Open Estonia Foundation

La Open Estonia Foundation (OEF) è una delle più vecchie organizzazioni non governative di beneficenza del paese. Venne fondata nell’aprile 1990 su iniziativa di George Soros, uomo d’affari e filantropo statunitense, di origine ungherese. Analogamente ad altre fondazioni open society dell’Europa centrale e orientale, l’obiettivo dell’OEF è quello di difendere e promuovere i valori di una società aperta, visione che comprende la democrazia, una società civile, la responsabilità sociale e pari opportunità per partecipare al processo democratico di decision-making. Al fine di perseguire questo obiettivo, l’OEF finanzia e gestisce diversi programmi e attività ed è quindi al contempo un’organizzazione che eroga fondi e operativa. L’OEF avvia programmi e progetti sia per proprio conto che in collaborazione con altre organizzazioni.

L’OEF si è impegnata a sostenere varie attività e idee legate al concetto di società aperta nei settori dell’istruzione, della cultura, legislativo, delle minoranze etniche, dei diritti umani e del no profit. In tutte questi campi la priorità è stata quella di stabilire politiche e pratiche pubbliche che promuovessero i valori di una società aperta. In 15 anni di attività, il totale dei fondi stanziati e dei progetti avviati dall’OEF ammonta a 4.000 milioni di corone estoni.

L’odierna OEF è incentrata sui seguenti concetti chiave: integrazione europea; società civile; cooperazione tra i paesi dell’Europa centrale e orientale; parità fra i generi.

A partire dal 2000 l’OEF si è concentrata sulle questioni concernenti l’adesione all’UE e ha lanciato il proprio Programma europeo, il cui obiettivo è stato quello di far conoscere meglio ai cittadini le istituzioni e le ONG “ombrello” d’Europa, di rendere possibile il riavvicinamento di tali istituzioni e reti ai cittadini, nonché di dar loro la possibilità di avere voce in capitolo nella creazione di politiche pubbliche in diversi settori, nell’ambito del processo di adesione (oggi: nell’ambito del nuovo Stato membro dell’UE). L’OEF ha svolto un ruolo importante nell’integrazione della società nell’UE, al fianco del governo che si è occupato di integrare lo Stato. Negli ultimi anni gli obiettivi più specifici del programma europeo sono stati i seguenti: migliorare il contesto nel quale si svolgono i dibattiti inerenti all’Allargamento dell’UE fra i cittadini e lo Stato; potenziare la capacità istituzionale del terzo settore di cooperare con partner sia di Stati membri UE, che di altri paesi europei; aumentare la capacità del terzo settore di cooperare con le istituzioni dell’UE; rendere più attivo il ruolo del pubblico nel dibattito sul futuro dell’Estonia nell’Unione europea, nonché nel dibattito sul futuro dell’UE stessa.

Per conseguire tali obiettivi, l’OEF si è impegnata a organizzare tavole rotonde, seminari, conferenze e corsi di formazione, a perseguire la ricerca e l’analisi politica, a produrre pubblicazioni e a stanziare fondi per alcuni progetti. Pertanto, anche in questo caso, l’OEF destina fondi ad altre organizzazioni per condurre attività legate alle priorità del suo programma europeo e al contempo intraprende attività per conto proprio (o in collaborazione con altre organizzazioni).

L’OEF ha lanciato il suo programma europeo nel 2001 con la pubblicazione della versione in lingua estone della “Guida ai finanziamenti per le ONG nei paesi candidati – Edizione speciale” redatta dall’European citizen action service (ECAS). La guida forniva una panoramica sulle opportunità di finanziamento esistenti per le ONG, informazioni essenziali sulle istituzioni dell’UE e sul processo di allargamento e informazioni pratiche sugli sportelli informativi.

Nel 2002 l’OEF ha attuato in collaborazione con la Scuola diplomatica estone un progetto di formazione di due mesi (ottobre-dicembre) denominato “Le ONG estoni e l’Unione europea”, fornendo alle ONG estoni formazione sulle istituzioni dell’UE e le opportunità di finanziamento. In breve tempo, il tema dei “fondi strutturali” ha acquisito importanza e l’OEF ha preso l’iniziativa di informare le ONG a questo riguardo. Da maggio ad aprile 2003 la Open Estonia unitamente ai Centri risorse regionali delle ONG estoni hanno organizzato quattro corsi di formazione di due giorni ciascuno sui fondi strutturali UE per più di 100 rappresentanti di ONG e di governi locali di diversi paesi. Nel maggio 2003 è seguito un gioco di simulazione sui fondi strutturali.

Numerosi seminari, tavole rotonde e conferenze su vari temi legati all’UE si sono svolti nell’ambito del Civil society contact group estone. Ad esempio, il 5 settembre 2003 a Tallinn si è tenuta una conferenza, cofinanziata dalla Commissione europea, dal titolo “Una nuova Europa per tutti: la società civile impegnata a costruire ponti”. La conferenza ha riunito diversi rappresentanti di ONG con sede a Bruxelles, politici dell’UE e locali, insieme a 250 partecipanti, per discutere riguardo alle possibilità e all’importanza della partecipazione della società civile al decision-making dell’UE.

All’interno del Programma europeo, oltre alle iniziative una tantum, sono state realizzate tre attività a lungo termine. Avendo vinto la gara d’appalto della Commissione europea per la figura di direttore tecnico del programma UE, istituito con l’obiettivo di rafforzare la società civile e preparare l’adesione dei paesi candidate, l’OEF ha amministrato il programma tra il 2001 e il 2002. A partire dal 2001 l’OEF ha erogato fondi alle ONG affinché potessero sviluppare progetti informativi (seminari, corsi di formazione, pubblicazioni, cooperazione con i media, ecc.) concernenti l’Unione europea. Nell’estate del 2002 l’OEF è stato il principale promotore del Civil society contact group estone sulla Convenzione sul futuro dell’Europa: fino a oggi l’OEF ha mantenuto il ruolo di principale facilitatore nonché unica autorità di finanziamento della rete. Il Contact group è un network aperto di ONG costituito con la finalità di coinvolgere le ONG estoni nel dibattito sul futuro dell’Europa, nonché di fornire alla popolazione una migliore comprensione dell’UE. Nell’ambito di dibattiti pubblici e discussioni di minore portata del Contact group sono state organizzate riunioni relative alla Convenzione sul futuro dell’Europa, i cui lavori si sono svolti dal febbraio 2002 al luglio 2003. Nell’anno 2004-2005 sono state organizzate diverse tavole rotonde e seminari (cofinanziate dalla Commissione europea) riguardo al Trattato che stabilisce una Costituzione per l’Europa (v. Costituzione europea). In questo ambito, l’OEF ha organizzato dibattiti su cinque punti prospettati dal Trattato costituzionale: democrazia partecipativa, carta dei diritti fondamentali, divisione delle competenze nell’UE, Europa sociale ed Europa nel mondo.

L’insieme di attività condotte nell’ambito del Programma europeo dell’OEF hanno contribuito significativamente al raggiungimento degli obiettivi iniziali di integrare la società nell’Unione europea. Grazie agli sforzi e soprattutto ai fondi erogati dall’OEF, il livello di conoscenza dei cittadini sulle questioni UE è aumentato e così anche la loro volontà di farsi coinvolgere (sia nell’ambito delle opportunità di finanziamento, che in quello del policy-making). L’OEF, infatti, attraverso le ONG, si è adoperata attivamente per rendere i cittadini consapevoli di essere parte dell’Unione e di avere voce in capitolo nel processo di formazione dell’Unione. A tal fine, l’OEF ha lavorato sia a livello di ONG che del governo. I contatti tra le ONG estoni e i loro partner in altri paesi europei e quelli con Bruxelles si sono rafforzati. Nel corso degli anni, l’OEF ha contribuito a migliorare i contatti tra ONG estoni, varie organizzazioni “ombrello” di Bruxelles e altre ONG in Europa.

Dopo l’adesione dell’Estonia all’Unione europea si è delineata un’altra dimensione – i nuovi vicini dell’UE. I nuovi Stati membri possono e dovrebbero offrire la propria esperienza (sia rispetto all’integrazione nell’UE che al più ampio processo di transizione) a quegli Stati che hanno appena intrapreso il loro cammino verso la democrazia e l’integrazione europea. In questo nuovo ambito, l’OEF prevede di svolgere un ruolo chiave e sta stabilendo priorità e attività specifiche (analogamente all’UE).

Barbi Pilvre (2005)




Opt-out della Danimarca dal diritto UE: problema o privilegio

Fin dal 1993 la Danimarca ha beneficiato di una serie di opt-out dall’Unione europea in riferimento all’Euro, alla Politica europea di sicurezza e di difesa (PESD), alla Giustizia e affari interni (GAI) e alla cittadinanza nell’Unione (v. Cittadinanza europea). Mentre l’ultimo opt-out è ora irrilevante, i rimanenti toccano questioni centrali dell’attuale politica UE.

Gli opt-out riflettono un generale scetticismo danese rispetto al cosiddetto “processo di unificazione” ed emergono drammaticamente nel referendum del 1992 sul Trattato di Maastricht. Sebbene il Trattato fosse approvato da una grande maggioranza del Folketing, poi respinto nel successivo referendum. Seguirono sei mesi di difficili negoziati sul modo di risolvere tale problema, ovvero il fatto che la Danimarca non era costituzionalmente in grado di firmare il Trattato nella sua forma originaria. Poiché gli altri 11 Stati membri escludevano una revisione del Trattato, gli sforzi furono indirizzati affinché la Danimarca fosse esonerata dall’applicazione di quelle parti di esso che apparivano particolarmente sgradite ai cittadini. Nell’ottobre 1992 una larga parte della coalizione accettò il cosiddetto “compromesso nazionale”, il cui nucleo era costituito dai quattro opt-out menzionati. E malgrado la forte perplessità di diversi paesi, il Consiglio europeo di Edimburgo del dicembre 1992 accettò gli opt-out avanzati dalla Danimarca, con la clausola che il paese non avrebbe dovuto intralciare il processo di unificazione nelle aree oggetto di deroga. In tal modo la Danimarca ottenne i propri opt-out, ma perse influenza. In seguito, la Risoluzione di Edimburgo e il Trattato di Maastricht furono ratificati con un nuovo referendum.

A quel tempo gli opt-out erano ipotetici, più che reali. L’euro, il PESD e il GAI erano all’epoca cose a venire e rimaneva da vedere quanto seriamente gli opt-out avrebbero influito sulla posizione danese nell’Unione.

Dai primi anni Settanta la Danimarca aveva preso parte attiva nella Cooperazione monetaria europea, ma per ragioni costituzionali il governo aveva negoziato un protocollo per il trattato, alla Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) del 1991. Venne affermato che la decisione della Danimarca di aderire alla terza fase dell’Unione economica e monetaria (UEM), cioè l’adozione dell’euro, non sarebbe stata presa nel 1992, ma soltanto dopo un successivo referendum. La Risoluzione di Edimburgo costituì un significativo, ulteriore passo poiché stabiliva che la Danimarca avrebbe rinunciato definitivamente ad aderire all’euro. D’altro canto, la Risoluzione di Edimburgo non esentò la Danimarca dagli altri obblighi nell’UEM e, infatti, la Danimarca si dimostrò oltremodo scrupolosa nell’osservarli. Inoltre, nel 1998, la Danimarca concluse un cosiddetto Accordo ERM II (Exchange rate mechanism) con l’UE che ancorò la corona danese all’euro. Ma essendo stato negato alla Danimarca l’accesso al Comitato per l’euro, il gruppo informale che controlla di fatto l’Ecofin, il paese fu comunque relegato ai margini della politica economica e monetaria europea.

In questo scenario il governo indisse un referendum, nel settembre 2000, sulla revoca dell’opt-out relativo all’euro, ma 53% della popolazione votò contro. L’argomentazione del governo si rivelò inefficace in una situazione nella quale l’economia danese era più forte di quella dei paesi dell’euro, e dove la moneta europea perdeva nei confronti del dollaro. Infatti, il pubblico parve considerare l’opt-out sull’euro come un privilegio e non un problema, come invece faceva il sistema politico. E, effettivamente, gli urgenti avvertimenti sulle conseguenze negative derivanti da un “no” all’euro, non risultarono essere giustificati. Dal 2000, l’economia danese continua a dare migliori risultati di quella dell’Eurolandia ed è oggi una tra le più forti in Europa.

Sul versante della politica di difesa, la Risoluzione di Edimburgo stabilì che la Danimarca non avrebbe aderito all’Unione dell’Europa occidentale (UEO) e nemmeno avrebbe preso parte ai processi decisionali stabiliti dall’art. J.4.2. del Trattato di Maastricht. Come risultò in seguito, ambedue le esenzioni erano state di relativa importanza fino al 1999, con l’inizio del PESD, e la decisione di creare una forza di reazione UE entro il 2003. A causa dell’opt-out, la Danimarca si recò a mani vuote alla “conferenza di impegno dell’ottobre 2000, organizzata per l’adesione alle forze di reazione. D’altra parte, essa decise di prendere parte agli organismi politico-militari del PESD fino a un certo punto: il membro danese dello Stato maggiore si limitava a trattare con il direttivo per le crisi civili, e il capo della Difesa danese non partecipava al voto del Comitato militare. Fino a ora, il tratto più significativo dell’opt-out danese in materia di difesa è stato il ritiro del personale dalla Macedonia e dalla Bosnia quando l’UE succedette all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) rispettivamente nel 2003 e 2004. Il ruolo attivo della Danimarca come partner di una coalizione con gli Stati Uniti in Afghanistan e Iraq può essere considerato come una reazione compensativa rispetto all’esclusione autoimposta dal PESD.

Nel 1992 l’opt-out danese sulla Giustizia e affari interni, sotto forma di ipotesi, stabilì che la Danimarca non avrebbe accettato il trasferimento di parti della GAI dalla cooperazione intergovernativa a quella sovranazionale. È esattamente ciò che avvenne con il Trattato di Amsterdam del 1997 e, come conseguenza, la Danimarca ottenne una revisione dell’opt-out; ciò venne applicato a quelle parti degli Accordi di Schengen che sarebbero dovute essere incluse nel “primo pilastro” dell’Unione (v. Pilastri dell’Unione europea). In tal modo la Danimarca fu esentata dal partecipare alle politiche dell’UE per l’asilo politico e l’immigrazione, per la legge sulla cooperazione civile e sul controllo delle frontiere (v. Politiche dell’immigrazione e dell’asilo). D’altra parte, la Danimarca avrebbe continuato a partecipare, a pieno titolo, alle parti governative della GAI, come la cooperazione di polizia (v. Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale).

A lungo il sistema politico considerò gli opt-out come limitazioni indesiderate dell’impegno europeo della Danimarca; il problema era come convincere il pubblico che gli opt-out costituivano un ostacolo, e non un privilegio. Ma dal 2003 il governo liberal-conservatore cambiò orientamento e decise di voler mantenere gli opt-out sulle questioni dell’asilo politico e dell’immigrazione, in merito alle quali esso aveva adottato una politica rigidamente nazionalista che avrebbe quasi certamente dovuto essere liberalizzata nell’ambito della politica comune UE.

All’interno delle trattative per il nuovo Trattato costituzionale dell’UE del 2003 (v. Convenzione europea), l’obiettivo primario per la Danimarca fu quello di salvare gli opt-out facendo sì che essi fossero inclusi nel Trattato. Gli opt-out sull’euro e sulla politica in materia di difesa vennero inclusi senza modifiche nei protocolli del Trattato. Gli opt-out sulla GAI si rivelarono più difficili, poiché la GAI, nel suo insieme, doveva adesso essere stabilita dal Metodo comunitario, e quindi con procedure sovranazionali. Ora la Danimarca si trovava di fronte a un dilemma: da una parte, un opt-out non modificato l’avrebbe esclusa da ogni partecipazione negli ambiti della Giustizia e affari interni, il che era politicamente inaccettabile; dall’altra, il governo voleva salvaguardare gli opt-out sulle politiche dell’immigrazione e dell’asilo politico. Il dilemma venne risolto trasformando l’opt-out sulla GAI in un opt-in di tipo britannico, che avrebbe consentito alla Danimarca di prendere parte alle decisioni che fossero di suo interesse, e non alle altre.

All’inizio del 2005 il futuro degli opt-out danesi era incerto. Il governo liberal-conservatore aveva fermamente rifiutato di fissare una data per un altro referendum sugli opt-out, argomentando che il referendum sul Trattato costituzionale (del settembre 2005) avrebbe dovuto avere la precedenza (v. anche Costituzione europea). Lo status incerto di questo Trattato, oltre al recente interesse governativo in merito agli opt-out sulla GAI e l’ombra lunga del fallito referendum sull’euro nel 2000, sembrano indicare che gli opt-out rimarranno ancora per un certo periodo di tempo un aspetto importante della politica danese in ambito UE.

Nikolaj Petersen (2012)




Opting in

Definizione e applicazione dell’opting in nei Trattati di Maastricht, di Amsterdam e di Nizza

La clausola dell’opting in permette a uno Stato membro dell’Unione europea che abbia deciso di astenersi dal partecipare ad alcune politiche previste dai Trattati istitutivi (giovandosi in tal modo di un opting out), di riconsiderare in qualsiasi momento la propria posizione. Tra opting in e opting out non sussiste un rapporto biunivoco, nel senso che la prima fattispecie si pone in corrispondenza della seconda mentre non necessariamente accade il contrario.

La questione dell’opting in si affacciò per la prima volta nel corso dei negoziati per il Trattato di Maastricht (Trattato UE), quando la Danimarca e il Regno Unito si dimostrarono cauti sul passaggio alla terza fase dell’Unione economica e monetaria (UEM) e ottennero perciò il diritto di poter notificare al Consiglio europeo quale sarebbe stata la loro determinazione in merito. A fronte del disimpegno danese e britannico (che poi effettivamente si concretizzò), la regola dell’opting in venne codificata nei punti 1 e 10 del Protocollo n. 11 su talune disposizioni relative al Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord e nel punto 4 del Protocollo n. 12 su talune disposizioni relative alla Danimarca, entrambi allegati al Trattato istitutivo della Comunità europea (Trattato CE). Durante la fase di ratifica dello stesso Trattato di Maastricht, la Danimarca chiese inoltre (e parimenti ottenne) di poter estendere l’esenzione anche alla Cittadinanza europea e alla Politica europea di sicurezza e difesa (PESD). La sez. E, punto 2 della Decisione dei capi di Stato e di governo, riuniti in sede di Consiglio europeo, concernente alcuni problemi attinenti al Trattato sull’Unione europea sollevati dalla Danimarca, approvata a Edimburgo il 12 dicembre 1992, dichiarò pertanto che «La Danimarca può in qualsiasi momento, conformemente alle sue norme costituzionali, informare gli altri Stati membri che non intende più avvalersi in tutto o in parte della presente decisione. In tal caso la Danimarca applicherà integralmente tutte le pertinenti misure in vigore in tale momento adottate nell’ambito dell’Unione europea».

Gli opting in appena citati (tranne quello sulla cittadinanza, non più oggetto di opting out) vennero confermati dal Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997 e dal Trattato di Nizza del 26 febbraio 2001 (punti 1 e 10 del Protocollo n. 25; punto 4 del Protocollo n. 26; art. 7 del nuovo Protocollo n. 5 sulla posizione della Danimarca). Altri ne vennero aggiunti, essendo stata riconosciuta a Danimarca, Irlanda e Regno Unito la facoltà di non partecipare all’adozione delle misure previste dal nuovo titolo IV del Trattato CE in materia di visti, asilo e immigrazione (v. anche Politiche dell’immigrazione e dell’asilo), ed avendo tenuto conto lo stesso Trattato di Amsterdam (e il Trattato di Nizza) della specificità dell’Irlanda e del Regno Unito riguardo agli Accordi di Schengen del 14 giugno 1989 e del 19 giugno 1990, cui essi non hanno aderito: cfr. in proposito gli artt. 4 e 5, par. 1, 2° comma del Protocollo n. 2 sull’integrazione dell’acquis di Schengen nell’ambito dell’Unione europea (richiamati anche sotto, § 2); gli artt. 3, par. 1, 4 e 8 del Protocollo n. 4 sulla posizione del Regno Unito e dell’Irlanda; e gli artt. 5, par. 1 e 7 del Protocollo n. 5 poc’anzi indicato.

L’opting in venne inoltre previsto in favore degli Stati che non avessero partecipato a una Cooperazione rafforzata: questi ultimi potevano aderire a essa in qualsiasi momento, fatto salvo il rispetto della decisione di base e delle decisioni adottate in tale ambito (v. gli artt. 40, par. 3 e 43, par. 1, lett. g) del Trattato UE e l’art. 11, par. 3 del Trattato CE, come introdotti dal Trattato di Amsterdam; nonché gli artt. 27E, 40B, 43, lett. j) e 43B del Trattato UE e l’art. 11A del Trattato CE, come inseriti ed emendati dal Trattato di Nizza).

I casi di opting in nell’ordinamento vigente dell’Unione europea

Nel suo assetto odierno, risultante dalle modifiche dovute al Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, l’ordinamento dell’Unione conosce diverse ipotesi di opting in, sostanzialmente riproducenti quelle delineatesi negli anni ed elencate nel § 1. La maggior parte di queste sono contenute in protocolli allegati al Trattato UE e al Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Trattato FUE; per i testi v. GUUE n. C 83 del 30 marzo 2010, p. 201 ss.); un altro esempio è invece riconducibile direttamente all’art. 20, par. 1, 2° comma del Trattato UE e agli artt. 328, par. 1, 1° comma e 331 del Trattato FUE (ivi, p. 13 e ss.).

Una prima ipotesi di opting in, attinente all’Unione economica e monetaria, è innanzitutto disciplinata dai punti 1 e 9 del Protocollo n. 15 su talune disposizioni relative al Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord e dal punto 2 del Protocollo n. 16 su talune disposizioni relative alla Danimarca. I due Stati, che hanno annunciato ufficialmente di non entrare nella terza fase dell’UEM e di non adottare l’Euro, usufruiscono infatti dell’esenzione fintantoché non notifichino al Consiglio una volontà contraria, potendosi avviare solo su loro richiesta la procedura di cui all’art. 140, parr. 1 e 2 del Trattato FUE al fine di verificare l’adempimento delle condizioni necessarie alla partecipazione.

La formula dell’opting in, in secondo luogo, viene prevista a beneficio di Danimarca, Irlanda e Regno Unito in merito agli Accordi di Schengen e allo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia di cui alla Parte terza, titolo V (artt. 67-89) del Trattato FUE: rilevano in proposito le norme, alquanto dettagliate (a volte persino farraginose), contemplate nel Protocollo n. 19 sull’acquis di Schengen integrato nell’ambito dell’Unione europea, nel Protocollo n. 21 sulla posizione del Regno Unito e dell’Irlanda rispetto allo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia e nel Protocollo n. 22 sulla posizione della Danimarca. Considerando che l’Irlanda e il Regno Unito non hanno adottato gli Accordi di Schengen (peraltro inseriti, con gli strumenti connessi e le norme emanate sulla base di questi, nel quadro istituzionale e giuridico dell’Unione in virtù del Trattato di Amsterdam), e che gli altri Stati membri dell’Unione, ai sensi dell’art. 1 del Protocollo n. 19, hanno instaurato tra loro una cooperazione rafforzata al riguardo, l’art. 4 del medesimo Protocollo consente all’Irlanda e al Regno Unito di poter chiedere in qualsiasi momento di partecipare al relativo acquis, ad essi altrimenti non applicabile; il Consiglio è chiamato in tal caso a decidere con Voto all’unanimità dei suoi membri e del rappresentante del Governo dello Stato interessato. Qualora l’Irlanda o il Regno Unito non abbiano notificato per iscritto al Consiglio il proprio desiderio di essere coinvolti, l’autorizzazione a procedere alla cooperazione rafforzata rilasciata dal Consiglio ex art. 329 del Trattato FUE si considera concessa anche a tali Stati, laddove uno di essi intenda intervenirvi (art. 5, par. 1, 2° comma). A proposito degli artt. 4 e 5, par. 1, 2° comma testé menzionati (e sia pure in relazione al Protocollo n. 2 citato al § 1, rispetto al quale però l’attuale Protocollo n. 19 non appare variato quanto alle due norme), la Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) ha precisato come l’art. 5, par. 1, 2° comma debba essere interpretato nel senso che può applicarsi soltanto alle proposte e alle iniziative basate su un settore dell’acquis di Schengen al quale l’Irlanda e/o il Regno Unito siano stati già ammessi a partecipare a termini dell’art. 4 (sentenza 18 dicembre 2007, causa C-77/05, Regno Unito c. Consiglio, in Raccolta, 2007, p. I-11459 e ss.; sentenza 18 dicembre 2007, causa C-137/05, Regno Unito c. Consiglio, ivi, p. I-11539 e ss.).

La Danimarca, l’Irlanda e il Regno Unito sono altresì esclusi dall’adozione delle misure proposte in materia di politiche riguardanti i controlli alle frontiere, l’asilo e l’immigrazione; di Cooperazione giudiziaria in materia civile; di Cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale; e di trattamento dei dati personali nell’esercizio di attività rientranti nel campo della cooperazione giudiziaria penale e della cooperazione di polizia (art. 16 del Trattato FUE). Gli artt. 3 e 4 del Protocollo n. 21 stabiliscono tuttavia, anche in queste circostanze, che Irlanda e Regno Unito possano notificare per iscritto al Consiglio, entro tre mesi dalla presentazione di una proposta o di un’iniziativa, la propria opinione favorevole e che in qualsiasi momento dopo l’adozione da parte del Consiglio di una misura a norma della Terza parte, Titolo V del Trattato FUE, essi possano esprimerne l’accettazione. Analogamente dispone, per la Danimarca, l’art. 4 del Protocollo n. 22 in riferimento a proposte o iniziative volte a sviluppare l’acquis di Schengen, potendo il suddetto Stato, entro sei mesi dall’adozione della misura specifica, rendere noto se ritiene di recepire detta misura nel suo diritto interno e di dare perciò vita a un obbligo di diritto internazionale con gli Stati membri ad essa soggetti. L’art. 8 del Protocollo n. 21 e l’art. 7 del Protocollo n. 22 ammettono inoltre che, rispettivamente, Irlanda e Danimarca possano decidere di non essere più vincolate (in toto o in parte) dai Protocolli in parola e di tornare ad applicare le norme ordinarie dei Trattati. Fermo restando l’art. 7 menzionato, la Danimarca può oltretutto, ai sensi dell’art. 8 del Protocollo n. 22, scegliere di sostituire il contenuto degli artt. 1-4 dello stesso Protocollo n. 22 con altre disposizioni allegate a quest’ultimo (artt. 1-9) e rendere così tutto l’acquis di Schengen vincolante per sé in quanto diritto dell’Unione e non più in quanto obbligo internazionale.

La Danimarca gode poi di un opting in in relazione agli artt. 26, par. 1 e 42-46 del Trattato UE. Malgrado non sia tenuta (art. 5 del Protocollo n. 22) a partecipare all’elaborazione e all’attuazione di decisioni e azioni dell’Unione aventi implicazioni di difesa né a contribuire al finanziamento delle spese operative connesse o a fornire all’Unione capacità militari, essa può in effetti pur sempre ricorrere alla dichiarazione di cui all’art. 7 in precedenza richiamato e rientrare dunque nella piena condivisione con gli altri Stati membri.

Una ulteriore clausola di opting in vale per il Regno Unito ex art. 10, par. 5 del Protocollo n. 36 sulle disposizioni transitorie (allegato anche al Trattato istitutivo della Comunità europea dell’energia atomica) in ordine agli atti dell’Unione nei settori della cooperazione di polizia e della cooperazione giudiziaria in materia penale approvati prima dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona. Relativamente a essi, e solamente nel quinquennio compreso tra il 1° dicembre 2009 e il 30 novembre 2014, non sono applicabili le attribuzioni della Commissione ai sensi dell’art. 258 del Trattato FUE (facoltà di intraprendere la procedura di infrazione) mentre restano invariate le attribuzioni della Corte di giustizia ai sensi del Titolo VI del Trattato UE nella sua versione previgente al Trattato di Lisbona (“terzo pilastro”). Il Regno Unito, in forza del par. 4 dello stesso art. 10, può comunicare al Consiglio, al più tardi sei mesi prima del 30 novembre 2014, che anche dopo la scadenza di tale data non accetterà, per gli atti di tal genere, le funzioni della Commissione europea e della Corte quali previste dai Trattati modificati, con la conseguenza che tutti i suddetti atti cesseranno di applicarsi nei suoi confronti a partire dal 1° dicembre 2014. È tuttavia possibile, in qualsiasi momento successivamente al 1° dicembre 2014, che lo stesso Regno Unito scelga, previo avviso al Consiglio, di partecipare ad alcuni di questi atti non più efficaci, facendoli così rientrare, a seconda dei casi, nel novero delle disposizioni del Protocollo n. 19 sull’acquis di Schengen integrato nell’ambito dell’Unione europea o del Protocollo n. 21 sulla posizione del Regno Unito e dell’Irlanda rispetto allo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia, e restituendo pertanto alle Istituzioni menzionate, rispetto ai medesimi atti, le Competenze assegnate dai Trattati.

Si considerino infine l’art. 20, par. 1, 2° comma del Trattato UE nonché gli artt. 328, par. 1, 1° comma e 331 del Trattato FUE. Le cooperazioni rafforzate, vi si sottolinea, sono aperte in qualsiasi momento a tutti gli Stati membri dell’Unione, fatto salvo il rispetto delle condizioni imposte e degli atti emanati in tale ambito. La richiesta di adesione va inoltrata al Consiglio e alla Commissione (e all’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, se concernente la Politica estera e di sicurezza comune, PESC); segue la delibera della Commissione (del Consiglio, per la PESC) che conferma la partecipazione o fissa il differimento ad altra data per un riesame nell’attesa che vengano soddisfatti i requisiti opportuni.

Pierluigi Simone (2009)