NEI

Nouvelles équipes internationales (NEI)




Neil Gordon Kinnock




Nenni, Pietro

N. (Faenza 1891-Roma 1980) proveniva da una famiglia di origini contadine. La precoce scomparsa del padre gli aprì la via dell’orfanotrofio. La sua formazione fu così caratterizzata da un’educazione rigida in un ambiente condizionato dall’atmosfera papalina, dove però filtravano i richiami del turbolento contesto sociale di fine secolo. I suoi primi ricordi si legavano ai tumulti per il pane scoppiati in Romagna nel 1898 e al regicidio di due anni dopo. All’età di sedici anni fu mandato a lavorare come contabile presso una fabbrica di ceramiche, dove si compì anche il suo precoce apprendistato alla politica. Nel 1908 risultava già iscritto alla locale sezione giovanile repubblicana, di cui diveniva di lì a poco il segretario, mentre cominciava le collaborazioni con il settimanale faentino “Il Popolo”. Per questo motivo fu allontanato dal lavoro, avviandosi a una lunga carriera di agitatore prima e subito dopo di dirigente politico.

Nel 1910 N. fu arrestato in Lunigiana, per la partecipazione a moti di protesta antimonarchici. L’anno successivo collaborò con i socialisti alle manifestazioni contro la guerra di Libia, dove organizzò atti di sabotaggio al fianco di Mussolini, con il quale fu condotto in carcere e sottoposto a processo. Nel 1914 era tra i protagonisti in Romagna della “settimana rossa”, accesa dai pronunciamenti rivoluzionari dei congressi socialista e repubblicano, che gli valse una nuova condanna per reati politici. Allo scoppio della Prima guerra mondiale N. aderì come altri esponenti della “settimana rossa” alla posizione interventista, persuaso che la guerra potesse costituire la miccia di innesco della rivoluzione. Fu invitato a collaborare con “Il popolo d’Italia” di Mussolini, prima di partire volontario per il fronte dell’Isonzo. Congedato a seguito di una ferita riportata in zona di guerra, fece ritorno alla politica attiva assumendo la direzione de “Il Giornale del mattino” di Bologna e quindi, alla chiusura di questo, passando a collaborare con “Il Secolo”, prestigioso quotidiano radicale milanese. In questo ambiente maturava tra il 1919 e il 1921 il suo passaggio al socialismo, una svolta decisiva nella vita politica di N., che prima di compiere questo passo aveva partecipato alla formazione del fascio di combattimento di Bologna, suggestionato dalla carica eversiva sprigionata dal movimento dell’amico Mussolini.

Pur tra incertezze ideologiche tipiche di quell’epoca, l’adesione di N. al socialismo si compiva nella raggiunta consapevolezza del carattere reazionario del fascismo, cui si univa un’insoddisfazione per la scarsa risolutezza dimostrata dai repubblicani e il rifiuto della soluzione comunista. Il tema della lotta di classe gli appariva come l’unica prospettiva rivoluzionaria che si apriva nella politica italiana. N. abbracciò così la posizione massimalista di Giacinto Menotti Serrati, che, intravedendone le capacità, lo assunse come corrispondente dell’“Avanti!”, di cui nel giro di pochi mesi diveniva redattore capo. Dalle colonne del giornale intraprese la battaglia contro il fascismo, che nel frattempo aveva raggiunto il potere. L’antifascismo costituiva per lui una condizione indispensabile dell’attività rivoluzionaria, ma anche un’occasione per riflettere sulle responsabilità delle forze popolari nel tracollo della democrazia. La necessità di superare i limiti della contrapposizione tra riformismo e massimalismo si concretizzava nel progetto di “Quarto Stato”, una rivista fondata nel 1925 con Carlo Rosselli che anticipava il suo esilio a Parigi e tracciava le linee per una riformulazione ideologica del socialismo.

Tra i più attivi nelle file del fronte antifascista costituitosi in Francia, N. concorreva alla riunificazione dei partiti socialisti in esilio divenendone poi segretario. Si adoperava quindi a sostenere la politica dei fronti popolari, a rafforzare i contatti con le altre forze antifasciste, in primis con Giustizia e libertà, e a superare i pregiudizi nella collaborazione con i comunisti. La guerra di Spagna rappresentava da questo punto di vista l’occasione per sperimentare sul campo di battaglia la capacità di azione dell’alleanza antifascista. Qui doveva però verificare l’impreparazione dei governi democratici e delle forze volontarie dinanzi alla risolutezza militare del nazifascismo. Presente sul fronte spagnolo come commissario politico delle brigate internazionali, N. definiva meglio le prospettive di politica europea, che non si limitavano all’obiettivo della Resistenza antifascista, ma puntavano soprattutto all’organizzazione di un movimento rivoluzionario. Ciò lo rafforzava nella convinzione di una più stretta unità d’azione tra socialisti e comunisti, che costituirà l’assillo della sua politica negli anni a venire, rendendolo invece del tutto indifferente alle istanze del Federalismo europeo, che maturavano negli ambienti dell’esilio e cominciavano a prospettarsi verso la fine del conflitto mondiale, quando già si delineava il profilo della nuova Europa.

N. era venuto a diretto contatto con questi fermenti durante il suo confino nell’isola di Ponza, cui era stato destinato nel 1943 dopo la cattura in Francia da parte della Gestapo, e successivamente nel corso dell’attività politica ripresa in Italia all’indomani della caduta del fascismo. La costruzione del socialismo, anziché la prefigurazione di un legame transnazionale tra gli Stati europei, assorbiva l’orizzonte della sua iniziativa politica: la dimensione internazionale della lotta di classe, contrapposta alla visione federalista dell’unità europea. In una lettera inviata a Morandi nel 1944 N. invitava a diffidare di un’azione del movimento federalista europeo fuori dall’orbita dell’Unione sovietica: «L’idea che è alla base di questo movimento solleva per noi due problemi capitali: quello dei rapporti fra Stati socialisti e Stati capitalisti e quello conseguente della posizione dell’Urss in un sistema federativo» (v. Spinelli, 1993, p. 77).

In coerenza con simili presupposti muoveva anche l’iniziativa di N. ministro nell’Italia postfascista, dapprima quale vicepresidente del Consiglio e ministro della Costituente nel governo Parri (v. Parri, Ferruccio) e nel primo governo De Gasperi (v. De Gasperi, Alcide), successivamente come ministro degli Affari esteri nel secondo governo De Gasperi. Il raggio della sua azione era circoscritto dalla funzione assegnata al socialismo italiano nell’ambito più vasto del movimento internazionale, regolato dal ruolo guida dell’Unione sovietica. Nella sua breve esperienza di ministro degli Affari esteri (dall’ottobre del 1946 al gennaio del 1947) N. cercava di collocare l’Italia in una posizione intermedia tra i due opposti blocchi, così da scongiurare una più stretta alleanza con il blocco atlantico secondo le direttive della propaganda neutralista dei partiti occidentali fedeli dal 1947 alla linea del Cominform.

Questa politica veniva delineata nel discorso di Canzo del 13 ottobre 1946, dove N. tracciava gli obiettivi programmatici della sua gestione agli Affari esteri. «Niente isterismi, ma neppure rinunzie. L’Europa si troverà, da ora in poi, davanti ad una Italia che vuole collaborare all’opera comune di progresso, che vuole vivere in pace coi vicini, che fonda la sua azione sul principio della solidarietà internazionale, che non punta sugli anglo-americani, ma sull’unione di tutte le forze democratiche dell’Europa e del mondo» (v. Santarelli, 1988, p. 284).

L’intenzione di sospingere l’Italia verso una posizione di neutrale equidistanza dalle coalizioni, dove anche l’obiettivo dell’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) (che il movimento federalista aveva già affermato come prioritario) sfumava dinanzi a un più generico proposito internazionalista, era però contraddetta dalla ripartizione in aree di influenza prefigurata dal trattato di pace, poi rafforzata tanto dalla pressione sovietica sui governi dell’Europa orientale quanto dai primi progetti di un piano di aiuti americano. I margini di azione del ministro degli esteri socialista erano perciò esigui, come dimostrava anche l’inefficacia del suo tentativo di rimuovere dalla sede di Washington l’ambasciatore Alberto Tarchiani, punto di riferimento delle correnti atlantiste e organizzatore nel gennaio del 1947 della visita di De Gasperi negli Stati uniti. In quegli stessi giorni, a seguito della scissione avvenuta in seno al partito socialista, N. era costretto ad abbandonare gli incarichi di governo per dedicarsi a tempo pieno alla riorganizzazione del partito. La convergenza della corrente socialdemocratica su posizioni atlantiche lo portava a irrigidire il tema dell’alternativa di sistema, che di lì a breve lo avrebbe condotto a un’opposizione frontale ai partiti centristi. «Tutti i nostri pensieri, tutti i nostri atti, tutti i nostri voti hanno un obiettivo: colpire e distruggere l’iniquità capitalistica che noi consideriamo fonte delle sciagure del nostro paese», così N. presentava la posizione socialista in occasione della presentazione all’Assemblea costituente del terzo governo De Gasperi (v. Nenni, 1983, p. 25).

La politica di neutralità costituiva in quegli anni il cemento dell’alleanza con i comunisti, esponendo i socialisti a una condizione di isolamento nei confronti del socialismo europeo nel momento in cui il movimento di integrazione europea rappresentava invece in altri paesi un punto di riferimento più accreditato. N. contestava proprio questa prospettiva politica e reclamava in parlamento «la garanzia di fare una politica di pace, di neutralità e di indipendenza verso qualsiasi blocco, o qualsiasi determinata potenza» (v. Nenni, 1983, p. 53).

Sul piano elettorale questa scelta non contribuì alle fortune del partito socialista. La netta sconfitta del fronte popolare nella contesa con il blocco centrista fu resa ancor più pesante dal ridimensionamento dei socialisti nei confronti dei comunisti, che determinava un rapporto di subalternità destinato a pesare sulle successive vicende del socialismo italiano. Il tentativo iniziale di N. fu quello di persuadere il governo a considerare la politica estera come una zona franca, da sottrarre allo scontro ideologico con l’opposizione. Questa speranza fu resa vana dal peso specifico delle decisioni da intraprendere e dall’irriducibile opposizione esercitata dai partiti di sinistra alle proposte del governo. Dopo le contestazioni sollevate in occasione del Piano Marshall, la polemica toccava il suo punto più elevato al momento della richiesta di adesione dell’Italia al Patto atlantico. L’11 marzo del 1949, tra le vivaci proteste dell’aula parlamentare, N. arrivava a paragonare la situazione a quella del 1939, quando il governo fascista «firmò il “patto d’acciaio” e lo illustrò al paese come tendente a preservare la pace europea» (v. Nenni, 1983, p. 128).

L’irriducibile opposizione all’Alleanza atlantica (v. anche Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico) costituì per N. il principale motivo di incomprensione riguardo alla politica di integrazione europea, che dall’atlantismo traeva linfa vitale. Il disprezzo riservato a questo tema era condizionato dal fatto che, a giudizio di N., il «federalismo non è purtroppo una soluzione ma una evasione. È una fuga nell’astratto. Oggi non è niente, quando non è la bandiera che copre il contrabbando imperialista» (v. Nenni, 1983, p. 111). Per molti anni il partito socialista di N., che ne assumeva l’incarico di segretario nel 1949 mantenendolo sino al 1963, continuò a sostenere l’irrilevanza di una politica europea dinanzi al confronto tra le due potenze nucleari. Ma anche sui due contendenti il giudizio appariva sbilanciato. I toni da crociata riservati agli Stati uniti e le simpatie incontrate in Unione sovietica, dove nel 1952 veniva insignito del premio Stalin per la pace, facevano di N. un alleato fedele dei paesi d’oltre cortina. Soltanto la morte di Stalin e il processo di revisione critica dei suoi crimini contribuì progressivamente a fargli cambiare schieramento, con una certa lentezza riguardo all’adesione a una linea europeista. La politica europea continuava ad apparirgli strumentale alla contrapposizione dei due blocchi, come dimostrava l’irrealistica proposta nel 1958 di fare del continente un territorio neutrale e disatomizzato e la perdurante attribuzione all’europeismo del «carattere di una evasione» (v. Nenni, 1983, pp. 520-523, 585).

La divergenza nei tempi di elaborazione delle prospettive di politica interna e di politica estera dimostrava la scarsa propensione di N. per l’ideologia rispetto al terreno della prassi – il suo comportamento era racchiuso nella formula della politique d’abord – che si accompagnava a un certo ritardo nel riconoscere la realtà totalitaria del socialismo reale. Se in politica interna già nel 1956 il partito socialista aveva cominciato ad allontanarsi dai comunisti adoperandosi a intese elettorali con il partito socialdemocratico, in politica estera i tempi di revisione furono più lunghi e seguirono il faticoso processo di costruzione della maggioranza di centrosinistra, che nel 1963 segnò il ritorno dei socialisti al governo con N. vicepresidente del Consiglio. Malgrado la distensione internazionale e un certo credito acquisito presso le diplomazie occidentali, la politica estera rimase però un versante di difficile comunicazione con la maggioranza centrista. Lo stesso N. contribuiva ad alimentare diffidenze attingendo di continuo al serbatoio della retorica socialista. Tra i suoi temi più diffusi, quello della contrapposizione di una Europa dei popoli all’Europa degli Stati, cui il partito socialista continuava a opporsi: «Contrapporre l’Europa dei popoli all’Europa delle patrie e dei militarismi è il nuovo grande compito che si apre all’azione di quanti respingono la situazione che si è creata nel cuore del nostro vecchio continente», così in un dibattito parlamentare del gennaio del ’63 (v. Nenni, 1983, p. 699).

Nell’agosto del 1968 l’invasione militare della Cecoslovacchia accelerava definitivamente il processo di avvicinamento dei socialisti alla sponda atlantica. Pochi mesi dopo, il ritorno di N. alla guida del ministero degli Affari esteri rendeva definitivo questo approdo. Dinanzi all’avanzata dei carri armati sovietici N. aveva richiamato l’attenzione del Parlamento «sull’esigenza di una politica di unità europea che supplisca ai vuoti dell’attuale organizzazione dei rapporti internazionali soggetti alla nefasta influenza della Realpolitik» (v. Nenni, 1983, p. 705). Dalla Farnesina egli rese ancora più esplicito questo proposito avvalendosi anche del sostegno di Altiero Spinelli, che nominò suo consulente ministeriale. Gli interventi pubblici che contrassegnarono questa sua ultima breve esperienza governativa, che si concluse appena sette mesi dopo nel luglio del 1969, rappresentano un’apertura ai più avanzati propositi di integrazione europea.

I temi sollevati da N. facevano proprie le istanze del federalismo, ma anticipavano anche questioni che sarebbero giunte a soluzione molti anni più tardi. Il ministro socialista non solo faceva presente la necessità di superare l’Unione doganale attraverso una vera e propria unione economica, ma cominciava già ad accennare all’ipotesi di una integrazione monetaria che aveva sullo sfondo la prospettiva della moneta unica. Questo progetto era subordinato al rafforzamento delle Istituzioni comunitarie, in special modo della Commissione europea, per attenuare le spinte isolazioniste che condizionavano il cammino dell’integrazione continentale. N. riusciva a incardinare queste proposte in una visione più alta delle responsabilità politiche, che lo portava ad auspicare una presenza dell’Europa nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite e soprattutto a sollecitare il passaggio alle Elezioni dirette del Parlamento europeo: «L’Europa sarà frutto ed espressione della democrazia europea, oppure non sarà» (v. Nenni, 1983, p. 746).

L’uscita dal governo segnò anche la parabola conclusiva della lunga carriera politica di N., che tuttavia rimase sulla scena sino agli ultimi giorni come figura di riferimento della democrazia italiana. Nel 1970 fu nominato senatore a vita, due anni dopo divenne presidente onorario del partito socialista.

Paolo Varvaro (2010)




Neutralità

La neutralità in rapporto alla politica estera nelle relazioni internazionali consiste nell’assenza di trattamento preferenziale di una parte o di uguale trattamento di tutte le parti da parte dello Stato dichiarante in caso di conflitto/i (violento/i). Come concetto politico, nelle relazioni internazionali il termine neutralità può riferirsi a una neutralità temporanea, occasionale o permanente. In tutti i casi la neutralità deve essere dichiarata e praticata da uno Stato nazionale. In epoca moderna la neutralità ha subito un’evoluzione, trasformandosi da un non coinvolgimento di fatto, per scelta autonoma, di uno specifico paese in una guerra, in uno status giuridico istituzionalizzato che è diventato parte del diritto internazionale, e che include come tale determinati doveri e diritti per la parte neutrale. La neutralità al giorno d’oggi non si riferisce soltanto a situazioni belliche, ma anche alla posizione dello Stato neutrale in rapporto alla politica estera, agli armamenti e persino al commercio estero.

Nella prassi statuale si sono sviluppati quattro diversi tipi di neutralità che corrispondono in parte a un’evoluzione storica.

Il primo tipo è quello della neutralità occasionale (ordinaria, ad hoc), ossia la neutralità di uno Stato in una particolare guerra fra altri Stati. Questa è stata una delle primissime forme di neutralità emersa già alla fine del Medioevo dalla prassi statuale, dalla riflessione teorica e da accordi internazionali. Solo nel 1907 questa forma di neutralità ha trovato codificazione nella Conferenza di pace dell’Aia. Il diritto internazionale della neutralità occasionale si applica solo a Stati che rimangono neutrali in una guerra, senza considerare le politiche precedenti, e non impegna uno Stato alla neutralità in qualsiasi altra situazione al di fuori di quella data.

In secondo luogo vi è la neutralità convenzionale (continua, de facto), che costituisce un ulteriore sviluppo della neutralità occasionale (applicazione ripetuta della neutralità occasionale), mentre si contrappone alla neutralità permanente. i, Stati come la Svezia che si sono impegnati alla neutralità convenzionale non si impegnano alla neutralità permanente secondo il diritto internazionale.

Il terzo tipo di neutralità è costituito dalla neutralità permanente (“eterna”, de jure). In base al diritto internazionale essa obbliga uno Stato alla neutralità non solo in tutte le guerre, ma anche in tempo di pace (ad esempio, comporta l’obbligo di non stringere alleanze che renderebbero impossibile la neutralità in caso di guerra). La neutralità permanente nel diritto internazionale è stata istituzionalizzata al principio dell’Ottocento. In tempo di guerra agli Stati permanentemente neutrali si applicano le regole della neutralità occasionale. L’Austria e la Svizzera sono i casi più noti di neutralità permanente.

Il quarto tipo di neutralità, il non allineamento, risale al secondo dopoguerra, e si riferisce alla scelta da parte di alcuni Stati nazionali di non aderire a una delle alleanze formatesi in conseguenza della Seconda guerra mondiale. L’ex Iugoslavia, dopo aver abbandonato il blocco comunista, invece di unirsi all’alleanza occidentale rimase un paese non allineato. Insieme con l’Egitto e l’India, la Iugoslavia è diventata una delle nazioni guida del movimento non allineato fondato negli anni Cinquanta. Lo status di non allineamento manca di una precisa definizione giuridica, e lo stesso vale per gli obblighi a esso associati. Dopo il cambiamento dell’assetto mondiale del 1989 questa forma di neutralità è diventata obsoleta.

Oggi la necessità di difesa armata dell’integrità politica e territoriale di uno Stato neutrale è ampiamente riconosciuta. Così il servizio militare obbligatorio per i giovani è stato una caratteristica condivisa dai paesi neutrali.

Il più antico Stato neutrale che si è vincolato a una neutralità permanente fino a oggi è la Svizzera. La neutralità svizzera come strumento di politica estera risale infatti al XVI secolo. In origine le relazioni interne fra cantoni erano il motivo principale della posizione neutrale dello “Stato federale svizzero”. La concezione svizzera della neutralità si precisò in concomitanza con la Guerra dei trent’anni, scoppiata per motivi territoriali e religiosi (1618-1648). Nel 1638 la legislazione svizzera proibì il transito di truppe straniere sul suo territorio, ma non il sostegno e i servizi ad altre nazioni in guerra, e nemmeno i fiorenti rapporti commerciali che gli svizzeri intrattenevano tradizionalmente con le parti belligeranti. Armi e munizioni, tuttavia, erano escluse da questi commerci. Divenne di importanza cruciale per la Svizzera tutelare e difendere il suo status neutrale attraverso tre strumenti: la diplomazia, la difesa delle frontiere, il tentativo di costruire una cintura esterna di aree neutrali. La scelta della neutralità era motivata dalla conclusione dell’espansione territoriale dello Stato svizzero, dalla rinuncia alle politiche di potere sul piano internazionale, dalla posizione geografica del territorio svizzero, stretto fra le potenze francese e austriaca, e dai rapporti interni dei liberi cantoni che impedivano una politica estera unanime. La diversità confessionale e culturale interna richiedeva una condizione di neutralità al fine di preservare lo Stato.

Per quasi due decenni la neutralità della Svizzera si interruppe, allorché nel 1789 essa divenne uno Stato satellite della Francia nel 1789, condizione che conservò anche nel 1803, allorché riconquistò la neutralità. Solo durante il congresso di Vienna, nel 1814-1815, la neutralità svizzera venne istituzionalizzata e riconosciuta internazionalmente, diventando per la prima volta nella storia diritto internazionale il 20 novembre 1815, quando venne firmata a Parigi l’intesa con il governo francese. Questo passo fu confermato oltre 90 anni dopo dagli accordi dell’Aia del 1907. La neutralità svizzera si è basata fin dall’inizio dell’Ottocento sulla neutralità in rapporto alle azioni militari, ma non ha regolato le politiche di difesa, gli strumenti diplomatici preventivi con potenziali partner in caso di attacco militare del territorio e l’esportazione di armi e munizioni da parte dell’industria privata.

A partire dalla metà dell’Ottocento la neutralità svizzera si è basata sulla fondazione e la promozione di concrete istituzioni internazionali. Fra molte altre, sono state insediate in Svizzera le seguenti organizzazioni internazionali: nel 1863 fu fondato il Comitato Internazionale della Croce rossa, nel 1872 venne istituita a Ginevra la corte arbitrale per il c.d. “Alabama Trade”, nel 1919 fu istituito il Völkerbund. La neutralità svizzera fu rispettata sia nella Prima che nella Seconda guerra mondiale. Dopo quest’ultima, le politiche della Svizzera come Stato neutrale furono aspramente criticate, specialmente per il vergognoso trattamento riservato ai rifugiati (in gran parte ebrei), quando fu bloccata la via di fuga a migliaia di civili perseguitati dall’Austria e dalla Germania e fu richiesto al governo tedesco uno speciale contrassegno per gli ebrei. Anche gli affari commerciali con il Terzo reich, in particolare il commercio dell’oro, sono stati oggetto di critiche nei dibattiti storici degli anni Ottanta e Novanta, perché considerati un sostegno alla politica dell’aggressore. La concezione odierna della neutralità svizzera implica tre doveri fondamentali che devono essere osservati in tempo di pace: l’obbligo di non iniziare una guerra, l’obbligo di difendere la propria neutralità e la propria indipendenza, e l’obbligo di prevenire in tempo di pace, attraverso la politica estera e gli strumenti diplomatici, il coinvolgimento in eventuali conflitti.

La seconda nazione in ordine di tempo nella storia occidentale a dichiararsi neutrale è stata la Svezia, che si è impegnata alla neutralità convenzionale a partire dal 1815. Assieme agli altri Stati scandinavi, la Svezia si dichiarò neutrale sia nella Prima che nella Seconda guerra mondiale. Il governo negò ufficialmente l’aiuto difensivo alla Finlandia quando il paese fu attaccato dall’Armata sovietica nel 1939-1940 e chiese sostegno alla Svezia. La neutralità svedese, tuttavia, non comporta alcun vincolo al diritto internazionale. Mentre la Svezia si proclama tuttora neutrale, lo status di neutralità del Belgio (dal 1831) e del Lussemburgo (dal 1867) fu annullato nel 1919. Attualmente gli Stati permanentemente neutrali, oltre alla Svizzera, sono l’Austria (dal 1955) e la Città del Vaticano (a partire dalla sua costituzione come Stato indipendente nel 1929). Un’interpretazione leggermente diversa della neutralità come neutralismo o non allineamento si ha nel caso del Laos (dal 1962) e di Malta (dal 1981).

Il concetto di neutralità fu di estrema importanza nell’Ottocento, quando le relazioni internazionali erano dominate da politiche di potenza e da alleanze militari strategiche. Nel 1794 anche gli Stati Uniti d’America avevano approvato una legge a favore della neutralità e si erano dichiarati neutrali. Dopo la Prima guerra mondiale il concetto di neutralità perse importanza nella politica internazionale, per riacquistare rilievo nel secondo dopoguerra, quando gli ex Alleati vittoriosi si divisero in due blocchi di massime potenze reciprocamente ostili e sembrarono svanire le possibilità di soluzioni politiche per una coesistenza pacifica. Mentre il non allineamento descritto in precedenza fu una politica scelta autonomamente da ex Stati coloniali e paesi come la Iugoslavia e l’Egitto, le superpotenze introdussero l’idea di neutralità forzata per gli Stati dell’Europa centrale, Germania e Austria, per ragioni differenti. Entrambi i paesi erano stati occupati dagli eserciti dei quattro paesi alleati, Stati Uniti, Unione Sovietica, Francia e Regno Unito. Con l’inizio della Guerra fredda dopo il 1945, gli Alleati occidentali costruirono ben presto un blocco contro l’Unione Sovietica e i suoi Stati satelliti. La lotta per il potere divise non solo l’Europa e, durante i decenni successivi, il mondo intero in sostenitori dell’uno o dell’altro blocco, ma anche i due paesi, Germania e Austria, in base alle zone occupate. L’Austria poté conservare la propria unità come Stato nazionale, laddove la Germania fu divisa in due parti che nel 1949 divennero due Stati indipendenti, la Repubblica Federale Tedesca, gravitante verso l’occidente, e la Repubblica Democratica Tedesca, incorporata nel blocco comunista. Allo scopo di superare la spaccatura dello Stato in due zone occupate come nel caso dell’Austria e la divisione in due Stati come nel caso della Germania, e tenendo conto delle atrocità perpetrate dai tedeschi nella Seconda guerra mondiale, la soluzione della neutralità della Germania fu suggerita più volte per oltre un decennio nel secondo dopoguerra.

L’idea di rendere neutrale la Germania fu avanzata dagli Stati Uniti e dagli Alleati occidentali nel 1945-194, promossa dal segretario di Stato James Francis Byrnes, che in occasione dell’incontro dei ministri degli Esteri degli Alleati a Londra (10 settembre-2 ottobre 1945) propose di stabilire una zona smilitarizzata in Germania per 25 anni. Il piano di Byrnes si conformava alla decisione presa nella conferenza di Potsdam (17 luglio-2 agosto 1945) da Harry Truman, Iosif Stalin e Winston Churchill di smilitarizzare la Germania. Sempre Byrnes, nella Conferenza di Parigi (aprile-maggio e giugno-luglio 1946) caldeggiò il suo piano di una zona smilitarizzata in Germania per 25-40 anni. Questa proposta venne respinta da quanti erano favorevoli all’integrazione della Germania nell’Alleanza occidentale, come George F. Kennan, Ernest Bevin, Dean Acheson, John Foster Dulles e Anthony Eden, che preferivano la soluzione di un “contenimento” della Germania (Ovest) a quella di far diventare il paese un’area “cuscinetto” dalle prospettive incerte, con il rischio che si unisse all’Unione Sovietica. Nel 1948 gli Alleati occidentali abbandonarono completamente l’idea di rendere neutrale la Germania.

Quattro anni dopo fu la controparte dell’Est a rilanciare l’idea di una Germania neutrale. In un memorandum del 10 marzo 1952 indirizzato a Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, Stalin propose un trattato di pace da sottoscrivere con un governo dell’intera Germania che avrebbe incluso l’unificazione, la neutralizzazione e la democratizzazione del paese. Gli Alleati occidentali e il cancelliere della Germania Ovest Adenauer (v. Adenauer, Konrad) rifiutarono l’offerta di Stalin e in una nota del 25 marzo 1952 chiesero libere elezioni come condizione preliminare per qualsiasi ulteriore negoziato sul futuro della Germania. Durante il resto dell’anno vi fu uno scambio di note diplomatiche tra le parti senza che si arrivasse a un avvicinamento. Ancora una volta, alla Conferenza di Berlino dei ministri degli Esteri tenutasi fra il 25 gennaio e il 18 febbraio 1945, cui parteciparono Dulles, Viacheslav M. Molotow, Eden e Georges Bidault, i sovietici – in particolare Lavrentij Pavlovič Berija e Georgy M. Malenkov – proposero la neutralizzazione di uno Stato tedesco potenzialmente unificato. Tale Stato unificato, inoltre, avrebbe dovuto essere integrato in un quadro più ampio di sicurezza europea. Quest’ultima richiesta fu avanzata anche nella Conferenza del blocco orientale di Mosca il 2 dicembre 1954.

Poiché gli Alleati non avevano trovato un accordo sulla neutralizzazione della Germania, fino al 1990 il paese alla fine rimase diviso in due Stati, ognuno dei quali apparteneva a una diversa alleanza militare: nel 1954 la Germania Ovest divenne membro dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) e nel 1955 la Germania Est aderì al Patto di Varsavia. Il concetto di neutralità fu quindi applicato all’Austria, all’epoca ancora uno Stato occupato in attesa di recuperare la sua piena sovranità. Fino al 1954 la tattica di Stalin fu quella di far dipendere l’accordo per l’Austria dalla soluzione preliminare della questione tedesca, procrastinando quindi indefinitamente le due soluzioni. Nel 1954 questa tattica divenne non solo obsoleta, ma anche controproducente per i sovietici, i quali temevano che in Austria si potesse arrivare a una divisione simile a quella tedesca, con la maggior parte del territorio integrata nell’Alleanza atlantica della NATO, percepita come fattore non solo militare, ma anche politico. Allo stesso tempo, nonostante la crescente tensione reciproca, era evidente che nessuna delle due superpotenze era pronta per un confronto armato. Quindi, dal punto di vista dell’Unione Sovietica, si erano create le condizioni per una prima distensione e la soluzione austriaca divenne il primo punto del programma sovietico. Gli Alleati si sarebbero impegnati a lasciare l’Austria, mentre gli austriaci avrebbero promesso di adottare uno status di neutralità, ed entrambe le parti avrebbero poi dato attuazione a queste dichiarazioni. La neutralità non era inclusa nel trattato firmato il 15 maggio 1955 a Vienna dai ministri degli Esteri dei quattro Alleati e dall’Austria. I politici austriaci si impegnarono a votare una legge costituzionale sulla neutralità permanente che avrebbe dovuto essere osservata dai governi austriaci. Questa legge fu approvata il 26 ottobre 1955, dopo che le truppe alleate avevano lasciato l’Austria. La legge sottolineava la libera volontà dell’Austria nella dichiarazione di neutralità e stabiliva che in tutti i tempi futuri il paese non avrebbe aderito ad alcuna alleanza militare e non avrebbe permesso lo stanziamento di basi militari straniere sul suo territorio. In questo periodo non era completamente chiaro quali altre implicazioni dovesse avere lo status di neutralità dell’Austria. Il denominatore comune, tuttavia, sul quale i negoziatori sovietici e austriaci trovarono un’intesa un mese prima del trattato fu un tipo di neutralità sul modello di quella svizzera. Negli anni e nei decenni successivi l’Austria ha interpretato la sua neutralità come neutralità militare, che non le avrebbe impedito di diventare membro di organizzazioni internazionali non militari. Lo status neutrale non solo ha impedito all’Austria di aderire alla NATO ma anche – in seguito alle pressioni sovietiche e ai disaccordi interni fra socialisti e conservatori – di entrare a far parte della Comunità economica europea (creata nel 1957). Solo dopo la caduta dell’impero sovietico l’Austria è diventata finalmente, nel 1995, membro dell’Unione europea. In contrasto con l’interpretazione svizzera della neutralità fino al 2002, l’Austria non ha esitato ad aderire all’Organizzazione delle Nazioni Unite come membro regolare. In seguito ha promosso una “neutralità attiva” che include la mediazione, l’aiuto umanitario e i servizi di mantenimento della pace a livello internazionale.

Quando l’Austria riottenne la sua sovranità in cambio della dichiarazione di neutralità, si era aperta una miracolosa finestra di opportunità politica che però si richiuse immediatamente dopo la firma del Trattato austriaco nel maggio 1955. Quando la Romania, tre mesi più tardi, e anche l’Ungheria nel 1956, tentarono di dichiararsi neutrali e di trovare così una via di fuga dalla sfera di influenza di Mosca, a entrambi i paesi fu impedito di farlo, anzi l’Ungheria fu richiamata all’ordine da un intervento militare dell’esercito sovietico.

Oggi la neutralità ha perso quasi interamente rilievo in Europa. È molto improbabile che il continente debba affrontare altre guerre fra nazioni europee nelle prossime generazioni. Venuta a mancare la contrapposizione tra le superpotenze, il concetto di neutralità permanente appare obsoleto anche a livello mondiale. Tuttavia può essere stimolante e fruttuoso nel dibattito politico internazionale riconsiderare il concetto di neutralità occasionale, adattandolo ai conflitti in corso e alle alleanze politiche. Può essere definita neutralità militare occasionale la linea di comportamento adottata da molti membri dell’Alleanza occidentale e/o della NATO quando, in caso di conflitti internazionali come la guerra guidata dagli Stati Uniti contro l’Afghanistan e l’Iraq, non hanno partecipato alle guerre, ma invece si sono opposti verbalmente a esse, e quindi hanno assunto una posizione militarmente neutrale.

Anton Legerer (2012)