Nocciolo duro

L’idea del nucleo duro: nascita del concetto

L’idea di un nucleo duro di Stati membri della Comunità europea è più antica di quanto si pensi. Se è vero che solo con il Trattato di Amsterdam del 1997 hanno fatto pieno ingresso nel lessico europeo vocaboli come Cooperazione rafforzata, Europa “a geometria variabile”, Europa “a più velocità” (v. Cannone, 2005) è altrettanto vero che da un punto di vista politico il tema è dibattuto da molto prima.

Si potrebbe datarne la nascita, addirittura, ai primi anni cinquanta, quando si iniziò a discutere del progetto di una Comunità europea di difesa (CED), dopo una nota in tal senso del governo italiano del maggio 1950, per opera di Carlo Sforza, allora ministro degli Esteri. La Francia dovette formulare una propria proposta in merito: il problema principale era la Germania, al cui riarmo la stessa Francia si era fermamente opposta. Così Jean Monnet stese un piano, che poi prese il nome di “Piano Pleven” (v. Pleven, René), perché presentato dal primo ministro francese: si ideò un esercito europeo, di sei divisioni, sotto il comando dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) e gestito da una sorta di ministro della Difesa europeo. Il Piano aveva il chiaro scopo di impedire il riarmo tedesco e allo stesso tempo di non ostacolare la possibilità di costituire un esercito europeo.

È qui che nasce l’idea del nocciolo duro: i sei Stati fondatori avrebbero devoluto una divisione del proprio esercito per la formazione di un esercito europeo, mantenendo ovviamente il proprio esercito, tutti, tranne la Germania, che, invece, avrebbe potuto armare soltanto la divisione da devolvere al costituendo esercito europeo. Il destino del piano non fu felice: nonostante il reiterato impegno italiano, anche per merito di Altiero Spinelli, nonostante l’interessamento americano, il voto contrario del Parlamento francese del 1954 bloccò l’entrata in vigore di quello che nel frattempo era diventato il Trattato istitutivo della CED.

L’idea del nucleo duro: l’erompere del concetto per merito della CDU tedesca

L’idea di un nocciolo duro di paesi europei impegnati nel processo di integrazione (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), di cui si iniziò a discutere proprio in riferimento al problema della difesa europea, non uscì più dal dibattito politico europeo. Durante gli anni Settanta se ne parlò in riferimento alla creazione del Sistema monetario europeo (SME) e Valery Giscard d’Estaing e Helmut Schmidt esercitarono forti pressioni politiche affinché il nucleo degli Stati fondatori facessero da traino al processo di integrazione monetaria (v. anche Unione economica e monetaria). Anche François Mitterrand pronunciò parole favorevoli al concetto di nocciolo duro di paesi membri, come d’altro canto fece Jacques Delors ancora in merito al problema della difesa europea.

Si potrebbe dire, tuttavia, che il tema esplose nel 1994. Parte della Christlich-demokratische Union (CDU) tedesca, capeggiata da Wolfang Schäuble e da Karl Lamers, espose in un documento presentato al Bundestag in modo chiaro il concetto di nocciolo duro, in modo talmente radicale da suscitare immediate reazioni tanto all’interno della stessa CDU quanto dei paesi che non rientravano tra il nocciolo duro ipotizzato, tra i quali l’Italia.

Si era da poco firmato il Trattato di Maastricht ed era già prevista la convocazione nel 1996 di una Conferenza intergovernativa (CIG) (v. Conferenze intergovernative) per la riforma dello stesso Trattato. Il periodo era quindi molto indicato per affermare, in chiave politica, l’idea che un certo numero di paesi membri, il nocciolo duro appunto, avrebbe dovuto porsi come vagone di testa della futura unione monetaria: Francia, Germania e i paesi del Benelux (v. anche Belgio; Paesi Bassi; Lussemburgo) avrebbero dovuto trainare gli altri paesi verso la moneta unica (v. Euro) e verso nuovi stadi di sviluppo del processo di integrazione politica.

Helmut Kohl dovette scendere in campo di persona per evitare attriti diplomatici con il governo italiano: il problema era molto avvertito, perché il fallimento dell’unione monetaria, della moneta unica, poteva dipendere proprio dal mancato rispetto dei parametri di Maastricht (v. Criteri di convergenza) da parte non di tutti ma di alcuni paesi membri, tra i quali l’Italia.

Il problema del nocciolo duro esplose di colpo: tutti ne parlavano, alcuni per elogiarlo altri per criticarlo, ma indubbiamente entrò nel gergo politico europeo e da quel momento non ne uscì più.

Resta famosa la frase di Kohl sul fatto che non poteva essere la nave più lenta a determinare la velocità dell’intero convoglio europeo: nonostante l’abilità diplomatica del cancelliere tedesco, che seppe ricucire gli strappi con i paesi esclusi dal progetto di nocciolo duro, soprattutto con l’Italia, ma anche rispetto al Regno Unito, il progetto continuò a essere visto con una sorta di sospetto, in particolare, per due motivi.

Da una parte, perché parlare di nocciolo duro significava in un modo o nell’altro fare una sorta di classifica di merito tra gli Stati membri: i più “bravi” vanno avanti, gli altri arriveranno dopo. Ma non solo, perché, dall’altra parte, vi era un altro problema, se si vuole meno politico, ma altrettanto fondamentale: il concetto di nocciolo duro avrebbe sì potuto contribuire ad imprimere una maggiore velocità al processo di integrazione, avrebbe sì potuto contribuire a raggiungere gli obbiettivi che ci si era prefissati di comune accordo ma che non si era riusciti a raggiungere, ma nulla avrebbe potuto evitare che l’idea del nocciolo duro avrebbe anche potuto rivolgersi contro lo stesso processo di integrazione, minandolo dalle fondamenta, in altre parole, minando la ben nota politica dei “piccoli passi” che fin dalla Dichiarazione Schuman del 1950 aveva contraddistinto il processo di integrazione europea.

Come disse un esponente di spicco della stessa CDU tedesca, che si spaccò sulla proposta Schäuble, l’idea di una sorta di “Europa carolingia”, alla fine, non solo avrebbe potuto fruttare problemi per la politica estera tedesca, ma sarebbe potuta diventare una “bomba a tempo” contro il processo di unificazione europea.

D’altro canto, la reazione francese fu emblematica: in apparenza dichiarò la propria contrarietà a stilare una classifica di paesi “bravi” e di paesi “cattivi”, ma, nella sostanza, non si distaccò di molto dalle tesi di Schäuble, in quanto fu proprio in risposta a queste che il primo ministro Édouard Balladur elaborò un concetto simile a quello di nocciolo duro, ma forse politicamente meno impegnativo, ossia, quello di Europa a “cerchi concentrici”. Da un punto di vista politico era un concetto meno forte e radicale di quello tedesco, ma sostanzialmente non se ne distaccava di molto, perché l’idea base era sempre la stessa, ossia quella di impedire che la velocità del convoglio europeo dipendesse dalla nave più lenta. Era un concetto più sfumato, perché non escludeva a priori nessuno Stato, ma la sostanza non si discostava di molto dalla proposta tedesca, tanto è vero che John Major, allora premier inglese, non esitò a criticare tanto il progetto tedesco quanto il progetto francese.

La diatriba politica, come detto, scoppiò e non si fermò più: Lisbona espose le sue preoccupazioni, cui si aggiunsero quelle dell’Austria, paese che sarebbe entrato l’anno seguente, nel 1995.

L’idea del nucleo duro nella prima Risoluzione del PE del 1994 in materia

Intervenne, a questo punto, il Parlamento europeo, dedicando un’apposita seduta, il 28 settembre 1994, al problema dell’Europa a più velocità. Il Parlamento, quasi all’unanimità, approvò una Risoluzione in materia. Dopo aver riaffermato la propria visione di un’Unione nella quale tutti gli Stati membri solleciti nel procedere sulla via dell’integrazione avrebbero dovuto avere pari diritti e doveri, dopo aver ribadito la propria contrarietà a che fossero esclusi in modo aprioristico dall’Unione Stati membri desiderosi e in grado di continuare i propri sforzi di integrazione, la Risoluzione espose in modo conciso ma chiaro due concetti fondamentali.

Da un lato, il Parlamento bocciava «l’idea di un’Europa “alla carta” nella quale ogni governo avrebbe il diritto di dissociarsi da qualunque politica comunitaria», mentre, dall’altro lato, affermava che, qualora «una piccola minoranza di Stati» avesse cercato di impedire qualsiasi progresso in occasione della Conferenza intergovernativa del 1996», sarebbe stato necessario trovare modalità che consentissero agli Stati che lo desideravano di «portare avanti ugualmente i loro sforzi di integrazione europea».

Fa così l’ingresso ufficiale in una Risoluzione del Parlamento europeo il concetto di nocciolo duro, che poi, con diverse sfumature e anche parziali trasfigurazioni rispetto al concetto originario, sarà alla base del sistema delle cooperazioni rafforzate introdotto con il Trattato di Amsterdam.

Il nucleo duro: attualità e prospettive

Dopo la Risoluzione del Parlamento europeo il dibattito politico e istituzionale sul concetto di nocciolo duro si affermò in misura crescente. Una delle prese di posizioni più note a riguardo fu il discorso di Joschka Fischer, allora ministro degli Esteri tedesco, all’Università Humboldt di Berlino del 12 maggio 2000, nel quale, dopo aver tessuto le lodi della politica dei “piccoli passi” degli anni Cinquanta, si affermava che per le sfide attuali europee era necessario un diverso approccio, appunto, quello della differenziazione dei gradi di integrazione, che è poi una sfumatura del concetto di nocciolo duro. Si fecero gli esempi dell’Euro e degli Accordi di Schengen, ma il problema politico più importante che Fischer disse di voler affrontare ricorrendo al concetto di “nocciolo duro” era quello dell’Allargamento.

Il problema fondamentale, secondo l’allora ministro degli Esteri tedesco, era quello di trovare il giusto bilanciamento tra la politica dei “piccoli passi” propria dell’origine del processo di integrazione e la politica del “nocciolo duro” propria, invece, della fase di avanzamento in cui si trovava il processo di integrazione stesso, bilanciamento necessario per evitare una perdita di identità europea e di coesione interna.

Dopo aver ricordato le tesi più discusse, come quella di Delors di effettuare una distinzione sulla base dei sei Stati fondatori e quella di Schmidt e Giscard d’Estaing di usare invece come criterio di discrimine l’adozione dell’euro, e dopo aver ricordato proprio la proposta del 1994 della CDU tedesca, che si riconobbe avere il grave difetto di lasciare fuori dal nocciolo duro uno dei paesi fondatori, vale a dire l’Italia, Fischer esponeva la propria idea di nocciolo duro: nessuna accelerazione verso una federazione europea avrebbe potuto escludere a priori due paesi, la Germania e la Francia, attorno ai quali sarebbe dovuto nascere un “centro di gravità” di paesi d’accordo su un maggiore sviluppo dell’integrazione in determinati settori, comunque sia, lasciando sempre aperta la possibilità di entrare a far parte di questo gruppo d’avanguardia a tutti quei paesi che inizialmente non avevano invece i requisiti per entrare a farne parte.

Il concetto, se si vuole, è il medesimo di quello espresso nella Risoluzione del 1994 del Parlamento europeo: nessuno Stato membro può venire obbligato a fare passi oltre quanto possa o voglia, ma, allo stesso tempo, nessuno Stato membro che non possa o voglia procedere non potrebbe obbligare in questo senso anche gli Stati che, invece, vorrebbero accelerare il processo di integrazione.

Questa è ancora oggi la sostanza del concetto di nocciolo duro: nessuna possibilità di obbligare gli Stati a proseguire in modo più veloce sulla via dell’integrazione, ma egualmente nessuna possibilità di evitare che questo maggiore sviluppo dell’integrazione possa essere per questo bloccato.

Davide Galliani (2010)




Noël, Émile

N. (Costantinopoli 1922-Viareggio 1996) fu definito da Jacques Delors nelle sue Memorie «uno dei padri dell’Europa», diventato, al servizio della Commissione europea, «un ingranaggio talmente essenziale che ci si domandava talvolta se non era stato proprio lui ad avere impresso il suo sigillo a un certo orientamento, ad una certa decisione». I suoi genitori si erano conosciuti in Turchia: il padre, belga, era funzionario delle ferrovie e la madre apparteneva a una famiglia francese trasferitasi in Turchia nell’Ottocento. Ritornato nel 1925 in Francia, N. frequentò il liceo cattolico di Aix-en-Provence (conseguendo la licenza a soli sedici anni) e i corsi preparatori di matematica a Montpellier e a Marsiglia. Trasferitosi a Parigi, conseguì nel 1943 il dottorato in scienze fisiche e matematiche. Del suo impegno nella Resistenza, iniziato nel 1941 in Provenza e proseguito nella capitale, N. non parlava volentieri a causa di quel carattere schivo e riservato che lo portava con fatica a evocare vicende personali. Il coinvolgimento nel maquis svolse però un ruolo importante nello sviluppare in lui il sentimento di comunità. Nell’ottobre 1945 partecipò a Londra ai lavori della Conferenza mondiale della gioventù e la sua presenza nel maggio 1948 al Congresso dell’Aia, che sancì la nascita del Movimento europeo, costituì l’occasione per il rafforzamento delle sue convinzioni.

Le prospettive aperte per i giovani dall’integrazione vennero illustrate nell’agosto 1949 dal Manifesto del Movimento europeo, del quale N. era diventato nel frattempo segretario generale aggiunto. A quell’epoca iniziarono e si consolidarono i suoi rapporti con i federalisti Hendrik Brugmans e Alexandre Marc (v. anche Federalismo). Nel 1949, diventato funzionario del Consiglio d’Europa, N. s’impegnò in una serie di iniziative per lo sviluppo dei poteri decisionali di quell’istituzione che aveva in Guy Alcide Mollet, membro dell’Assemblea consultiva del Consiglio d’Europa oltre che influente segretario della Section française de l’internationale ouvrière (SFIO), un fervente sostenitore. Prima, importante tappa della sua carriera di funzionario internazionale fu la nomina a segretario della Commissione Affari generali, della quale Mollet era relatore. Nel 1952, quando Paul-Henry Charles Spaak diventò, nell’ambito della Comunità europea per il carbone e l’acciaio (CECA), presidente dell’Assemblea ad hoc con il mandato di predisporre, sulla base di una proposta italo-francese, lo statuto di una Comunità politica europea (CPE), N. venne “prestato” alla nuova organizzazione per dirigere il segretariato della Commissione costituzionale incaricata di redigere le clausole del nuovo trattato (v. anche Trattati). Questo tentativo, che aveva suscitato molte speranze tanto da essere considerato da N. come il momento nel quale mai l’Europa politica era apparsa così a portata di mano, naufragò nel 1954 a seguito della mancata ratifica da parte dell’Assemblea nazionale francese del Trattato istitutivo della Comunità europea di difesa (CED).

Tornato al Consiglio d’Europa N. divenne capo di gabinetto di Mollet, nel frattempo eletto presidente dell’Assemblea consultiva. Quando quest’ultimo, nel 1956, in un momento critico a causa delle vicende algerine, fu incaricato di formare il governo, N. divenne, prima, chef de Cabinet, e poi, direttore aggiunto del gabinetto stesso. In questa veste partecipò, assieme a Pierre Uri e a Robert Marjolin e sotto la direzione del ministro degli Esteri Christian Pineau, alla messa a punto della posizione francese nei negoziati di Val-Duchesse, conclusisi con la firma nel marzo 1957 dei Trattati di Roma. A proposito di questi negoziati, Marjolin nelle sue memorie ha ricordato così il ruolo “molto importante” svolto da N.: «Europeo della prima ora, fermissimo nelle sue convinzioni malgrado un aspetto esterno affabile e tollerante, spirito lucido e penetrante N. contribuì in maniera decisiva a fare prendere al presidente del Consiglio quelle decisioni che consentirono ai negoziatori di Bruxelles di perseguire efficacemente il loro fine». A quest’epoca risale l’intensificazione dei rapporti di N. con Jean Monnet.

Nel marzo 1958 N. fu nominato segretario esecutivo della Commissione della Comunità economica europea (CEE) e si preoccupò, anzi tutto, di dare una struttura organica al segretariato con il triplice scopo di assicurare il buon funzionamento del collegio dei commissari, di vegliare all’attuazione da parte dei competenti servizi delle relative decisioni e di intrattenere relazioni continue con le altre Istituzioni comunitarie, segnatamente il Parlamento europeo e il Consiglio dei ministri. Il progetto delle “regole di procedura”, da lui stesso messo a punto, fu approvato dalla Commissione europea presieduta da Walter Hallstein senza sostanziali modifiche, e tali “regole” sono rimaste fino a oggi sostanzialmente immutate. Con l’entrata in vigore il 1° luglio 1967 del Trattato istitutivo di una Commissione unica e di un Consiglio unico per le tre Comunità europee, firmato l’8 aprile 1965, N. divenne segretario generale della Commissione, carica che mantenne fino al 1987, anno del suo pensionamento.

N. non fu soltanto un notaio, e le sue convinzioni e la sua esperienza, unite alla capacità di saper ascoltare e di trarre conclusioni operative in uno sforzo di sintesi di posizioni tra loro a volte distanti, si rivelarono utilissime fin dai primi giorni dell’entrata in funzione della CEE – soprattutto quando questa, assai presto, si trovò a dovere affrontare, sul piano interno, le tematiche connesse alla messa in funzione delle organizzazioni comuni di mercato agricole (v. anche Politica agricola comune) e, sul piano esterno, i problemi del commercio internazionale nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) (v. anche Accordo generale sulle tariffe e il commercio, GATT). La tenacia, la pazienza e l’immaginazione creativa di N. furono messe a dura prova nei momenti difficili dell’Europa comunitaria: dalla politica francese della “sedia vuota” del 1965 ai problemi dell’equilibrio finanziario posti dal Regno Unito durante gli anni Ottanta e, ancora, allorché dovette battersi per ottenere che anche il Presidente della Commissione europea potesse sedere al tavolo dei capi di Stato e di governo riuniti nel Consiglio europeo. Le sue doti di negoziatore abile e discreto si rivelarono ancora all’epoca dei primi pour parlers per l’Atto unico europeo che, con la prospettiva di un grande mercato all’orizzonte del 1992, segnarono l’inizio, dopo circa trent’anni, di un cambiamento nell’atteggiamento dei governi degli Stati membri.

N. attribuiva il merito dell’Atto unico sia alla presidenza di turno italiana, che al Consiglio europeo di Milano del 1985 aveva imposto, nonostante l’opposizione britannica, la convocazione di una Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) di Revisione dei Trattati, sia alla presidenza belga che, nel 1986 in sede di negoziato finale, si era opposta recisamente a compromessi dell’ultima ora. Così – osservava sempre Noël, assertore della necessità di dotare l’Unione europea di strumenti ad elevato grado di flessibilità – in questi due momenti critici era stata determinante la volontà di «sfuggire alle costrizioni troppo rigide del voto all’unanimità e di aprire nuove vie» sempre nel pieno rispetto dei trattati esistenti. N. fu sempre contrario all’adozione di formule – quali quelle dell’Europa a due velocità o del direttorio (v. anche Europa a “più velocità”) – che avrebbero indebolito il principio della solidarietà nell’ambito della Comunità europea e propenso, invece, a ricercare soluzioni che consentissero a una maggioranza di Stati membri, in una cornice di condivisione generale dei relativi obiettivi, di fare da battistrada sul percorso dell’integrazione (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

Dopo il suo collocamento a riposo N. fu nominato presidente dell’Istituto universitario europeo (IUE) di Firenze, carica che mantenne fino al 1994. Durante sette anni operò con successo per la revisione della Convenzione (v. anche Convenzioni) del 1972 con l’obiettivo di sviluppare programmi di ricerca sulla società europea contemporanea. La revisione diede vita al Centro Robert Schuman di studi avanzati quale struttura interdisciplinare orizzontale volta ad approfondire i temi dell’integrazione.

Luigi Guidobono Cavalchini (2010)




Normalizzazione

Con il termine “normalizzazione”, in ambito europeo, s’intende quel processo di Armonizzazione delle norme e degli standard tecnici che stabiliscono criteri e caratteristiche di prodotti, servizi e processi (v. anche Ravvicinamento delle legislazioni). Tali norme contribuiscono ad assicurare l’idoneità di prodotti e servizi all’impiego indicato, nonché la loro comparabilità e compatibilità. Il processo di normalizzazione è dunque fondamentale per garantire l’accesso e la libera circolazione nel mercato interno, eliminando gli ostacoli tecnici e le barriere legali ed evitando ai produttori di fabbricare prodotti diversi a seconda del paese di destinazione.

L’approccio all’armonizzazione tecnica si è evoluto nel corso del tempo, la chiave di volta collocandosi nel 1985 con la pubblicazione del Libro bianco (v. Libri bianchi) sul completamento del Mercato unico europeo, fortemente voluto dall’allora Presidente della Commissione europea, Jaques Delors. Nel documento chiaramente si mette in luce la necessità, dopo il completamento dell’Unione doganale nel 1968, di dare un nuovo impulso al perseguimento del mercato interno, concepito come uno spazio libero da ogni tipo di barriera agli scambi commerciali, sia essa fisica, tecnica, amministrativa o fiscale. Per raggiungere l’obiettivo del mercato interno entro il 31 dicembre 1992 il Libro bianco individuava una strategia, successivamente tradottasi, anche se non nella sua interezza, nell’Atto unico europeo (AUE) adottato nel 1996. Pilastri di questa strategia sono: la possibilità di ricorrere in maniera generalizzata alla Maggioranza qualificata (tranne che per le questioni fiscali, la Libera circolazione delle persone e i diritti dei lavoratori dipendenti) come previsto dal nuovo articolo 100A dell’AUE (ora articolo 95) sul ravvicinamento delle legislazioni per l’instaurazione del mercato interno; un nuovo sistema di armonizzazione tecnica e di normalizzazione (il cosiddetto “nuovo approccio” lanciato con la Risoluzione del Consiglio dei ministri del 7 maggio 1985), che consiste nel limitare le direttive di armonizzazione ai requisiti essenziali, delegando la definizione delle specifiche tecniche ad organismi di standardizzazione (cosiddetto “rinvio alle norme”) e applicando il principio del mutuo riconoscimento.

Fino al 1985 la Commissione europea perseguiva l’eliminazione degli ostacoli creati dalle differenze nazionali nelle specifiche tecniche di prodotto attraverso l’uniformazione di queste ultime a livello europeo: venivano infatti predisposte direttive (v. Direttiva) di armonizzazione estremamente minuziose e laboriose, che regolamentavano un determinato settore attraverso dettagliate specifiche descrittive e requisiti tecnici e con complesse procedure di omologazione (famosa la direttiva sul cacao). È chiaro che un tale sistema, oltre a essere estremamente faticoso poiché gli Stati membri dovevano accordarsi e negoziare su ogni dettaglio, aveva il grande limite di prevedere che le regole tecniche fossero emanate da autorità pubbliche, con tempi e procedure troppo lunghe per stare al passo con le innovazioni di mercato e soprattutto senza il coinvolgimento degli operatori e organismi del settore.

Con il “nuovo approccio” il legislatore comunitario si limita invece a definire i requisiti essenziali, ritenuti d’interesse collettivo, in materia di salute, sicurezza e soglie minime di qualità, che devono essere soddisfatti affinché i prodotti possano essere messi in libera circolazione nella Comunità. La definizione delle specifiche tecniche di cui gli operatori hanno bisogno per progettare e fabbricare prodotti conformi ai requisiti essenziali è demandata agli organismi europei di normalizzazione (OEN), che approvano le necessarie norme armonizzate. Queste sono poi trasformate in norme tecniche nazionali da parte degli organismi nazionali di normalizzazione (ONN) e vengono recepite mediante atto statale, cosicché possa operare in ciascuno Stato la presunzione di conformità. Gli OEN sono il Comitato europeo di normalizzazione elettrotecnica (CENELEC), l’Istituto europeo di normalizzazione per le telecomunicazioni (ETSI) e il Comitato europeo di normalizzazione (CEI) con una competenza su tutti gli altri settori. Tali organismi ricevono mandati di normalizzazione dalla Commissione. Tuttavia, le norme da essi prodotte non hanno carattere obbligatorio; solamente le amministrazioni nazionali sono tenute a riconoscere ai prodotti che le applicano una presunzione di conformità ai requisiti essenziali. Nel caso in cui il fabbricante non si attenga a tali norme armonizzate sarà tenuto a provare la conformità dei suoi prodotti ai requisiti fondamentali sottoponendoli alle previste procedure. Sono sempre previste clausole di salvaguardia, per cui le autorità nazionali, in casi eccezionali e particolarmente rischiosi, possono bloccare la commercializzazione di un prodotto con attestato di conformità, informandone la Commissione.

Qualora la procedura di fabbricazione non faccia riferimento specifico a norme armonizzate comunitarie, la libera circolazione è garantita attraverso la previsione di procedure di valutazione della conformità (v. anche Libera circolazione delle merci), il riconoscimento reciproco dei risultati delle prove e la fissazione di norme armonizzate relative al funzionamento degli organismi nazionali di certificazione. Tali organismi sono notificati alla Commissione e le autorità di tutti i paesi membri sono tenute, di norma, a riconoscere i certificati da essi rilasciati, proprio grazie al principio del mutuo riconoscimento. Nel 1989 il sistema europeo di armonizzazione tecnica è stato integrato da una nuova risoluzione del Consiglio relativa a un approccio globale in materia di certificazione e valutazione della conformità, poi completato con la decisione 93/465/CEE sul marchio CE di conformità. Tale marcatura indica che il prodotto è stato sottoposto a tutte le procedure di valutazione previste e pertanto può liberamente circolare nel mercato comunitario.

I costi della normalizzazione sono piuttosto alti e, trattandosi di un’attività volontaria basata sul consenso, sono in gran parte a carico delle parti interessate. La Commissione vi contribuisce per un ammontare compreso tra i 15 e 20 milioni di euro all’anno (pari circa al 5% delle spese complessive del processo), in particolare sostenendo gli OEN cui affida i mandati di normalizzazione.

Il 18 ottobre 2004, la Commissione inviava al Consiglio e al Parlamento europeo una Comunicazione sul ruolo della normalizzazione europea nel quadro delle politiche e della legislazione europea in cui veniva espresso un bilancio positivo sulla normalizzazione come strumento complementare ma essenziale delle politiche europee per l’effettivo funzionamento del mercato interno. Le norme armonizzate, volontarie ma nello stesso tempo comuni a tutta l’Europa, offrono infatti numerosi vantaggi: semplificano il quadro legislativo, rimuovono le barriere al commercio, garantiscono l’interoperabilità e la qualità di merci e servizi, forniscono informazioni affidabili ai cittadini, promuovono la concorrenza e consentono alle imprese di ridurre i costi di vendita e di produzione (poiché permettono di superare la frammentazione dei mercati e di realizzare economie di scala), rafforzando così la competitività complessiva del sistema imprenditoriale europeo (v. anche Politica europea di concorrenza). Infine, non bisogna dimenticare che il processo di normalizzazione è guidato dalle imprese e gestito dagli organismi di normalizzazione europei e nazionali, che, grazie alla loro competenza e maggiore flessibilità rispetto alle autorità pubbliche, permettono una continua evoluzione del sistema normativo per tener conto degli sviluppi tecnologici, abbandonando per sempre il carattere statico delle direttive basate sul vecchio approccio. Ciononostante, è sempre più necessario accelerare il processo di normalizzazione e garantire al tempo stesso un coinvolgimento maggiore di tutte le parti interessate (quali, ad esempio, le associazioni di lavoratori o di consumatori, ovvero i gruppi di interesse in materia di protezione ambientale), per poter rispondere meglio alle esigenze in continua evoluzione delle imprese, in particolare nel settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (v. Politica dell’informazione).

Elisabetta Holsztejn (2007)




Nouvelles équipes internationales

Le Nouvelles équipes Internationales (NEI) sono state create nel 1946 con l’ambizione di costituire un legame internazionale tra le forze democratico-cristiane europee. Le NEI danno la priorità al dialogo fra i grandi leader dei partiti democratici-cristiani europei e non ad un qualche fondamento dottrinale sull’Europa da ricostruire, ma alcuni di questi partiti non hanno nemmeno mai aderito al movimento. Per iniziativa di alcuni membri del Mouvement républicain populaire (MRP) e del Parti conservateur populaire suisse, e anche di alcune personalità politiche (Jules Soyeur, Robert Bichet, Joseph Lebret), nell’estate 1946 si tiene una prima riunione a Montreux, che approda ad una conferenza alla quale partecipano i rappresentanti di otto nazioni a Lucerna, tra il 26 febbraio e il 2 marzo 1947. La formula proposta si limita ad enumerare una serie di principi della democrazia sociale cristiana (rispetto della personalità umana, difesa della libertà e del progresso sociale), attorno ai quali in giugno vengono create le NEI a Chaudfontaine (primo congresso dal 31 maggio al 2 giugno 1947, Robert Bichet presidente), sullo sfondo della Guerra fredda: quest’ultima mette in luce una tendenza profondamente anticomunista, che si contrappone a coloro che auspicano la difesa dei principi di un’Europa come terza forza. Al congresso successivo (Lussemburgo, 30 gennaio-1° febbraio 1948) i partecipanti trovano un’intesa sulla riconciliazione franco-tedesca, già avviata tramite i contatti bilaterali informali conosciuti come “colloqui di Ginevra”, che continueranno fino al 1953, e sulla difesa dell’Occidente cristiano, che però non delinea alcun programma europeo particolare, come dimostra il ruolo debole che il movimento svolge nella preparazione e nei dibattiti al Congresso dell’Aia.

Inoltre il ruolo che alcuni membri rivestono in diversi governi dell’epoca spinge a una certa moderazione nelle rivendicazioni europee, sia attraverso un punto di vista gradualista sulle autorità settoriali, sia attraverso l’auspicio di costituire un’Assemblea europea limitata a un compito consultivo. Queste posizioni moderate, che avvicinano le NEI al Movimento europeo, mettono sempre più in risalto le questioni economiche disinteressandosi delle loro rispercussioni sociali, un’evoluzione che porterà alcuni membri fondatori alle dimissioni dal movimento (Jules Soyeur, marzo 1949). In effetti, il messaggio delle NEI è rivolto essenzialmente verso la controformula di un “kominform cristiano” (Sorrento, 12-14 aprile 1950) e il sostegno al Piano Schuman. L’organizzazione resta relativamente duttile, accettando sia i partiti che gli individui schierati nella difesa dello spirito cristiano e, solo in seconda istanza, per una politica europea lasciata all’iniziativa dei governi responsabili. I tentativi di creare dei legami più solidi all’interno delle NEI e una vera struttura interpartitica, nei congressi successivi, si rivela infruttuoso, perché l’organizzazione si limita a registrare la sconfitta dei tentativi federalisti (Comunità europea di difesa, CED, e Comunità politica europea, CPE, la cui proposta proviene da Alcide de Gasperi) e a discutere sul rilancio europeo (v. anche Federalismo).

L’organizzazione è scavalcata anche dalla creazione di una Conferenza dei segretari generali dei partiti democratico-cristiani (31 maggio 1954). Il nuovo segretario generale dell’organizzazione, Amintore Fanfani, cerca di rilanciare il movimento verso nuovi dibattiti che appoggiano una strategia globale di distensione, libera da qualsiasi finalità regionale. Questo tentativo approda all’istituzionalizzazione di nuove strutture di collaborazione simboleggiate dalla trasformazione dei NEI in Unione europea dei democratico-cristiani (1965). Alla fine è necessario relativizzare il mito dell’Europa vaticana, nella misura in cui le NEI, pur consentendo l’avvicinamento di alcune personalità forti che hanno fatto da vera e propria cassa di risonanza (Konrad Adenauer, Robert Schuman e de Gasperi), non hanno svolto un ruolo attivo nella nascita delle istituzioni che avrebbero concretizzato la costruzione europea, dimostrando che l’impegno cristiano, per quanto importante a livello degli individui coinvolti e determinante nella fase della riconciliazione, non è stato all’origine di una vera militanza a vocazione europea.

Bertrand Vayssière (2012)