Mock, Alois

M. nacque il 20 giugno 1934 a Euratsfeld, un piccolo villaggio a un’ora di distanza da Vienna. Il padre, proprietario di un’azienda di trasporti, morì in un incidente in moto poco prima della nascita di Alois, e la madre sposò in seguito il cognato. M. crebbe in un’atmosfera familiare conservatrice e rigidamente cattolica, e frequentò la scuola a Euratsfeld. All’età di dieci anni si trasferì dapprima alla scuola secondaria e dopo due anni alle medie inferiori del monastero benedettino di Seitenstetten, nel capoluogo di provincia Amstetten. La formazione “monastica” avrà un ruolo determinante nell’Adesione di M. al Partito cristiano-democratico e alla sua concezione “europeista”, che lo porterà a interpretare l’espansione benedettina nel Medioevo come uno dei primi movimenti europei. La ferrea disciplina nel lavoro e l’integrità morale di M. hanno qui le loro radici: rettitudine e onestà, assenza di vita mondana e di avventure amorose, dedizione assoluta al lavoro saranno i principî guida di tutta la sua carriera. Trasferitosi a Vienna per studiare diritto, M. si laureò nel 1957. Come membro dell’associazione studentesca cattolica Cartell Verband (CV) ebbe modo di incontrare molte persone influenti in un’atmosfera distesa.

Dopo aver conseguito il dottorato, M. frequentò la John Hopkins University di Bologna, un’altra esperienza importante che contribuì ad aprire la mente del giovane alla dimensione europea. Dopo un incontro con il ministro Heinrich Drimmel fu assunto al ministero e fece ritorno a Vienna. Sospeso dall’incarico per aver richiesto un’altra borsa di studio per imparare il francese, fu costretto a dare le dimissioni e si trasferì all’università di Bruxelles. Dopo un anno, tuttavia, il ministro dell’Istruzione lo invitò a tornare a Vienna e riprendere il suo incarico, ma M. decise di passare agli Esteri. Alla cancelleria del ministero degli Esteri si occupò delle questioni relative alla Comunità economica europea (CEE) e all’Associazione europea di libero scambio (EFTA), in un’epoca in cui i paesi neutrali Austria, Svezia e Svizzera prendevano in considerazione la possibilità di aderire alla CEE. Nel 1962 M. fu inviato a Parigi, dove lavorò all’ambasciata austriaca per l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) (v. Organizzazione europea per la cooperazione economica). Un anno dopo sposò Edith, insegnante e in seguito direttrice scolastica a Vienna. La coppia si trovava bene a Parigi, ma nel maggio del 1965 un telegramma richiamò M. in Austria, come segretario di Stato dell’allora governo conservatore guidato da Josef Klaus (grande coalizione). Nel 1966 le trattative nella nuova colazione tra il Partito popolare Österreichische Volkspartei (ÖVP) e il Partito socialdemocratico Sozialistische Partei Österreichs (SPÖ, cambiato sotto Franz Vranitzky in Sozialdemokratische Partei Österreichs) fallirono, e sotto il nuovo governo conservatore M. divenne capo gabinetto. Nonostante la mole di lavoro, trovò il tempo di studiare per sostenere l’esame di ammissione al ministero degli Esteri, dove entrò nel 1968 (assieme al futuro presidente Thomas Klestil).

M. compì un altro passo importante della sua carriera nel 1969, allorché a soli trentacinque anni divenne il più giovane ministro dell’Istruzione nel governo Klaus, anche se conservò la carica solo per dieci mesi. Le successive elezioni del 1970 furono vinte dalla SPÖ, e Bruno Kreisky formò un governo di minoranza. Sindaco di Euratsfeld per circa due anni, successivamente M. diventò membro del parlamento per la Bassa Austria fino al 1987. Da allora la sua carriera politica a livello nazionale si intrecciò con quella all’interno del suo partito, l’ÖVP, che lo vide capo della associazione operaia Österreichischer Arbeitnehmerinnen- und Arbeitnehmer-Bund (ÖAAB) dal 1971 al 1978. Qui il suo atteggiamento liberare nei confronti della classe operaia gli valse l’accusa di “sorpasso a sinistra” all’interno dell’ÖVP. Nel 1979 Josef Taus si dimise dalla direzione dell’ÖVP dopo che l’SPÖ aveva vinto nuovamente le elezioni con un distacco ancora più ampio di 16 mandati sull’ÖVP.

M. succedette a Taus alla guida dell’ÖVP, che conserverà sino al 1989 (il mandato più lungo nella storia del partito). Tuttavia, la sua carriera nel partito restò all’ombra del suo grande avversario Kreisky, così come in seguito, contro Vranitzky, M. sarà destinato a restare eterno secondo. Sotto la guida di M. l’ÖVP raccolse peraltro importanti successi. Dapprima il partito cercò di guadagnare gradatamente terreno rispetto all’SPÖ, riuscendo alla fine a infrangere la maggioranza assoluta di quest’ultima nel 1983, il che provocò il ritiro di Kreisky. Il distacco tra ÖVP e SPÖ diminuì a tal punto che solo tre seggi dividevano i due partiti nel periodo della piccola colazione tra SPÖ e Partito liberale (Freiheitliche Partei Österreichs, FPÖ), sotto il cancellierato di Fred Sinowatz.

Sebbene grazie al sistematico lavoro politico dell’ÖVP l’era di Kreisky si fosse interrotta nel 1983, ponendo termine ai 17 anni di potere socialista, questo successo non fu adeguatamente sfruttato per guadagnare il favore dell’elettorato. Il fatto di non aver ottenuto la maggioranza assoluta nelle elezioni del 1986 venne percepito così come una sconfitta anziché come un risultato positivo. M. “perse” il cancellierato a favore del nuovo arrivato Vranitzky, nonostante vi fossero buone prospettive di vittoria visto che il governo Sinowatz-Steger era ormai esausto. Anche l’ÖVP peraltro aveva esaurito le forze, avendo investito tutte le sue energie per fare eleggere Kurt Waldheim, il primo presidente del partito conservatore nella storia della seconda repubblica.

Vranitzky formò il nuovo governo formando una piccola coalizione con l’FPÖ, coalizione che viene sciolta dopo un anno quando la guida del Partito liberale fu assunta da Jörg Haider. Nel 1987 Vranitzky entrò nell’ÖVP e M. assunse un duplice incarico, diventando vicecancelliere e ministro degli Affari esteri (fortemente criticato dal vecchio Kreisky).

Per l’ÖVP il 1988-89 fu un periodo di turbolenze, in quanto i sondaggi di opinione rivelarono che l’ÖVP aveva le stesse preferenze dell’SPÖ. Nondimeno M., alla guida dell’ÖVP, fu criticato all’interno del suo stesso partito dal segretario della Stiria Gerhard Hirschmann. Nelle lotte tra liberali e conservatori per il rinnovamento dell’ÖVP M. non era ritenuto abbastanza forte da determinare un cambiamento decisivo. Alla fine si dimise dalla guida del partito (o subì pressioni in questo senso) e lasciò il vicecancellierato al nuovo capo dell’ÖVP Josef Riegler, ex ministro dell’Agricoltura e sostenitore della corrente conservatrice del partito. Come forma di compensazione, l’ÖVP nominò M. capo onorario a vita. M. si concentrò ora sugli Esteri, e trovò la sua missione nel condurre l’Austria all’integrazione nell’Unione europea (UE), contribuendo a rendere l’ÖVP il principale partito pro Europa dell’Austria.

L’ÖVP aveva preso in considerazione l’idea dell’ingresso austriaco nella Comunità europea (CE) già nel 1985, quando il compagno di M., Andreas Kohl, direttore dell’accademia politica dell’ÖVP, aveva presentato al Consiglio nazionale la richiesta di una risoluzione, auspicando una maggiore cooperazione con la Comunità europea. Inoltre, il Partito popolare aveva elaborato un accordo speciale che prevedeva una forma ad hoc di partecipazione dell’Austria all’Europa unita tale da riconoscere la neutralità perpetua del paese. Già nel secondo Vertice dei ministri per il nuovo governo Vranitzky, nella sua duplice funzione di vicecancelliere e ministro degli Esteri, M. aveva creato un Gruppo di lavoro per l’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). L’ÖVP cercò di portare nel nuovo governo le proprie concezioni europeiste. Secondo i commentatori, il 70% del discorso pronunciato dal nuovo governo era di origine conservatrice (v. Mock, Vytiska, 1994, p. 50). La dichiarazione del nuovo governo prevedeva la massima vicinanza dell’Austria alla CE, eventualmente con la partecipazione al mercato comune, escludendo però l’ingresso dell’Austria come membro a pieno titolo.

Nel 1986-1987 l’Europa dei 12 definì e accettò il mercato comune, con conseguenze immediate tutt’altro che positive per l’Austria, fortemente dipendente dal mercato europeo, come risultò evidente quando, ad esempio, la Francia decise di chiedere il visto a tutti i cittadini dei paesi non appartenenti alla CE. Nel 1987 il governo si trovò nella necessità di valutare diverse opzioni per la partecipazione dell’Austria all’Europa dei 12, concentrandosi però soprattutto sugli aspetti economici. Una di queste opzioni era l’accordo speciale con condizioni supplementari proposto dall’ÖVP. La Federazione degli industriali austriaci (Vereinigung Österreichischer Industrieller, VÖI) fu uno dei primi gruppi di interesse della Comunità europea a pronunciarsi per un’adesione immediata. Alla fine fu Jörg Haider a chiedere al ministro degli Esteri di cercare una forma seria di Associazione alla CE, e a esprimere la convinzione che la partecipazione come membro a pieno titolo fosse una necessità imprescindibile per l’Austria.

M. e l’ambasciatore della CE Manfred Chech organizzarono colloqui esplorativi con gruppi delegati in Europa e in patria. La cosiddetta “teoria dell’uvetta” – consistente nel prendere tutti vantaggi economici rifiutando gli obblighi – fu presto fuori questione, e divenne finalmente chiaro che occorreva convincere l’SPÖ della necessità di accettare per l’Austria lo status di membro a pieno titolo della Comunità europea. Nell’incontro del 1988 a Maria Plain, nei pressi di Salisburgo, l’ÖVP, guidata ancora da M., si pose l’obiettivo della piena partecipazione dell’Austria alla CE, proponendosi con ciò come “il” partito dell’Europa. Vranitzky fu messo sotto pressione quando divenne chiaro che anche l’SPÖ doveva prendere le redini della politica europea, e M. riuscì a convincerlo ad adottare una posizione pro Euroa (v. Mock, Vytiska, 1994, p. 55). Nonostante la svolta europeista di Vranitzky, alcune frazioni dell’SPÖ espressero serie riserve in merito all’adesione austriaca alla CE, sollevando la questione critica della neutralità del paese.

Prima dell’estate del 1988 il Gruppo di lavoro sull’integrazione europea presentò i suoi risultati, dai quali emergeva che solo la piena adesione dell’Austria alla CE avrebbe portato i vantaggi desiderati. Di conseguenza, M. e Kohl chiesero la presentazione immediata della domanda di ingresso nella Comunità. Ora però i due partiti procedevano con un ritmo diverso, ed emerse un divario tra l’urgenza dell’ÖVP e la cautela dell’SPÖ, che rispecchiava la divergenza di opinioni esistente anche tra la popolazione. Di conseguenza, il partito dei Verdi guadagnò voti come partito antieuropeo a scapito dell’FPÖ di Haider, all’epoca ancora pro Europa.

Alla fine, il 3 aprile 1989, la posizione di Vranitzly fu accettata nell’SPÖ e il partito decise a maggioranza di perseguire l’adesione austriaca alla Comunità europea, ma poiché Vranitzky aveva insistito sulla priorità della neutralità sulla piena adesione, il rapporto finale del governo al Parlamento incluse le condizioni dell’SPÖ. Si apriva così la strada all’ingresso dell’Austria nella Comunità europea. A giugno i due partiti fissarono la strada per la politica dell’integrazione. All’inizio di luglio del 1989 il Consiglio nazionale, senza i voti dei Verdi, decise di avviare i negoziati con la CE per l’ingresso dell’Austria. Il 17 luglio 1989 M. presentò a Roland Dumas, capo del Consiglio europeo, la richiesta di ammissione austriaca alle tre comunità CEE, Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) e Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA). Forse se l’Austria avesse tardato solo sei mesi a presentare la domanda non avrebbe ottenuto l’ingresso nell’Unione europea nel 1995. In quel momento infatti i profondi cambiamenti politici in atto in Europa calamitavano l’attenzione della CE verso l’unificazione tedesca, le guerre nei Balcani e il Mercato unico europeo.

Nelle elezioni austriache del 1990 tuttavia l’Europa non fu un argomento rilevante, e l’SPÖ si avvantaggiò a spese dell’ÖVP dei successi ottenuti congiuntamente. Mentre i socialdemocratici subirono infatti perdite “accettabili” rispetto al 1986, l’ÖVP perse pesantemente consensi (oltre il 10%).

Molti voti andarono all’FPÖ di Haider, che attaccava le istituzioni consolidate e la deliberata spartizione degli incarichi tra SPÖ e ÖVP. Era in gioco il paesaggio politico austriaco e, con esso, la grande coalizione ormai quasi istituzionalizzata e le sue interminabili diatribe interne. Certamente, l’FPÖ rispetto all’ÖVP prometteva maggiore dinamismo, indipendenza e decisione, restando assai meno indietro all’SPÖ. Di conseguenza, la formazione di nuova grande colazione comportò un ricambio all’interno della ÖVP. Erhard Busek divenne capo del partito e nuovo vicecancelliere, mentre il nuovo ministro dell’Economia fu Franz Fischler. Ora tuttavia, a differenza di quattro anni prima, l’ingresso in Europa divenne il principale obiettivo del nuovo-vecchio governo. I principali problemi che esso dovette affrontare riguardavano la politica di difesa e sicurezza comune e la conciliazione tra il ruolo di paese neutrale dell’Austria e il suo status di membro a pieno titolo della Comunità europea.

Alla fine, grazie anche all’impegno di M., fu trovata una interpretazione della neutralità che soddisfaceva favorevoli e contrari all’integrazione europea. Il governo austriaco intraprese i primi passi concreti, inviando memorie a tutti i paesi membri per propagandare l’adesione austriaca. Nel 1990 Jacques Delors si recò in Austria per uno scambio di idee, e dichiarò che non vi erano problemi per avere all’inizio del 1991 l’avis, al quale venne risposto positivamente in agosto (nel 1992 la CE e l’EFTA firmavano l’atto costitutivo della Comunità economica europea, CEE). Il 1° febbraio 1993 iniziarono i negoziati per l’ingresso di Finlandia, Norvegia, Svezia e Austria. Nel novembre dello stesso anno la CE divenne Unione europea (UE)

I negoziati di Bruxelles (una vera e propria maratona protrattasi per 72 ore), e i risultati estremamente positivi del referendum trasformarono M. da personaggio di secondo rango in un autentico eroe, procurandogli un’immensa popolarità. Le sue cattive condizioni di salute (in un’intervista con Alfred Worm M. confermerà alla fine del 1994 che soffriva di una malattia analoga al morbo di Parkinson: v. Pelinka, 1995, p. 162) all’inizio furono oggetto di compassione, ma la forza con cui sopportava la malattia divenne parte integrante del ruolo di eroe assunto nell’immaginario popolare. M. divenne un mito politico (“l’eroe di Bruxelles”).

Alla fine del febbraio 1994 si svolsero le trattative conclusive tra l’UE e l’Austria. I negoziatori austriaci presentarono i risultati di Bruxelles come traguardi estremamente positivi agli elettori, e al referendum del 12 giugno 1994 il sì vinse con il 66% dei voti. L’accordo di adesione fu firmato il 24 giugno a Corfù, e l’Austria entrò nell’UE il 1° gennaio 1995. M. intendeva continuare a detenere la carica di ministro degli Esteri, ma sino al 1999 restò un “semplice” membro del parlamento. Da questo momento in poi scomparve progressivamente dai media.

Haider salì al potere nel 2000 dopo le elezioni tenutesi alla fine del 1999. Quando i 14 Stati dell’UE decretarono le sanzioni contro l’Austria, M. criticò aspramente questa decisione, giudicandola una violazione dei Trattati dell’UE e del diritto internazionale che andava contro lo spirito dell’Unione, nata come comunità pacifica e solidale. I trattati UE, affermava M., non prevedevano nessun intervento nei processi democratici di uno degli Stati membri, e le sanzioni costituivano una grave violazione del codice di valori della cultura europea, specialmente considerato che all’Austria non era stata data la possibilità di prendere posizione. M. rifiutava le qualifiche dell’Austria come paese fascista, nazionalsocialista, xenofobo o irrispettoso dei Diritti dell’uomo. Le sanzioni erano ingiuste e arbitrarie, e avrebbero dimostrato il loro carattere inappropriato se si fosse cercato di applicarle ad altri paesi. La maggior parte del potere socialista in Europa, secondo M., era stato usato impropriamente per intralciare con metodi discutibili un governo eletto democraticamente, ed egli paragonò la dottrina di Bruxelles alla dottrina brežneviana della sovranità limitata, vietata dal diritto internazionale.

L’operato di M. in qualità di ministro degli Esteri fu caratterizzato da numerose iniziative e visite pro Europa, mentre assai meno frequenti furono le visite ufficiali nei paesi extraeuropei. Rifiutando l’approccio globale di Kreisky, mirato a inserire attivamente l’Austria nella politica mondiale, il quartier generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) a Vienna, voluto da Kreisky, fu smantellato come una manifestazione di megalomania austriaca. L’obiettivo dichiarato di M. era l’Europa.

Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica, tuttavia, si erano verificati in Europa cambiamenti di immane portata: si rendeva necessario ridefinire il ruolo dell’Austria, che aveva fatto da intermediario tra i due blocchi. L’apertura della cortina di ferro in Ungheria con il ministro degli Esteri ungherese Gyula Horn, il 27 giugno 1989, fu un importante atto simbolico, in quanto costituì la “prima finestra”, per citare le parole di M., nella barriera tra i due blocchi. Tuttavia, mentre la maggior parte degli ex paesi comunisti si orientò pacificamente verso strutture democratiche, il processo di democratizzazione in Iugoslavia fu irto di difficoltà.

Il conflitto iugoslavo divenne una questione fondamentale non solo per l’Austria, ma anche per la CE in procinto di trasformarsi in UE. Il problema della sicurezza si poneva con urgenza soprattutto in Austria, quando la guerra sembrò avvicinarsi ai confini del paese. La presenza di carri armati stranieri nel territorio nazionale e l’invio di carri armati austriaci verso la frontiera iugoslava scatenarono in Austria un nuovo, acceso dibattito sul problema della difesa e della neutralità.

Poiché l’A. era impegnata nei negoziati per l’ingresso nella UE, il problema della sicurezza comune e del ruolo dell’Austria come Stato neutrale nel mutato scenario europeo erano questioni di cruciale rilievo. M. era dell’opinione che l’A. avrebbe dovuto considerare anche l’adesione all’Unione dell’Europa occidentale (UEO) (v. Vytiska, Mock, 1997, p. 104). Tuttavia, in armonia con l’atteggiamento cauto adottato dall’SPÖ, l’Austria conservò ufficialmente la neutralità sancita dalla sua Costituzione.

Il conflitto iugoslavo iniziò con il discorso tenuto il 28 giugno 1989 da Milošević per la celebrazione dei 600 anni dalla sconfitta nella battaglia di Amselfeld, che può essere considerato l’atto di nascita del movimento nazionalista serbo. L’ordine creato da Tito in Iugoslavia aveva mostrato tutta la sua precarietà subito dopo la morte del capo di Stato, e Milošević ne approfittò per rivendicare un ruolo guida della Serbia nella federazione iugoslava. Fu così abolita l’autonomia di Vojvodina e Kosovo, innescando la catena di eventi che sarebbe sfociata in una guerra caratterizzata da un livello di odio e di violenza impensabile dopo quasi mezzo secolo di pace in Europa.

M. assunse subito una posizione decisa sulla guerra nei Balcani, attirandosi talvolta aspre critiche. Seguendo una interpretazione prevalentemente giuridica, egli sostenne che la guerra non era un conflitto religioso né una guerra civile, ma una chiara aggressione serba. L’Austria, affermò nel Dossier sui Balcani (v. Vytiska, Mock, 1997, pp. 47, 87), si rendeva conto che la confederazione iugoslava non poteva sopravvivere nella sua vecchia forma: un cambiamento si rendeva necessario a seguito degli sviluppi negli altri Stati ex comunisti, della caotica situazione economica e dell’aggressivo nazionalismo serbo. Dopo l’abolizione del governo e del parlamento autonomi nel Kosovo a opera dei serbi e la sanguinosa battaglia di Pristina nel febbraio 1990, l’Austria invocò un dialogo per frenare la violenza. Tuttavia, al peggiorare della situazione, nell’agosto dello stesso anno assieme ad altri Stati mise in moto il primo livello del meccanismo dell’OCSE.

Nel 1991, davanti al Consiglio nazionale, M. ribadì i seguenti punti:

  • i singoli Stati della Iugoslava avevano diritto all’autodeterminazione e a un futuro di pace;
  • con la scelta dell’indipendenza la Croazia e la Slovenia avevano acquistato il diritto all’autodeterminazione democratica; i nuovi rapporti tra i popoli iugoslavi dovevano basarsi sul dialogo e sul rifiuto della violenza;
  • l’Austria era contraria a ogni modificazione dei confini ottenuta con la violenza;
  • si rendeva necessario garantire i diritti e la partecipazione democratica di tutti i gruppi (e quindi anche quelli della popolazione serba in Croazia);
  • per tutto il popolo iugoslavo occorreva applicare la Carta di Parigi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo in Europa (OCSE), che afferma i principi del pluralismo, della democrazia costituzionale e del rispetto dei diritti umani;
  • le riforme economiche erano necessarie per la stabilità nella regione.

Le iniziative di M. trovarono in patria il sostegno del segretario generale del ministero degli Esteri, Thomas Klestil, del direttore politico del ministero, Albert Rohan, e dell’ambasciatore presso l’Organizzazione delle nazioni unite (ONU) Peter Hochenfellner (v. Vytiska, Mock, 1997, pp. 14, 53).

Poiché la situazione era in una fase di stallo e Belgrado non si lasciò impressionare, il 29 marzo 1991 l’Austria, questa volta da sola, mise in moto il secondo livello del meccanismo dell’OCSE, e nel maggio dello stesso anno presentò un elenco di 13 violazioni delle richieste dell’OCSE e della Carta di Parigi per una nuova Europa da parte di Belgrado (v. Vytiska, Mock, 1997, p. 69). M. propose altresì l’istituzione di un Consiglio di saggi, ma la Iugoslavia di Milošević rifiutò l’iniziativa come indebita ingerenza in questioni interne.

Il 25 giugno 1991 Slovenia e Croazia proclamarono la loro indipendenza, e due giorni dopo la capitale slovena, Lubiana fu invasa dai carri armati. La difesa della Slovenia contro l’esercito serbo scatenò la guerra. Difendendo l’indipendenza appena acquisita e grazie alle forti pressioni diplomatiche europee, a luglio la Slovenia ottenne dalla Serbia un accordo di cessate il fuoco siglato a Brioni, un’isola dell’Adriatico (Accordi di Brioni). Tuttavia, Milošević aveva accettato il cessate il fuoco per beneficiare dei tre mesi concessi per il ritiro dell’esercito dalla Slovenia al fine di riorganizzare i suoi contingenti in Croazia, dove l’aggressione serba continuò indisturbata.

Era impossibile trovare una soluzione rapida e facile tra la Serbia, la Croazia cattolica e la Bosnia musulmana. Per dare al conflitto maggiore risonanza internazionale, il 19 settembre 1991 l’Austria chiese al Consiglio di sicurezza dell’ONU una sessione sull’aggressione serba in Croazia, che ebbe luogo il 25 settembre. Il 19 settembre il Consiglio dei ministri della UE decise per il non intervento, dichiarando quale interesse prioritario l’integrità della Iugoslavia. Tuttavia, poiché si voleva arrivare a una soluzione pacifica, fu istituita una Commissione di arbitrato presieduta da Robert Badinter. Alla fine di novembre la Commissione prese atto del processo di dissoluzione dell’ex Iugoslavia, che venne negato dalle autorità serbe all’inizio di dicembre. Di conseguenza, il 16 dicembre la CE, con l’adesione dell’Austria, impose un ultimatum per il riconoscimento di Slovenia e Croazia come Stati indipendenti. Tuttavia anche all’interno dell’Austria questo passo non fu esente da critiche, in quanto segnava un punto di svolta nelle attività di mediazione per la pace. Specialmente i socialdemocratici caldeggiavano soluzioni più caute. Ma la Conferenza delle autorità regionali austriache aveva già chiesto al governo il riconoscimento dei nuovi Stati indipendenti, e all’Austria non restò altra scelta che aderire alla decisione della CE.

Ribattendo alle critiche, M. affermò che il riconoscimento non aveva comportato una prosecuzione del conflitto, iniziato assai prima di tale decisione, ma aveva anzi fermato l’aggressione serba, portando al cessate il fuoco del gennaio 1992. L’idea che il riconoscimento avrebbe alimentato il conflitto, secondo M., era una fantasia della vecchia Iugoslavia di stampo titoista, e contraddiceva tutti i fatti relativi alle cause, alle conseguenze e alla cronologia del conflitto nei Balcani. Secondo M., i restanti paesi ex iugoslavi cercavano costruttivamente una soluzione per una Iugoslavia comune, soluzione osteggiata dai serbi sin dall’inizio del conflitto.

Nell’autunno del 1991 la Iugoslavia era in via dissoluzione (v. Vytiska, Mock, 1997, p. 89) e nel luglio dell’anno successivo cessò di esistere nell’assetto che aveva in passato (v. Vytiska, Mock, 1997, p. 99). Il 21 e 22 dicembre del 1991 M. incontrò George Bush e il segretario dell’ONU Javier Peréz de Cuéllar a Washington per sollecitare decisioni nette, ma gli Stati Uniti si tirarono indietro al pari dei principali partner europei, che non riuscirono a raggiungere il consenso: la Francia era favorevole, il Regno Unito contrario a una missione militare.

Il 10 gennaio 1992 i Serbi proclamarono la Repubblica di Serbia nella Bosnia-Erzegovina, scatenando immediatamente il timore dello scoppio di una guerra in Bosnia. In febbraio Serbia e Montenegro decisero di creare uno Stato comune, e proclamarono la loro unificazione il 27 aprile 1992, senza ottenere il riconoscimento immediato da parte del resto del mondo. Nonostante le aggressioni serbe in Bosnia-Erzegovina, la Repubblica di Serbia fu riconosciuta come Stato indipendente da 72 paesi il 7 aprile 1992. Il giorno dopo il nuovo governo proclamò lo stato di emergenza. Austria e Ungheria misero in moto il Consiglio di sicurezza dell’ONU, e l’Austria richiese l’istituzione di zone protette per la popolazione civile. Il 22 aprile si intensificarono i bombardamenti a Sarajevo, e solo alla fine di maggio il Consiglio di sicurezza dell’ONU decise di adottare misure più incisive con una serie di sanzioni, la più efficace delle quali fu l’embargo. Tuttavia gli sforzi dell’Occidente restarono in larga misura vani. Una memoria austriaca fu inviata nel novembre del 1992 al Consiglio di sicurezza per la costituzione di zone militarmente protette, ma solo nel maggio del 1993 le città di Sarajevo, Tuzla, Zepa, Goražde e Bihac furono riconosciute dall’ONU come tali. Tuttavia, l’esercito dell’ONU non aveva il permesso né di fermare le aggressioni, né di difendersi.

M. affermò in seguito che le iniziative intraprese tra il 1991 e il 1992 furono inefficaci e tardive. La riluttanza del mondo politico a intervenire produsse risoluzioni e ammonizioni del tutto inutili, una montagna di parole e di carte, senza dar luogo ad alcuna azione concreta per fermare Belgrado (v. Vytiska, Mock, 1997, pp. 88, 89, 97). Il 7 gennaio 1992 cinque osservatori della CE persero la vita in un elicottero abbattuto dai serbi, e la CE si limitò a mandare una nota di protesta. In maggio un osservatore dell’ONU fu ucciso e la missione venne sospesa per breve tempo, a tutto vantaggio dell’esercito serbo. Sempre in maggio un membro della Croce rossa restò ucciso a Sarajevo. Per protesta la Croce rossa abbandonò il campo, peggiorando ulteriormente la situazione delle vittime.

L’esperto politico e militare Edward Luttwak fu uno dei tanti a ritenere che il livello culturale dei gruppi in guerra fosse talmente basso che il conflitto avrebbe potuto protrarsi per un altro secolo. Ma altri, come George Kennedy, capo del Dipartimento di Stato USA sino all’agosto 1992, sostennero che la politica mondiale di non intervento portava a ignorare sistematicamente le voci sull’esistenza di campi di concentramento nei territori occupati (v. Vytiska, Mock, 1997, p. 87), dimostrata nel giugno del 1992 da vari gruppi umanitari bosniaci. La politica di non intervento era diventata puro cinismo. La Croce rossa, ad esempio, intendeva riconoscere l’esistenza dei campi di concentramento solo qualora fosse stata ammessa ufficialmente dalla Serbia.

La decisione di porre l’embargo sulle armi ebbe secondo M. esiti paradossali. Inizialmente favorevole all’embargo, M. si convinse ben presto che esso contribuiva solo a inasprire l’aggressione, e votò a favore della sua sospensione. A suo avviso l’embargo favoriva i serbi, che potevano contare sull’ex esercito popolare, e andava contro il diritto all’autodifesa dei Bosniaci. Nel marzo del 1992 la Forza di protezione delle Nazioni Unite (United nations protection force, UNPROFOR) venne stanziata in Croazia, ma non si riuscì a raggiungere alcuna risoluzione o accordo comune. La situazione peggiorò nel maggio 1933, quando scoppiò una guerra separata tra i musulmani bosniaci e i croati bosniaci, che terminò solo un anno dopo.

Nel marzo 1993 il nuovo presidente degli Stati Uniti Bill Clinton annunciò misure più attive da parte del suo paese. Il 12 aprile, a seguito del sabotaggio di un mezzo della UNPROFOR, gli Stati Uniti decretarono finalmente la revoca del divieto dei voli militari sulla Bosnia-Erzegovina (un anno dopo la risoluzione del Consiglio di sicurezza). Solo il 9 agosto l’Organizzazione del trattato del Nord Atlantico (NATO) decise il bombardamento delle truppe serbe in conformità con la risoluzione dell’ONU. Il 5 febbraio 1994 un atroce attentato al mercato di Sarajevo fece strage di civili. Nell’agosto dello stesso anno iniziò il primo raid aereo americano contro i carri armati serbi a Sarajevo, ma il 28 del mese un altro devastante attentato a Sarajevo uccise 33 persone. L’imbarazzante rapimento di un gruppo di soldati dell’ONU nel maggio 1995 e le atrocità commesse a Srebrenica finalmente fecero scattare le azioni decisive contro i serbi, che portarono all’accordo di Dayton firmato il 21 novembre 1995 nell’Ohio e il 14 dicembre a Parigi. Come si legge nel documento della Commissione internazionale sui Balcani (v., 1966, p. 74) «L’accordo di Dayton non può cancellare la vergogna e l’orrore per non aver impedito i fatti di Srebrenica. La responsabilità di questo fallimento è condivisa da molti paesi».

Il 17 aprile 1996 l’UE riconosceva la Iugoslavia come uno dei diversi Stati formatisi dopo la dissoluzione dell’ex Iugoslavia. Questa formula era importante per l’Austria, in quanto annullava ogni obbligo nei confronti del trattato costituzionale.

M. mantenne stabili contatti con gli Stati dell’ex Iugoslavia. La laurea honoris causa conferitagli all’Università di Sarajevo nel 1993 fu per lui un simbolo altrettanto importante quanto la bandiera della Unione europea appesa nel suo ufficio (v. Simboli dell’Unione europea), la conferma di aver fatto la cosa giusta al momento giusto.

Margaret Mantl (2007)




Mollet, Guy Alcide

M. (Flers de l’Orne 1906-Parigi 1975), proveniente da una famiglia di origini modeste e rimasto precocemente orfano, dovette lavorare per poter studiare, e ciò contribuì indubbiamente a una sua precoce politicizzazione. Nel 1923 aderì al Partito socialista – Sezione francese dell’internazionale operaia (Section française de l’Internationale ouvrière, SFIO), svolgendo allo stesso tempo un’intensa attività sindacale che gli valse varie sanzioni. Trasferito di autorità ad Arras nel 1925, diventò nel 1928 segretario federale delle Gioventù socialiste. Tornato dal servizio militare, il suo impegno politico si diversificò: partecipò attivamente alla campagna legislativa del 1932; diventò nel gennaio del 1934 segretario del gruppo degli “Amici della Bataille socialiste” (della SFIO) del Pas-de-Calais; entrò a far parte qualche mese dopo del Grande oriente. Si radicalizzò progressivamente, in nome di un pacifismo integrale, sostenendo senza riserve le posizioni della tendenza redressement della SFIO a partire dal 1938. Richiamato alle armi nell’agosto del 1939, fu fatto prigioniero e mandato al campo di Weinsberg, per poi rimpatriare nel 1941. Ebbe una discreta attività resistenziale, prima nell’Organisation civile et militaire (OCM), poi nelle Forces françaises de l’intérieur (FFI) nel giugno 1944. Tornato ad Arras, riprese la sua attività politica diventando segretario del Comitato provinciale di liberazione e membro del Comune provvisorio, nonché direttore politico del giornale “Libre Artois”.

La liberazione accelerò la carriera politica di M. Da una parte, ricoprì diverse cariche elettive: sindaco di Arras (riconfermato nel 1947 e nel 1953), presidente del consiglio regionale (fino al 1948) e deputato (carica che ricoprirà fino alla sua morte nel 1975). Dall’altra, forte del controllo della principale federazione del partito – quella del Pas-de-Calais – e dell’autorità acquisita nel febbraio del 1946 alla presidenza della Commission de la constitution de l’Assemblée constituante, dove si distinse per la sua intransigenza, riuscì ad impadronirsi della SFIO nel 1946. Lo fece attraverso la denuncia, in nome dell’unità d’azione con il PCF, di qualsiasi tentativo di laburismo alla francese, una prospettiva allora auspicata dal segretario generale Daniel Mayer e da Léon Blum. La maggioranza che venne a crearsi attorno a lui per rovesciare la direzione uscente, tuttavia, esprimeva non tanto una linea politica precisa quanto un malcontento generale risultante dalle prime delusioni elettorali, scontando anche il fatto che M. sembrava facile da controllare data la sua poca esperienza dell’apparato del partito (partecipava per la prima volta a un congresso nazionale nel 1945). In questo modo, la sua elezione a segretario generale della SFIO, carica che manterrà fino al 1969, fu il risultato di un compromesso finale e ci vollero ancora due anni perché M. consolidasse la propria leadership: solo a partire dal 1948, una volta acquisito il carattere definitivo della rottura con i comunisti ed effettuata la scelta di campo, ebbe una maggioranza stabile ai congressi, fino alla fine degli anni Sessanta. Del resto, mentre era stato di nuovo designato membro della Commissione per la Costituzione nella seconda Assemblea costituente, e diventato ministro di Stato nel governo Blum (dicembre 1946-gennaio 1947), da allora e fino all’inizio degli anni Cinquanta, non partecipò più a nessun governo ed ebbe un’attività parlamentare assai ridotta (non fece parte di nessuna commissione, non depose alcuna proposta di legge, né alcuna risoluzione, intervenne poco), consacrandosi al partito e ai suoi mandati locali. Alla morte di Léon Blum nel 1950, diventò l’ispiratore della politica del partito.

L’interesse di M. per le questioni europee fu assai tardivo e risale agli inizi del 1948. La guerra aveva avuto come conseguenza di marginalizzare le tendenze più pacifiste del partito e, come la maggior parte dei suoi compagni, M. guardava nel 1945 innanzitutto all’ONU per organizzare la pace. Furono il blocco dell’istituzione, e soprattutto l’evoluzione del quadro internazionale a spingerlo a prendere in considerazione un’organizzazione autonoma dell’Europa e a dedicarvi buona parte delle sue energie e del suo tempo, contribuendo in questo modo a fare dell’integrazione europea uno degli obiettivi prioritari della SFIO e dell’europeismo uno dei tratti principali dell’identità politica dei socialisti francesi nel secondo dopoguerra (v. anche Integrazione, teorie della: Integrazione, metodo della). Questa svolta aveva anche un carattere tattico in quanto consentiva a M. di avvicinarsi agli europeisti più convinti della SFIO e di rafforzare la propria leadership all’interno del partito. Per quanto la sua conversione fu reale e il suo impegno diffuso, le sue mosse e i suoi interventi ebbero quasi sempre a che fare con gli equilibri interni al suo partito.

Il precipitare della Guerra fredda convinse quindi M. della necessità urgente di organizzare l’Europa occidentale. Conveniva, avrebbe riferito alla direzione il 18 febbraio del 1948, «accettare soluzioni europee prima di cercare di realizzare soluzioni mondiali, anche se queste soluzioni europee sono insufficienti, perché rappresentarono sempre qualcosa di meglio delle soluzioni semplicemente nazionali». Nella stessa riunione, inoltre, sostenne la necessità di organizzare l’Europa anche a prescindere da un suo contenuto prettamente socialista: «Non bisogna attendere che l’Europa sia socialista prima di federarla. Invece, una volta federata, bisognerà farla diventare socialista» (v. Federalismo). Il monopolio del tema federalista non andava lasciato ad altri. Una posizione, questa, lontana da quella espressa allora dal Labour, deciso a non andare al Congresso dell’Aia, ma condivisa dalla maggior parte del comitato direttivo del partito. Per solidarietà con gli inglesi, tuttavia, la SFIO non partecipò alla conferenza, ma vi inviò i suoi membri a titolo individuale. Nonostante M. non condividesse l’intransigenza del Labour, la sua volontà di coinvolgerlo nel processo in corso fu una costante della sua azione almeno fino all’inizio degli anni Cinquanta.

In un primo momento, M. cercò nella ricostruzione del Movimento socialista internazionale il modo per progettare e attuare questo ideale europeo. L’Internazionale socialista (IS) ricostituita si sarebbe dovuta impegnare nel processo in corso, conferendogli un’impronta socialista. Un’impronta necessaria per assicurare la costruzione di un’Europa terza forza, non neutrale, ma in grado di opporsi alla logica dei blocchi. Anche dopo la rottura del movimento socialista internazionale all’indomani del colpo di Praga, e fino al 1950, M. non rinunciò a questa idea terzaforzista; idea che, anzi, si rafforzò in un primo tempo proprio grazie alla prospettiva europeista. Partecipò attivamente alle consultazioni che il COMISCO (Committee of the international socialist conference) moltiplicò, dopo il febbraio del 1948, sull’organizzazione dell’Europa occidentale. Difese in quella sede la tesi, assieme ai rappresentanti dei paesi del Benelux, di un’Europa federale anche se, di fronte alla strenua opposizione di inglesi, scandinavi e tedeschi, cercò sempre di mediare, mosso dalla volontà – così avrebbe riferito a Jean Monnet – di evitare un’ulteriore rottura all’interno del socialismo occidentale. I suoi sforzi, tuttavia, furono vani: la ricostituzione dell’Internazionale socialista nel 1951, sancendo il carattere non prioritario dell’integrazione europea, si presentò come un espediente per nascondere il mancato accordo in quel campo e quello che, al suo interno, verrà chiamato il “polo anticomunitario” (composto essenzialmente da inglesi, tedeschi e scandinavi) rimase dominante nei primi anni dell’integrazione europea.

Parallelamente al suo impegno in seno al movimento socialista internazionale, M. partecipò alla creazione del Consiglio d’Europa. Aveva sostituito Blum, ammalato, al Comitato di studi creato all’indomani del Congresso dell’Europa dai governi firmatari del Patto di Bruxelles per fare delle proposte in prospettiva di una prima organizzazione politica dell’Europa. Membro dell’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa, ne diventò presidente nel 1954 (fino al 1956). Fu anche rapporteur, poi presidente, della commissione degli Affari generali del Consiglio d’Europa e presidente dell’intergruppo socialista (fino al 1956). Cercò di fare di quest’ultimo un luogo di mediazione tra le varie anime del socialismo europeo in tema di integrazione europea, cercando lì un terreno d’accordo irraggiungibile in seno al movimento socialista internazionale. In particolare, benché favorevole a un’organizzazione federale dell’Europa, si oppose ai progetti dei federalisti oltranzisti e sviluppò un approccio “funzionale”, sostenendo cioè la creazione di autorità specializzate con poteri reali ma limitati (v. Funzionalismo); un approccio sul quale sperava di ottenere il consenso dei laburisti.

Per M., l’Associazione del Regno Unito era necessaria essenzialmente per due motivi: da una parte, era fondamentale per la costituzione di un’Europa terza forza e, dato che i laburisti erano al governo, avrebbe rafforzato l’impronta del socialismo sul processo politico in corso; dall’altra, avrebbe consentito di creare una leadership anglo-francese, e quindi di affrontare con serenità l’integrazione della Germania. In effetti, per quanto fossero varie le motivazioni che spingevano M. a impegnarsi nel processo d’integrazione europea, motivazioni che avevano a che fare con lo sviluppo economico dei paesi europei, la loro autonomia internazionale o ancora la minaccia sovietica, il problema tedesco rimaneva, almeno in quegli anni, lo snodo centrale da risolvere. Il progetto che si proponeva di realizzare era quello delineato da Blum e cioè, in prospettiva, la piena integrazione della Germania in un’entità più grande, grazie a delle deleghe di sovranità nazionale.

Nonostante l’ostinazione di M., le relazioni con i laburisti si deteriorarono rapidamente, a causa della loro opposizione a qualsiasi formula sovranazionale, opposizione già chiara nei dibattiti del Consiglio d’Europa ma diventata del tutto esplicita in occasione del loro rifiuto del Piano Schuman reso effettivo nel giugno del 1950. Malgrado le reticenze stesse della SFIO riguardo al piano, M. fu fortemente deluso dall’atteggiamento britannico, che non mancò più, da allora, di criticare. Prendendo poi atto delle conseguenze della guerra di Corea, iniziata a fine giugno, M. rinunciò a presentare la sfida europeista come la ricerca di una “terza forza” europea. Fu proprio allora che René Pleven gli propose un posto di ministro di Stato incaricato del Consiglio d’Europa nel governo che stava formando (luglio 1950-marzo 1951); incarico che M. manterrà anche nel governo successivo (marzo-agosto 1951) in qualità di vicepresidente del Consiglio.

In un clima politico interno in cui gollisti e comunisti non perdevano occasione per denunciare i progetti di un governo del quale faceva ormai parte, e in cui a livello internazionale la pressione sovietica era quanto mai alta, l’esperienza ministeriale spinse M. a contemplare un’Europa senza la Gran Bretagna, all’interno dell’Alleanza atlantica: la scelta dell’Occidente non era mai stata messa in discussione da parte di M., ma fino a quel momento si era sempre rifiutato di accettare la logica dei blocchi, sperando che l’Europa potesse giocare un ruolo autonomo. Si dichiarò allora convinto che i britannici, vedendo la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) funzionare, avrebbero poi chiesto di farne parte. Inoltre, il loro passaggio all’opposizione nel 1951 faceva venir meno una delle ragioni della sua insistenza nel volere la loro presenza. La rinuncia alla presenza britannica era la premessa necessaria, invece, per accettare l’Europa dei Sei, anche se si trattava di un’Europa in cui l’impronta democristiana era forte. Per sua iniziativa, tuttavia, veniva inserito un protocollo nel trattato della CECA volto a organizzare delle relazioni strette con il Consiglio d’Europa; un legame che consentiva di mantenere i britannici inseriti in qualche modo nel processo in corso. E in seno all’Internazionale, M. continuò a cercare di mediare tra le varie anime del socialismo internazionale: nel congresso di Milano del 1952, dove diventò vicepresidente dell’Internazionale socialista (carica che manterrà fino al 1969), e dove si affermò esplicitamente l’opposizione tra laburisti e social-democratici tedeschi contro la “Piccola Europa” del Piano Schuman, continuò a frenare l’ardore dei socialisti del Benelux e fu il principale attore del compromesso finale il quale sottolineava la necessità di stabilire «un’intima associazione tra qualsiasi comunità specializzata e le nazioni del Consiglio dell’Europa che non fanno parte di questa comunità».

In quegli anni M. sviluppò ulteriormente il suo impegno europeo. Diventò membro dell’Assemblea della CECA (dal 1952 al 1956) e presidente del suo gruppo socialista. Moltiplicò incontri, dibattiti, articoli sia nella stampa nazionale che straniera, interventi all’Assemblea nazionale dove si consacrò essenzialmente, nella seconda legislatura (1951-1956), alle questioni europee. A partire dal 1952, partecipò alle riunioni del gruppo di Bilderberg, il cui obiettivo era riunire delle personalità europee influenti per riflettere sui modi di attenuare le tensioni tra americani ed europei.

Dopo essersi aspramente opposto a qualsiasi tipo di riarmo tedesco, M. prese atto, senza entusiasmo, dell’esigenza americana e decise di appoggiare la proposta di Pleven di un esercito integrato. Oltre a esprimere la propria solidarietà nei confronti di un governo di cui faceva parte, M. si convinse che la Comunità europea di difesa (CED) avrebbe consentito di risolvere sia il problema del riarmo tedesco che quello della minaccia sovietica. Da una parte, in effetti, avrebbe reso l’Europa «abbastanza forte perché, alleata degli Stati Uniti, scoraggiasse ogni tentativo di aggressione russa» e allo stesso tempo «abbastanza indipendente perché la Russia non abbia più da temere un’iniziativa di guerra preventiva o di crociata». Dall’altra parte, avrebbe consentito di controllare il riarmo tedesco per mezzo dell’integrazione. In effetti, se esso fosse avvenuto nel quadro dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), la Repubblica Federale Tedesca (RFT) sarebbe stata dotata di «tutti gli attributi della sovranità», a parità di diritto con gli altri membri, «con un esercito nazionale a disposizione di un governo, padrone del suo destino»; inoltre, l’Europa avrebbe perso un’occasione di affermarsi autonomamente. Se, invece, la soluzione fosse stata una Germania riunificata all’insegna della neutralità – così come chiedeva la Sozialdemokratische Partei Detschlands (SPD), sostenuta da alcuni settori della SFIO –, sarebbe diventata pericolosa, cadendo direttamente sotto il dominio sovietico o cercando un ruolo autonomo tra i due grandi. Perciò, una volta dato per acquisito il riarmo tedesco, l’integrazione della RFT nel quadro di una struttura europea diventava di assoluta necessità, e prioritario rispetto a qualsiasi velleità di Riunificazione tedesca: una posizione, questa, che allontanava M. dai social-democratici tedeschi e lo riavvicinava al Mouvement républicain populaire (MRP) e, in fin dei conti, a Konrad Adenauer. Tutto, inoltre, doveva essere fatto per assicurarsi la partecipazione della Gran Bretagna, anche a costo di rinunciare al carattere sovranazionale della Comunità. M. chiese, ad esempio, che dei parlamentari britannici potessero seguire i lavori dell’Assemblea ad hoc. Nel caso i britannici non avessero voluto partecipare, cosa che successe nei fatti, una formula di associazione avrebbe dovuto essere trovata.

L’insistenza sulla “garanzia” britannica aveva un suo ruolo nei dibattiti interni alla SFIO: nell’insieme, il partito seguiva la posizione espressa da M., ma una minoranza attiva e composta da alcuni grandi leader (ad esempio Jules Moch, presidente della commissione Affari esteri dell’Assemblea nazionale; Max Lejeune, presidente della commissione della Difesa nazionale) era sempre più ostile al progetto. Tuttavia, tale insistenza rispondeva anche al timore, sempre presente in M., di un confronto diretto franco-tedesco. Permette infine di capire perché, favorevole alla CED, egli si oppose invece al progetto di Comunità politica europea (CPE), anche se partecipò ai lavori della commissione costituzionale dell’Assemblea ad hoc. In effetti, se l’assenza britannica non precludeva la costituzione di comunità “specializzate” sull’esempio della CECA, impediva invece, secondo M., la costruzione di una “comunità politica”. Per quanto condannasse l’atteggiamento britannico, M. riteneva che una “federazione continentale”, limitata a sei paesi, avrebbe segnato definitivamente la rottura politica dell’Europa occidentale.

Nonostante il congresso della SFIO del luglio del 1954 si fosse pronunciato a favore della ratifica del trattato con una maggioranza ragguardevole, rifiutando ai parlamentari la libertà di voto – parlamentari di cui la metà circa si era più volte espressa contro – le ribellioni si moltiplicarono durante quel periodo: la commissione degli Affari esteri rigettava il trattato il 9 giugno con l’appoggio di sei socialisti; il 18 giugno, fu il turno di quella della Difesa nazionale con quattro socialisti che votarono contro; e il 30 agosto, mentre 53 socialisti rispettavano il verdetto del partito, 50 si esprimevano contro la ratifica del trattato. Voti che, com’è noto, avrebbero consentito, nel caso fossero stati favorevoli, la ratifica del trattato. Per quanto la situazione fu al momento difficile per M. in quanto un progetto che aveva sostenuto e sul quale si era molto impegnato naufragava a causa di una parte del suo gruppo parlamentare, le ribellioni furono rapidamente domate e M. ne approfittò per rafforzare la propria leadership nel partito.

Sempre in polemica con i suoi avversari interni e benché si congratulasse della partecipazione della Gran Bretagna alla soluzione approvata con gli Accordi di Londra e Parigi, M. non mancò un’occasione per ricordare quanto la formula proposta da Pleven fosse migliore: dava più autonomia all’Europa; controllava meglio il riarmo tedesco; approfondiva il processo d’integrazione europea. Per M., l’esistenza di un’Europa forte e sicura era il presupposto per la coesistenza pacifica e non un suo corollario. L’ordine di priorità era quindi invariato: prima la difesa dell’Europa – che passa attraverso l’aiuto americano – e poi il dialogo con l’URSS. La CED tuttavia avrebbe reso l’Europa meno dipendente dagli Stati Uniti. Inoltre, egli riteneva che con una sovranità recuperata «senza contropartita né restrizione», per i tedeschi sarebbe stata forte la tentazione di assumere un atteggiamento più nazionalista che europeo. Infine, M. sottolineava quanto, con il fallimento della CED, l’integrazione europea avesse subito una battuta d’arresto. Bisognava cercare di migliorare gli Accordi di Londra attraverso in particolare l’attuazione di un controllo democratico e, soprattutto, evitare che tale sconfitta compromettesse l’integrazione economica dell’Europa e impedisse il suo approfondimento. M. uscì dalle vicende della CED rafforzato nella sua convinzione che l’Europa funzionale e settoriale fosse la più idonea al raggiungimento di un’intesa tra i vari paesi coinvolti.

Oltre a considerare l’esito della Conferenza di Messina deludente, M. manifestò il suo sostegno a favore del rilancio del processo d’integrazione europea in primo luogo all’interno del proprio partito, dove sostenne l’adozione di una linea più decisamente europeista in occasione del Congresso nazionale tenutosi alla fine di luglio del 1955. In concomitanza con l’accrescersi della tensione in Algeria, l’Europa non era più vista principalmente come il frutto di una necessaria riconciliazione franco-tedesca, ma diventava sempre più, nei programmi della SFIO, lo strumento dello sviluppo economico della Francia e il quadro per un ripensamento delle relazioni con i territori d’oltremare. Inoltre, se fino ad allora M. aveva sempre cercato di mediare tra “europeisti” e “anticomunitari” in seno all’Internazionale, venendo spesso incontro ai laburisti, adottò una linea molto più decisa a favore dell’integrazione europea in occasione del IV Congresso nel luglio 1955, cercando di rafforzare il polo europeista e di attirarvi i tedeschi. In effetti, all’indomani della Conferenza di Messina, Jean Monnet aveva chiesto a M. di partecipare al suo Comitato per gli Stati Uniti d’Europa in via di costituzione. M. accettò alla chiusura del IV congresso dell’IS, dopo aver ricevuto l’“autorizzazione” dalla SFIO, ma soprattutto subordinando la propria adesione – in una lettera a Monnet – alla partecipazione dei social-democratici tedeschi. Per quanto la svolta europeista della SPD fosse ancora agli albori, è probabile che M. abbia approfittato dell’occasione per trovare un terreno d’accordo con i tedeschi. A fine luglio, Ollenhauer aderiva al Comitato, trascinando con sé il proprio partito. Cominciava così a delinearsi una convergenza tra la SFIO, la SPD e i partiti del Benelux nel considerare l’Europa come il terreno per un modello di sviluppo economico e sociale alternativo a quello laburista e a quello scandinavo. Ciò dimostrava, inoltre, come M. desse ormai la priorità all’Approfondimento del processo d’integrazione europea rispetto al suo Allargamento: ossia la piena accettazione piena della “Piccola Europa”, anche se la presenza britannica sarebbe sempre stata fortemente auspicata. L’adesione al Comitato significava anche l’accettazione consapevole di una necessaria collaborazione con la Democrazia cristiana e altre formazioni europeiste per l’approfondimento del processo d’integrazione.

Per alcuni osservatori, sia la scelta di M. alla presidenza del consiglio all’indomani delle elezioni da parte del presidente Coty, sia poi quella di Christian Pineau agli Esteri da parte di M., fu il frutto della volontà europea di questi leader. In realtà, la loro prima preoccupazione all’epoca fu quella di trovare una maggioranza in Parlamento. Mentre il precipitarsi della situazione algerina raccomandava di formare un governo forte e stabile, nessuna formazione o coalizione era in grado di governare da sola. Composta dai moderati, democristiani, radicali “fauristi”, Union démocratique et socialiste de la Résistance (UDSR) dissidenti e gollisti, la coalizione di centrodestra usciva nettamente vincente con poco più del 32% dei voti, ma l’Assemblea nazionale risultava di fato spostata a sinistra: i comunisti ottenevano circa il 25% dei voti; il Fronte repubblicano, coalizione composta da socialisti, radicali mendesisti e alcuni rappresentanti dell’UDSR, circa il 27% mentre l’estrema destra raggiungeva quasi il 13%. Data la chiara intenzione dei socialisti di non allearsi con i comunisti, la soluzione si sarebbe trovata al centro. In questo quadro, Coty affidò l’incarico al leader del principale partito in grado di costituire un tale governo, ovvero la SFIO che aveva ottenuto circa il 15%, 4 punti percentuali in più dei radicali di Pierre Mendès France e dei democristiani. Tale decisione suscitò un’accesa polemica da parte dei mendesisti, soprattutto per la scelta di Mollet di affidare il ministero degli Esteri a Christian Pineau; un posto che Mendès rivendicava per sé. Sicuramente più carismatico di M., egli si era fatto però numerosi nemici, sia per il suo stile di governo che per alcune sue scelte. Inoltre, benché l’ipotesi di un sostegno a un governo Mendès fosse prospettata da alcuni socialisti, essi non avevano nessun interesse ad appoggiarlo a partire dal momento in cui potevano legittimamente chiedere la presidenza per uno di loro. Inoltre, per quanto concordassero in linea di massima sulla questione algerina, erano ben consapevoli di non poter portare avanti una politica economica e sociale comune. Non sono poi da escludere incompatibilità personali tra Mendès e M. ed è anche noto che Mendès aveva da sempre espresso delle posizioni sull’Europa molto caute. Se è vero, quindi, che Coty e poi M. erano convinti della necessità di andare avanti con il processo d’integrazione europea, le loro scelte avevano come principale obiettivo quello di ottenere il sostegno dei democristiani per la costituzione di un governo stabile. Di fatto, il governo di minoranza costituito da M. fu investito da un’ampia maggioranza (420 voti contro 71), grazie a un doppio sostegno: quello del PCF, deciso a uscire dal ghetto nel quale si trovava dal 1947 e quello del Mouvement républicain populaire (MRP), desideroso di non apparire troppo a destra, e pronto ad aiutare M. nel suo percorso europeo.

Non è sempre facile ricostruire il ruolo di M. – una volta diventato presidente del Consiglio – nel portare la Francia nei negoziati del Mercato comune europeo (v. Comunità economica europea) e dell’Euratom. Non era affatto scontato nel gennaio 1956, e ancora meno nell’ottobre dello stesso anno – quando i negoziati sembravano a un punto fermo – che quelli che sarebbero diventati i Trattati di Roma potessero effettivamente realizzarsi. Il governo francese non era il solo a creare delle difficoltà e l’Europa non era una questione di primo piano nell’agenda politica francese. Di fatto, M. non se ne occupò direttamente, se non in rare occasioni, e le sue scelte apparivano spesso di carattere strategico o dettate dalle circostanze. L’Europa consentiva di ottenere maggioranze in parlamento e qualcuno ha voluto vedere nel rilievo dato al tema dall’autunno in poi il tentativo per cancellare l’umiliazione subita a Suez. Se è vero che i fatti di Ungheria, così come la crisi di Suez o la decolonizzazione contribuissero ad accelerare i negoziati, è anche vero che bisognava fare i conti con un’opinione pubblica spesso reticente se non ostile e che la situazione economica e finanziaria della Francia – a causa della guerra d’Algeria – raccomandava sul breve periodo la prudenza. In questo contesto, il ruolo di M. fu fondamentale per due ragioni: in primo luogo, avendo a che fare con un governo diviso sul tema, seppe circondarsi di una “squadra” di europeisti convinti alla quale non fece mai mancare il proprio sostegno; in secondo luogo, ebbe un ruolo decisivo nel risolvere il contenzioso con i tedeschi, prima di tutto per quanto riguardava la Sarre, e poi più in generale sui Trattati stessi. Se quindi M. non ebbe un ruolo di primo piano nei negoziati per i due Trattati, questi due elementi, così come la cronologia dei suoi interventi, testimoniano la sua volontà politica di portare avanti il processo.

M. non era stato promotore dei progetti in corso, ma sosteneva l’attività del Comitato d’azione per gli Stati uniti d’Europa (CASUE) di cui era membro e a più riprese, nella seconda metà del 1955, aveva accusato il governo di Maurice Faure di lasciare insabbiare i negoziati avviati a Messina. Da un punto di vista ideale, in effetti, M. si dimostrava convinto dell’interesse per la Francia di approfondire il processo d’integrazione europea, non tanto per entusiasmo, come ha notato Gérard Bossuat, ma per “obbligazione storica ragionata”. A metà degli anni Cinquanta, M. riteneva che una maggiore integrazione rappresentasse una possibile risposta a vari problemi di allora: indipendenza, sicurezza, crescita e prosperità. Prima di tutto, avrebbe contribuito a risolvere la crisi dello Stato nazionale e il problema del declino dei paesi europei – in primis la Francia – e le loro difficoltà a pesare a livello internazionale: era questo il vecchio sogno di un’Europa terza forza, in grado di agire autonomamente tra i due grandi. Non si trattava di rimettere in discussione l’Alleanza atlantica ma di tentare di modificarne gli equilibri interni. L’Europa diventava il quadro all’interno del quale la Francia avrebbe potuto rafforzarsi ed esprimere di nuovo la propria potenza. Avrebbe accompagnato il processo di decolonizzazione in corso, attenuandone il peso per la Francia. Ancora nel 1956, era ampiamente diffusa l’idea secondo la quale i territori d’oltremare rappresentavano uno strumento della potenza. M. era convinto che i paesi dell’Africa nera dovevano acquisire l’indipendenza e nel giugno del 1956 fu firmata la legge quadro per i Territori d’oltremare. Sosteneva tuttavia l’“Eurafrica” – un’idea cara al ministro socialista Gaston Defferre – quale soluzione per accompagnare il processo di decolonizzazione mantenendo le ex colonie nell’alveo dei paesi europei e quindi della Francia, ed evitare che queste potessero cadere sotto l’influenza dei due grandi (v. anche Regioni ultraperiferiche dell’Unione europea). In secondo luogo, l’Europa avrebbe consentito di risolvere la questione tedesca, ancorando la Germania all’Occidente; una necessità sempre viva per assicurare la sicurezza della Francia e dell’Europa, soprattutto dopo il recupero da parte della RFT della sua piena sovranità e di fronte al dinamismo economico e industriale tedesco. Infine, avrebbe assicurato, meglio di ogni singolo paese, la prosperità dei lavoratori, grazie in particolare all’esportazione del modello sociale francese.

Presentandosi alla Camera per chiedere l’investitura, M. fece dell’Europa uno dei pilastri della futura azione del suo governo in un discorso tuttavia molto cauto, dando la priorità all’Euratom e prospettando invece per il Mercato comune negoziati più lunghi e l’adozione di misure volte a garantire gli interessi delle imprese francesi e dei lavoratori. La priorità data all’Euratom era in sintonia con la preferenza di M. per le autorità specializzate e godeva del sostegno degli americani. Era anche la testimonianza della volontà di M. di fare presto un passo avanti perché, insieme ai suoi consiglieri, prevedeva negoziati lunghi e complicati per il MEC. Era, infine, secondo numerosi attori dell’epoca, l’espressione del timore che, dato il precedente della CED e le forti reticenze di vari ambienti francesi verso il Mercato comune, l’associazione dei due progetti avrebbe rischiato di provocare una nuova bocciatura da parte dell’Assemblea nazionale e, in questo modo, avrebbe fatto fallire entrambi i progetti. Pineau ha sottolineato ripetutamente come non fosse mancata da parte di M. la volontà di realizzare il MEC e quanto fosse tattica la mossa volta a gettare con Euratom un velo sul Mercato comune per farlo meglio accettare.

In effetti, l’Euratom godeva del sostegno dei vari organi politici e tecnici coinvolti e il governo francese stesso si era convertito all’idea di un pool europeo dell’energia atomica alla vigilia della Conferenza di Messina, al punto da diventare uno dei massimi sostenitori del progetto. Da una parte, gli esperti si preoccupavano dei bisogni energetici dei paesi europei per assicurare la crescita delle economie senza incrementare la dipendenza dagli Stati Uniti e dal Medio Oriente. Dall’altra parte, non era assente il timore che la Germania, molto dinamica a livello economico, raggiungesse una posizione dominante nell’ambito del nucleare in Europa, posizione che la Francia intendeva mantenere per sé. Infine, e forse soprattutto, il Commissariato all’energia atomica (CEA) e il ministero della Difesa si erano convinti che il procedere del nucleare militare francese, ritenuto essenziale (sia per le sue virtù difensive, sia per il prestigio e il peso che avrebbe dato alla Francia), sarebbe stato possibile solo grazie a un progetto come l’Euratom, che si sarebbe fatto carico delle spese del nucleare civile e avrebbe potuto portare a un’utile cooperazione. Il tutto alla condizione, però, che la libertà della Francia in materia rimanesse totale.

M. si era da tempo dichiarato favorevole al nucleare civile ma contrario alla produzione di armi. Nel marzo del 1955, la direzione della SFIO aveva assunto una posizione negativa a riguardo. Riprendendo la linea elaborata dal Comitato di Monnet, M. sottolineò che l’Euratom avrebbe sviluppato delle attività prettamente pacifiche e che gli Stati membri avrebbero dovuto rinunciare all’arma atomica. Tuttavia, la sua dichiarazione suscitò una tale levata di scudi in quegli ambienti che fino ad allora avevano sostenuto il progetto che M. si vide a fare marcia indietro. Nella primavera del 1956, accettò l’idea del nucleare militare e della necessità di mantenere per la Francia spazi di manovra autonomi in quel settore. In particolare, la Francia chiese che fosse data un’interpretazione restrittiva della moratoria proposta da Paul-Henri Spaak e alla quale Pineau aveva aderito a Bruxelles: essa avrebbe dovuto limitarsi a impegnare i governi a non procedere a prove nucleari durante 4 o 5 anni ma non impedire di proseguire nelle ricerche e dunque interrompere il programma nucleare militare francese. Nel novembre del 1956, M. firmò un protocollo – preparato durante l’estate – per gli anni 1957-1961 che prevedeva studi preparatori alla realizzazione di esplosioni atomiche sperimentali. Un protocollo che, dati gli estremi cronologici, rientrava nei parametri della moratoria così come intesa dal governo francese. Tornato all’opposizione, M. diventerà uno dei più accaniti oppositori alla force de frappe del generale.

Consapevole di avere l’appoggio dei principali interessati – e nonostante il progetto non fosse ancora definitivo e il sussistere di vari dissensi con i partner europei, in particolare con i tedeschi –, il governo organizzò un dibattito parlamentare il 6 luglio 1956 sull’Euratom per valutare la posizione della maggioranza sulle questioni europee. Fu chiesto l’intervento di due esperti non parlamentari per cercare di depoliticizzare il dibattito: Francis Perrin dell’Alto commissariato al CEA e Louis Armand, presidente della Sociéte nationale des chemins de fer (SNCF). La speranza era che l’appoggio dato al progetto da parte del Parlamento (avvenuto nei fatti l’11 luglio con un’ampissima maggioranza) avrebbe aperto la strada al Mercato comune.

Qualche settimana prima del dibattito in aula, in effetti, alla Conferenza di Venezia, la Francia aveva finalmente accettato di entrare nei negoziati sul Mercato comune e di portarli avanti parallelamente a quelli sull’Euratom, cosa sulla quale i partner della Francia insistevano da tempo. Il passo non era scontato dato che, al contrario di quanto avvenuto per l’Euratom, si dovevano affrontare numerose resistenze, se non opposizioni, che provenivano dagli ambienti professionali interessati ai trattati (industriali e agricoltori), ma anche dall’Alta amministrazione e dai vari ministeri, nonché da parte di alcuni settori del Parlamento, comprese le file socialiste (nonostante il congresso di luglio avesse ribadito il pieno appoggio alla politica europeista del suo segretario generale). Le perplessità riguardavano principalmente le capacità dell’economia francese di sostenere la concorrenza europea, in particolare tedesca (da qui le richieste di armonizzazione dei carichi sociali e dei costi di produzione, di politiche monetaria e fiscali comuni, ecc.), il carattere giudicato troppo sovranazionale del progetto (da qui la richiesta di prevedere una progressione per tappe e la non automaticità nel passaggio dalla prima alla seconda), l’associazione al MEC dei territori d’oltremare e la necessità di prendere maggiormente in considerazione l’agricoltura.

Di fronte a tali resistenze, la strategia del governo consistette nel rendere partecipi il più possibile questi vari ambienti grazie in particolare all’organizzazione di cui M. si circondò. Oltre al socialista Christian Pineau come ministro agli Esteri e al radicale Maurice Faure come sottosegretario, M. si affidò a Robert Marjolin, segretario generale dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), il quale diventò consigliere tecnico di Christian Pineau e vicepresidente della delegazione francese nei negoziati per il MEC e l’Euratom. Prese come consigliere Alexandre Verret, il quale diventò presidente della commissione interministeriale per il MEC, il cosiddetto Comité Verret, incaricato di gestire i negoziati in particolare con i vari gruppi di pressione. Infine Émile Noël diventò il suo direttore di gabinetto a Matignon, incaricato di preparare i negoziati e di seguirli. Noël era già stato direttore di gabinetto di M. dal 1954 al 1956 quando era presidente dell’assemblea consultativa del Consiglio d’Europa e lavorò in particolare con Jean-François Deniau, Jacques Donnedieu de Vabres, Jean-François Poncet e Georges Vedel.

Questa “squadra”, come già accennato, ebbe sempre il pieno appoggio di M. Pineau ricorda come tale appoggio fosse decisivo in particolare in occasione della Conferenza di Venezia in quanto gli diede carta bianca per accettare il Rapporto Spaak come base per negoziare i trattati. A settembre – quindi prima ancora della crisi di Suez – mentre i negoziati sembravano di nuovo a un punto fermo, M. insisté di fronte alle reticenze in particolare del suo ministro delle Finanze Paul Ramadier che il Mercato comune era un bene di per sé, anche per la Francia. E di nuovo a ottobre in comitato interministeriale ribadiva: «Il mercato comune sarà sul lungo periodo e anche sul medio termine benefico per la Francia mentre il mantenimento della situazione attuale non può che condurre a una catastrofe».

Oltre a coinvolgere Parlamento e ambienti interessati ai progetti in dibattiti preparativi ai negoziati, M. e i suoi consiglieri erano convinti di dover agire direttamente presso i tedeschi per sbloccare i vari ostacoli legati a divergenze tra i partner europei. In effetti, reiterate in autunno, le richieste della Francia – sull’armonizzazione dei carichi sociali, il mantenimento di aiuti speciali al commercio estero, una tariffa esterna comune elevata, l’associazione dei Territori d’oltremare, il diritto di ritirarsi dopo una prima tappa, una clausola di salvaguardia in caso di difficoltà della bilancia dei pagamenti, il diritto di costruire la bomba atomica, una Politica agricola comune – avevano contribuito a rendere ulteriormente tesi i rapporti.

Già nel giugno del 1956, in un incontro tra M. e Adenauer a Lussemburgo, era stato raggiunto l’accordo sulla Sarre e la canalizzazione della Moselle. Il 25 ottobre 1955, in effetti, un referendum aveva sancito il fallimento dello statuto di europeizzazione della Sarre voluto dai francesi e deciso il suo reintegro nella Germania. La Francia tuttavia continuò a cercare di ottenere delle contropartite in cambio del suo ritiro. L’accordo raggiunto il 4 giugno portò alla firma del Trattato di Lussemburgo il 27 ottobre, dopo un secondo incontro tra M. e Adenauer a Bonn il 29 settembre. Il contenzioso finalmente sanato rappresentava una premessa al raggiungimento di una maggiore intesa. Il 31 ottobre, M. scriveva nuovamente ad Adenauer per sottolineare l’importanza storica della sua visita a Parigi prevista per il 6 novembre. Accennando al fallimento della riunione degli Affari esteri del 20 e 21 ottobre, M. sottolineava, al di là del loro carattere tecnico, il significato politico “considerevole” dei problemi da affrontare, e proponeva di approfittare dell’incontro per prendere su tali problemi una posizione comune ai due governi (politica comune degli approvvigionamenti e proprietà delle materie fissili per l’Euratom; armonizzazione di alcuni carichi sociali e disposizioni relative alla situazione della Francia per il MEC).

La storiografia è unanime nel considerare decisivo l’incontro del 6 novembre. L’annuncio del necessario ritiro francese da Suez durante i colloqui, che evidenziava ulteriormente la debolezza francese ed europea sulla scena internazionale, nonché i fatti d’Ungheria, avevano suscitato non pochi timori per la sicurezza e l’indipendenza dell’Europa presso i dirigenti ma anche presso l’opinione pubblica. In questo contesto M. e Adenauer si dimostrarono pronti a superare alcune divergenze. Sull’Euratom, fino ad allora, la Germania intendeva colmare autonomamente e con l’aiuto degli anglosassoni, il proprio ritardo sulla Francia nel settore nucleare civile e, non potendo sviluppare il nucleare militare, non intendeva servire le ambizioni francesi. Si era inoltre opposta al principio di un monopolio da parte dell’Euratom dell’acquisto e delle forniture dei prodotti fissili. Una misura, quest’ultima, voluta invece dai francesi, proprio per impedire lo sviluppo di un’industria nucleare tedesca autonoma, consentendo nello stesso tempo a quella francese il beneficio di avere la materia prima in quantità e a prezzo minore. In seguito all’incontro del 6 novembre, Adenauer accettò in particolare di lasciare la Francia andare avanti nel campo del nucleare militare: l’Euratom non avrebbe controllato l’uso delle materie fissili destinate all’ambito militare (il trattato non prevedeva, già dalla fine del 1956, limitazioni alla produzione di armi per gli Stati) e avrebbe invece potuto controllare la loro distribuzione. All’indomani del 6 novembre, tuttavia, venivano anche poste le basi per una collaborazione franco-tedesca nell’ambito degli armamenti, compresi quelli nucleari. Questa collaborazione bilaterale, parallela all’Euratom, portò in particolare agli Accordi di Colomb-Béchar del gennaio 1957. Sul MEC, la Francia cedeva sulla settimana di 40 ore e si impegnava a non mettere il proprio veto allo sviluppo dello stesso MEC dopo un primo periodo di 4 anni. In cambio otteneva di conservare tasse all’importazione e aiuti all’esportazione nell’attesa di risolvere il problema della bilancia dei pagamenti. Invece, l’incontro del 6 novembre non portò a nessun risultato per quanto riguardava la politica agricola comune e i Territori d’oltremare, nonché la questione della tariffa esterna comune, argomenti sui quali il governo francese, dietro l’insistenza dei ministri socialisti delle Finanze Ramadier e della Francia d’oltremare Defferre, avrebbe insistito fino alla firma dei trattati.

Nel gennaio del 1957, si svolse alla Camera il dibattito sul mercato comune – simile a quello sull’Euratom del luglio precedente. In quell’occasione, mentre Pineau insisteva sul MEC come strumento di modernizzazione dell’industria e dell’agricoltura francese, M. accentrò il suo discorso sulla possibilità offerta dal progetto di proiettare il modello sociale francese in tutta l’Europa, di fare dell’Europa uno strumento di progresso sociale e di rafforzare attraverso di essa la Francia. Il Parlamento approvò ad ampia maggioranza un ordine del giorno presentato dal presidente del gruppo parlamentare socialista Verdier che felicitava il governo per la sua politica europea, dettando però alcune condizioni: la conferma degli accordi presi sull’armonizzazione dei carichi sociali, l’attuazione di una politica agricola comune, l’inserimento dei Territori d’oltremare nel trattato. Sui Territori d’oltremare, Defferre insisté particolarmente chiedendo che la loro sorte fosse decisa prima della firma del trattato, e ottenne il sostegno di M., nonostante il parere contrario di Faure. Il problema fu risolto durante la conferenza di Parigi del febbraio 1957. In quell’occasione, M. poté formulare la speranza che dalla comunità economica potesse scaturire una comunità politica. Nonostante fosse dispiaciuto della mancata presenza britannica, non diede mai la preferenza a una zona di libero scambio così come gli inglesi proponevano. Il trattato, dopo la caduta del governo M., fu ratificato da un’ampia maggioranza in Parlamento a luglio.

L’Europa non rappresentò per M. un motivo di opposizione al ritorno di Charles de Gaulle, nonostante la questione fosse stata posta da alcuni membri del partito nel maggio del 1958. Se affermò molto rapidamente il suo disaccordo con la politica europeista del generale, M. mantenne per il partito una posizione molto cauta fino al 1962. A partire da quel momento, la politica europea diventò uno dei principali temi di opposizione della SFIO e di M. alla politica del generale. Non condivideva in particolare i presupposti del Piano Fouchet e la sua concezione dell’asse franco-tedesco. Tuttavia, la sua attività in quel settore fu sempre meno importante.

In una lettera indirizzata a Suzanne M. del 28 settembre 1977, due anni dopo il decesso del marito, Jean Monnet affermava di aver «sempre considerato che il ruolo di Guy Mollet nella costruzione dell’Europa era rimasto sconosciuto», dichiarandosi «convinto che fu tra coloro che hanno contribuito maggiormente alla costruzione europea ».

Christine Vodovar (2012)




Monaco, Riccardo

M. (Genova 1909-Roma 2000) nel 1930, sotto la guida di Giuseppe Ottolenghi, conseguì la laurea in Giurisprudenza presso l’Università di Torino con una tesi in Diritto internazionale sui rapporti tra il diritto internazionale e il diritto interno, ottenendo nel 1933 la libera docenza nella stessa materia.

Tuttavia, fin dai primi anni della sua attività di studioso emerse la spiccata propensione di M. a collegare i propri interessi teorici alla concretezza dei rapporti giuricidi. Conferma di questa sua naturale inclinazione a non limitarsi alla speculazione teorica fine a se stessa, ma al contrario, a prestare attenzione alla sua ricaduta nella prassi, è la sua carriera di magistrato che lo vide uditore presso il Tribunale di Torino, pretore a Perosa Argentina, giudice presso il Tribunale di Cuneo e giudice istruttore nuovamente a Torino. Infine, prima di abbandonare la magistratura, a riprova dell’imprescindibile legame tra teoria e prassi che contraddistinse la sua attività di giurista, M. partecipò ai lavori di riforma dei codici, che portarono alla emanazione del codice di procedura civile, del codice civile e del codice della navigazione. In particolare, il contributo di M. fu determinante per la formulazione delle norme di diritto internazionale privato del codice di navigazione.

Nel 1939, vinto il concorso per la cattedra di Diritto internazionale, insegnò prima a Cagliari e poi all’università di Modena. Infine, nel 1942, venne chiamato a Torino alla cattedra di Istituzioni di diritto pubblico. Negli anni torinesi, rifacendosi alla teoria istituzionale di Santi Romano, M. enunciò la propria costruzione sistematica del diritto internazionale e approfondì lo studio del diritto internazionale privato.

Tuttavia, la sua naturale inclinazione a considerare la speculazione teorica collegata imprescindibilmente con la prassi, lo portò a decidere nel 1949 di rientrare in magistratura come consigliere di Stato. In realtà, alla decisione contribuì in maniera fondamentale l’incarico di seguire i problemi legati all’esecuzione dei trattati di pace (cui si aggiunsero quelli collegati ai negoziati per la creazione della Organizzazione europea per la cooperazione economica), che M. aveva assunto nel 1947 presso l’ufficio trattati del ministero degli Affari esteri (MAE), di cui in seguito divenne direttore. Inoltre, nel 1953 e nel 1955 prese parte come componente della delegazione italiana rispettivamente alla Conferenza di Roma per la formazione di una Comunità politica europea e alla Conferenza di Messina per il rilancio della cooperazione europea.

I quasi vent’anni di collaborazione con il MAE in diversi uffici (ufficio trattati, contenzioso diplomatico e dei trattati e degli affari legislativi), incisero notevolmente sugli interessi di studio di M. che, distaccandosi dai temi classi del diritto internazionale pubblico e privato, oggetto dei suoi studi fino a quel momento, si rivolse ai temi delle nuove forme di cooperazione tra gli Stati sviluppatasi nel secondo dopoguerra. La sensibilità e l’attenzione per questi nuovi fenomeni trovarono conferma nel fatto che M. fu chiamato nel 1956 a tenere il primo corso in Italia di Organizzazione internazionale presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma “La Sapienza”.

Dopo avere pubblicato alcuni scritti sulla Comunità europea del carbone e dell’acciaio, la nascita delle due nuove comunità fu motivo di ulteriore approfondimento che lo portarono a fondare nel 1961 la “Rivista di diritto europeo”, di cui in seguito fu anche direttore, nonché alla pubblicazione dei volumi Primi lineamenti di diritto pubblico europeo (1962), Commentario al Trattato istitutivo della CEE (1965) e Manuale di diritto comunitario (1983).

Nella comprensione del sistema comunitario il contributo teorico di M. è stato notevole. Egli fu il primo nell’ambito della dottrina internazionalistica a capire che il fenomeno dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) rappresentava un unicum nel panorama delle forme di cooperazione istituzionalizzata tra Stati. M. comprese infatti che le tre Comunità non erano semplici unioni di Stati, bensì comunità sopranazionali nelle quali le forme di cooperazione erano molto più accentuate di quelle esistenti nelle consuete organizzazioni internazionali. Sempre tra i primi, si accorse che l’efficacia diretta delle norme comunitarie nell’ordinamento nazionale (v. anche Diritto comunitario) metteva in discussione il tradizionale principio della distinzione e separazione tra ordinamento internazionale e interno, con la conseguenza che tale principio non sembrava potere più trovare applicazione nei rapporti tra i due ordinamenti. Come per le sue precedenti esperienze, alla fase speculativa seguì quella di operatore calato nella realtà concreta dei rapporti giuridici: dall’8 ottobre 1964 al 3 febbraio 1976 fu giudice alla Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) di Lussemburgo. Dopo avere lasciato la Corte di giustizia, M. fu segretario generale e in seguito presidente dell’Istituto per l’unificazione del diritto privato (UNIDROIT).

Massimo Orzan (2010)




Mondo agricolo francese e la Politica agricola comune

È universalmente riconosciuto il ruolo fondamentale che il mondo agricolo francese svolge nella Politica agricola comune (PAC), sia per quanto attiene alla fase costituente della prima grande politica comunitaria, sia per i benefici che il paese seppe e sa ottenere dalla PAC. Questa situazione è dovuta sia alla centralità della Francia nella prima fase del processo di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), durante la quale fu creata la PAC, sia alla capacità di questo paese di negoziare, imporre e concertare con gli altri paesi membri una politica che si adattasse alle necessità francesi. Tale capacità si è mantenuta inalterata dalla firma dei Trattati di Roma sino agli attuali tentativi di riformare la PAC stessa, così che il rapporto tra il mondo agricolo francese e la PAC è di stretta connessione e correlazione.

L’attitudine francese verso i negoziati europei che, dal 1945 in poi, cercavano di creare organizzazioni di mercato agricolo fu di preoccupazione. Soltanto negli anni Cinquanta si comprese che la politica agricola francese, i cui obiettivi furono disegnati dal “Plan de modernisation et equipement, 1947-1950” (conosciuto come Piano Monnet, in quanto fu Jean Monnet che ne diresse l’elaborazione), poteva essere sostenuta nelle sue finalità, e anche economicamente, dalla Comunità economica europea. Da quel momento gli interessi agricoli francesi e comunitari hanno spesso coinciso. I governi francesi iniziarono a rendersi conto dell’importanza che il settore primario comunitario avrebbe potuto avere per le campagne francesi durante le prime fasi del processo di integrazione, poco prima della fine dei lavori della Commissione Spaak; divenne convinzione condivisa da tutti i governi francesi dopo che, nel 1958, nacque la PAC durante la Conferenza di Stresa e si comprese che il ruolo giocato dalla Francia era tale da poter creare i presupposti di una politica strettamente funzionale alle esigenze nazionali, basate sulla trasformazione dell’agricoltura francese in un settore di esportazione. Infatti, la riduzione della produzione agricola dell’Europa orientale, l’aumento di popolazione dell’Europa occidentale e i problemi monetari che avevano ridotto la capacità di ottenere forniture dall’area del dollaro incoraggiarono un nuovo dinamismo dell’agricoltura francese nel mercato europeo, che avrebbe permesso un ampliamento della produzione interna, accompagnata da mercati di sbocco sicuri e ad alti prezzi. Era questa una condizione che il governo francese da solo non poteva garantire in alcun modo, se non stabilendo accordi duraturi per l’esportazione delle eccedenze.

Le preoccupazioni dell’agricoltura francese non erano limitate alla ricerca di mercati di sbocco per aumenti provvisori della produzione agricola, necessari a una momentanea ripresa della bilancia dei pagamenti, ma erano anche quelle di provvedere nel lungo periodo all’individuazione di mercati che permettessero una risoluzione definitiva dei problemi agricoli del paese. In questo modo l’interazione tra politica economica interna e politica economica internazionale divenne di importanza cruciale, e si iniziò a pensare che mercati di sbocco garantiti e preferenza europea per eccedenze ad alti costi dovevano essere salvaguardati da un mercato comune agricolo sulla falsa riga del Piano Schuman. Inoltre, alla metà degli anni Cinquanta la situazione mondiale agricola era caratterizzata da una parte da una continua espansione della produzione, dall’altra dall’accumulazione di eccedenze di alcuni prodotti in un numero ristretto di paesi, tra i quali, in primo luogo, gli Stati Uniti che, nel tentativo di contenere le giacenze della sovrapproduzione, sostenevano l’esportazione di tali prodotti. La preoccupazione dei governi europei di un dumping sul mercato mondiale era elevata. Inoltre, a fronte di un limitato aumento della domanda di prodotti agricoli, l’espansione della produzione era pronunciata in quasi tutti gli Stati europei.

Questa situazione portò a una netta divisione tra i governi europei riguardo agli obiettivi per l’agricoltura comunitaria; divisione che, anche se in forme diverse, tuttora sussiste e resiste. Ci sono i paesi importatori, con a capo il Regno Unito, contrari alla nascita di una politica agricola europea chiusa alla concorrenza mondiale e i paesi esportatori, guidati dalla Francia, ora come nel 1957, che nella nascita della PAC vedevano la possibilità di una salvaguardia continentale alla sovrapproduzione internazionale e l’apertura di un mercato interno che sostenesse, in qualche modo, la necessità di smerciare o sostenere le sovrapproduzioni agricole europee. Ed è proprio in questo periodo che gli Stati Uniti allentarono il sostegno incondizionato degli anni immediatamente successivi al conflitto per la creazione di un mercato agricolo europeo e che, inoltre, ebbe inizio la contrapposizione con gli interessi francesi anche nel settore agricolo, difesi strenuamente dai sindacati agricoli, i quali cominciarono i loro veementi attacchi alla politica agricola statunitense, tutt’ora frequenti.

La Francia scelse alla fine degli anni Cinquanta di perseguire la difesa dei paesi esportatori, temendo non soltanto la concorrenza americana, ma anche quella interna al continente, dovuta ai prezzi competitivi di alcune agricolture europee, come quelle olandese e danese. Per la Francia la necessità di sostenere l’elevatissimo onere economico delle sue eccedenze si trasformò da necessità nei primi anni a imperativo nei decenni successivi, date le scelte operate dai governi a sostegno delle richieste avanzate dalle principali categorie agricole, di intervenire sulla competizione non attraverso l’aumento della competitività mediante l’abbassamento dei costi, ma con il sostegno indiscriminato (dal 1962 al 1992 indipendente da quantità e qualità) delle produzioni.

Anche attualmente la Francia gioca un ruolo predominante nell’agricoltura europea, in quanto ne rappresenta circa il 25% ed è il secondo esportatore mondiale di prodotti agroalimentari, nonostante sia il quinto paese industrializzato del mondo ed esporti prodotti industriali in quantità dieci volte maggiore di quelli agroalimentari. Gli agricoltori francesi sono i maggiori beneficiari della PAC, con 9,5 miliardi di euro ricevuti nel 2004, quasi un quarto del totale delle spese agricole comunitarie, che, a loro volta, rappresentano il 40-42% dell’intero Bilancio dell’Unione europea. Gli aiuti rappresentano il 93% degli stipendi netti dell’azienda agricola francese e l’80% del sostegno agli agricoltori francesi proviene da Bruxelles, 8 miliardi di euro all’anno sino al 2013; inoltre ogni anno vengono accordati alla Francia 900 milioni di euro per lo sviluppo rurale. Purtroppo, però, le 2530 più grandi aziende agricole francesi (pari a meno dell’1% del totale) ricevono più sovvenzioni delle 182.270 più piccole e più povere (che sono circa il 40% del totale).

Questi dati spiegano in parte i motivi che portano la Francia a essere uno dei principali paesi a creare problemi all’Organizzazione mondiale del commercio durante il ciclo di Doha, volto alla liberalizzazione del commercio mondiale. I negoziati, infatti, si concentrano sulla riduzione del sostegno all’agricoltura; molto spesso la Francia si è opposta anche alle proposte effettuate durante i negoziati dalla Commissione europea, reputandole troppo pesanti, nonostante siano giudicate assolutamente insufficienti dai paesi extraeuropei. Sicuramente la Francia è il paese più interessato al mantenimento del sistema di aiuti e sostegno, ma è appoggiata dalla maggioranza degli altri paesi dell’UE, anch’essi interessati al mantenimento del sistema. L’accanimento protezionistico francese ha creato dei veri e propri blocchi ai negoziati internazionali, anche se l’agricoltura rappresenta meno del 10% del commercio mondiale. Il problema è diventato, però, di carattere politico perché crea tensioni tra il Nord e il Sud del mondo, dato che l’agricoltura costituisce il reddito primario per i paesi in via di sviluppo, nei quali risiede circa l’80% degli agricoltori del mondo.

Giuliana Laschi (2012)




Monika Wulf-Mathies




Monnet, Jean

L’esperienza “funzionale” di Jean Monnet: Prima e Seconda guerra mondiale

M. ha avuto il merito storico di saper proporre l’avvio del processo di integrazione europea in forme che sono state ritenute politicamente ed economicamente vantaggiose dalla più parte dei politici dei paesi dell’Europa occidentale. Dagli anni ’50 fino alla metà degli anni ’70, egli ha svolto un’azione costante a sostegno del processo di integrazione europea, basandosi su un metodo definito “Funzionalismo”. Per comprendere l’origine del metodo, come si evolse la sua visione delle relazioni internazionali nonché la formazione delle sue reti di rapporti e conoscenze, è necessario risalire alle sue esperienze di lavoro in diversi organismi internazionali durante e tra le due guerre mondiali.

M. nasce nel 1888 a Cognac, nella Francia centro occidentale. Dopo aver lasciato gli studi a 16 anni, si impegna nell’azienda familiare di commercio di acquaviti. Questo lavoro lo porta, fin dai primi anni, ad assumere numerosi contatti internazionali e a spostarsi per lunghi periodi nel mondo anglosassone – Gran Bretagna (V. Regno Unito), Canada, Stati Uniti –, nonché in Scandinavia, in Russia e in Egitto.

Durante la Prima guerra mondiale, alla quale non partecipa come soldato essendo stato riformato per ragioni di salute, M. si pone il problema dell’efficienza del coordinamento dei rifornimenti di beni di prima necessità e di armamenti tra Francia e Gran Bretagna: egli ritiene che migliorare tale coordinamento rappresenti un contributo essenziale allo sforzo bellico. Per ovviare alla scarsa efficienza dimostrata in questo ambito dai due paesi alleati, contatta direttamente i vertici politici francesi; in particolare convince un avvocato amico di suo padre a introdurlo presso il presidente del consiglio René Viviani. Questo modo di procedere – accostare direttamente l’uomo al potere in grado di realizzare le sue idee – si dimostra efficace e rappresenterà anche in seguito un caposaldo del suo metodo. Attivata una proficua relazione con Viviani, M. parte per Londra per lavorare nei servizi del ministero francese del commercio. Si occupa in particolare di negoziare con la Hudson Bay Company un contratto di fornitura di cereali, metalli, filo spinato e battelli che, secondo un rapporto parlamentare del 1919, si sarebbe rivelato di particolare importanza per l’economia francese di quel periodo.

Nel 1915 M. diventa il rappresentante personale a Londra del ministro del commercio Étienne Clémentel, che concepisce l’idea di mettere fine al disordine imperante nel sistema di approvvigionamenti degli Alleati attraverso la creazione di un organismo interalleato dotato di vasti poteri e composto da tre direttori: un inglese, un francese e un italiano. Alla fine del 1916 nasce il Wheat executive, in cui Monnet è nominato rappresentante permanente per la Francia, e che rappresenterà il modello per tutti gli altri consigli esecutivi alleati creati per l’acquisto di prodotti necessari all’economia di guerra. Nel 1918 egli rappresenta la Francia anche nell’organo dirigente dell’esecutivo permanente del Consiglio alleato dei trasporti marittimi.

L’esperienza maturata durante la Prima guerra mondiale spinge M. a misurarsi con la dimensione mondiale dei problemi che la Francia deve affrontare e a maturare nuove idee sul modo di farvi fronte. In primo luogo, si rafforza in lui la convinzione che, nel XX secolo, non sia più possibile per un paese vivere isolato economicamente e politicamente e che, pertanto, lo sforzo di mantenere la pace debba necessariamente fondarsi su di organizzazioni sovranazionali. In secondo luogo, l’esperienza sviluppata negli organismi internazionali insegna a M. l’efficacia dell’integrazione tra i servizi dei differenti Stati e l’utilità che questa integrazione venga estesa a più settori dell’economia.

La sua carriera di alto funzionario continua presso la nuova Società delle Nazioni (SDN), dove assume la carica di vice segretario generale. Crea i servizi tecnici della SDN e gioca un ruolo importante nel regolare la controversia tra tedeschi e polacchi a proposito dell’Alta Slesia nonché nel risanamento della situazione finanziaria dell’Austria. Agli occhi di M., tuttavia, la SDN si rivela come un luogo in cui vengono espresse buone intenzioni, redatte risoluzioni e raccomandazioni, senza che però vi sia la possibilità di prendere misure concrete di collaborazione a causa dei veti e delle forme di ostruzione provenienti dai vari governi nazionali. Nelle sue memorie, M. attribuisce all’esperienza presso la SDN l’acquisizione della consapevolezza degli enormi ostacoli che si ergono tra gli Stati quando si tratta di siglare compromessi che toccano i loro interessi economici immediati.

M., dunque, torna a lavorare nel settore privato, ma rimane a contatto con le realtà internazionali. A partire dal 1923 si dedica nuovamente alla cura degli affari dell’impresa di famiglia, quindi diventa direttore di una succursale parigina della banca di investimenti Blair; infine nel 1929 vicepresidente della Bancamerica Blair. Durante questi anni partecipa a operazioni finanziarie di alto livello: la stabilizzazione della moneta polacca, nel 1927; il consolidamento di quella romena, l’anno successivo; la liquidazione del crac Kruger nel 1932. Tra il 1933 e il 1935 svolge un ruolo nella costruzione della rete ferroviaria cinese: allo scopo di raccogliere i finanziamenti necessari a quest’opera, crea la China finance development corporation. All’inizio del 1936 riparte per New York, dove fonda la società M.-Murnane.

In questi decenni, dunque, si creano e si rafforzano le sue reti di relazioni, che si riveleranno assai fruttuose dopo la Seconda guerra mondiale, quando queste reti gli forniranno contatti diretti con i vertici politici di quasi tutti i paesi occidentali. René Pleven è il suo assistente personale durante l’operazione di salvataggio della moneta polacca; nella stessa occasione John Foster Dulles è il suo avvocato. Anche René Mayer e Félix Gaillard, futuri presidenti del Consiglio francesi, sono stati suoi assistenti. Negli Stati Uniti la lista dei suoi amici è particolarmente lunga: Felix Frankfurter, Philip Graham, Oscar Cox, John McCloy, Harry Hopkins, Georges Ball, Dillon padre e figlio, David Bruce, Donald Swatland, Tommy Tomlinson. La possibilità di fare affidamento su queste reti di conoscenze si rivelerà ancora più preziosa dopo il 1955, quando M. ritornerà a vita privata e non godrà di un ruolo istituzionale per sostenere la propria visione della costruzione europea.

Nel 1939, convinto della debolezza dell’armamento francese, in particolare dell’aviazione, davanti all’imminente pericolo tedesco, M. riesce a incontrare il presidente del Consiglio francese dell’epoca, Edouard Daladier, per esporgli il problema. Daladier lo incarica di negoziare l’acquisto di aerei dagli Stati Uniti. Nonostante le sue relazioni dirette con il presidente Roosevelt (v. Roosevelt, Franklin Delano), M. si scontra però con l’opposizione degli ambienti isolazionisti americani e alla fine gli aerei saranno consegnati alla Francia in quantità insufficiente a fronteggiare l’attacco nazista. Dopo l’inizio delle ostilità nel settembre 1939, M. è nuovamente incaricato di presiedere il comitato di coordinamento franco-britannico a Londra. Nel giugno del 1940 è tra quanti vorrebbero continuare la guerra contro il Reich; per questo, il 18 giugno si reca a Bordeaux per cercare di convincere il nuovo governo del maresciallo Pétain a rifugiarsi in Africa del Nord e a continuare la guerra dai territori dell’impero francese.

Durante la guerra le vicende di M. si intrecciano con quelle di Charles de Gaulle, con il quale condivide l’intento di proseguire la guerra fino alla vittoria. Nel giugno del 1940 si trovano entrambi a Londra e de Gaulle approva, assieme a Winston Churchill, il progetto di unione franco-britannica ideato da M. Il progetto non ha però seguito a causa della scelta opposta operata da Pétain di chiedere l’armistizio ai tedeschi. Dopo di che, mentre il Generale si propone di proseguire la lotta in Gran Bretagna come capo della “Francia libera”, M. parte per gli Stati Uniti ritenendo che solo l’America abbia le risorse necessarie per sconfiggere l’Asse e che sia pertanto necessario sfruttarne mezzi e potenzialità. Nell’agosto del 1940 è nominato dal governo britannico vicepresidente del British Supply Council a Washington. Nella capitale americana utilizza le proprie reti di conoscenze per spingere l’amministrazione Roosevelt ad aumentare il programma di riarmo e a sostenere lo sforzo di guerra della Gran Bretagna.

Alla fine del 1942, su richiesta di Roosevelt, M. si reca ad Algeri, dove nel frattempo sono sbarcati gli Alleati, per occuparsi dei problemi delle forniture americane, ma anche per fungere da consigliere del generale Giraud, allo scopo di portarlo verso posizioni più compatibili con la democrazia. Tuttavia, contrariamente ai propositi prevalenti nell’amministrazione americana, egli finisce per appoggiare l’idea di costruire l’unione dei francesi attorno alla figura di de Gaulle, di cui auspica l’arrivo in Africa del Nord. Gioca pertanto un ruolo di primo piano nel processo che porta de Gaulle alla testa del Comitato francese di liberazione nazionale (CFLN). M. entra nel CFLN come Commissario all’armamento incaricato dell’equipaggiamento dell’esercito con materiale americano. In tale funzione negozia importanti accordi tra il CFLN – poi trasformatosi in Governo provvisorio della Repubblica francese (GPRF) –, e gli Stati Uniti, senza riuscire però a ottenere il riconoscimento del GPRF da parte del governo americano, come de Gaulle gli domanda.

Nel corso di questi anni M. approfondisce la propria riflessione sulle cause della conflittualità tra le nazioni europee, arrivando alla conclusione – come si evince da una sua nota del 5 agosto 1943 – che il pericolo più grande per la ricostruzione dell’Europa e della pace sia la «credenza che, attraverso il nazionalismo e la sovranità nazionale affermata in tutte le sue forme, politiche ed economiche, le ansie dei popoli potranno essere placate e i problemi del futuro risolti». Ben al contrario, a suo avviso, non vi sarà pace in Europa finché non saranno raggiunti due obiettivi: il ristabilimento di regimi democratici in tutti i paesi; l’organizzazione politica ed economica di un’“entità europea”. Quest’ultima condizione è essenziale, da un lato, per non ripetere gli errori commessi nel primo dopoguerra, quando gli Stati si sono ricostruiti sulla base prevalente della sovranità nazionale e hanno perseguito politiche di prestigio e di protezionismo a livello economico, ricadendo nella corsa alla costruzione di vasti eserciti; dall’altro lato, è essenziale ad assicurare «la prosperità che le condizioni moderne rendono possibile e di conseguenza necessaria»: solo la costituzione di un mercato europeo e la liberazione delle risorse dalle necessità di difese strettamente nazionali porteranno alla soddisfazione delle nuove domande di benessere provenienti dai popoli europei. Tuttavia, M. è consapevole che non sarà possibile raggiungere tale risultato europeo immediatamente e che, al contrario, sarà necessario un lasso di tempo assai lungo; contemporaneamente egli diffida dei vaghi ideali europeisti, come a suo avviso erano stati quelli alla base della Società delle Nazioni.

Alla fine del 1945 il governo presieduto da de Gaulle decide di dar vita a un Consiglio per il piano di modernizzazione e di rifornimento del paese e a un commissariato generale. Li affida a M. sotto la diretta responsabilità del capo del governo. Si tratta non solo di ricostruire un paese in rovina, ma di modernizzarlo e di introdurvi metodi di concertazione fino ad allora sconosciuti. Per questo M. cerca di correggere gli eccessi della centralizzazione e di sviluppare il dialogo con i partiti politici e le organizzazioni sociali, allo scopo di far tornare la Francia per la fine del 1948, al livello della produzione che aveva nel 1939.

L’antitesi alla ideologizzazione della questione “Europa”: il secondo dopoguerra

Dopo la fine della Seconda guerra mondiale il continente europeo vive un cambiamento radicale della propria condizione: le distruzioni generali causate dal conflitto toccano tutti i paesi, che hanno ora bisogno di un ingente aiuto esterno per ricostruire le proprie economie; nessuna nazione europea – nemmeno quelle vincitrici – possono più ritenersi delle “grandi potenze”. Anche se ci vorrà del tempo per acquisirne la consapevolezza, l’equilibrio riposa ormai sulla preminenza di Stati Uniti e Unione Sovietica.

Di fronte a questi stravolgimenti del panorama internazionale, in Francia si confrontano due visioni opposte dell’Europa. Da un lato, vi sono quanti ritengono che la nazione rappresenti un orizzonte invalicabile lo Stato nazione è da sempre, e lo sarà anche in futuro, la realtà politica fondamentale; esso può concludere trattati con altri Stati nazione e cedere alcuni segmenti della propria sovranità, ma deve trattarsi solo di singole e specifiche cessioni, attentamente definite ed esplicitamente sottoscritte dallo Stato.

Partono da assunti opposti, invece, gli “europeisti”, per i quali le due guerre mondiali hanno costituito la prova della distruttività insita nel mantenimento di rigide concezioni statalistiche. Inoltre, essi ritengono che nessuno dei grandi problemi che l’Europa e la Francia devono affrontare nella seconda metà del XX secolo possano essere risolti senza una qualche forma di organizzazione dell’Europa. L’idea dell’Europa appare dunque come l’unico modo, per i paesi del vecchio continente, di ricostruirsi e di mantenere relazioni pacifiche, una volta superata l’assolutezza della concezione insita nei nazionalisti. Gli europeisti, però, formano una costellazione assai variegata, alla quale appartengono uomini provenienti da retroterra politici molto differenti e sostenitori di proposte divergenti. In Francia, come più in generale in Europa anche se con modalità differenti da paese a paese, si delineano due tendenze opposte, che emergono chiaramente al Congresso dell’Aia nel maggio 1948: una tendenza federale, che sostiene la necessità di un governo europeo centrale dotato di veri e propri poteri autonomi, e una tendenza unionista, che si limita a proporre un’unione, ossia un’associazione o forme di cooperazione, tra Stati sovrani. Quest’ultima tendenza, capeggiata non a caso dai conservatori britannici, ha in realtà molti punti di contatto con la famiglia dei nazionalisti, poiché non prevede alcuna cessione di sovranità ad autorità europee sovranazionali e concepisce l’organizzazione dell’Europa come un mezzo per la ripresa economica e il salvataggio politico delle nazioni del vecchio continente.

M. condivide la diagnosi degli europeisti più radicali: è convinto che il mantenimento degli Stati nazione abbia portato alle due deflagrazioni mondiali. Condivide anche il loro orizzonte politico: in un futuro non molto lontano, le sovranità nazionali si fonderanno in una sovranità europea unica e, per andare in quella direzione, le sovranità delle nazioni dovranno essere progressivamente smantellate. Tuttavia, a differenza dei federalisti, egli parte da una analisi realista e da un metodo pragmatico, che lo portano a opporsi a ogni forma di ideologizzazione della questione europea. La constatazione realista è che l’opinione pubblica non è né può essere freno o motore dell’organizzazione dell’Europa, in quanto non esiste alcun tipo di sentimento patriottico a livello continentale. L’organizzazione dell’Europa non è mai stata né è priorità nell’agenda dei governi delle democrazie europee. Pertanto, diversamente dall’accento posto sull’opinione pubblica da molti federalisti, egli ritiene invece più importante lavorare sui governi “dall’interno” o attraverso i leader dei partiti; concentrarsi sull’establishment, sugli alti burocrati dello Stato e delle sue agenzie, così come sulle lobby industriali e sindacali. In questa prospettiva, M. sfrutta ampiamente le proprie reti personali costruite negli anni precedenti alla guerra.

Il suo metodo è stato definito “funzionalista”. In altri termini, come già altri prima di lui, egli sostiene l’idea di cominciare la costruzione dell’Europa facendo emergere progressivamente gli interessi comuni che esistono tra gli uomini e portandoli ad avere una visione condivisa dei problemi per arrivare a soluzioni globali accettate da tutti. Concretamente, ciò significa sviluppare l’integrazione in alcuni settori limitati – in particolare nei settori economici chiave – attraverso autorità europee in grado di modificare le regole del gioco e di far evolvere progressivamente il comportamento dei protagonisti. Attraverso questa fusione progressiva di interessi si creerà una solidarietà di fatto in alcuni settori economici, che in seguito potrà essere estesa ad altri settori e quindi all’insieme dell’economia, dimostrando alle popolazioni europee i benefici dell’integrazione e portando alla luce il comune interesse alla collaborazione. Ciò creerà, infine, le condizioni non solo economiche ma anche psicologiche, per costruire una struttura politica che rappresenti il coronamento della costruzione.

La visione che M. ha sviluppato si basa sulla consapevolezza della nuova posizione dei paesi dell’Europa occidentale sullo scacchiere internazionale. Come scrive a Robert Schuman, presidente del Consiglio francese, il 18 aprile 1948, egli è particolarmente inquieto a proposito della dipendenza economica, finanziaria e militare dell’Europa nei confronti degli Stati Uniti. Tale dipendenza rende ancora più necessaria l’esistenza di una federazione dell’Europa occidentale, unica prospettiva che potrà salvare l’Europa, permettendole di rimanere se stessa, contribuendo così in modo fondamentale a evitare una nuova guerra. L’Europa, anche grazie all’inserimento della Germania occidentale in una struttura che possa contenerne la volontà di potenza, potrà giocare un ruolo moderatore tra Stati Uniti e Unione Sovietica e contribuire alla distensione internazionale. D’altra parte, M. non è neutralista e ritiene fondamentale la solidarietà tra l’Europa occidentale e gli Stati Uniti: un’associazione dei popoli liberi che comprende gli Stati Uniti, non esclude affatto la creazione di un’Europa unita.

Diversamente dai federalisti, spesso tentati dalla concezione dell’Europa come “terza forza”, egli non pone l’accento su istituzioni politiche comuni come primo passo dell’integrazione; nondimeno, l’unione politica come obiettivo finale è probabilmente nella mente di M. già prima del 1950. Alla fine degli anni Quaranta, però, egli ritiene che i tempi siano ancora immaturi per una sua affermazione nelle agende dei governi europei e che, pertanto, tentare di imporla a tutti i costi avrebbe potuto arrestare un più graduale processo di integrazione. Contro logiche massimaliste e a dimostrazione della sua volontà di deideologizzare la questione europea e della sua convinzione che ciò che conti sia il movimento verso l’obiettivo ultimo, egli è pronto a sostenere qualunque iniziativa, anche se di importanza minore, che vada nella direzione desiderata.

Tuttavia, le istituzioni europee create nella seconda metà degli anni ’40 si rivelano di debole efficacia al fine di legare tra di loro i paesi dell’Europa occidentale, in quanto fondate sul principio della cooperazione intergovernativa: l’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) non è neppure lontanamente in grado di realizzare un’integrazione economica dell’Europa occidentale; il Consiglio d’Europa risulta ancora più deludente sul piano politico. Per questo M. segue solo da lontano gli sviluppi del Movimento europeo e del Consiglio d’Europa, che ai suoi occhi sembrano ripetere gli stessi errori della SDN. Indirizza invece i propri sforzi verso il tentativo di dar vita a un’Europa economica a base franco-britannica: nel 1949 negozia segretamente con Edwin Plowden, capo del servizio della pianificazione a Londra, al fine di creare un coordinamento tra la pianificazione francese e quella britannica con l’obiettivo di formare un nucleo economico franco-britannico da estendere poi al resto d’Europa. Il governo laburista non si mostra però interessato al progetto, non essendo disposto a spingersi oltre la semplice cooperazione intergovernativa.

Di fronte all’indisponibilità del governo britannico, M. decide di puntare su un’Europa a base franco-tedesca, rinvenendo nelle numerose aperture del cancelliere Konrad Adenauer delle opportunità da non lasciar cadere. Negli anni seguenti la fine della guerra, la posizione delle potenze occidentali verso la Germania muta profondamente per l’innescarsi della Guerra fredda. I governi occidentali, infatti, concordano sulla necessità di difendere la Repubblica Federale Tedesca (RFT) sia per dare profondità strategica alla difesa della parte occidentale del continente, sia per evitare che un’eventuale conquista da parte dell’URSS possa consentire ai sovietici di utilizzare il potenziale umano e industriale dell’RFT contro l’Occidente. Alla fine degli anni Quaranta, di fronte all’aggravarsi della tensione tra i blocchi il problema della difesa dell’Europa occidentale diventa sempre più impellente e la posizione francese – che proponeva lo smembramento e la sorveglianza internazionale della Germania – appare sempre più debole. Per questo, dall’inizio del 1950 gli Stati Uniti premono fortemente per spingere gli europei a cooperare e incoraggiano la riconciliazione franco-tedesca.

La fine dell’illusione del ritorno a un mondo policentrico, si trova, dunque, alla base non solo delle convinzioni di M., ma anche della disponibilità di gran parte della classe politica francese a modificare la posizione verso la RFT. Nondimeno, mentre per la gran parte dei politici francesi, sulla scelta di integrare la RFT in un insieme europeo occidentale pesa anche la volontà di trovare una soluzione che non restituisca allo stato tedesco la pienezza delle sue prerogative a livello internazionale, per M., invece, vi è la convinzione che il gioco diplomatico condotto attraverso incontri al vertice tra i quattro Grandi (USA, URSS, Gran Bretagna e Francia) rafforzi la posizione di subordinazione dei paesi europei alla politica di Usa e Urss per la situazione di inferiorità in cui versano Francia e Gran Bretagna. Per modificare questo trend, a suo avviso, la questione tedesca deve trovare una soluzione all’interno dell’Europa attraverso una piena partecipazione della Germania stessa.

Nell’aprile del 1950 M. presenta al Ministro degli Esteri francese, Robert Schuman, un progetto in cui si propone un’integrazione di due settori di base, il carbone e l’acciaio, tra Francia e Germania ed eventuali altri paesi europei come passo iniziale di un’integrazione più ampia. I settori messi in comune devono essere gestiti da un’autorità che assicuri il gioco della concorrenza, elimini le discriminazioni e orienti gli investimenti. Questo progetto, di cui Schuman assume la responsabilità politica, permette di risolvere numerosi problemi che si pongono al governo francese: favorisce la riconciliazione franco-tedesca e allo stesso tempo assicura forme di controllo sulla produzione tedesca di carbone e acciaio; rilancia l’iniziativa diplomatica sul terreno dell’organizzazione europea e nel più generale contesto dell’organizzazione dell’Occidente e, al contempo, pone un antidoto al pericolo di un ritorno del nazionalismo tedesco.

Nelle sue memorie M. scrive che in questo frangente la sua preoccupazione principale è quella di inventare forme politiche nuove e trovare il momento utile per cambiare i dati del problema europeo. Come afferma la breve dichiarazione iniziale letta da Robert Schuman il 9 maggio 1950, si tratta di trasformare completamente le condizioni europee in modo da rendere possibili altre azioni comuni, fino a quel giorno neppure concepibili. Il “Piano Schuman” permette infatti di superare le opposte visioni dei liberali e degli “interventisti”. In esso convivono aspetti interventisti, come l’applicazione delle regole a due soli settori dell’economia, i poteri conferiti all’Alta autorità della Comunità da usare in caso di crisi nonché le regole che essa può imporre sui prezzi. Al tempo stesso, però, il Piano presenta aspetti liberali: un mercato comune, almeno nel contesto europeo di quel periodo, ha infatti un connotato liberale; inoltre, la proprietà rimane privata e sono previste misure anticartello. Tuttavia, l’aspetto che maggiormente interessa M. riguarda il carattere sovranazionale dell’Alta autorità: l’idea di organizzare l’industria di base non è certo nuova, ma le precedenti proposte hanno sempre pensato a istituzioni di tipo intergovernativo; M. stabilisce in questa occasione una distinzione molto chiara – che nelle memorie sfumerà – tra l’integrazione e la cooperazione, ritenendo che la prima si distingua nettamente dai modelli di cooperazione internazionale del primo dopoguerra, e non ammette che si tenti di occultare la differenza fondamentale che intercorre tra le due concezioni.

Nel giugno del 1950 l’offensiva comunista in Corea e la minaccia di un conflitto “caldo” che sembra pesare sull’Europa occidentale pongono come impellente la necessità di riarmare la RFT, eventualità questa sostenuta in particolare dal governo americano. Nell’analisi di M. la forma che sarà data al riarmo tedesco influenzerà decisivamente anche la sorte dell’integrazione europea. Egli ritiene infatti che la volontà di integrazione politica del governo tedesco sarebbe sfumata nel caso la ricostruzione del suo esercito fosse avvenuta su base essenzialmente nazionale. Per questo, per risolvere il problema della necessità di una difesa tedesca, egli appoggia risolutamente la realizzazione di una soluzione sovranazionale europea (con preminenza della Francia), anziché puntare sull’incorporazione di un esercito tedesco nella NATO. Il 22 ottobre 1950 M. propone al presidente del Consiglio René Pleven la bozza di un progetto che è il risultato di ampi approfondimenti e scambi di opinione; questa bozza, in seguito adottata dal governo e dall’Assemblea nazionale francese, prevede che la Francia si faccia promotrice di trattative al fine di dar vita a un esercito europeo, collegato a istituzioni politiche europee, nel quale saranno incorporate truppe tedesche al livello dell’unità più piccola possibile (Comunità europea di difesa, CED).

Nel contempo M., consapevole che la proposta di dar vita a un esercito europeo avrebbe toccato il cuore stesso del potere statuale e, pertanto, avrebbe inevitabilmente incontrato numerosi ostacoli, dà la precedenza ai lavori sul Piano Schuman, ancora in corso, avendo come obiettivo la creazione di uno stretto legame tra esercito europeo e Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). Egli il 10 agosto 1952, viene prescelto come primo presidente dell’Alta autorità della CECA.

Nei primi tempi M. è impegnato indirettamente nelle trattative sulla CED, grazie alle posizioni chiave occupate da due suoi ex collaboratori, Hervé Alphand e Étienne Hirsch. Dal settembre del 1951, come membro del Temporary council committee, istituito dalla NATO, egli si occupa in prima persona della valutazione dei carichi finanziari legati al funzionamento della CED. Rimane però deluso dalla veste finale dell’accordo sull’esercito europeo: ai suoi occhi il solo aspetto tangibile dell’avanzamento del processo d’integrazione consisterà nell’“uniforme comune”. Non per questo ritira il proprio sostegno al progetto, nella prospettiva di poterlo modificare in seguito attraverso una fusione progressiva delle competenze nazionali, e si schiera contro le modifiche dell’accordo chieste dal presidente del Consiglio francese Pierre Mendès France, che, a suo dire, avrebbero ridotto a niente il significato reale della Comunità.

La bocciatura della CED da parte dell’Assemblea nazionale francese e la soluzione atlantica al riarmo europeo rappresentano una svolta per i metodi d’azione di M. Egli ritiene che gli stati dell’Europa occidentale stiano operando un ritorno indietro verso un sistema di alleanze classico, ossia basato su relazioni bilaterali senza trasferimenti di sovranità. Per questo, con la decisione resa pubblica il 9 novembre 1954 di non voler chiedere un rinnovo del proprio mandato come presidente dell’Alta autorità della CECA, esprime la propria volontà di dissociarsi dalla direzione intrapresa dalla cooperazione europea. Riacquisendo la propria libertà d’azione, M. pensa di poter influire più efficacemente sull’evoluzione del processo d’integrazione europea.

Allo stesso tempo, per attutire il rischio che un trattato europeo sia nuovamente bocciato da un parlamento nazionale, il 13 ottobre 1955 M. crea il Comité d’action pour les Etats Unis d’Europe (Comitato d’azione per gli Stati Uniti d’Europa, CAEUE), nel quale siedono i rappresentanti dei partiti politici e dei sindacati europei che condividono la prospettiva sovranazionale per l’Europa. Esso è concepito come uno strumento di pressione al fine di spingere i dirigenti dei partiti e dei sindacati rappresentati al suo interno a difendere nei rispettivi paesi i progetti e le linee d’azione fissati in comune. È importante sottolineare, in particolare, l’adesione al Comitato della SPD tedesca, fino a quel momento piuttosto ostile ai progetti europei in quanto escludenti la parte orientale della Germania.

M. gioca un ruolo essenziale nel “rilancio” dell’integrazione europea nella seconda metà degli anni Cinquanta. Già all’inizio del 1955 M. pensa che sia possibile far riprendere il cammino al processo d’integrazione europea grazie alla creazione di un’autorità europea indipendente per la messa in comune dei combustibili nucleari (Euratom) e, in modo ancora più audace, attraverso un’autorità europea degli armamenti, istituzioni da affiancare all’Alta autorità della CECA e da porre in contatto con il Consiglio europeo dei ministri (v. Consiglio dei ministri) e con l’Assemblea comune. In quegli anni M. ritiene che l’energia atomica possa giocare un ruolo fondamentale per il rilancio europeo poiché, essendo ritenuta la fonte di energia che promette i maggiori sviluppi, essa può divenire il viatico per rendere all’Europa l’indipendenza energetica e quindi per spingere i diversi Stati europei a realizzare in comune investimenti e processi di regolazione e controllo.

Questa proposta è al centro del documento con il quale il ministro degli Esteri belga, Paul-Henri Spaak, rilancia l’evoluzione dell’integrazione europea alla Conferenza di Messina del giugno 1955. Oltre a essa, Spaak propone agli altri cinque membri della CECA la fusione progressiva dei mercati nazionali e la creazione di un’autorità comune con competenze negli ambiti dei trasporti e dell’energia convenzionale. Nei mesi successivi alla Conferenza di Messina le energie di M. si concentrano sul progetto dell’Euratom, la cui realizzazione egli ritiene più probabile rispetto al progetto del Mercato comune. Grazie ai suoi legami con il segretario di Stato John Foster Dulles, convince l’amministrazione americana a sostenerlo lungo questo percorso.

Il disegno di M. per l’Euratom si scontra però con diverse difficoltà. La principale riguarda la limitazione a fini civili dell’uso dei combustibili nucleari. Nel suo progetto, infatti, le istituzioni europee avrebbero dovuto assicurare l’uso esclusivamente pacifico dei materiali nucleari dei paesi aderenti alla Comunità al fine di garantire l’uguaglianza di diritti tra i membri, inclusa la Germania che, a seguito della guerra, ha dovuto rinunciare a possedere armamenti nucleari. Questa disposizione, qualora accettata, avrebbe impedito alla Francia di divenire una potenza atomica. D’altro canto, M. è personalmente convinto che l’unificazione dell’Europa sia più importante per la Francia del possesso di un armamento atomico indipendente. Inoltre, ritiene che l’attribuzione a un’autorità europea del monopolio nel rifornimento e nella distribuzione dei materiali fissili avrebbe permesso a questa di essere percepita dagli Stati Uniti come un partner affidabile e, per questo, avrebbe rappresentato la migliore garanzia per puntare a un eventuale trasferimento di tecnologia da parte del governo americano. L’ipotesi di una rinuncia unilaterale alle armi atomiche non incontra però il favore della maggioranza degli ambienti politici francesi né di una parte di quelli tedeschi e il governo di Guy Mollet, durante i negoziati per l’Euratom, propone di riservare alla Francia la possibilità di sviluppare le applicazioni militari delle ricerche sull’energia atomica.

Le proposte di M. e Spaak, ampiamente rielaborate al tavolo delle trattative tra i governi dei sei paesi coinvolti, portano alla stipula dei Trattati di Roma nel marzo del 1957.

Il rapporto tra il funzionalismo di Monnet e il nazionalismo di de Gaulle

Le conquiste di M. previste da questi trattati sembrano però essere rimesse in discussione dal ritorno al potere di de Gaulle, nel giugno del 1958. Di questa svolta della politica francese M. non è certo entusiasta, eppure pragmaticamente ritiene che la costruzione europea possa progredire anche grazie al Generale. M. non esita dunque a offrire la propria collaborazione a de Gaulle attraverso Jacques Chaban-Delmas, che nell’estate del 1958 incontra più volte il presidente del Comitato d’azione. In settembre, dopo aver esitato per alcune settimane, M. decide di dare la propria approvazione al progetto della Costituzione della V Repubblica, che permetterà a suo avviso, da un lato, di rafforzare l’autorità, la durata e l’efficienza del potere esecutivo nei confronti del legislativo; dall’altro, proprio grazie a questo rafforzamento, di chiudere l’emergenza algerina e di poter perciò riprendere con più vigore la strada dell’integrazione europea.

La fine degli anni Cinquanta vede il Generale e M. alleati nella volontà di far crescere una “comunità di interessi di fatto” tra i Sei. Nel 1958-1959, infatti, i progetti di entrambi evolvono in una direzione comune. L’ex presidente dell’Alta autorità della CECA, sia per la pragmatica constatazione dei suoi limiti, sia per l’opposizione malcelata dei governi francese e tedesco, decide di sacrificare la sua prima creatura e puntare tutto sul Mercato comune. Dopo aver in un primo tempo visto nella proposta britannica di Zona di libero scambio un modo per associare la Gran Bretagna al continente, nella seconda metà del 1958 M. cambia idea e vi scorge il cavallo di Troia per indebolire la novità di una tariffa esterna comune e, con essa, la dose di sovranazionalità insita nelle istituzioni e procedure previste. I trattati di Roma danno alla commissione del Mercato comune il potere di negoziare con gli Stati membri per quanto riguarda il commercio con l’esterno. M. cerca di sfruttare questo potere per promuovere trattative commerciali tra gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Comunità economica europea: ai suoi occhi, il fatto che la Commissione parli con una sola voce a nome dei sei paesi membri della CEE permette di superare lo sterile dialogo in merito alla Zona di libero scambio e, soprattutto, di avviare una nuova forma di integrazione tra i sei paesi membri.

Sulla scelta di M. influisce sicuramente l’evoluzione della posizione del Generale: alla fine del 1958 de Gaulle decide di non denunciare i Trattati di Roma, si convince di poterli utilizzare nell’interesse della Francia e li difende contro l’ipotesi di dissolvimento del Mercato comune nella Zona di libero scambio. Al Generale l’Europa appare ora una convenienza “nazionale”. In primo luogo, su un piano politico, un’Europa organizzata, di cui la Francia assumerebbe la guida, contribuirebbe ampiamente a restituire a quest’ultima il ruolo di grande potenza, perso nel dopoguerra a causa dell’affermarsi progressivo della decolonizzazione. La Francia infatti non può più contare sull’impero che le aveva permesso di essere presente nella guerra e poi di partecipare alle sue ultime fasi dalla parte dei vincitori. In secondo luogo, come la storiografia recente tende a sottolineare, de Gaulle comprende le ricadute positive che la costruzione del Mercato comune avrebbe per l’economia francese, attraverso lo sviluppo di una politica agricola europea e di tariffe doganali comuni.

La collaborazione tra M. e de Gaulle prosegue per un certo tempo sul progetto di unione politica per l’Europa. Nell’estate del 1959 M. scrive a de Gaulle per suggerirgli un atto politico sulla scena europea: impegnarsi affinché gli europei creino, attraverso l’associazione, una nuova entità che permetta loro di pesare nuovamente nelle questioni mondiali. Questo passo in avanti deve risiedere, per M., nella formazione di un consiglio comune della politica estera tra Francia e Germania, alla cui unione potranno aderire anche gli altri paesi del Mercato comune. Pragmaticamente M. vede nel «concerto organizzato regolare di governi responsabili» proposto dal presidente francese nel settembre del 1960 un’apertura che avrebbe consentito di promuovere un progetto, in grado poi di evolvere verso forme maggiormente sovranazionali. Anche contro alcune resistenze presenti nel suo Comitato d’azione, egli si impegna a valorizzare gli elementi di progresso presenti nella proposta del Generale: la realizzazione di istanze istituzionali in cui i Sei avrebbero iniziato a organizzare la loro cooperazione politica, seppure a livello dei capi di Stato. Data la situazione di stallo in cui versa l’Europa, la cooperazione è dunque concepita da M. come una tappa necessaria; un progresso sulla via di una più organica organizzazione europea.

Tuttavia, emergono ben presto gli elementi di profondo disaccordo tra le due prospettive. Sia de Gaulle sia M. ritengono che l’organizzazione dell’Europa sia indispensabile al mantenimento della pace, allo sviluppo democratico della Germania, al progresso economico, al recupero di un certo grado d’indipendenza da parte degli europei rispetto alle superpotenze americana e sovietica. Tuttavia, le loro concezioni divergono su un punto fondamentale: la centralità dello Stato nazione nella vita internazionale. Diversamente da M. che, come si è detto, ritiene indispensabile inserire elementi sovranazionali nel processo di costruzione europea e non intende rimettere in questione la continuità dell’integrazione economica già intrapresa secondo i nuovi metodi delle Comunità europee, per il Generale la sovanazionalità comporta la negazione della realtà fondamentale della vita internazionale, la nazione, al cospetto della quale ideologie e regimi rivelano la propria contingenza. Per lui la nazione si organizza in Stato, unica istituzione legittimata a condurne l’azione esterna e a farlo in nome della difesa dell’interesse nazionale. Questa concezione non esclude il riconoscimento della necessità della cooperazione internazionale, a causa di alcuni fenomeni caratteristici del XX secolo (interdipendenza economica, progresso tecnico delle comunicazioni, cambiamenti nella tecnica militare, formazione di grandi insiemi geografici), ma questa cooperazione deve svolgersi tra Stati sovrani, attraverso accordi liberamente assunti, senza creazione di alcuna autorità sovraordinata. L’Europa politica che vuole il Generale deve subordinare alla cooperazione intergovernativa anche le istituzioni europee già esistenti; in altri termini, il Presidente della Repubblica francese non ha alcuna intenzione di sviluppare l’Europa politica sulla base delle Comunità esistenti; tutt’al più, queste possono costituire terreni per sperimentare la cooperazione tra gli Stati.

Sono emblematiche della visione franco-centrica e stato-centrica di de Gaulle le parabole rovesciate del Mercato comune e dell’Euratom. Mentre il governo francese lascia che il secondo si svuoti di significato, dopo aver cercato di capire cosa la Francia possa ricavarne per il proprio programma nucleare civile e militare, al contrario decide di lubrificare e incentivare il meccanismo del Mercato comune nella convinzione degli effetti benefici di questo per l’economia francese.

La concezione nazionalista di de Gaulle comporta una seconda divergenza fondamentale rispetto alla visione di M. All’inizio degli anni ’60, anche alla luce del contrasto tra URSS e Cina che si profila all’orizzonte, il Generale si convince che è giunto il momento per scardinare l’innaturale divisione del mondo in due blocchi attraverso una politica estera della Francia più indipendente dai legami atlantici. La visione di M. si basa, invece, sull’idea della persistenza di una spaccatura tra i blocchi e di una sostanziale convergenza di interessi tra Europa occidentale e Stati Uniti. Si tratta piuttosto di sviluppare la cooperazione transatlantica, la “partnership tra pari” che egli propone all’amministrazione Kennedy (v. Kennedy, John Fitzgerald) e che sembra trovare un’accoglienza favorevole: la creazione di un’Europa unita avvicinerebbe le due sponde dell’Atlantico rendendo possibile un’associazione su un piede di uguaglianza. Per questo è necessario che l’Europa si allarghi alla Gran Bretagna, per avere un peso sufficiente, e che cominci il percorso verso l’unificazione politica. Il 26 giugno 1962 il Comitato d’azione adotta una dichiarazione che sostiene la necessità di stabilire una relazione paritaria tra gli Stati Uniti e l’Europa unita, entità distinte ma ugualmente potenti, relazione che non deve stabilirsi solo a livello economico ma che deve estendersi rapidamente agli ambiti militare e politico. Inoltre M. continua a battersi, per tutti gli anni Sessanta, per un’ammissione rapida della Gran Bretagna alle istituzioni comunitarie.

Secondo M., de Gaulle nel fondare la politica estera della Francia sulla persistenza dell’elemento nazionale dimostra di non comprendere la portata del fenomeno comunista. Questa incomprensione avrebbe spinto il Generale a perseguire una politica estera opposta a quella da lui auspicata, come scrive nelle sue note, perché la visione di de Gaulle dell’Europa dall’Atlantico agli Urali spinge inevitabilmente gli Stati Uniti fuori dal vecchio continente e favorisce il controllo sovietico anche sulla parte occidentale di esso.

Sebbene fin dal giugno del 1958 sia entrato nei piani di M. un elemento difensivo – egli sa di “aver perso l’iniziativa”, di non poter più contare sul “fuoco politico” – è il veto di de Gaulle all’entrata della Gran Bretagna nel Mercato comune a segnare la “rottura”. Dopo la conferenza stampa del Presidente francese del 14 gennaio 1963 non si tratta più di scendere a patti con lui per compiere un tratto di strada in comune, ma di condurre contro di lui una guerra di trincea. Il rapporto tra il funzionalismo di M. e il nazionalismo di de Gaulle funziona finché imperversa la Guerra fredda e il mondo è allineato in blocchi contrapposti, ma quando la Guerra fredda si allenta, inevitabilmente sorgono divergenze incompatibili, sia sul fronte del processo d’integrazione europeo sia su quello del rapporto transatlantico.

È l’intera concezione gollista dell’Europa a entrare ormai in conflitto con la visione di M., per il quale il futuro dell’Europa e quello della Germania sono strettamente legati: per lui l’integrazione europea deve essere la chiave per il futuro della Germania. Viceversa, la politica di de Gaulle sembra diretta verso un tandem franco-tedesco autonomo rispetto all’Europa e che consenta alla Francia di acquisire più distanza dagli Stati Uniti e dalla comune solidarietà occidentale. Monnet si impegna alacremente per contrastare le mosse di de Gaulle e, in particolare, il Trattato franco-tedesco firmato nel gennaio del 1963. È tra coloro che ispirano la stesura di un testo interpretativo del trattato, poi trasformato in preambolo e come tale votato dal Bundestag nell’aprile di quell’anno, che ne svilisce il contenuto interpretando gli impegni nel quadro di più ampi accordi multilaterali. Michel Debré e Maurice Couve de Murville individueranno in M. l’autore stesso del preambolo, indicandolo come principale oppositore della politica di de Gaulle e bollandolo come “tecnocrate senza patria”.

Negli anni successivi M e il CAEUE sostengono altre importanti iniziative, tese a contrastare la politica di de Gaulle: nel 1964 appoggiano la forza atomica multilaterale, proposta dagli Stati Uniti; nel 1965 cercano di ricucire i rapporti tra la Francia e gli altri membri della CEE durante la “crisi della sedia vuota”; nel 1967 sostengono una risoluzione da portare alla discussione di tutti i parlamenti europei a favore dell’entrata della Gran Bretagna nel Mercato comune.

L’inconciliabilità tra le due posizioni sfocia nella radicale opposizione di M. a de Gaulle al momento delle elezioni presidenziali del 1965. Diversamente dal 1958, quando M. ha appoggiato la riforma costituzionale, nel 1965 non solo egli annuncia di votare contro de Gaulle, ma è tra quanti cercano di trovare un candidato centrista da opporgli al primo turno (figura che viene individuata in Jean Lecanuet) e poi dichiara di sostenere François Mitterrand al secondo turno. Anche i contatti regolari che fino ad allora M. mantiene con il ministro degli Esteri Couve de Murville, a partire da quell’anno, si interrompono.

Il ritiro di de Gaulle nel 1969 appare a M. l’occasione per un revival dell’integrazione europea: dopo anni in cui egli ha vissuto una specie di esilio interno (da anni le riunioni del CAEUE non si tengono più a Parigi ma in Germania o in Belgio) e in cui l’iniziativa gli è sostanzialmente venuta a mancare. Durante gli anni ’60, il suo Comitato d’azione non solo non si è spento, ma ha anche aumentato il numero dei propri membri: nel 1967 vi entrano i Socialisti italiani, seguiti l’anno successivo dai Repubblicano-indipendenti di Valéry Giscard d’Estaing. Un primo successo è colto con l’entrata della Gran Bretagna nel mercato all’inizio degli anni ’70, vicenda nella quale M. gioca un ruolo importante anche grazie alla sua amicizia personale con il primo ministro Edward Heath, ma nella quale è essenziale la volontà del nuovo presidente francese Georges Pompidou.

Tuttavia, a fronte di questo successo, l’influenza di M. e del CAEUE sui leader europei e americani comincia a declinare. Nella prima metà degli anni ’70 M. cerca di portare avanti tre progetti. Utilizzando gli studi dell’economista Robert Triffin, egli propone il fondo europeo di riserva, che obbligherebbe i governi dei paesi membri a organizzare insieme una parte delle proprie riserve monetarie e in seguito li spingerebbe a concertare le proprie politiche economiche, in vista di una vera unione economica. I tedeschi si oppongono a questa proposta ritenendo che si possa pervenire all’unione monetaria solo dopo la convergenza delle politiche economiche dei paesi membri. Il secondo progetto, proposto dopo lo shock petrolifero del 1973 al ministro delle finanze tedesco Helmut Schmidt, parte dall’idea che i paesi membri del Mercato comune fissino un piano comune per allocare il petrolio. Francia e Gran Bretagna decidono però di agire unilateralmente, ignorando i propri partner europei.

L’unica proposta che ha un seguito riguarda l’incontro regolare dei capi di governo: sebbene il suo obiettivo ultimo sia la creazione di un’Europa sostanzialmente federale, pragmaticamente egli pensa che la cooperazione intergovernativa possa essere un acceleratore che avrebbe potuto consentire la ripresa della dinamica europea. Questa proposta, in un primo tempo derubricata da Pompidou in incontri regolari per discutere della cooperazione politica, è ripresa invece dal suo successore, Giscard d’Estaing, al quale M. la sottopone nel settembre del 1974. Sottoposta in dicembre agli altri capi di stato, da essa prende le mosse il Consiglio europeo.

Quest’epilogo può essere letto come una metafora che racchiude l’intera opera di M. I suoi ultimi fallimenti e lo stesso successo di una ripartenza della cooperazione intergovernativa attraverso il Consiglio europeo, rivelano i limiti intrinseci della visione monnetiana: non solo essa sottovaluta l’“autonomia del politico”, per cui il suo metodo può portare a una dispersione di sovranità in diversi organismi e al conseguente primato del momento “tecnico” su quello politico, ma il suo metodo non annulla l’interesse nazionale, che alla fine si rivela essere il vero motore dell’integrazione europea e ritorna costantemente come contraddizione insuperabile.

Indebolito dal peso degli anni, non potendo più intraprendere viaggi per ragioni di salute, il 9 maggio 1975 M. scioglie il suo Comitato e si ritira nella sua proprietà di Houjarray, dove si dedica alla scrittura delle memorie, aiutato dal suo fido collaboratore François Fontaine. Si spegne il 16 marzo 1979.

Gaetano Quagliariello (2012)




Monti, Mario

Figlio di un banchiere, M. nasce a Varese il 19 marzo 1943. Frequenta l’Università Luigi Bocconi di Milano dove, nel 1965, consegue una laurea in economia e gestione aziendale. Successivamente si iscrive a un breve corso di specializzazione presso l’Università di Yale nel Connecticut in cui, sotto la supervisione del premio Nobel James Tobin, ha l’occasione di entrare per la prima volta in contatto diretto con la cultura economica e con gli ambienti accademici statunitensi. Tornato in Italia, inizia immediatamente una rapida e brillante carriera universitaria. Dopo aver svolto il ruolo di assistente presso l’Università commerciale Luigi Bocconi dal 1965 al 1969, riesce infatti a ottenere prima una cattedra di professore associato presso l’Università di Trento e poi una cattedra di professore ordinario presso l’Università di Torino che mantiene dal 1970 al 1979. Parallelamente prosegue la propria lunga e feconda collaborazione professionale con l’Università Luigi Bocconi, ricoprendovi l’incarico di professore di teorie e politiche monetarie dal 1971 al 1985.

Durante questi primi venti anni di attività prendono avvio tutte le molteplici linee di interesse, di pensiero e di impegno di M. che si consolideranno nei due decenni seguenti. In primo luogo, attraverso la sua azione didattica, la sua intensa produzione pubblicistica e i suoi editoriali economici apparsi sul “Corriere della sera” a partire dal 1978, M. comincia a entrare prepotentemente nel dibattito economico e finanziario nazionale. In particolare, dopo essersi segnalato per i suoi innovativi studi sui sistemi bancari e sugli aggregati monetari, inizia ben presto a definire e diffondere una propria organica e complessiva impostazione culturale e politica che si colloca in modo originale in una scia di pensatori e politici italiani che da Luigi Einaudi arriva fino a Ugo La Malfa, e che finisce per influenzare gli orientamenti di ricerca di molti ambienti accademici, le tendenze di importanti gruppi economici, gli umori di brevi ma decisivi segmenti dell’opinione pubblica e le scelte politiche degli stessi organismi di governo.

Nella visione di M., il rispetto e la passione per la politica si coniugano indissolubilmente con un atteggiamento di forte ripulsa verso i partiti e verso le degenerazioni derivate dal loro eccessivo controllo sugli organismi istituzionali e sugli apparati statuali. A sua volta, M. propende per una concezione dello Stato inteso non più come soggetto attivo ma piuttosto come regolatore dei processi economici. In questo senso, la fiducia nella superiorità del sistema di mercato si accompagna alla ricerca di regole e istituti capaci di garantirne funzionalità e efficienza. Secondo M., la chiave dello sviluppo economico sta proprio nella capacità da parte dello Stato di realizzare organismi indipendenti di valutazione e controllo, in grado di creare e mantenere un libero e corretto gioco tra le forze di mercato. A questo proposito, M. si prodiga soprattutto perché sia assicurata una reale indipendenza alla Banca d’Italia, e perché venga introdotta anche in Italia un’autority in grado di combattere la formazione di cartelli oligopolistici e di concentrazioni monopolistiche e, nel contempo, di favorire la nascita e il consolidamento di un effettivo sistema di concorrenza tra le imprese e tra i fattori produttivi.

Parallelamente, l’analisi della situazione economica italiana lo porta a individuare nella lotta all’inflazione e nella riduzione del debito pubblico le priorità per garantire una crescita sana e stabile del paese. Nella concretezza dei rapporti sociali e politici nazionali, questo convincimento si traduce soprattutto in una forte presa di posizione contro l’aumento della spesa pubblica, sia in termini di ammortizzatori sociali sia in termini di aiuti di Stato alle imprese, e in un impegno pubblico a favore di politiche di moderazione salariale e dell’abolizione della scala mobile. Secondo M., la persistenza della spirale inflazionistica e delle perverse dinamiche di bilancio non costituisce una zavorra contingente, bensì un ostacolo strutturale alle possibilità di trasformare l’economia italiana in un sistema aperto e competitivo a livello internazionale.

A questi elementi si collega l’ultimo caposaldo del pensiero di M., il suo europeismo. Prima ancora di essere adesione ideale a un progetto di unificazione istituzionale, politica e culturale, l’europeismo di M. è sostegno a una concezione dei rapporti tra mercati e tra attori economici. Nella visione di M., le Comunità europee (v. Comunità europea del carbone e dell’acciaio; Comunità economica europea; Comunità europea dell’energia atomica) rappresentano, infatti, soprattutto un antidoto contro le tentazioni di protezionismo commerciale da parte degli Stati, una diga contro i tentativi dei governi nazionali di sussidiare i propri sistemi di impresa, una formidabile opportunità per modernizzare i sistemi produttivi e finanziari europei.

In questa ottica, tra la fine degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, M. difende e sostiene tutti i principali sviluppi economici del processo di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), rivolgendo uno sguardo particolare a quelle che a suo avviso costituiscono le esigenze e le priorità italiane. In particolare, se da una parte interviene con forza a favore dell’adesione italiana al Sistema economico europeo creato nel 1978, dall’altra si schiera pienamente a sostegno della proposta di creazione di un Mercato unico europeo lanciata dal Presidente della Commissione europea, Jacques Delors (v. anche Commissione europea) nel 1985.

In secondo luogo, attraverso la presenza in consigli di amministrazione di gruppi privati, comitati parlamentari e associazioni internazionali, M. comincia a tradurre i propri orientamenti in attività di influenza e gestione diretta dei processi economici. Tre esperienze sono particolarmente significative in questa direzione. Nel 1981, su incarico del governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi, M. svolge il ruolo di relatore del comitato sulla salvaguardia del risparmio istituito presso il ministero del Tesoro. Successivamente, tra il 1981 e il 1982, ricopre la carica di presidente del Comitato sul sistema creditizio e finanziario istituito presso lo stesso ministero del Tesoro con il compito di indicare le linee guida della politica finanziaria italiana durante gli anni Ottanta. Infine, tra il 1982 e il 1985, si assume la responsabilità di presiedere l’Associazione universitaria europea di studi finanziari, arricchendo in questo modo la dimensione continentale dei propri contatti e delle proprie ricerche.

Nel 1985 si verifica un secondo snodo nella carriera accademica di M. In particolare, la nuova svolta coincide con l’attribuzione della cattedra di economia politica e, soprattutto, con la nomina a direttore dell’Istituto di economia politica presso l’Università Luigi Bocconi, che prelude a un’ascesa alle cariche non solo didattiche, ma anche dirigenziali dell’istituto medesimo. Dopo essere divenuto rettore nel 1989, M. riceve la nomina a presidente dell’Università Luigi Bocconi nel 1994. Durante questo decennio, oltre a consolidare definitivamente la propria fama di studioso, M. ha modo di accrescere considerevolmente il proprio prestigio e il proprio ruolo di consulente economico, sia in ambito internazionale, sia in ambito nazionale, sia nella sfera pubblica, sia nella sfera privata.

Sul terreno del contributo alla ricerca scientifica M. si impegna soprattutto nella realizzazione di nuovi centri di analisi e di studio all’interno dell’Università Luigi Bocconi. In particolare, nel 1985 contribuisce a fondare il Centro di economia monetaria e finanziaria Paolo Baffi, mentre nel 1989 dà l’impulso alla nascita dell’Istituto per la ricerca economica Innocenzo Gasparini.

Sul piano della divulgazione economica, oltre a incrementare la propria ampia produzione bibliografica, intensifica la propria attività di editorialista economico del “Corriere della sera”, e avvia a una collaborazione continuata con la rivista “Tendenze monetarie” pubblicata dalla Banca commerciale italiana.

Parallelamente, aumentano le partecipazioni di M. in organi di gestione di importanti aziende private. In rapida successione, diventa infatti membro del consiglio di amministrazione della casa editrice Rizzoli, prima membro del consiglio di amministrazione e poi membro del Comitato esecutivo della casa automobilistica FIAT, membro del Consiglio di amministrazione della compagnia di Assicurazioni generali, membro del Consiglio di amministrazione dell’impresa di informatica IBM e, prima di diventarne vicepresidente tra il 1988 e il 1990, membro del Consiglio di amministrazione della Banca commerciale italiana.

Nello stesso tempo, M. è nuovamente coinvolto in qualità di esperto nei lavori di importanti comitati parlamentari incaricati di esaminare, discutere e avanzare proposte su delicate questioni economiche, monetarie e finanziarie. Tra il 1987 e il 1988, ricopre il ruolo di membro del comitato per la redazione della legge sulla concorrenza presieduto da Mario Sarcinelli. Tra il 1988 e il 1989 è membro del comitato per la gestione del debito pubblico istituito presso il ministero del Tesoro, e presieduto da Luigi Spaventa. Tra il 1989 e il 1991, è infine il compito membro del comitato sulla riforma della legge bancaria istituito presso lo stesso ministero del Tesoro.

Durante questo periodo, si rafforza la dimensione europea del suo impegno culturale e politico. Dopo aver fatto parte, tra il 1985 e il 1986, del Gruppo di politica macroeconomica istituito dalla Commissione europea in collaborazione con il Centro per gli studi sulla politica europea, M. partecipa infatti in maniera attiva alla costruzione dei necessari processi di adeguamento dell’Italia al Trattato sull’Unione europea firmato a Maastricht nel 1992 (v. Trattato di Maastricht) e al Mercato comune entrato in vigore nel 1993 (v. Comunità economica europea). Fedele ai suoi principi sulla superiorità del sistema di libero scambio nei rapporti commerciali internazionali e sull’esigenza di politiche di rigore finanziario nelle scelte economiche nazionali, M. sostiene con convinzione entrambi gli sviluppi comunitari, e si adopera perché l’Italia ne tragga le dovute conseguenze in termini di riforme di struttura economica e di atteggiamenti politici. In particolare, se, da una parte, contribuisce a individuare gli strumenti per attrezzare il proprio paese a aderire alla realtà del Mercato comune in qualità di membro del Gruppo di lavoro appositamente istituito per preparare l’Italia alla nuova dimensione commerciale europea, dall’altra, M. spende tutto il suo prestigio e tutte le sue competenze per convincere l’opinione pubblica e la classe dirigente italiana ad accettare le condizioni e le implicazioni connesse al Trattato sull’Unione europea.

Convinto fautore di un ingresso dell’Italia nella moneta unica (v. Sistema monetario europeo, SME) sin dalla sua prima fase di adozione, M. considera il Trattato di Maastricht soprattutto come una grande occasione di modernizzazione del paese secondo le ricette di politica economica da lui sempre sostenute.

I parametri stabiliti a Maastricht avrebbero reso obsoleta l’idea stessa di programmazione economica, e la privatizzazione del sistema delle partecipazioni statali sarebbe divenuta una conseguenza ineluttabile. Lo Stato sociale, così come si era storicamente declinato in Italia, sarebbe stato sostituito da una combinazione di politiche per la concorrenza, moderazione salariale, stabilità monetaria e pareggio di bilancio che avrebbe rilanciato le prospettive di sviluppo e di crescita del paese. In definitiva, il Trattato di Maastricht equivaleva per l’economia italiana a una radicale riforma costituzionale che andava pienamente realizzata, a prescindere dalle resistenze politiche e dai costi sociali che avrebbe sicuramente comportato.

Oltre a influenzare gli orientamenti di politica economica dei governi tecnici dei primi anni Novanta e dei nuovi partiti emersi con la fine del comunismo europeo e con la scoperta del sistema basato su corruzione, concussione e finanziamenti illeciti messo in luce nel corso dell’inchiesta nota come “Mani pulite”, questi interventi e queste prese di posizione consacrano definitivamente M. quale personalità di livello e respiro europeo.

Quando Silvio Berlusconi, a capo di una coalizione di centrodestra, diventa presidente del Consiglio italiano nel 1994, il nome di M. comincia insistentemente a circolare come possibile candidato a rappresentare l’Italia nella Commissione europea. La stima di cui egli gode trasversalmente a livello politico, i consolidati legami con i maggiori potentati economici nazionali e i rapporti che intrattiene in ambito comunitario rendono questa designazione, se non scontata, piuttosto naturale. Con la formazione del nuovo esecutivo comunitario presieduto da Jacques Santer nel 1995, M. diventa quindi, per la prima volta, membro della Commissione europea, assumendo la responsabilità per il mercato interno, i servizi finanziari e l’integrazione finanziaria, i dazi e la tassazione. Pur ottenendo importanti riconoscimenti e apprezzamenti per il lavoro svolto, deve però abbandonare il proprio ruolo quando l’intera Commissione europea è costretta a rassegnare le dimissioni in seguito ai gravi fatti di abusi, corruzione e nepotismo di cui si era resa collettivamente responsabile, e in seguito alla minaccia di censura da parte del Parlamento europeo.

Tuttavia, nel 1999 il governo di centrosinistra presieduto da Massimo D’Alema decide di designare ancora una volta M. come uno dei due membri italiani nella Commissione europea. Nell’esecutivo comunitario guidato da Romano Prodi, M. assume la nuova responsabilità di commissario per la concorrenza. In questo ruolo, M. ha finalmente l’opportunità di mettere pienamente in pratica i propri convincimenti e i propri orientamenti di politica economica. In primo luogo, scontando le resistenze degli Stati nazionali, si impegna a fondo per lo smantellamento del sistema degli aiuti pubblici ai soggetti economici e finanziari (v. Aiuti di Stato). Su questo terreno, suscita particolare clamore la decisione di imporre a sette banche pubbliche tedesche la restituzione degli ingenti fondi ricevuti dai rispettivi governi regionali durante gli anni Novanta. In secondo luogo, a dispetto delle veementi reazioni da parte delle multinazionali europee e statunitensi, M. si oppone con provvedimenti e sanzioni senza precedenti agli accordi di cartello e, soprattutto, alle fusioni e alle acquisizioni che sembrano prospettare la formazione di monopoli in settori chiave dell’economia europea. In questo senso, sono particolarmente significative le sue azioni contro le proposte di acquisizione di Sidel da parte di Tetra Laval e di EMI da parte di Time Warner e, soprattutto, i suoi procedimenti contro le possibili fusioni tra la stessa Time Warner e America online, tra Volvo-Scania e Schneider-Legrand, tra Airtours e First Choice Holidays, tra Sprint e WorldCom, tra AOL Europe e Bertelsmann, tra General Eeectric e Honeywell.

In particolare, suscita vasta eco la decisione di avviare un procedimento contro il colosso dell’informatica Microsoft, accusato di voler creare un monopolio nei sistemi software in uso nel continente. L’entità della sanzione, la perentorietà delle richieste e la stessa importanza del settore e della compagnia coinvolte creano un precedente di portata storica, e impongono M. come figura simbolo di una Unione europea alleata agli Stati Uniti, ma non succube rispetto alle strategie delle sue multinazionali, favorevole al libero mercato, e proprio per questo determinata a colpire le posizioni dominanti di singoli soggetti privati.

Scontrandosi contro l’opacità della legislazione e della giurisdizione comunitarie, e contro gli stessi conservatorismi organizzativi della Commissione europea, M. promuove inoltre una vasta serie di riforme volte a rendere più trasparente e più efficace l’azione di tutela dei meccanismi concorrenziali, e la speculare azione di contrasto alle manovre oligopolistiche e monopolistiche. Nomina Lars-Hendrik Röller, un economista proveniente dalla Università Humboldt di Berlino, a capo della Direzione sulla concorrenza, rafforza il ruolo dell’analisi economica, aggiorna le leggi sulla concorrenza, rende più flessibili le procedure e i regolamenti interni, accentua la priorità accordata alle strategie di lotta ai cartelli e ai monopoli. Infine, coerentemente con la propria impostazione complessiva, si schiera fortemente a favore dell’adozione e dell’attuazione delle ricette di rilancio economico stabilite dal Consiglio europeo di Lisbona del 2000, e si impegna pubblicamente per l’inserimento di una chiara e rigorosa politica di concorrenza nel Trattato costituzionale europeo firmato a Roma nel 2004 (v. Costituzione europea). Nonostante le polemiche derivanti dalla forza delle consuetudini e degli interessi colpiti, M. riesce a conquistarsi un rispetto unanime, lasciando in eredità l’idea e la pratica di una globalizzazione che può essere gestita solo a partire da regole e istituzioni in grado di garantire effettiva concorrenza. Le stesse convinzioni sono alla base della attività di M. anche quando, nel 2004, il secondo governo di Silvio Berlusconi sceglie di appoggiare la nomina di Rocco Buttiglione a commissario europeo e, conseguentemente, di escludere M. dalla nuova Commissione europea presieduta da José Manuel Barroso.

Nella sua veste di editorialista economico del “Corriere della sera”, M. riprende a condurre nuove e vecchie battaglie, dalla necessità di approvare il Trattato costituzionale europeo nonostante le sconfitte referendarie in Francia e in Olanda (v. Paesi Bassi), all’urgenza di attuare un ampio e organico piano di liberalizzazioni in Italia a dispetto delle diffuse resistenze politiche e sociali.

Parallelamente, in qualità di fondatore e presidente del Laboratorio economico europeo e globale di Bruxelles Bruegel, di presidente del Servizio europeo di azione dei cittadini Europea citizens action service (ECAS), e di membro del consiglio di amministrazione dell’Istituto dell’economia internazionale di Washington, continua a diffondere le proprie concezioni economiche e politiche, cercando di influenzare le opinioni pubbliche e le grandi organizzazioni europee e mondiali.

Soprattutto attraverso Bruegel, una agenzia di studi economici sostenuta da venti compagnie private e da dodici governi europei, M. porta avanti una propria linea favorevole a una globalizzazione aperta, competitiva e multilaterale, incentrata sui principi della libera impresa, del libero scambio e del regionalismo politico, intrinsecamente avversa al predominio di una superpotenza e di un piccolo numero di multinazionali in posizione di monopolio, incline a un ruolo forte e propositivo dell’Unione europea.

Simone Paoli (2008)




Montini, Giovanni Battista

Paolo VI




Morán López, Fernando

Fernando Morán López (Avilés 1926 -) dopo essersi laureato in Giurisprudenza e in Scienze economiche all’università di Madrid, perfeziona e amplia la propria preparazione specializzandosi all’Institut d’Hautes Etudes Internationales di Parigi e, successivamente, alla London School of Economics. Nel 1952 intraprende la carriera diplomatica, entrando alla Escuela Diplomática, da dove, nel 1954 esce con il grado di Secretario de tercera clase.

  1. inizia a percorrere quel lungo cammino che lo condurrà fino a diventare ministro degli Esteri, ricoprendo diversi incarichi nelle rappresentanze diplomatiche e consolari spagnole nel mondo: da Buenos Aires a Pretoria, da Lisbona a Londra. Esperto di problematiche africane, è nominato, nel 1968, Subdirector general de África en la Dirección general de Asuntos de África y del Próximo Oriente e, nel 1971, è designato Subdirector general de Asuntos de África, Próximo y Medio Oriente en la Dirección general de Política exterior. Entrato a far parte del ministero degli Affari esteri, nel 1970 diventa Director de Política de área internacional en la Dirección general de Política exterior e nel 1971 è nominato Subdirector del Instituto hispano árabe de cultura. Fa parte – per quattro volte – della Delegazione spagnola presso le Nazioni Unite, fino a quando, nel 1973, svolge l’importante funzione di console generale di Spagna a Londra.

Oltre ai doveri derivanti dal suo lavoro di diplomatico al servizio del paese iberico, M. è impegnato sul piano politico, militando in forze e movimenti di opposizione al regime. Nel 1968 fonda, insieme a Enrique Tierno Galván – professore espulso dall’università da Franco per le sue idee politiche e futuro e popolarissimo sindaco di Madrid durante la Transizione – il Partido socialista del interior (PSI). Nel 1974 questa formazione, nata clandestinamente nell’ambiente universitario, amplia il proprio campo d’azione e cambia nome – ottemperando alle direttive dell’Internazionale socialista – divenendo Partido socialista popular (PSP). Il PSP, d’ispirazione marxista, vicino al sindacato delle Comisiones obreras (CC.OO.), ma a differenza del Partito socialista (Partido socialista obrero españolpartido socialista obrero español, PSOE) pronto ad accettare la soluzione monarchica per la Spagna del dopo Franco, si presenta alle prime elezioni generali del 1977 conquistando il 4,46 % e 6 seggi. Nel febbraio 1978, il PSP confluisce nel PSOE e alle elezioni parziali del senato celebrate nel maggio dello stesso anno, M. è eletto senatore per le Asturie nella circoscrizione di Oviedo. Ottiene 122.419 preferenze e sostituisce il giurista e storico comunista Wenceslao Roces Suárez che, divenuto senatore nel giugno dell’anno prima, ha rinunciato al posto. Si ripresenta alle elezioni del marzo 1979, quelle indette dopo l’approvazione per via referendaria della Costituzione democratica: se, da un parte, a vincere è ancora il centro destra e soprattutto l’Unión de centro democrático (UCD) del primo ministro Adolfo Suárez, dall’altra M. viene rieletto continuando, sempre dai banchi dell’opposizione, il proprio lavoro di senatore. All’attività politica in ambito nazionale e internazionale, M. alterna quella a livello locale e impegnandosi nell’amministrazione della sua regione in qualità Consejero de Medio ambiente y bienestar social del governo autonomo delle Asturie.

La svolta per la Spagna e per M. arriva con le elezioni politiche dell’ottobre 1982, quando, con i partiti di centro destra in crisi e con la fine della leadership di Suárez, il PSOE di Felipe González vince, ottenendo un’amplissima maggioranza (48%) e conquistando 202 seggi sui 350 disponibili al Congreso. Questa volta M. si presenta come deputato, venendo eletto nella circoscrizione di Jaén, in Andalusia. Il nuovo primo ministro González lo chiama a dirigere il ministero degli Affari esteri, in una fase particolarmente delicata per la Spagna dopo l’incerta politica dei governi UCD e in vista delle future decisioni da prendere – alcune delle quali capaci di minare gli equilibri interni allo stesso partito socialista al governo. L’agenda politica prevede almeno due grandi appuntamenti: l’entrata della Spagna nella Comunità europea e la questione della permanenza o meno nella NATO (v. Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico). Rispetto alla prima, la Spagna veniva dalla grande delusione patita pochi mesi prima, quando, dopo un inizio molto promettente, il processo d’integrazione nella Comunità economica europea (CEE) – importantissimo tanto da un punto di vista politico come da quello economico – aveva subito un brusco arresto (v. anche Integrazione, Teorie della; Integrazione, Metodo della). Nel 1980, la Francia di Valéry Giscard d’Estaing, nel tentativo di proteggere la propria agricoltura dalla concorrenza spagnola, aveva bloccato la procedura per una rapida integrazione del paese iberico nell’Europa comunitaria, congelando qualsiasi ipotesi d’allargamento. M., da ministro, deve ripartire dal giscardazo – così, in Spagna, fu ribattezzata l’azione di ostruzione del presidente francese – ricucendo il rapporto con la Francia e riannodando il filo delle negoziazioni a Bruxelles. Per raggiungere la tanto sospirata integrazione, affiancano M. nello sforzo negoziatore con le istituzioni comunitarie González Manuel Marín, segretario di Stato per i negoziati con la CEE e i diplomatici e uomini politici Carlos Westendorp, Fernando Mansito e Gabriel Ferrán. Benché il cambio politico al vertice della repubblica francese non abbia modificato immediatamente le cose, il nuovo presidente François Mitterrand diviene sempre più convinto dell’opportunità d’integrare la Spagna nella CEE (anche in seguito a riunioni come quella parigina del gennaio 1983 tra i ministri degli Esteri e dell’Economia dei due paesi). Il processo sarà ancora lungo e terminerà solamente il 1° gennaio 1986, quando ufficialmente – e una volta vinte tutte le resistenze, finiti i veti incrociati e terminata la difesa degli interessi nazionali – la Spagna verrà integrata nella CEE.

Nel febbraio 1985, dopo la firma di adesione all’Europa, M. contribuisce a normalizzare i rapporti con il Regno Unito, autorizzando l’apertura completa della cancellata – parzialmente chiusa dal 1969 – che sbarra la strada che conduce alla rocca di Gibilterra. Come ministro, avvia i negoziati con gli Stati Uniti in vista del rinnovo degli accordi bilaterali, cercando di ottenere un sostanziale riequilibrio dei rapporti di forza in favore della Spagna e una diminuzione della presenza militare americana sul suolo iberico.

Da sempre schierato contro l’entrata e, poi, la permanenza del paese iberico nella NATO, M. sia come ministro sia come militante socialista, partecipa alla tormentata vicenda legata alla presenza della Spagna nell’Alleanza Atlantica, dopo l’adesione (1981) voluta dal governo di centro destra presieduto da Leopoldo Calvo-Sotelo. Nella campagna elettorale del 1982, Felipe González, contrario come M. – e come buona parte del suo partito – all’entrata nella NATO aveva promesso che, in caso di vittoria socialista, il governo avrebbe dato la parola ai cittadini, consentendo direttamente agli spagnoli di decidere sulla futura permanenza della Spagna nell’organizzazione militare. Una volta al potere, alcuni esponenti di spicco dell’esecutivo e del partito – González in primis, ma anche il ministro della Difesa Narcís Serra – cambiano idea, comprendendo tanto le difficoltà di realizzazione come intravedendo le numerose conseguenze negative di una possibile uscita della Spagna dalla NATO. Il mutamento d’indirizzo politico e alcune scelte che si dirigono verso un sempre più netto filoatlantismo, allontanano irrimediabilmente M. da González. Il ministro viene sostituito nel luglio del 1985 dal socialdemocratico Francisco Fernández Ordoñez, che rimarrà in carica fino al 1993. Nel 1986, dopo l’entrata nella CEE si celebra il referendum sulla permanenza spagnola nella NATO, con una vittoria del “sì” (52,3%).

Se fra il 1985 e il 1987 M. diventa rappresentante permanente della Spagna all’ONU, sempre nel 1987 (10 giugno) partecipa alle elezioni per l’europarlamento (v. anche Elezioni dirette del Parlamento europeo), venendo eletto deputato per il PSOE, risultato che ripeterà per altre due volte, nel 1989 e nel 1994, ricoprendo incarichi come quello di presidente della Commissione degli Affari costituzionali (1994-1997). Nel 1999 è candidato a sindaco di Madrid per il PSOE, con l’ambizione di battere il più volte sindaco José María Álvarez del Manzano. Non riuscendo nell’impresa, M. diventa consigliere comunale e portavoce del suo gruppo. Poco più tardi decide di ritirarsi dalla vita politica attiva.

Alessandro Seregni (2009)

 




Moro, Aldo

M. (Maglie 1916-Roma 1978) dopo gli studi liceali a Taranto, ottenuta la maturità classica nel 1934, conseguiva la laurea nel 1938 presso la facoltà di Giurisprudenza di Bari con una tesi sulla capacità giuridica penale, pubblicata l’anno successivo. In questi anni aderiva alla Federazione universitaria cattolica italiana (FUCI), divenendo prima presidente del circolo barese e poi, dalla tarda primavera del 1939 al 1942, presidente nazionale. La responsabilità nazionale della FUCI (vissuta a fianco di Giovanni Battista Montini) contribuì all’arricchimento della sua formazione in senso religioso e politico-culturale. Sempre nell’ambito del mondo cattolico M. fu nominato presidente, nel 1945, del Movimento laureati di Azione cattolica e assunse la direzione della rivista “Studium” fino al 1948. Nel frattempo aveva già intrapreso la carriera universitaria: nel 1941 la facoltà di Giurisprudenza di Bari gli conferiva l’incarico di Filosofia del diritto (il suo corso di lezioni intitolato Lo Stato del 1943 è stato considerato da Norberto Bobbio come il primo consistente abbozzo del pensiero maturo di M.) e di Storia e politica coloniale. Dopo aver fondato a Bari nel 1943 la rivista “La Rassegna” insieme ad Antonio Amendola, Pasquale Del Prete e Armando Regina che venne pubblicata fino al 1945, aderì alla DC pugliese nel gennaio 1944. Fu comunque soprattutto l’attività nella FUCI nazionale, nel Movimento laureati e nella rivista “Studium” (dove trattava spesso argomenti politici e istituzionali) a imporlo nel mondo cattolico quale figura autorevole, preparata, capace di muoversi agevolmente sul terreno dei diritti e delle idee politiche, seguendo quei principi che costituivano il nucleo fondamentale della dottrina sociale cristiana e, quindi, a proiettarlo, non ancora trentenne, all’Assemblea costituente nel giugno 1946 dove venne eletto con 27.801 voti di preferenza. Designato nella Commissione dei settantacinque incaricata di elaborare il progetto della Carta costituzionale, poi nella prima sottocommissione che si occupò dei diritti e dei doveri dei cittadini, in queste sedi come pure in Assemblea plenaria fu relatore su molti argomenti importanti: tra l’altro in Assemblea costituente il 13 marzo 1947 fu l’oratore ufficiale per la DC sui principi fondamentali della Costituzione, effettuando un intervento che costituisce un punto di riferimento indispensabile per capire l’impostazione che poi la Carta ha avuto. Respingendo la tesi di chi voleva una Costituzione semplicemente a-fascista, M. sottolineava che in quella fase era «in gioco tutta la civiltà del nostro paese» e che «fare una Costituzione significa cristallizzare le idee dominanti di una civiltà, significa esprimere una formula di convivenza, significa fissare i principi orientatori di tutta la futura attività dello Stato». Evidenziava anche che la Costituzione doveva raccordarsi con la situazione storica italiana e che, nascendo «in un momento di agitazione e di emozione», non poteva prescindere da una «comune, costante rivendicazione di libertà e di giustizia». Insieme a Giuseppe Dossetti, per conto della DC fu tra coloro che ebbero un ruolo fondamentale nell’elaborazione del testo costituzionale. Il che rifletteva bene quanta attenzione M. prestasse al tipo di Costituzione che si stava elaborando, ai valori che dovevano essere posti a fondamento, al significato politico-civile ed etico che la carta costituzionale avrebbe rappresentato. La sua elezione, nel luglio 1947, a vicepresidente del gruppo democristiano costituiva un attestato della considerazione che l’uomo stava riscuotendo e dell’autorevolezza che i suoi interventi stavano suscitando. Anche solo una parziale elencazione di argomenti alla cui elaborazione e discussione prese parte indica quanto sia stato di grande interesse il contributo di M. ai lavori della Costituente. Intervenne di frequente in tema di rapporti civili sulla disciplina della libertà personale, sulle garanzie processuali, sui diritti della personalità giuridica, sulla tutela della libertà di manifestazione del pensiero e di associazione; sulla famiglia e sull’indissolubilità del matrimonio, sulla scuola, sul diritto all’istruzione, sulla libertà di insegnamento dei docenti; sulla libertà sindacale e sui limiti del diritto di sciopero; sul fatto che l’organizzazione interna dei partiti dovesse ispirarsi ai principi democratici come pure su tematiche di notevole rilevanza riguardanti l’ordinamento dello Stato (referendum abrogativo, scioglimento anticipato delle Camere).

Chiusa la fase dell’Assemblea costituente, alle elezioni del 18 aprile 1948 M. veniva eletto deputato nella circoscrizione Bari-Foggia, poi riconfermato nelle legislature successive con un numero altissimo di preferenze, spesso crescente. L’opinione pubblica italiana ebbe dimestichezza e familiarità con la figura di M. quando, nel marzo 1959, divenne segretario nazionale della DC e soprattutto quando costituì il suo primo governo nel dicembre 1963. Ma M., personaggio schivo e riservato, anche prima di ricoprire tali importanti cariche, ebbe ruoli tutt’altro che di secondo ordine. Nella prima legislatura, appena trentaduenne, entrò nel V governo di Alcide De Gasperi quale sottosegretario agli Esteri (maggio 1948-gennaio 1950); nella seconda legislatura, dopo le elezioni politiche del 1953, prima fu eletto capogruppo del gruppo parlamentare democratico cristiano, poi divenne ministro della Giustizia (luglio 1955-maggio 1957) nel I governo di Antonio Segni, quindi ministro della Pubblica istruzione nel successivo governo Zoli (maggio 1957-luglio 1958). La carica di ministro dell’Istruzione fu mantenuta da M. (luglio 1958-febbraio 1959) nel governo di Amintore Fanfani formatosi dopo le elezioni politiche del 1958.

Va rilevato che le cariche di natura politica non impedirono a M. il proseguimento degli studi giuridici, l’avanzamento nella carriera universitaria (nel 1947 divenne professore straordinario e nel 1951 professore ordinario di diritto penale a Bari) e, particolarmente, il mantenimento dell’insegnamento prima a Bari e poi a Roma (dal 1963 presso la facoltà di Scienze politiche occupando la cattedra di Istituzioni di diritto e procedura penale). «Insegnante scrupoloso», come lo ha definito Jemolo, la mattina del 16 marzo 1978 avrebbe dovuto recarsi in facoltà per la discussione delle tesi. Continuando a fare lezione, ebbe a osservare Giovanni Spadolini, M. difendeva la compatibilità dell’insegnamento universitario con la militanza politica.

Ai primi del 1959 la DC attraversò una fase particolarmente delicata. Al successo delle elezioni politiche del 1958 (la campagna elettorale fu condotta dal segretario politico Amintore Fanfani all’insegna dell’apertura a sinistra) non seguì la formazione di governi corrispondenti agli intenti espressi nella campagna elettorale. Il governo Fanfani, costituitosi nel luglio 1958 anche con l’obiettivo di preparare l’apertura a sinistra, ebbe invece vita breve e difficile per le tensioni e i contrasti che emersero sulla prospettiva del centrosinistra sia all’interno della DC sia tra i socialdemocratici. Le dimissioni di Fanfani da capo del governo e da segretario politico (2 febbraio 1959) si accompagnarono alla crisi della corrente di Iniziativa democratica, che fino ad allora aveva sostenuto la linea Fanfani. In una riunione presso il collegio delle suore dorotee al Gianicolo, convocata da parte di alcuni politici (Antonio Segni, Paolo Emilio Taviani, Luigi Gui ed Emilio Colombo) contrari alla gestione Fanfani, emerse la candidatura di M. – considerato uomo di grande dirittura morale e intellettuale, molto apprezzato per la sua moderazione di temperamento – alla guida del partito non certo con l’intenzione di investirlo come futuro leader quanto per tentare di mandare in porto una operazione di ricucitura di una realtà partitica troppo frammentata. Doveva essere una candidatura provvisoria fino al successivo congresso del partito, previsto per l’autunno. In questo contesto, il 16 marzo 1959, nel Consiglio nazionale della DC tenuto presso la “Domus Mariae”, M. fu eletto segretario con una votazione a maggioranza e con i voti contrari della sinistra di base, della sinistra sindacale e di gran parte dei fanfaniani.

Ben noto agli addetti ai lavori per l’impegno espresso dai tempi della Costituente, per le sue idee politiche e culturali, M. apparve e fu un uomo politico nuovo, che per la sua prudenza politica, per la sua abilità di mediatore, per le sue grandi capacità di argomentare in maniera pressoché perfetta le sue proposte, riuscì ad acquisire ben presto una posizione di grande influenza nel partito e nella scena politica nazionale.

La DC, che dalla Costituente costituiva il perno del sistema politico italiano, al Consiglio nazionale di Vallombrosa dell’estate 1957 aveva indicato nel centrosinistra la linea politica tendenziale del partito, considerando chiusa l’era delle alleanze di centro. Il centrosinistra, però, incontrava molte resistenze nelle correnti moderate del partito oltre che nel mondo cattolico, nelle gerarchie ecclesiastiche, in Vaticano e presso l’alleato americano. La crisi del governo e della segreteria Fanfani veniva letta anche entro questi parametri. Nel nuovo ruolo di segretario politico della DC, M., dopo un primo breve periodo utilizzato per dare il migliore assetto al proprio staff operativo e all’organizzazione del partito, si mosse perseguendo l’obiettivo del centrosinistra, che significava apertura ai socialisti e netta chiusura al PCI, attraverso un percorso che doveva prioritariamente preservare l’unità della DC. In merito al partito, al momento dell’insediamento dichiarò: «Sento la insostituibile funzione del partito come filtro delle esigenze complesse della vita politica, economica e sociale del paese; la sento come strumento di selezione, di scelta in relazione alle varie esigenze della vita nazionale; la vedo come manifestazione efficace di opinioni, come strumento di educazione e di guida del popolo italiano». Più volte tornerà a ripetere e insistere sulla centralità del partito nella società italiana, sulla necessità della sua unità come obiettivo e condizione per un’azione efficace al servizio della società stessa e per la più ampia valorizzazione del ruolo dei cattolici nella realizzazione di una democrazia partecipata in una realtà quale quella italiana tanto difficile e complessa. L’unità del partito era essenziale, dato che diverse correnti (quella dorotea, la corrente “Primavera” che faceva riferimento a Giulio Andreotti, la corrente “centrista” che faceva riferimento a Mario Scelba e Guido Gonella) avevano esplicite riserve sull’apertura a sinistra, che potevano preludere a defezioni o spaccature. Così, mentre intervento dopo intervento, discorso dopo discorso si andava delineando la statura politica di M., egli al VII congresso del partito (Firenze, 23-28 ottobre 1959) con la sua abilità di mediazione riuscì a far stemperare molti contrasti di corrente e a far confermare ufficialmente la linea di centrosinistra, che avrebbe realizzato un allargamento delle basi della democrazia, rispecchiando così proprio la funzione storica che la DC intendeva assolvere nella società italiana. Solo al successivo congresso DC (Napoli, 27-31 gennaio 1962) M. riuscì a fare accettare in maniera definitiva alla maggioranza del partito la formazione di governi di centrosinistra. Il congresso è stato anche ritenuto un «capolavoro della sua arte politica». L’esito rivestì particolare importanza. M. era riuscito nell’intento di portare la DC unita (si opponeva la corrente di centrismo popolare di Scelba e Gonella, cui si era aggiunto il gruppo di Andreotti, con limitato peso complessivo) a un appuntamento decisivo per il partito e per la politica italiana. I contenuti della politica di centrosinistra erano stati approfonditi nei convegni ideologici di San Pellegrino, la cui organizzazione era stata affidata da M. a Gian Battista Scaglia, che era a lui succeduto nella direzione della rivista “Studium” fin dal 1948. In questo percorso dal congresso di Firenze a quello di Napoli M. non era riuscito a evitare – o per lo meno gliene era sfuggito il controllo – l’esperienza del governo Tambroni (tra primavera ed estate 1960), senz’altro una fase critica e negativa della politica italiana, complicatasi anche per le contraddizioni politiche che lo scontro tra le correnti del partito aveva generato. A quello di Fernando Tambroni seguirono i governi presieduti da Fanfani, che in piena collaborazione con il segretario DC caratterizzarono la fase preparatoria e di avvio del centrosinistra.

Dopo le elezioni politiche del 1963, in cui la DC scontò a favore del versante moderato le realizzazioni effettuate durante il governo Fanfani e soprattutto la nazionalizzazione dell’energia elettrica, toccò a M. di presiedere i governi di centrosinistra “organico” con la presenza di ministri socialisti guidati da Pietro Nenni in qualità di vicepresidente del Consiglio. Apparve naturale che a gestire questa nuova esperienza fosse M., cioè l’uomo che come Segretario DC aveva pilotato la convergenza tra i partiti di centro e il PSI. Rispetto a chi auspicava che a presiedere il governo continuasse Fanfani con il suo riformismo e piglio realizzatore, prevalse la posizione della corrente dorotea che designava M., consentendo così alla stessa (in primis a Mariano Rumor) di avere in mano la piena gestione del partito.

M. presiedette tre governi di centrosinistra tra il dicembre 1963 e il giugno 1968. Questo centrosinistra “organico” veniva alla luce dopo un dibattito protrattosi per diversi anni, che aveva suscitato nel paese molte aspettative ma anche contrasti accesi sia nella DC che nel PSI (questo subiva nel gennaio 1964 addirittura la scissione del Partito socialista italiano di unità proletaria, PSIUP); entrava nella fase operativa mentre si esauriva la fase spettacolare del boom economico, seguita da fasi anche recessive e di crescita del costo del lavoro. Talune riforme strutturali (legge urbanistica, programmazione, ordinamento regionale), che avrebbero dovuto essere qualificanti, per ragioni varie – tra cui le pressioni contrapposte dei dorotei nella DC e dei lombardiani nel PSI – o non furono adottate o furono concepite senza avere quella incisività prima ipotizzata. La riforma ospedaliera, la legge sulle pensioni, gli aiuti all’agricoltura e altri provvedimenti non riuscirono a scalfire la delusione che il centrosinistra non avesse corrisposto alle attese. Lo scandalo Servizio informazioni forze armate (SIFAR) e la mancata riforma universitaria, bloccata essenzialmente dalla contestazione giovanile, influirono anche sull’esito elettorale del maggio 1968. Appare equilibrata l’analisi di Pietro Scoppola: vi fu un «processo di svuotamento dei contenuti programmatici e di sopravvivenza di un’alleanza fine a sé stessa». Su M. presidente del Consiglio, è stata riversata la responsabilità delle mancate riforme, della poca incisività, facendo emergere la considerazione generale del centrosinistra come grande opportunità politica mancata. Alle elezioni politiche del 1968, anche se la DC registrava un piccolo incremento percentuale rispetto al 1963 (dal 38,3% al 39,1%), con la perdita grave registrata dai socialisti entrava in crisi la strategia politica di centrosinistra, come era stata ipotizzata da M. La conseguente necessità di ripensare la politica di centrosinistra portava nel periodo estivo alla costituzione del governo “balneare” presieduto da Giovanni Leone e poi, nel dicembre 1968, ritrovata la disponibilità dei socialisti per una coalizione di centrosinistra, alla costituzione del governo Rumor-De Martino. Le “cristallizzazioni” interne della corrente dorotea avevano posto M. fuori dal governo, in una posizione defilata. Egli, dopo il silenzio dei mesi estivi, al Consiglio nazionale del partito del 21 novembre 1968 riprese a tessere le fila della politica italiana con una riflessione come al solito intelligente e profonda. Rispetto ai “tempi nuovi che avanzavano”, M. esplicitava che la DC doveva fare una sintesi tra il nuovo che emergeva e i valori che dovevano essere salvaguardati. Nell’ambito di una “politica intensamente umana”, M. sollecitava il partito a sintonizzarsi con convinzione sul quadro nuovo che la società prospettava, «in una visione dell’uomo e della società, della libertà, della dignità, della giustizia e della pace, che si ricollega ad idealità cristiane, senza la pretesa di interpretarle in modo esauriente ed esclusivo». Nella medesima sede, cogliendo di sorpresa tutti, comunicava di aver deciso di «assumere una posizione autonoma nella organizzazione interna della DC», cioè di passare all’opposizione. Il che avveniva anche con la costituzione di un proprio gruppo, una corrente: la sua separazione dalla vecchia maggioranza dorotea, come precisava due mesi dopo, era un’operazione «dolorosa ma feconda», «scomporre per ricomporre, abbandonare a poco a poco il vecchio, per permettere al nuovo di nascere». Questa considerazione attenta dei fermenti e delle esigenze della società da parte di M. continuava sino all’XI congresso del partito a Roma (fine giugno 1969), dove, alla fine di un intervento in cui sottolineò molto il valore della collaborazione con i partiti laici e socialisti, M. fu portato in trionfo. Benché egli fosse in minoranza (la sua corrente raccolse l’8% dei voti all’interno della DC), l’assemblea congressuale ne apprezzava la compiutezza di analisi, essenziale per la linea politica del partito. Quando ad agosto 1969, in seguito alla crisi del partito socialista, si formò il secondo governo Rumor, un monocolore, M. vi entrò come ministro degli Esteri, carica che mantenne anche nei governi successivi (Rumor, Colombo, Andreotti) fino a giugno 1972, tornando poi a ricoprirla nei governi Rumor dal luglio 1973 al novembre 1974. Le linee di politica estera sviluppate dal M. ricalcavano quelle tracciate da Alcide De Gasperi e Carlo Sforza (con l’ausilio dello stesso M. quando fu giovane sottosegretario). Si può inoltre ricordare che il giovane M., collaboratore e direttore della rivista “Studium”, affrontava molti temi di politica estera, particolarmente il problema della pace collegato al ruolo dell’ONU. Sia come presidente sia come titolare della Farnesina operò affinché l’ONU potesse rafforzare il suo ruolo di mediazione e di pace nelle varie “zone calde” del mondo; affinché avanzasse la prospettiva dell’Europa unita, democratica, aperta, capace di porsi come interlocutrice forte nel processo di distensione Est-Ovest inclusiva e aperta allo sviluppo di una dimensione sociale e dei diritti e all’Associazione con paesi mediterranei – nel marzo 1965 aveva redatto una relazione al Parlamento europeo che sosteneva fortemente l’associazione di Israele alla Comunità europea in base a quanto previsto dall’art. 238 del Trattato istitutivo della CE –; affinché l’Italia nel Mediterraneo sviluppasse una politica di cooperazione e di pace; affinché fossero destinate all’assistenza economica e tecnologica verso i paesi del Terzo mondo le risorse rese disponibili dalla progressiva realizzazione del disarmo. Entro questa cornice operò in varie sedi diplomatiche e con viaggi per contribuire alla promozione della pace (come ad esempio sollevando a Montecitorio nel luglio 1971 il «bisogno della partecipazione della Cina per l’edificazione di una pace durevole» dopo il reciproco riconoscimento diplomatico avvenuto tra Italia e Cina nel novembre 1970), per la ricerca di soluzioni accettabili nella questione israelo-palestinese sottolineando la necessità di far svolgere un ruolo centrale all’ONU, nella guerra in Vietnam, senza trascurare di tutelare gli interessi dell’Italia (ad esempio i rapporti con l’Austria per la questione dell’Alto Adige; i rapporti con la Libia divenuti difficili nel 1970, il riavvicinamento diplomatico alla Iugoslavia, la soluzione delle controversie con l’Etiopia). Con la sua azione cercò di imprimere un maggiore dinamismo all’Italia sul piano internazionale e di contribuire alla distensione e all’eliminazione delle cause delle guerre e dei conflitti, ed in particolare le povertà di ogni natura illustrando in un suo discorso dell’8 ottobre 1969 all’Assemblea delle Nazioni Unite una «concezione di pace integrale», al cui interno doveva manifestarsi una «strategia globale di sviluppo» sulla base degli accordi di associazioni sorti tra la Comunità economica europea (CEE) e altri paesi africani e mediterranei. Cercando di conciliare la fedeltà al blocco occidentale con l’apertura ai paesi in via di sviluppo (PVS), M. schierò l’Italia su posizioni favorevoli al Nuovo ordine economico internazionale (NOEI). L’Italia, in questo periodo, anche grazie alla mediazione e capacità di dialogo di M. nel 1970 e nel 1974 venne eletta membro non permanente del Consiglio di sicurezza dell’ONU per i bienni successivi. Durante la presidenza di turno italiana del Consiglio europeo nel 1975 operò per intensificare i rapporti tra CEE e PVS e la Politica europea di cooperazione allo sviluppo, azione che rispondeva sia agli interessi commerciali nazionali che ai valori umani e alla prospettiva di pace e integrazione tra i popoli. Nel febbraio del 1975 inaugurò a Firenze l’Istituto universitario europeo (IUE). Favorevole alla distensione tra i due blocchi e sostenitore della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE) il cui documento conclusivo, l’Atto di Helsinki, firmò in qualità di presidente del Consiglio e presidente di turno della Comunità europea (v. Presidenza dell’Unione europea), M. ipotizzò nel 1972 uno strumento analogo per intensificare la cooperazione euromediterranea che si scontrò però con le oggettive e dure divisioni nell’area (v. anche Partenariato euromediterraneo). Già nel 1964 M. aveva presentato un memorandum per inserire gli accordi di associazione dell’area mediterranea in un quadro globale, idea ripresa con il varo della politica mediterranea globale avvenuta al Consiglio europeo dell’ottobre-novembre 1972. Il quadro delle relazioni internazionali e dei rapporti tra paesi occidentali e paesi produttori di petrolio riuniti nell’OPEC si deteriorò dopo la guerra dello Yom Kippur del 1973 marginalizzando l’apertura di M. per un dialogo e un rapporto ispirati ai valori della giustizia tra PVS e paesi industrializzati.

Più precisamente, in riferimento al ruolo svolto a favore dell’integrazione europea vanno ricordati il suo appoggio all’ingresso del Regno Unito nella Comunità europea sostenendone l’adesione e proseguendo la linea tenuta da Pietro Nenni, sin dalla richiesta italiana avanzata alla Conferenza dell’Aia del dicembre 1969 di iniziare i negoziati con la Gran Bretagna entro il marzo 1970, non accolta, ma sintomatica di questo atteggiamento rimasto sempre costante; l’appoggio all’Allargamento della CEE anche ai paesi mediterranei e forme di integrazione con i paesi mediterranei; la sua convinzione di dover dare un impulso all’integrazione politica del continente a tutti i livelli – politico-istituzionale, economico, monetario – e anche riformando il Fondo sociale europeo, impostando nuove politiche europee nei settori industriale, dell’istruzione, culturale, della ricerca e della gioventù, anche per fare uscire dalla crisi l’Italia; l’azione di M. volta allo scopo, raggiunto, di ottenere per l’Italia, per la prima volta, la nomina di Franco Maria Malfatti alla presidenza della Commissione europea, durata soltanto un anno e mezzo dal 1° luglio 1970 al 21 marzo 1972 a causa delle dimissioni di quest’ultimo; e infine e, soprattutto, la determinazione nella conduzione del Consiglio europeo di Roma dell’1-2 dicembre 1975 durante il quale per superare il dissenso di Danimarca e Gran Bretagna fece stabilire con un voto a Maggioranza qualificata le Elezioni dirette del Parlamento europeo a suffragio universale per il periodo maggio-giugno 1978 (poi slittate all’anno seguente), oltre che nella stessa sede l’istituzione di un passaporto europeo, premessa per garantire la Libera circolazione delle persone e una rappresentanza unica della Comunità europea nel negoziato tra Nord e Sud. Nell’ambito della sua concezione politica, a differenza di quanto sostenuto di frequente, la politica estera non venne subordinata alle contingenze della politica interna italiana ma rappresentò uno spazio fondamentale per affermare un’azione unitaria, coerente e globale volta a congiungere in un’interdipendenza necessaria fondata su valori comuni il processo di distensione, la riduzione degli armamenti, la pace mondiale, l’integrazione europea e mediterranea e il rafforzamento dell’Italia in un contesto di equità, sviluppo e rispetto dei Diritti dell’uomo.

Quando M. dichiarò di voler assumere una posizione autonoma nel partito, sembrò che ormai fosse fuori dei giochi. Invece, osservatore sempre attento qual era della politica e dei cambiamenti nella società, divenne il riferimento più autorevole della politica italiana di quegli anni. Nel dicembre 1971, una volta caduta la candidatura Fanfani, M. avrebbe potuto essere eletto Presidente della Repubblica con l’appoggio delle sinistre, ma non insistette nella corsa al Quirinale non appena percepì che la propria candidatura poteva creare divisioni nel partito. Quando la DC con la segreteria Arnaldo Forlani, tra il 1971 e il 1972, ripropose un incontro con il PLI che escludeva il PSI, M. manifestò tutta la sua contrarietà, convinto sempre della migliore capacità riformistica del centrosinistra. Fu poi M. il regista della ricostituzione del centrosinistra al congresso DC di Roma del giugno 1973, che riportava Rumor alla presidenza del governo e Fanfani alla segreteria del partito.

Intanto dati i tempi nuovi dopo il Sessantotto e vista la crescita di consenso del PCI anche a seguito delle nuove scelte politiche adottate, M. avvertiva che il confronto con questo partito diventava una sfida sempre più impegnativa. Dopo il congresso comunista del febbraio 1969 concluse che, nel quadro di corretti rapporti istituzionali tra maggioranza e opposizione, poteva aprirsi quella che definì «fase di una strategia dell’attenzione» verso la presenza del PCI nella realtà politica e sociale italiana. Con puntiglio precisò che si trattava non di avviare con i comunisti una comune gestione del potere, ma di dar corpo a un serio e corretto rapporto dialettico, «il vero modo di essere della democrazia»: per quanto riguarda il rapporto con il PCI, M. aveva ben chiaro che quelle di DC e PCI erano esperienze storiche con «molte divergenze e limitate convergenze», ciascuna con «propria intuizione del mondo e propria visione dell’uomo». Entro queste coordinate M. si mantenne anche quando il PCI di Enrico Berlinguer avanzò nell’ottobre 1973, dopo i noti fatti del Cile, la proposta di compromesso storico, sostenendola nel paese e nel Parlamento con un impegno politico che guadagnò consensi ai comunisti alle elezioni regionali del 1975 e a quelle politiche del 1976. Dopo il referendum del 1974 sul divorzio e dopo la crisi del governo di centrosinistra di Rumor, toccò di nuovo a M. trovare la via d’uscita dall’impasse, in cui si trovava la politica, con un governo DC-PRI (23 novembre 1974), sostenuto anche da PSI e PSDI, che rimanevano nella maggioranza ma fuori del governo. Questo governo M. (il quarto), che nasceva nell’ambito delle forze politiche che sempre avevano sostenuto il centrosinistra, risentiva dello scontroso travaglio dopo la crisi petrolifera e dopo l’esito del referendum, ma respingeva il compromesso storico e si dichiarava aperto a un rapporto dialettico col PCI. Alla DC in piena crisi, dopo il risultato delle regionali del 1975, M. riusciva a imporre alla segreteria politica un personaggio quale Zaccagnini, che offriva l’immagine di un serio rinnovamento. Quando il PSI a fine dicembre 1975 optò per la politica degli equilibri più avanzati e per il conseguente ritiro della fiducia al governo, dopo un ampio e tortuoso dibattito toccò ancora a M. presiedere il governo (il quinto governo M., 12 febbraio 1976), che riceveva l’appoggio di DC e PSDI, mentre si astenevano PSI, PRI e PLI e votavano contro i comunisti e i missini. M. era estremamente consapevole della fragilità del quadro politico dopo tale scelta del PSI, che si muoveva in un’ottica di alternativa alla DC. Al congresso di questa nel marzo successivo, M. riconosceva che la politica di centrosinistra era stata considerata esaurita dal congresso del PSI; che non poteva essere riproposta meccanicamente, ma si trattava di salvarne “il nucleo vitale”, cioè «la collaborazione di due forze popolari certamente diverse, caratterizzate da peculiari tradizioni e intuizioni, ma capaci di confluire in un disegno rinnovatore e di giustizia della società italiana». Passando all’esame del PCI, rilevava che la sua evoluzione non poteva indurre a «considerare risolta la questione comunista»: nel respingere ancora il compromesso storico, lanciava l’idea che «un serio, rigoroso e rispettoso confronto con il PCI è lo strumento necessario e anche sufficiente per garantire la dialettica democratica». Le elezioni politiche del giugno 1976 premiavano DC e PCI, togliendo voti e forza a PSI e agli altri partiti intermedi. Non ritenendo che esistessero le condizioni per associare il PCI al governo, M. favoriva la formazione di un governo monocolore democristiano, guidato da Andreotti, che si reggeva sulla “non sfiducia”, cioè sulle astensioni, degli altri partiti dell’arco costituzionale (6 agosto 1976). A metà ottobre M. veniva eletto presidente del Consiglio nazionale della DC. L’uomo politico, ormai leader riconosciuto e incontrastato del partito, doveva difendere con un famoso discorso alla Camera (9 marzo 1977) la storia del partito («sulle piazze noi non ci faremo processare») dagli scandali che colpivano la politica italiana. Intanto in Parlamento si andava concretizzando con il PCI un confronto sempre più aperto su vari punti programmatici, formalizzato in un documento, riassunto poi nella mozione approvata dalla Camera il 15 luglio 1977, in cui i sei partiti si impegnavano su tale accordo di programma a sostenere il governo: la situazione politica stava cambiando con il passaggio dalle astensioni all’appoggio su un accordo di programma. Quando sul finire del 1977 il governo Andreotti entrava in crisi (dimissioni poi formalizzate il 16 gennaio 1978) poiché il PCI reclamava una partecipazione diretta a un governo d’emergenza ritenuto necessario dall’aggravarsi della situazione, toccò ancora a M. tessere le fila di quel progetto che avrebbe condotto alla costituzione del governo di solidarietà nazionale (16 marzo 1978), presieduto ancora da Andreotti, in cui il PCI entrava nella maggioranza ma non aveva rappresentanti nel gabinetto ministeriale. In una situazione che registrava assenza di alternative data l’impraticabilità di qualsiasi ipotesi di centrosinistra, tra gennaio e marzo 1978 la regia prudente e intelligente di M., tenendo anche conto delle pressioni del Dipartimento di Stato americano sulla DC e di quelle di Mosca sul PCI, operò particolarmente per arrivare ad un chiarimento sulla natura del governo in formazione, che non poteva essere un governo di emergenza come proponeva il PCI; per convincere i gruppi parlamentari democristiani a dare il proprio assenso all’entrata del PCI nella maggioranza ma non nel governo; per convincere il PCI che non c’erano le condizioni per un’alleanza politica (il compromesso storico). L’interpretazione più plausibile è che M., in quella situazione di emergenza, aggravata dai condizionamenti del quadro politico internazionale, con tutte le cautele possibili stesse operando per assicurare al paese un processo di “democrazia compiuta”. Egli, data l’evoluzione del PCI sul terreno democratico e potendo contare sul fatto che la DC aveva intrapreso un processo di rinnovamento e che quindi avrebbe potuto confermare la propria capacità aggregativa e rappresentativa, accettava un coinvolgimento graduale e temporaneo del PCI nella maggioranza, fatto che poteva costituire la premessa necessaria della legittimazione di questo partito a governare nell’ambito del gioco dell’alternanza e nel rispetto dei principi costituzionali della democrazia parlamentare.

Il 16 marzo 1978, il giorno in cui il governo monocolore guidato da Andreotti – e sostenuto anche dai voti di PCI oltre che di PSI, PSDI, PRI – si presentava in Parlamento, il presidente della DC fu rapito da un commando delle Brigate rosse con un agguato in via Fani, mentre i cinque uomini della sua scorta venivano uccisi. La vicenda suscitò il più profondo sconcerto. Nelle settimane successive al rapimento, mentre l’apparato della polizia e i servizi di intelligence erano impegnati con deplorevole inefficienza nella ricerca del covo brigatista dove M. era tenuto in ostaggio, il confronto politico si sviluppò tra chi (essenzialmente DC e PCI) sosteneva la tesi della fermezza per la difesa delle istituzioni e di nessuna trattativa con le BR e chi (soprattutto PSI) assumeva un atteggiamento più possibilista, pur di salvare la vita dello statista pugliese, come egli stesso chiedeva disperatamente nelle tante lettere scritte durante la prigionia unitamente al “Memoriale” contenente giudizi sferzanti e impietosi nei confronti della classe politica, rinvenuto in fotocopia successivamente in altro covo delle BR. Nonostante l’accorato appello del papa agli “uomini delle Brigate rosse” e quello del segretario generale dell’ONU, dopo 55 giorni di sequestro il 9 maggio 1978 il cadavere di M. veniva fatto ritrovare in una Renault rossa nel centro di Roma in via Caetani, poco distante dalle sedi centrali di DC e PCI. Durante il Consiglio europeo di Brema nel luglio 1978 venne fatto approvare su richiesta dell’Italia una dichiarazione contro il terrorismo nella quale la Comunità esprimeva la volontà di «proteggere i diritti degli individui e le fondamenta delle istituzioni democratiche».

Nonostante cinque pubblici processi, due commissioni parlamentari d’inchiesta, un numero discreto di volumi frutto di studi e ricerche appassionate, la verità giudiziaria emersa e l’interpretazione politica o anche cinematografica hanno lasciato spazio a troppe incertezze, scontentezze, delusioni. Il caso o l’affaire M. resta sempre più, per dirla con Scoppola, «come un macigno nella storia della repubblica», costituisce un problema complesso e oscuro che ha condizionato come nessun altro lo svolgimento del sistema politico italiano.

Giancarlo Pellegrini (2012)