicepresidenza della Comunità economica europea (CEE), mantenendola fino al 1959, poi la presidenza l’Alta autorità della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), cha avrebbe abbandonato, dimissionario, nel 1963.

L’impegno negli organismi comunitari gli avrebbe permesso di dare un più ampio respiro all’attuazione di programmi già enunciati negli anni precedenti e che lo avevano più volte visto confrontarsi con i problemi della ricostruzione e della stabilizzazione nazionali nella prospettiva di costruzione di un sistema di economie integrate (v. Malvestiti, 1963, pp. 3-42).

L’attenzione per l’attuazione del Mercato comune, la liberalizzazione dei commerci, il disarmo tariffario, l’eliminazione delle restrizioni quantitative non avrebbero fatto altro che confermare quanto la Comunità economica fosse una necessità nella quale non era più soltanto lecito sperare, ma che occorreva, ormai, volere. Unità economica e unità politica, Mercato comune e Comunità nel riconoscimento della prevalenza del lavoro senza compromettere la libertà politica e la libera iniziativa economica, l’Europa come mito di pace, di benessere e di libertà, in nome del quale scuotere le coscienze di popoli assopiti o egoisti per attuare la «vera democrazia» (v. Malvestiti, 1963, pp. 45-77). Nel corso del suo mandato avrebbe difeso più volte lo sviluppo armonioso degli scambi, l’Unione doganale e guardato con interesse a un progressivo coinvolgimento del Regno Unito negli istituti comunitari (v. Malvestiti, 1963, pp. 89-114).

Si tratta di aspetti che avrebbe ribadito, con maggiore forza, nei discorsi pronunciati come presidente della CECA nei quattro anni seguenti. Già nell’intervento di insediamento, il 23 settembre 1959, di fronte all’Assemblea parlamentare europea (v. anche Parlamento europeo), M. sottolineava il contributo determinante e innovativo dell’istituzione del nuovo organismo, evidenziando al contempo la necessità di potenziare il coordinamento tra le Comunità esistenti, prevedendo interventi graduali di riforme di struttura utili a definire le reciproche competenze e guidare lo sviluppo economico in vista di una seconda rivoluzione industriale. Nonostante le resistenze, la realizzazione dell’integrazione europea avrebbe rappresentato un obiettivo al quale egli stesso non avrebbe mai rinunciato (v. anche Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Le radici della personale difesa dell’Europa, come egli stesso avrebbe più volte ricordato nel corso della presidenza, andavano ricercate in quel primo e comune impegno assunto dai neoguelfi già a partire dalla diffusione del Programma di Milano: impegno a costruire, nel quadro di una rinnovata società delle nazioni – espressione della solidarietà di tutti i popoli – una federazione degli stati europei retti a sistema di libertà (v. Malvestiti, 1959, p. 56-57) (v. Federalismo). Impegno al quale egli sarebbe rimasto fedele, assumendo la difesa dell’integrazione come principale preoccupazione della sua politica europea. In questa direzione, pur non tacendo le brusche frenate impresse all’unificazione, e non negando le imperfezioni tipiche delle opere umane, M. avrebbe sempre guardato con ottimismo alla volontà comune e al comune senso di responsabilità che avrebbe guidato i popoli europei sulla strada dell’Europa unità. Unità le cui premesse fondamentali andavano individuate nel coordinamento economico, condizione indispensabile per perfezionare la creazione di organismi politici, e nel coraggio e nella chiarezza di quanti, a partire da De Gasperi avevano lottato perché quell’obiettivo potesse essere raggiungibile (v. Malvestiti, 1959, pp. 353-361). Intervenendo in occasione del decimo anniversario dell’apertura del mercato comune del carbone e dell’acciaio avrebbe, infine, esplicitato il senso del lavoro per l’Europa: «perché i nostri popoli ritrovino insieme lo slancio verso più alte conquiste civili, in quella “fida cittadinanza”, in quel “riposato viver di cittadini” che Dante sognava» (v. Malvestiti, 1963, p. 369).

E nella chiusura dell’introduzione al volume dedicato alla costruzione dell’Europa, dato alle stampe appena un anno prima di morire, avrebbe espresso un augurio, che suona ancora come un monito: «Vorrei augurarmi che questo libro appartenga alla storia dell’Europa unita, e non resti una voce clamante nel deserto: ma di ciò saranno giudici gli europei di oggi, e soprattutto quelli di domani» (v. Malvestiti, 1963, p. IV).

Vera Capperucci (2012)




Mancini, Federico

M. (Perugia 1927-Bologna 1999) si laureò in giurisprudenza a Bologna con una tesi di diritto sindacale comparato e proseguì gli studi di diritto in Francia (a Bordeaux e Parigi), in Austria (a Salisburgo) e negli Stati Uniti (a Chicago).

Risale a quel tempo l’annodarsi di una forte ininterrotta amicizia intellettuale con Gino Giugni. I due si conobbero nell’autunno del 1950 a bordo della nave che li portava in America e da allora sarebbero stati fianco a fianco impegnati a dischiudere una nuova stagione del diritto del lavoro in Italia, recidendo quello che era stato, nella storia della disciplina, il legame col corporativismo fascista.

Nel 1951 a Bologna M. fu tra i fondatori della rivista “il Mulino”, del cui nucleo ispiratore avrebbe poi continuato a far parte, riconoscendosi più o meno sempre, se non nelle iniziative, certo nello spirito della rivista. Di qui alcune solidarietà profonde: col socialista Santucci, col liberale Matteucci, col cattolico Pedrazzi e con tantissimi uomini della cultura politica dell’Italia democratica.

Fondamentale nella formazione di M. e nella sua stessa carriera deve considerarsi il rapporto di collaborazione con Tito Carnacini: come assistente in facoltà e ancor più come segretario di redazione della prestigiosa “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”, quella dei Bigiavi e dei Redenti. Importante, dalla metà degli anni Cinquanta alla metà degli anni Settanta, per lui fu anche l’attività di visiting professor al Bologna Center of advancede international studies della Johns Hopkins University di Baltimora, dove, accanto a un corso di diritto del lavoro comparato, dal 1957 al 1976 M. tenne anche un corso di storia politica italiana dal fascismo all’attualità, quando negli atenei italiani la disciplina “storia contemporanea” ancora non annoverava professori ordinari.

Conseguita nel 1956 la libera docenza, nel 1962 M. vinse la cattedra di Diritto del lavoro all’Università di Urbino. Dopo un breve periodo fra Urbino e Ancona, venne chiamato a Bologna, dove avrebbe insegnato fino al 1979. Eletto dal Parlamento in seduta comune, su indicazione dei gruppi socialisti della Camera e del Senato, fu dal 1976 al 1981 componente del Consiglio superiore della magistratura, ricoprendo per due anni la cattedra di Diritto del lavoro della Università di Roma, per rientrare poi a Bologna nel 1982 come titolare della cattedra di Diritto privato comparato.

Studioso giusprivatista di diritto del lavoro, destinato poi nella esperienza lussemburghese a immergersi come giuspubblicista nel diritto comunitario, M. si dedicò soprattutto ai temi della “responsabilità contrattuale” e del “recesso”. Si trattava di sradicare la materia dalle tradizioni di corporativismo e a M. (come del resto a Giugni) premeva dimostrare rigorosamente, de iure condito non meno che de iure condendo, l’idoneità del contratto a farsi fonte di tutti gli obblighi del lavoratore e di tutte le prerogative dell’imprenditore. Al buon funzionamento dell’impresa e alla sicurezza del patrimonio aziendale, insomma, doveva bastare il contratto, senza bisogno di invocare fedeltà o comunità d’impresa.

Oltre che al corporativismo, M. si opponeva all’organicismo. Diffidava, cioè, della concezione del rapporto di lavoro imperniata sull’inserimento del lavoratore nell’impresa istituzione e, quindi, sul suo assoggettamento a poteri attribuiti dall’ordinamento direttamente all’imprenditore in funzione di un interesse superiore. La sua era una linea di rinnovamento in senso liberale della disciplina, nutrita di cultura angloamericana, vissuta in antitesi alla precedente generazione di studiosi di diritto del lavoro e a suo modo impregnata di valori e aspirazioni riconducibili al mondo del socialismo non marxista. Alla conclusione del contratto, il lavoratore secondo M. doveva essere in grado di vedere la coercizione e l’asimmetria originarie del rapporto con l’imprenditore piegarsi all’apprezzamento razionale dei costi e dei benefici di tale rapporto.

Socialista mai disattento alla realtà dei sindacati, soprattutto della Confederazione italiana sindacati dei lavoratori (CISL), M. aveva apprezzato nel 1966 la riunificazione dei socialisti di Pietro Nenni con i socialisti di Giuseppe Saragat. Dieci anni dopo allo stesso modo avrebbe guardato con particolare simpatia alla segreteria di Bettino Craxi e al suo programma di socialismo liberale: fino a collaborare abitualmente con l’“Avanti!” e con “Mondoperaio” (la rivista diretta da Federico Coen e da Luciano Pellicani che ebbe allora un significativo rilancio nel dibattito politico nazionale).

Intanto, dall’interno del Consiglio superiore della magistratura, maturava in lui la sensazione di un «arrogante missionarismo» della magistratura organizzata, sostanzialmente condiviso dal Consiglio. Esso finiva così col tracimare ben oltre i propri confini costituzionali e col proporsi come una sorte di “terza Camera”. A M. parve allora necessario ritornare a quello che era stato il suggerimento di Piero Calamandrei alla Costituente: ridefinire più nitidi profili di responsabilità del pubblico ministero per arrivare finalmente a distinguere fra prerogative e carriere di chi giudica (secondo terzietà) e di chi accusa (come parte processuale).

Derivò da qui e si prolungò per otto mesi, fra il 1981 e il 1982, una sorta di estenuante “braccio di ferro” fra quanti in Parlamento – proprio per queste sue posizioni – volevano e votarono M. alla Corte costituzionale e quanti, invece, non lo volevano e non lo votarono (con identiche motivazioni) per almeno sei volte. Poi l’oggetto del “braccio di ferro” si sottrasse per dir così alla presa dei contendenti. Per Craxi e il suo partito, e a suo modo anche per il Parlamento, fu certo una battaglia perduta. Assai meno, anzi per nulla, per M., il quale vide aprirsi la prospettiva di diventare nel 1982 avvocato generale e nel 1988 giudice delle Comunità europee (v. Comunità economica europea).

Iniziò così, grazie al Diritto comunitario, quello che fu per tanti versi una seconda stagione della carriera di M. Come egli stesso ebbe a rilevare, «la cosa più affascinante che possa accadere a un giurista è collaborare alla formazione di un ordinamento giuridico nuovo». Sicché, al modo nel quale già gli era accaduto per il diritto del lavoro, M. pure in diritto comunitario sarebbe stato un innovatore: da provincia del diritto internazionale egli trasformò il diritto comunitario in itinerario obbligato del costituzionalismo democratico.

Da organizzazione internazionale sui generis a Stato federale possibile: questo il cammino lungo il quale per lui l’Europa doveva pensarsi e realizzarsi come grande appuntamento di democrazia (v. anche Federalismo; Funzionalismo). Del resto, proprio dalla Corte di giustizia delle Comunità europee (CGCE) (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) fu definito il primato del diritto comunitario su quello nazionale, ovviamente nell’ambito delle Competenze trasferite, che è un tipico principio degli Stati federali, e riconosciuta la efficacia immediata non solo dei regolamenti, ma anche delle direttive europee (v. Direttiva), che secondo la lettera dei Trattati vincolerebbero solo gli Stati. Per diciassette anni a Lussemburgo, fino alla morte nel 1999, M. sarebbe stato protagonista della trasformazione della Comunità europea in Unione economica e monetaria e in qualche misura politica.

Costituzionalista, federalista, essenzialmente comparatista, egli aveva avvertito l’aggravarsi del Deficit democratico in Europa. Era come se questo male la Comunità lo avesse in sé fin dalle origini: nata come organizzazione internazionale, anziché come stato federale, la Comunità stentava a farsi meno “diplomatica” e più “democratica”. Dal Parlamento europeo eletto a suffragio universale dal 1979 (v. Elezioni dirette del Parlamento europeo) era venuta assai meno integrazione di quanto si fosse sperato (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della); la giurisdizione poteva far di più e per molti versi fu così. Senza abdicare alla speranza di una Comunità che approdasse un giorno ad una sua Convenzione di Filadelfia e proclamasse gli Stati Uniti d’Europa, M. avrebbe steso o ispirato sentenze che consentirono una Giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee in materia di eguaglianza dei diritti che irrobustì il tessuto democratico dell’Europa: perché anche in Europa, per dirla col suo vecchio amico americano Ronald Dworkin, i diritti fossero davvero «presi sul serio».

Un anno prima della morte, alla presentazione dei due volumi di scritti in suo onore nell’aula magna della facoltà di giurisprudenza a Bologna, M. ebbe a ricordare come diritto del lavoro e diritto comunitario potessero dirsi nella sua vita distinti momenti “giuridici” di una stessa trama “giuridica”. “Dal diritto di frontiera al diritto senza frontiera”: questo era stato il suo percorso e questo il titolo di quel suo discorso di congedo (apparso poi in un fascicolo della “Rivista trimestrale di diritto e procedura civile”).

Luigi Compagna (2010)