Oreja Aguirre, Marcelino

Diplomatico, uomo politico, accademico spagnolo, O. (Madrid 1935), figlio di un deputato tradizionalista basco ucciso a Mondragon (Guipúzcoa) nell’ottobre 1934, si laureò in Giurisprudenza presso l’Università di Madrid e, specializzatosi all’estero a Bonn, a Londra e all’Aia, entrò alla Scuola diplomatica nel 1958. Ritenuto fedele al regime franchista e in linea con gli orientamenti di Fernando María Castiella y Maíz – ministro degli Esteri nei tre governi presieduti da Francisco Franco Bahamonde nei periodi 1957-1962, 1962-1965 e 1965-1969 – O. percorse con regolarità le tappe della carriera, partecipando tra l’altro alle delegazioni spagnole presso importanti organizzazioni internazionali: segretario di terzo livello presso il ministero degli Esteri nel 1960, di secondo nel 1962, di primo nel 1966, consigliere d’ambasciata nel 1973, ministro plenipotenziario di primo livello nel dicembre 1975. Dal 1962 al 1970 fu direttore del gabinetto tecnico del ministero. Già nel 1962 ottenne l’incarico di insegnamento di Politica estera contemporanea presso la Scuola diplomatica, di cui divenne vicedirettore e membro della giunta direttiva nel 1968. Direttore aggiunto della Scuola per funzionari internazionali nel 1964, entrò nel Consiglio superiore degli Esteri nel 1970.

L’anno dopo ottenne l’incarico di professore aggiunto presso la cattedra di Studi superiori di diritto internazionale nell’Università di Madrid, fu consigliere nazionale per Guipúzcoa ed entrò nella decima legislatura delle Cortes. In Parlamento si segnalò come membro delle Commissioni esteri e finanze e come segretario generale del gruppo spagnolo dell’Unione spagnola interparlamentare. Dal 1971 al 1974 coprì la carica di direttore delle relazioni internazionali del Banco de España. Nel 1974 fu sottosegretario del ministero delle Informazioni e del turismo nel primo governo formato da Carlo Arias Navarro dopo l’uccisione dell’ammiraglio Luis Carrero Blanco. Noto sostenitore della necessità di introdurre maggiore libertà di stampa come strumento di una graduale liberalizzazione politica, O. si dimise con altri ministri e alti funzionari governativi in ottobre, in segno di protesta contro la destituzione del ministro delle Informazioni e del turismo, Pío Cabanillas Gallas. Restaurata la monarchia dopo la morte di Franco, O. fu nominato sottosegretario del ministero degli Esteri nel secondo governo Arias Navarro (1975-76), che affidò l’incarico ministeriale a José María de Areilza.

Ben inserito nei circoli “aperturisti” del regime, O. mantenne negli anni preziose relazioni con Cruz Martínez Esteruelas, ministro per la Pianificazione nell’ultimo governo di Carrero Blanco (1973), e con Alfonso Osorio García, che avrebbe coperto la stessa carica nel secondo governo Arias Navarro, così come con altri politici che avrebbero condiviso con Osorio e con lui posti ministeriali di rilievo nel primo governo formato da Adolfo Suárez González (1976-77), quali Landelino Lavilla Alsina (Giustizia) ed Eduardo Carriles Galarraga (Finanze). Coltivando importanti legami con il gruppo “Tácito”, di ispirazione democristiana, importante nucleo di dissenso politico all’interno dell’establishment franchista, O. fu tra i fondatori, nell’agosto 1975, della “Fedisa” (Federación de estudios independientes), una società commerciale per la promozione di studi economici e sociopolitici intesi a preparare la Spagna all’imminente cambiamento di regime. Tra gli altri promotori dell’iniziativa figuravano Cabanillas, Areilza e Manuel Fraga. Il 25 agosto, un comunicato della Federazione dichiarò che urgevano in Spagna riforme politiche e costituzionali, e una forma di governo meno autoritaria.

O. aderì al Partido popular democrático, poi confluito nell’Unión de centro democrático (UCD), la coalizione centrista cui egli appartenne fino alla crisi del 1983. Nominato senatore da re Juan Carlos I per le Cortes costituenti (1977-79), fu deputato dell’UCD per Guipúzcoa all’inizio della prima legislatura (1979-80) e di Coalición democrática per Álava nei primi anni della seconda (1982-84). Ministro degli Esteri nel primo governo Suárez, dal luglio 1976 al luglio 1977, O. mantenne l’incarico nel secondo governo Suárez (1977-79) e, fino al settembre 1980, anche nel terzo (1979-81). Lavorando in stretta collaborazione con la presidenza di governo e con re Juan Carlos I, O. fu dunque uno dei più importanti esponenti della transizione alla democrazia. Sotto la sua direzione, la politica estera spagnola si consolidò nel nuovo cammino di apertura graduale all’esterno avviato da Areilza nella prima metà del 1976, prestando la debita attenzione ai passi politici, economici e diplomatici necessari all’inserimento progressivo del paese nel contesto comunitario europeo, nell’assetto difensivo atlantico e, più in generale, in un tessuto organico e normalizzato di relazioni con gli interlocutori internazionali che riflettesse all’esterno il cambiamento di regime interno. O. seppe farsi interprete in modo adeguato del bisogno di fondare tale consolidamento su una precisa corrispondenza in politica interna tra la definizione degli interessi e il consenso della comunità nazionale, in modo tale da evitare che a «aspirazioni particolari di individui o gruppi si conferisse abusivamente il carattere di interessi nazionali», come dichiarò alla Camera dei deputati nel settembre 1977. Già nel gennaio 1976, come sottosegretario agli Esteri, O. aveva sintetizzato le linee di fondo cui la politica estera spagnola si sarebbe dovuta ispirare: piena incorporazione nella vita internazionale, universalizzazione delle relazioni diplomatiche, completa integrazione politica ed economica nell’Europa occidentale, garanzie agli interlocutori esterni sulle intenzioni della nuova monarchia parlamentare di mantenere gli impegni in tema di democratizzazione del paese e di tutela dei Diritti dell’uomo. Si trattava invero di obiettivi troppo avanzati per le possibilità di manovra del secondo governo Arias Navarro, ma la definizione in sede programmatica aveva costituito un precedente di rilievo.

Appena assunta la carica di ministro degli Esteri, il 7 luglio 1976, O. procedette all’aggiornamento delle relazioni con la Santa Sede, firmando a Roma un protocollo che introduceva modifiche sostanziali nel Concordato del 1953. Il documento avrebbe poi spianato la strada ai quattro accordi sottoscritti nel gennaio 1979, che sostituirono il Concordato e offrirono un nuovo quadro normativo ai rapporti tra il Vaticano e lo Stato spagnolo in relazione allo status legale della la Chiesa cattolica, alle misure di appoggio finanziario a essa garantite dallo Stato, all’istruzione religiosa nelle scuole e al rapporto degli ecclesiastici con le forze armate, in sintonia con i valori della nuova Costituzione democratica. Già con l’intesa del 1976, comunque, papa Paolo VI aveva manifestato a O. il pieno appoggio della Chiesa cattolica al processo di transizione politica: la normalizzazione delle relazioni diplomatiche, in un ambito critico cui anche il regime franchista aveva dedicato la massima attenzione dal 1939 al 1975, si accompagnava all’Adesione al processo di democratizzazione in atto nel paese di un interlocutore esterno dotato di una forte influenza anche sulla politica interna spagnola.

O. si dedicò con intelligenza al riassetto delle relazioni con i paesi che avevano negato il riconoscimento diplomatico alla dittatura. Morto Franco, Madrid disponeva di canali normali solo con la Repubblica Democratica Tedesca (peraltro appena aperti, nel 1973, e interrotti poco dopo, a ragione delle esecuzioni capitali comminate dal regime nel settembre 1975) e con la Cina. Si noti che fino al marzo 1977 anche il Messico continuò a riconoscere come legittimo il governo della Seconda repubblica in esilio. Nei primi mesi di quell’anno il governo Suárez riuscì ad avviare piene relazioni diplomatiche con la Iugoslavia, con l’Unione Sovietica e con gran parte dei suoi alleati nell’Europa orientale: Romania, Bulgaria, Polonia, Cecoslovacchia e Ungheria. Si aprirono poi in breve relazioni con la Cambogia, con il Vietnam, con la Mongolia e, a fine anno, con alcuni paesi africani liberati di recente dal dominio portoghese: Angola, Mozambico e Capo Verde. O., molto favorevole alla ricerca di un’intesa con Israele, ma consapevole sia della necessità di coltivare con estrema cura i rapporti con i paesi produttori di petrolio sia delle precise inclinazioni della sinistra spagnola in merito all’applicazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite sui territori occupati nella guerra arabo-israeliana del 1967, si mosse con prudenza e non cercò di forzare la situazione. Con facilità, invece, manovrando all’interno di un filone classico della politica estera spagnola, cioè il rapporto peninsulare con il Portogallo, guidò la trasformazione del Pacto Ibérico firmato nel 1942 tra i regimi franchista e salazarista in un nuovo accordo di amicizia e cooperazione tra le due democrazie.

I passi di democratizzazione interna compiuti dal governo Suárez nel 1977 contribuirono in modo decisivo a sbloccare l’assetto delle relazioni con la Comunità economica europea, chiave di volta per una ristrutturazione significativa della politica estera del paese e, proprio per questo, impegno prioritario tanto per Areilza quanto per O., suo successore al ministero. Affiancato a partire dal febbraio 1978 anche da Leopoldo Calvo Sotelo, entrato in quella data nel secondo governo Suárez come ministro per le Relazioni con le Comunità europee, O. condusse con abilità, per quattro anni, il gioco diplomatico con le Istituzioni comunitarie. Quando il Parlamento europeo riconobbe in modo ufficiale che l’annuncio della Ley para la Reforma, la legalizzazione del Partito comunista spagnolo (Partido comunista español, PCE) e la convocazione dei comizi elettorali avevano avviato a buon fine il compimento delle promesse di Suárez, permettendo dunque di superare il veto politico imposto fin dal gennaio 1962 dal Rapporto Birkelbach all’adesione di paesi che, come la Spagna, non fossero guidati da governi democratici; e quando, soprattutto, il Parlamento europeo reagì all’esito delle elezioni generali tenute in Spagna in giugno con una delibera favorevole all’ingresso del paese nella Comunità, O. procedette con celerità a formalizzare la richiesta di adesione e, contando sull’appoggio di tutte le forze parlamentari spagnole, la depositò il 28 luglio 1977. Nei mesi successivi, fino a dicembre, Suárez compì il tradizionale pellegrinaggio nelle nove capitali degli Stati membri per appoggiare la candidatura, non priva di elementi di preoccupazione – economici, ormai, più che politici – per Bruxelles e per alcuni di essi, tra i quali in particolare la Francia: non a caso i negoziati, avviati formalmente nel febbraio 1979, si sarebbero infatti protratti per anni.

O. si impegnò nel frattempo sul piano comunitario anche per la discussione della Cooperazione politica europea (CoPE) e del ruolo che i nuovi membri avrebbero potuto svolgervi: in settembre organizzò a questo scopo all’ambasciata di Spagna a Bruxelles una riunione degli ambasciatori di tutti gli Stati membri. In quei giorni, tenendo una conferenza sulla politica estera spagnola presso l’Institut royal des relations internationales, affermò che obiettivi centrali del paese, tutto proiettato verso l’Occidente, erano il rafforzamento della sicurezza nazionale, la conservazione dell’integrità territoriale, la protezione degli interessi degli emigranti, la promozione del commercio e di un nuovo ordine economico internazionale, l’appoggio alla distensione e al disarmo e la protezione dei diritti umani. Sottolineando inoltre che la Spagna non coltivava tentazioni neutraliste, affermò che il paese costituiva parte del sistema di sicurezza occidentale e intendeva sia aprire negoziati con l’Alleanza atlantica, che ne garantiva la struttura portante, sia incoraggiare la definizione di una strategia europea che potesse ovviare alla vulnerabilità del continente.

Lavorando sul nesso tra la democratizzazione e l’avvicinamento alle istituzioni sovranazionali e internazionali, O. si adoperò anche per l’adesione della Spagna al Consiglio d’Europa, che fu raggiunta con maggior celerità e facilità nel novembre 1977. In quell’occasione, O. firmò la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali: un atto significativo anche per la piena coerenza con gli impegni assunti da O., nel settembre 1976, nel suo primo intervento al cospetto dell’Assemblea generale dell’ONU, quando egli aveva affermato che «il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali» sarebbe stato la chiave di volta della «politica interna ed estera» del governo Suárez, siglando l’adesione della Spagna alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e annunciando l’impegno alla sottoscrizione anche dei due Patti del 1966 sui diritti civili e politici e sui diritti economici, sociali e culturali (v. anche Convenzione europea dei diritti dell’uomo).

L’azione di normalizzazione delle relazioni diplomatiche costruita da O. dovette ovviare anche alle tensioni prodotte dall’ultimo franchismo nel Nordafrica, in coincidenza con il ritiro dalle posizioni coloniali mantenute fino agli anni Settanta. Areilza e O. erano contrari agli Accordi tripartiti di Madrid, firmati nel 1975 tra la Spagna, il Marocco e la Mauritania, e cercarono dunque di proporne un’interpretazione in base alla quale la Spagna aveva ceduto non la sovranità ma solo le competenze amministrative sul Sahara occidentale, rinviando la soluzione della questione a una consultazione popolare. L’Algeria, di contro, manifestò il suo appoggio sia al Fronte polisario saharawi sia al Movimento per l’autodeterminazione e l’indipendenza dell’Arcipelago delle Canarie (Movimiento para la autodeterminación e independencia del Archipiélago Canario, MPAIAC), sollevando la questione della “africanità” delle isole presso l’Organizzazione dell’unità africana. Evitando un forte scacco al prestigio e alla politica estera spagnola, dopo ampie esitazioni quest’ultima si pronunciò nel 1978 a sfavore del riconoscimento del MPAIAC come movimento di liberazione africano, grazie anche all’azione personale dispiegata da O., che visitò alcuni Stati africani per garantirne l’appoggio alle tesi di Madrid, mentre una delegazione parlamentare sosteneva sforzi analoghi con un tour nei paesi chiave per la votazione. Quanto alle relazioni con l’America Latina, altra classica direttrice della proiezione esterna della Spagna, O. assecondò in pieno la trasformazione del concetto di hispanidad, caro all’ideologia e alla propaganda franchista, in quello di una “Comunità iberoamericana delle nazioni”, illustrato da Juan Carlos nel discorso di Cartagena de Indias nell’ottobre 1976. In tale contesto, la Spagna avviò anche una politica di cooperazione allo sviluppo destinata in particolare all’America Latina, creando il Fondo de ayuda al desarrollo (FAD) e una Commissione interministeriale ad hoc.

Come Areilza, anche O. riteneva che l’adesione della Spagna all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) costituisse la via maestra per normalizzare l’inserimento del paese nel blocco occidentale, rinnovando all’interno di un più ampio contesto multilaterale il rapporto bilaterale con gli Stati Uniti, acquisito dalla dittatura in modo formale fin dagli anni Cinquanta e di recente riconfermato con il trattato di amicizia e cooperazione firmato a Madrid nel gennaio 1976. L’opposizione di sinistra, costituita in particolare dal Partido socialista obrero español (PSOE) e dal PCE, era però contraria all’idea e pronta a porre in modo polemico la questione delle basi statunitensi sul territorio spagnolo, previste dagli accordi con Washington, se O. avesse intavolato la questione dell’entrata nella NATO. Procedendo con la cautela richiesta dall’atteggiamento delle sinistre, O. incontrò il segretario generale dell’organizzazione, Joseph Luns, nel corso del viaggio a Bruxelles per la presentazione della candidatura alla Comunità europea, e nominò ambasciatore nella capitale belga Nuño Aguirre de Cárcer, sostenitore dell’opzione atlantista. Nel marzo 1978 cominciò a definire con maggior precisione il proprio atteggiamento, in riferimento alla Dichiarazione programmatica del secondo governo Suárez in materia di politica estera, dell’11 luglio 1977, enumerando in un discorso al Senato, articolato in tredici punti concreti, i vantaggi dell’adesione e sottolineando, in ogni caso, che la decisione si sarebbe dovuta prendere non sulla base di un ristretto margine di voti, ma soltanto in corrispondenza con un ampio e manifesto consenso popolare. Dettava prudenza al ministro anche il fatto che Suárez, preoccupato delle ricadute della vertenza atlantica in politica interna e della possibilità che l’adesione alla NATO non giovasse alle relazioni di Madrid con il mondo arabo e con l’America Latina, non condivideva in pieno la sua strategia di avvicinamento all’organizzazione, anzi, era incline a uno sfumato scetticismo, come emerse nel corso del dibattito sulla politica estera in seno al primo Congresso nazionale dell’UCD, tenuto nell’ottobre 1978.

Dopo le elezioni generali del 1979, Suárez ribadì che il partito sosteneva l’adesione del paese all’Alleanza, in linea con la sua vocazione europea e occidentale, ma tornò a sottolineare le ragioni della prudenza, prendendo le distanze dai settori più atlantisti dell’UCD. Il 15 giugno 1980, O. dichiarò al quotidiano “El País” che il governo era del tutto favorevole a una rapida adesione alla NATO, definendo come prerequisiti rispetto alla richiesta di adesione un buon avanzamento dei negoziati con la Comunità europea e l’avvio di trattative bilaterali con il Regno Unito in vista di un eventuale trasferimento alla Spagna della sovranità su Gibilterra. Su quest’ultimo tema O. si era fatto interprete fin dal 1977 di una posizione di fermezza da parte del governo, promuovendo negli anni una serie di incontri negoziali con Londra. Suárez non commentò subito le dichiarazioni alla stampa ma, di lì a poco, manifestò a O. il proprio dissenso e, ai primi di settembre, procedette alla sua sostituzione al ministero, nell’ambito di un più ampio rimpasto del governo. Il contrasto tra i due si era via via approfondito, anche per l’indirizzo più apertamente europeista e filoccidentale che O. aveva inteso assegnare alla politica estera spagnola, a fronte di una certa inclinazione di Suárez a cercare a tratti una “terza via” tra gli schieramenti, soprattutto nelle relazioni con l’America Latina. Né era bastato a rendere del tutto convergenti le loro posizioni il fatto che O., presentando il progetto come manifestazione di un certo grado di autonomia rispetto ai blocchi internazionali, si fosse adoperato con successo perché la Spagna si aggiudicasse il terzo vertice della Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE), la cui riunione preparatoria si tenne a Madrid all’indomani della sua uscita dall’esecutivo.

Lasciato il ministero a José Pedro Peréz Llorca, che avrebbe mantenuto l’incarico anche nell’ultimo gabinetto dell’UCD presieduto da Leopoldo Calvo-Sotelo y Bustelo (1981-82), O. fu Delegato del governo nei Paesi Baschi (1980-82) e Console generale di Spagna a Lisbona (1983). Eletto Segretario generale del Consiglio d’Europa nel maggio 1984, mantenne la carica per cinque anni, cercando sia di rafforzare l’azione svolta dal Consiglio in tema di diritti umani, anche migliorandone i termini della cooperazione con la Comunità europea, al fine di evitare inutili sovrapposizioni operative, sia di svilupparne nuove aree di competenza in settori quali il controllo del terrorismo e del traffico di stupefacenti, l’ambiente e le questioni tecnologiche. Nel 1987 pubblicò il volume ¿Europa, para qué? Nel 1989 fu eletto al Parlamento europeo e aderì al Partito popolare europeo (PPE). Come eurodeputato dedicò forti energie all’elaborazione di un progetto di Costituzione europea avviato nel 1990 (v. anche Costituzione europea), prima presiedendo la commissione incaricata della redazione, poi assumendo personalmente la carica di relatore nell’autunno del 1992. Nel marzo di quell’anno, continuando una linea di interessi già individuata come segretario del Consiglio d’Europa, ottenne la presidenza del gruppo per l’Etica della biotecnologia della Comunità europea, creato su iniziativa di Jacques Delors, e diresse a Mosca una scuola estiva dell’Università Complutense di Madrid dedicata alla costruzione europea. Presidente di Northern Telecom España dal 1992 al 1994, O. entrò nella Commissione europea della CE presieduta da Jacques Santer (1995-99), prima come successore di Abel Juan Matutes nella carica di commissario all’Energia e ai trasporti (1994-95), poi come commissario alle Relazioni con il Parlamento europeo, con gli Stati membri, alla Cultura e agli Affari istituzionali (1995-99).

Convinto della necessità di costruire una forte compagine di centrodestra da opporre al PSOE, al potere dal dicembre 1982 al maggio 1996 sotto i quattro governi presieduti da Felipe Màrquez González, nelle file di Alianza popular (AP) O. aveva contribuito con un’abile tessitura relazionale al decollo del Partido popular (PP), ponendo le basi per l’accordo tra Antonio Hernández Mancha, Manuel Fraga e il democristiano Javier Rupérez. Eletto vicepresidente nel gennaio 1989, durante il IX Congresso nazionale di AP che segnò il passaggio al PP, mantenne la carica fino al marzo 1990. In luglio lasciò l’esecutivo del partito per alcune tensioni interne, ma vi rientrò in settembre come coordinatore generale della politica estera, incarico che conservò fino al febbraio 1993, per divenire poi presidente della Commissione esteri del PP. Deputato per Álava all’inizio della quinta legislatura (1993-94), presiedette la Commissione mista bicamerale per le Comunità europee – funzione nella quale contribuì con particolare incisività a diffondere in Spagna la conoscenza particolareggiata del gioco politico comunitario e del suo carattere consensuale – e fu tra i popolari che, con Federico Trillo, firmarono una denuncia per malversazione di alcuni responsabili socialisti del ministero degli Interni. Nel dicembre 1999 – dopo aver ricoperto cariche di rilievo in alcune imprese private, come membro del consiglio di amministrazione di Portland Valderrivas, di Agromán Inversiones e del Banco Guipuzcoano – O. assunse la presidenza del grande gruppo di costruzioni e servizi Fomento de Construcciones y Contratas (FCC), allora in testa al comparto nazionale per fatturato, su proposta della principale azionista, Esther Koplowitz. In quell’occasione avviò il distacco dall’attività politica in cui si era impegnato fin dai primi anni Sessanta.

Massimiliano Guderzo (2009)




Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico

Le origini

L’11 giugno 1948, con la Risoluzione che ha preso il nome del senatore repubblicano Arthur Vandenberg, presidente della commissione Esteri del Senato, che l’aveva proposta d’intesa con il sottosegretario di Stato Robert Lovett, si raccomandava al presidente di associare, nel rispetto dei vincoli costituzionali, gli Stati Uniti che mai avevano partecipato a una alleanza militare, ad alleanze fondate sul principio dell’autodifesa. La svolta, dettata dalla scelta di sostenere l’Europa occidentale di fronte all’Unione Sovietica, espressa dalla dottrina espressa dal presidente Harry Spencer Truman (12 marzo 1947) e dal Piano Marshall (5 giugno), apriva la strada ai c.d. exploratory talks on security (luglio 1948-marzo 1949) che si conclusero con la firma a Washington, il 4 aprile 1949, del Patto atlantico da parte di Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Francia, Belgio, Olanda (v. Paesi Bassi), Lussemburgo, Portogallo, Italia, Norvegia, Islanda e Danimarca, già reso noto il 18 marzo, e in vigore il 24 agosto. Dell’esigenza britannica di estendere il Trattato di Bruxelles (firmato il 17 marzo 1948 da Gran Bretagna, Francia, Belgio, Lussemburgo e Olanda) e di dare credibilità all’impegno anche militare degli Stati Uniti in Europa, ne avevano parlato inglesi, americani e canadesi in marzo-aprile 1948 (Pentagon talks): il Congresso non avrebbe mai accettato un impegno finanziario e militare se non avesse contribuito alla sicurezza degli Stati Uniti; si intravedeva la necessità di coprire il fianco nord, e cioè i paesi scandinavi, d’accordo con la Gran Bretagna, e quello sud, e dunque i paesi mediterranei, secondo i piani francesi funzionali all’ingresso nel Trattato dell’Italia al quale Londra si opponeva; infine era da escludersi qualsiasi automaticità, prevista invece dal Trattato di Bruxelles (art. V).

I firmatari si impegnavano «a comporre qualsiasi disputa internazionale nella quale avrebbero potuto restare coinvolti con mezzi pacifici» in modo tale che la pace e la sicurezza e la giustizia internazionali non fossero messe in pericolo e «ad astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza» in contrasto con la Carta delle Nazioni Unite (art. 1); avrebbero contribuito «allo sviluppo futuro di relazioni internazionali pacifiche e amichevoli rafforzando le loro libere istituzioni, favorendo una miglior conoscenza dei principi sui quali queste istituzioni si fond[avano] e promuovendo condizioni di stabilità e di benessere», e tentato «di eliminare dalle loro politiche economiche ogni fonte di conflitto» così come avrebbero incoraggiato «la cooperazione economica fra alcuni di loro o tutti» (art. 2); si sarebbero difesi impegnandosi, «separatamente e congiuntamente, per mezzo di continuo ed effettivo autosostentamento e reciproco aiuto», a mantenere e sviluppare «la loro capacità individuale e collettiva di resistere ad attacchi armati» (art. 3), a consultarsi «ogni volta che, nell’opinione di una di loro, l’integrità territoriale, l’indipendenza politica o la sicurezza di una delle parti [fosse] minacciata» (art. 4), a fissare le condizioni per la reciproca assistenza da fornirsi in base al casus foederis previsto dall’art. 5: «Le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse […] sarà considerato un attacco diretto contro tutte le parti e, di conseguenza, convengono che se tale attacco dovesse verificarsi ognuna di esse, nell’esercizio del diritto di legittima difesa individuale o collettiva riconosciuto dall’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, in modo individuale o di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’impiego della forza, per ristabilire e mantenere la sicurezza». Se gli Stati membri si impegnavano a soccorrersi, restavano dunque liberi quanto ai mezzi da impiegare, primo fra tutti l’uso della forza.

Nell’agosto 1949, scoppiava la prima bomba nucleare sovietica, e il 1° ottobre nasceva la Repubblica Popolare Cinese. Il 25 giugno 1950, truppe comuniste nord coreane superavano il 38° parallelo attaccando la Corea del Sud, mentre la Repubblica Democratica Tedesca stava organizzando la sua “polizia popolare” forte di circa 50.000 uomini. Il 20 dicembre, il Consiglio consultivo dei Cinque del Trattato di Bruxelles decideva il trasferimento alla nascente Organizzazione del trattato dell’Atlantico del Nord (North Atlantic treaty organization, NATO), di tutte le prerogative militari della loro Unione occidentale. Sparivano lo Stato maggiore a Fontainebleau, il Comitato dei capi di Stato maggiore, il Comitato militare permanente. Il 1° aprile 1951, il generale Dwight Eisenhower assumeva l’incarico di “Supreme allied commander Europe” (SACEUR) con il suo quartier generale (QG), il Supreme headquarters allied powers Europe (SHAPE), a Rocquencourt, vicino Parigi. Venivano firmate le convenzioni sullo statuto delle forze alleate in servizio nei paesi NATO (Londra, 19 giugno), con accluso un Protocollo sui QG militari internazionali (poi approvata dal Parlamento italiano con la legge 30 novembre 1955 n. 1338), sull’organizzazione del trattato (Ottawa, 20 settembre), sui rappresentanti militari (Parigi, 28 agosto 1952). L’accordo relativo alle basi NATO utilizzate dalle forze statunitensi in Italia veniva firmato a Londra (20 ottobre 1954), ma diversi altri erano e vennero conclusi sulla base dello scambio di note fra Alcide De Gasperi e l’ambasciatore statunitense James Dunn (7 gennaio 1952).

Nel 1952 divenivano membri NATO Grecia e Turchia mentre nel 1955, a seguito del fallimento della Comunità europea di difesa (CED) e della nascita dell’Unione dell’Europa occidentale (UEO), era la volta della Repubblica Federale Tedesca (v. Germania). La NATO entrava nella Guerra fredda per contendere all’Unione sovietica il vuoto lasciato dalla Germania nell’earthland europeo.

Dal bipolarismo a un sistema unipolare instabile

La storia della NATO si snoda tra l’organizzazione dell’intelaiatura dei suoi organismi e la strutturazione delle risorse e dei mezzi di difesa, tra la dottrina sull’impiego delle armi nucleari, strategiche e tattiche, e il loro controllo, tra “dialettica” cooperazione fra gli alleati e il confronto continentale e globale con il “nemico”, o ancora fra settori “marginali” quali il Research & development con il Research directors committee del 1954, divenuto nel 1958 Research group, e anticipato dallo Standing group research and development committee succeduto all’Ad hoc committee on research and development (1950), o quello della standardizzazione e cooperazione degli armamenti, dal Military production and supply board (1949) allo Standing group standardization policy and coordination committee (1951) e il Defence production committee (1954) divenuto nel 1958 Armaments group. Con il crollo del Muro di Berlino, l’ombra della Guerra fredda cede a nuove minacce (il futuro assetto geopolitico e interno dell’ex nemico, i Balcani, il terrorismo internazionale) alle quali, non da sola, la NATO va incontro su tre fronti andati sviluppandosi dalla Dichiarazione di Londra dei capi di Stato e governo (6 luglio 1990) al North Atlantic Council di Washington (23-25 aprile 1999).

Il primo campo d’azione è costituito dall’allargamento alle repubbliche ex sovietiche e dalla cooperazione in tema di sicurezza e difesa: il North Atlantic cooperation council (NACC, Roma, 7-8 novembre 1991) con il nuovo Concetto strategico; la Partnership for peace (Bruxelles, 10-11 gennaio 1994); la trasformazione del NACC in Euro-Atlantic partnership council (Sintra, 30 maggio 1997) inglobando le Peace support operations (PSO); il Founding act on mutual relations, cooperation and security con la Russia (Parigi, il 27); la Charter on a distinctive partnership between NATO and Ucraine (Madrid, 8 luglio) e l’invito a Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria all’adesione (aprile 1999).

Il secondo ambito d’azione della NATO riguarda la revisione degli strumenti militari: la riduzione dell’arsenale strategico nucleare a “ultima risorsa”; la creazione delle Combined joint task forces secondo il principio delle capacità separable but not separate nella cooperazione con l’UEO (Bruxelles, 10-11 gennaio 1994); la ristrutturazione della catena di comando (dicembre 1997) con la riduzione a due Strategic commanders, e da 65 a 20 QG.

Infine, tra i compiti della NATO vi è la proiezione out-of area dell’Organizzazione: nella prima Guerra del Golfo (gennaio 1991) coprendo la Turchia con le ACE (Allied command Europe) mobile forces e la NATO Airbone early warning force (NAEWF), e garantendo le linee di comunicazione con la Standing naval force Mediterranean (STANAVFORMED) e la Standing naval force channel (STANAVFORCHAN); in Bosnia-Erzegovina (aprile 1992) con la STANAVFORMED, parte dello staff militare alleato, la NAEWF, e l’Operation deliberate force dalle basi italiane e dalle portaerei in Adriatico, con il primo episodio di guerra dalla nascita della NATO, l’abbattimento (28 febbraio 1994) di quattro aerei militari che violavano la no-fly zone, l’intesificazione dei bombardamenti sulle posizioni serbe attorno a Sarajevo (estate 1995), e in seguito agli accordi di Dayton (novembre 1995), l’Implementation force (IFOR) che dopo le elezioni (settembre 1996) diveniva Stabilization Force con la partecipazione russa; in Kosovo, la prima guerra della NATO con l’Activation order (13 ottobre 1998) sugli attacchi aerei alla Serbia nel caso non avesse accettato le risoluzioni ONU nonché, senza delega ONU, l’inizio dei bombardamenti sulla Serbia (24 marzo 1999 e per 78 giorni) che aveva respinto gli accordi di Rambouillet (6-20); seguiva la KFOR (Kosovo force) che entrava nel Kosovo il 12 giugno 1999 dopo la risoluzione ONU 124; la NATO dichiarava (12 settembre 2001) l’attacco terroristico alle Twin Towers un attacco portato a tutti i 19 membri ex art. 5, e accogliendo (4 ottobre) le tesi degli Stati Uniti li sosteneva con le operazioni “Eagle assist” (ottobre 2001-maggio 2002) sul territorio statunitense, e “Active endeavour” della STANAVFORMED in Mediterraneo, assumendo (11 agosto 2003) il comando di ISAF IV (International security assistance) sotto mandato ONU (gennaio 2002), la prima operazione (4600 uomini di 29 paesi) fuori dall’aerea euroatlantica.

A Praga (21-22 novembre 2002), i capi di Stato e di governo ribadivano la cooperazione contro il terrorismo, l’allargamento con l’invito a Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia (entrati il 29 marzo 2004 portando la NATO a 26 membri), la centralità dei rapporti con la Russia (il NATO-Russia council, Pratica di Mare, 28 maggio 2002), la proiezione out-of-area con l’obiettivo di una nuova NATO reaction force entro novembre 2004, ma non senza limiti. Nella seconda Guerra del Golfo, se con l’operazione “Display deterrence” (20 febbraio-16 aprile 2003) la NATO copriva la Turchia, non intervenne in Iraq se non fornendo consulenza nella pianificazione logistica (North Atlantic council, 2 giugno 2003), assistenza nelle comunicazioni e nella gestione dell’intelligence alla Polonia responsabile della Multinational division (MND) nel centro-sud del paese (costituita da Spagna, Ucraina, Bulgaria, Danimarca, Stati Uniti, Ungheria, Kazakhstan, Lettonia, Lituania, Norvegia, Paesi Bassi, Romania e Slovacchia).

Una organizzazione “consensualmente” diseguale

Al vertice decisionale della NATO si trova il Nord Atlantic Council (NAC) che si riunisce, con autorità e poteri identici, a livello di capi di Stato e di governo con periodicità irregolare, di ministri degli Esteri due volte l’anno, di ambasciatori (rappresentanti permanenti) in sessione permanente (ogni mercoledì). Si avvale per gli aspetti politici del Senior political committee (SPC) costituito dai Deputy permanent representatives che può essere “rinforzato” da esperti nazionali divenendo SPC(R), e del Political committee formato dai consiglieri politici; per le questioni finanziarie invece del Senior resource board, o del Civil o military budget committee, o dell’Infrastructure committee. Presieduto dal segretario generale o, in sua assenza, dal suo vice, ne è segretario l’Executive secretary, responsabile dell’International staff al servizio dello stesso segretario generale.

Affiancano il NAC il Defence planning committee (DPC, istituito nel 1963) che si occupa della struttura militare integrata, composto dai ministri della Difesa, e in sessione permanente sempre dagli ambasciatori ad eccezione di quello francese (1966-1994); e il Nuclear planning group (NPG) (1967) dove i ministri della Difesa, a eccezione di quello francese, discutono e dovrebbero decidere circa gli sviluppi della politica nucleare dell’Alleanza; ben più importante è il ristretto NPG High level group (1977) presieduto dagli Stati Uniti.

Se le politiche della NATO vengono elaborate dai governi, le decisioni sono prese dal NAC senza regole di voto ma semplicemente secondo la prassi del consenso che, con il carattere volontario della cooperazione e il rispetto dell’indipendenza nazionale, è uno dei principi informatori dell’Alleanza. Alla base di tale processo decisionale vi è la consultazione, che può assumere varie forme, dal semplice scambio di informazioni o opinioni, alla comunicazione di misure e decisioni prese, o sul punto di esserle, da parte dei governi. Processo continuo la consultazione, coordinato e promosso dal segretario generale, è facilitato dalla presenza delle delegazioni nazionali nel QG a Bruxelles.

Il segretario generale (l’ambasciatore Manlio Brosio, in carica dal 1964 al 1971, fu il quarto), i cui poteri sono definiti in dettaglio dal Rapporto dei tre saggi (1956), rappresenta l’Alleanza di cui è il portavoce, presiede NAC, DPC e NPG; presenta un Rapporto annuale; come abbiamo visto, è al centro del processo di consultazione; ha il potere di investire il NAC delle questioni che minacciano la sicurezza dell’Alleanza. Si avvale di un International staff articolato in cinque divisioni a loro volta suddivise in direttorati: 1) Political affairs (Political, Economics); 2) Defence planning and operations (Defence policy & Force planning, Crisis management & operations, Defence partnership & cooperation, Nuclear policy); 3) Defence support (Armaments planning, programmes & policy, Air defence & Airspace management, NATO Head quarters C3 – Consultation, command & control – Staff, Office of NATO standardisation, Technology studies & Coordination office of the research & technology agency); 4) Security investment, Logistics & civil emergency planning (Security investment, Civil emergency planning, Logistics, Resource policy coordination unit); 5) Scientific & environmental affairs (Science programme, Challenger of modern society).

Sotto l’autorità politica di NAC, DPC e NPG si trova il vertice operativo del ramo militare della NATO, il Military committee (MC), creato nell’ottobre 1949, costituito dai capi di Stato maggiore della Difesa dei paesi membri (dal 1992 anche quello francese, mentre l’Islanda, che non ha forze armate, è rappresentata da un funzionario civile), si riunisce tre volte l’anno e in sessione permanente (il giovedì) con i Rappresentanti militari permanenti. Due generali italiani l’hanno presieduto, Giuseppe Mancinelli (1956-1957) e Giuseppe Vedovato (1968-1969). Compito dell’MC è la direzione e la consulenza in politica militare e strategia nonché la supervisione e la condotta di ogni attività a carattere militare dei due Strategic commanders (SCs), e cioè Supreme allied commander Europe (SACEUR) e Supreme allied commander Atlantic (SACLANT). Il suo International military staff è articolato in cinque divisioni a loro volta suddivise in settori: 1) Intelligence (Assessment, Current intelligence & warning, Document publication & Intelligence architecture); 2) Operations (Operational plan, Current operations, Information operations & Air defence, Exercises & training); 3) Plans & policy (Strategic policy & concepts, Nuclear/biological & chemical policy, Defence & force planning); 4) Cooperation & regional security (Cooperation policy, Russia/Ukraine military liaison office, Kiev, Partner staff element, Arms control Western consultation office, Vienna); 5) Logistics armaments & resources (Logistics, armaments, resources, management advisory unit/NATO Defence manpower advisory authority). La NHQC3S (Requirements & concepts; interoperability; Frequency management; Information systems & technology; Communications, navigation & identification systems) è gestita congiuntamente dal direttore dell’International military staff e dall’Assistant secretary general for Defence support.

Le “forze NATO” si dividono in: Immediate and rapid reaction forces, operative con un brevissimo preavviso – per esempio l’Allied command Europe (ACE) mobile force (land) (AMF(L) headquarters –; Main defence forces, unità nazionali e multinazionali per dissuadere da, o reagire a, una aggressione, fra le quali quattro Corpi multinazionali (danese tedesco, olandese tedesco e due tedesco statunitensi) e l’Eurocorpo; Augmentation forces di rinforzo. In realtà, dunque, le forze integrate permanenti sono limitate ai piccoli QG multinazionali integrati, a partire dai due SCs. Il SACEUR, un generale statunitense, un tempo con il compito di attutire l’onda d’urto di un attacco sovietico, impiegando le forze navali nell’Europa meridionale e settentrionale per proteggere le vie di comunicazione con gli Stati Uniti per i rinforzi, ha due Comandi regionali, il Commander-in-chief (CINC) forces North Europe (CINCNORTH a Brunssum (Olanda), con due Component commands: Allied air forces North a Ramstein (Germania), e Naval a Northwood (Gran Bretagna), con tre Joint commands sub-regionali: Centre (Heidelberg, Germania), North-East (Karup, Danimarca), North (Stavanger, Norvegia); e il CINCSOUTH, a Napoli, con due Allied air/naval forces South, e con tre sub-regionali: South (Verona), South-Centre (Larissa, Grecia), South-East (Izmir, Turchia), South-West (Madrid).

Dal SACEUR dipendono poi le Reaction forces (RF). L’RF air staff (RF(A)S) (Kalkar, Germania) con 80 uomini, e la NAEWF (Geilenkirchen, Germania), con 18 apparecchi NATO E-3A e 7 E-3D inglesi a Waddington, costituita (decisione del DPC, dicembre 1978) per dotarsi di un sistema di sorveglianza delle operazioni, è il programma cofinanziato più importante. L’ACE rapid reaction corps (ARRC) a Rheinland (Germania), con un generale britannico, componente terrestre delle RF con 10 divisioni di tre tipologie: nazionali (Germania, Grecia, Turchia, USA, e la Spanish rapid reaction division), composite (Gran Bretagna/Italia, Gran Bretagna/Danimarca, Italia/Portogallo), la Multinational division (Central), a Rheindahlen (Germania) e la South. Formano l’Immediate RF (Marittime): la STANAVFORMED permanente (aprile 1992), in sostituzione della Naval on-call force for Mediterranean (NAVOCFORMED) del 1969; la Mine counter measures force North (MCMFORNORTH) succeduta (nel 1998) alla STANAVFORCHAN, e quella del Mediterraneo (MCMFORMED). Il SACEUR dispone poi delle ACE mobile forces, Air (AMF(A) e Land (AMF(L)), Heidelberg, una brigata di 5000 uomini, creata (nel 1960) per intervenire con breve preavviso nell’Europa centrale.

Il secondo SC è il SACLANT (Supreme allied commander Antlantic), Norfolk (Virginia) con cinque comandi subordinati: Regional Headquarters, Eastern Atlantic (RHQ EASTLANT), Northwood (Gran Bretagna) con un CINC (Commander in chief) britannico responsabile della Standing naval force Atlantic (STANAFORLANT), squadra multinazionale permanente (1967); l’RHQ WESTLANT (Norfolk) con un CINC statunitense; l’RHQ SOUTHLANT (Lisbona) con un CINC portoghese. L’ammiraglio statunitense comandante la Striking fleet Atlantic (COMSTRIKFLTLANT) è il major subordinate commander at sea del SACLANT con un potenziale di 3 o 4 gruppi navali, una o due task forces antisottomarine, una anfibia con circa 22.000 uomini fra danesi, britannici e statunitensi; lo statunitense a capo del Submarine allied command Atlantic (COMSUBACLANT) è consigliere del SACLANT e coordinatore, anche per il SACEUR, per la guerra sottomarina le cui applicazioni scientifiche sono studiate dal SACLANT undersea research centre (SACLANTCENT) di La Spezia (1959). Per coordinare le iniziative di difesa nell’aerea di Canada e Stati Uniti (CANUS) esiste un Canada-US regional planning group a Washington con un Chief of staff committee, un Regional planning committee (RPC), un RPC working team.

Oltre a organismi complessi, quali la Conference of national armaments directors responsabile per tutto ciò che attiene all’acquisizione di armamenti, il NATO electronic warfare advisory committee, la Research and technology organisation, erede dell’AGARD (Advisory group for aeronautical – poi aerospace – research and development nata nel 1952), NAC, DPC e NPG hanno creato una serie di “agenzie” di supporto, di studio odi gestione di programmi comuni, le c.d. NPLOs (NATO production and logistics organisations) costituite, sulla base di un Memorandum of understanding (MOU) firmato esclusivamente dai paesi partecipanti, con un Board of directors o Steering committee che deve tradurre l’interesse comune e accertarsi delle sua attuazione da parte di una Management agency. Ne sono degli esempi la NATO standardisation organisation, la NATO airborne early warning and control programme management organisation, la NATO EF 2000 and TORNADO development production and logistics management agency (NETMA).

La spesa degli Stati membri per la difesa collettiva passa per tre canali: la difesa nazionale, indicatore del peso reale dei singoli Stati (l’Economic committee elabora la valutazione economica sulla quale il Defence review committee prepara per il NAC le proposte sulla pianificazione militare dei membri, e i c.d. “obiettivi di forze”); i contributi destinati a far vivere l’organizzazione secondo il principio generale del grado di sviluppo economico di ciascuno, il cui rimborso è coordinato dal Committee on civil budget (133 milioni di dollari USA nel 2000, gestiti dai ministeri degli Esteri, di cui 61% per il personale) e dal Committee on military budget (751,5 milioni di dollari nel 2000, gestiti dai ministeri della Difesa, di cui 43% per missioni operative); il finanziamento di quei programmi, e solo quelli, ai quali si decide di partecipare.

Il NATO security investment programme, già Infrastructure programme, attuato dall’Infrastructure committee, copre quelle infrastrutture necessarie a garantire il ruolo degli SCs o le PSO che tuttavia eccedono i normali bisogni della Difesa dei singoli membri. Degli anni Novanta sono poi i capability packages, strumento di razionalizzazione delle richieste dei comandi NATO, esaminati dal Senior resource board composto da rappresentati nazionali, del Military committee e degli SCs, e dai presidenti dei Committee military budget, Infrastructure e NATO defence manpower.

David Burigana (2008)




Organizzazione europea per la cooperazione economica

L’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) nasceva nel 1948 con lo scopo di favorire, attraverso la cooperazione fra i paesi partecipanti, la ricostruzione delle economie nazionali e del commercio intereuropeo. Essa fu voluta dagli Stati Uniti che, nel 1947, lanciarono un vasto programma di aiuti ai paesi europei, il ben noto Piano Marshall. Al fine di rendere efficiente ed economicamente efficace la distribuzione degli aiuti, essi avevano chiesto agli europei di istituire un’organizzazione permanente capace di coordinare le politiche di ricostruzione nazionale. A questa organizzazione essi avrebbero affidato il compito di elaborare un progetto di ricostruzione per l’Europa nel suo complesso e di stabilire criteri e modalità di divisione degli aiuti. Gli USA speravano in questo modo di imprimere una spinta efficace al processo di integrazione dell’Europa occidentale, anche in funzione antisovietica (v. Integrazione, metodo della; Integrazione, teorie della).

Nata il 16 aprile 1948 dalla cosiddetta “Conferenza dei Sedici”, l’OECE ebbe, dunque, lo scopo di promuovere la ricostruzione dell’intero continente attraverso la cooperazione dei paesi membri e l’armonizzazione dei programmi di produzione nazionali; di sviluppare il commercio intereuropeo riducendo tariffe e restrizioni di altro tipo (in particolare quelle quantitative, che alla fine degli anni Quaranta erano molto diffuse); di studiare la possibilità di creare unioni doganali o aree di libero scambio; di studiare la multilateralizzazione dei pagamenti; di raggiungere le condizioni per la miglior utilizzazione del lavoro.

La sede dell’Organizzazione fu stabilita a Parigi, allo Chateau de la Muette. All’inizio, i paesi partecipanti furono 18 (Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Grecia, Islanda, Irlanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito, Svezia, Svizzera, Turchia, le zone della Germania occupate da Regno Unito, Stati Uniti e Francia e la zona angloamericana di Trieste).

Dal punto di vista della struttura organizzativa, l’OECE era retta da un Consiglio nel quale erano rappresentati tutti i Paesi partecipanti e che adottava decisioni all’unanimità. Il Consiglio fu presieduto inizialmente dal Paul-Henri Charles Spaak, cui seguirono Paul van Zeeland, Dirk Stikker, Anthony Eden e Richard Heathcoat Amory. Il Consiglio designava un Comitato esecutivo di sette membri cui venivano delegati alcuni poteri del Consiglio.

Questi due organismi si avvalevano del lavoro di circa 20 comitati tecnici, responsabili di settori particolari come agricoltura e beni alimentari, carbone, elettricità, petrolio, ferro e acciaio, materie prime, macchinari, metalli non ferrosi, prodotti chimici, legname, carta, tessuti, trasporti via terra e via mare, programmi, bilance dei pagamenti, commercio, pagamenti intereuropei, manodopera, turismo, transazioni invisibili.

Il Consiglio nominava anche un segretario generale (Robert Marjolin dal 1948 al 1955, René Sergent dal 1955 al 1961) che gestiva e organizzava diverse direzioni. Esse ricalcavano grosso modo i comitati tecnici. La vita dell’OECE, che si concluse nel 1961, può essere divisa in due periodi: prima fase, che va dal 1948 al 1952, e una seconda fase, dal 1952 al 1961.

Nel corso del primo periodo, l’attività dell’Organizzazione fu strettamente connessa all’attuazione del Piano Marshall, gestito da parte statunitense dall’European cooperation administration (ECA). Nel 1948 all’OECE venne chiesto di elaborare un Programma per la ricostruzione europea che giustificasse l’impegno americano a sostenerne in parte i costi, nonché una proposta di razionale divisione degli aiuti. Entrambi i compiti si rivelarono estremamente complessi.

I paesi europei, finita la guerra, avevano infatti predisposto programmi di ricostruzione nazionale con priorità spesso diametralmente opposte e conflittuali ed erano quindi incapaci di trovare un terreno comune sul quale costruire un programma europeo. Il compito di dividere degli aiuti del Piano Marshall, poi, apparve immediatamente ingestibile. Nessun paese, infatti, avrebbe permesso che altri discutessero la propria politica economica interna e l’entità degli aiuti necessari a realizzarla. Alla fine, su proposta di Jean Monnet, si ricorse alla creazione di un “Comitato di saggi” composto da Guillaume Guindey, Eric Roll, Giovanni Malagodi e Dirk Spierenburg. Costoro proposero una divisione degli aiuti che, dopo ulteriori, estenuanti trattative poté essere finalmente approvata da tutti i paesi membri il 16 ottobre 1948.

L’anno successivo, nel tentativo di dividere gli aiuti, l’OECE dovette affrontare la sua peggiore crisi: le somme a disposizione erano diminuite, poiché il Piano Marshall prevedeva stanziamenti decrescenti. La rigidità delle singole posizioni nazionali fu tale che portò l’Organizzazione sull’orlo della rottura. Alla fine l’obiettivo fu raggiunto per mezzo della cosiddetta formula “Snoy-Marjolin”, un complicato meccanismo di assegnazione. In questo modo, nel corso dei due anni 1948-1950, l’OECE divise tra i suoi membri circa 11.800.000.000 dollari. Di questi il 24% andò alla Gran Bretagna, il 20% alla Francia, l’11,1% all’Italia e l’11% alla Germania occidentale.

Dopo il difficile autunno del 1949, il Piano Marshall entrò in crisi. Gli Stati Uniti cominciarono a notare infatti che i finanziamenti fino ad allora erogati non avevano generato l’integrazione europea, come essi, invece, avrebbero voluto.

Partendo da queste considerazioni, l’ECA, attraverso il suo capo, Paul Hoffman, annunciò alla fine del 1949 che avrebbe concesso crediti per i successivi due anni non più sulla base dei singoli programmi nazionali, ma solo sulla base di un programma per la liberalizzazione del commercio intereuropeo. Messa di fronte alla prospettiva di non poter più accedere agli aiuti statunitensi, l’OECE nel 1950 riuscì a soddisfare almeno in parte le richieste americane attraverso l’intervento in due settori cruciali: quello dei pagamenti e quello del commercio intereuropeo.

Nel settore dei pagamenti, i maggiori problemi derivavano dalla penuria di dollari, l’unica moneta a essere accettata negli scambi internazionali. Venne dunque istituita, all’interno dell’OECE stessa, una Unione europea dei pagamenti (UEP) che permetteva, attraverso un meccanismo di compensazione, di ridurre considerevolmente l’entità dei pagamenti necessari per il commercio intereuropeo. Essa inoltre, disincentivava la creazione di larghi deficit, favorendo la costruzione di sane posizioni commerciali nel continente.

La creazione dell’UEP fu dunque la premessa che consentì di procedere a una graduale liberalizzazione del commercio intereuropeo: alla fine del 1950 l’OECE aveva liberalizzato il 60% del commercio privato, nel 1955 giungerà all’84% e nel 1959 all’89%.

Tra il 1950 e il 1952 vi furono anche proposte, all’interno dell’organizzazione, volte a rafforzare il processo di integrazione europea e il ruolo dell’OECE stessa. Tra questi va ricordato il Piano d’azione di Dirk Stikker, del 1950, che puntava sulla specializzazione delle attività, la divisione del lavoro e la creazione di un unico mercato europeo. Maurice Petsche e Giuseppe Pella, ministri delle finanze di Francia e Italia, proposero di accelerare la liberalizzazione del commercio e di dare all’OECE il potere di armonizzare le economie europee. Nacque in questi progetti l’idea di una Banca europea per gli investimenti (BEI), che fu poi realizzata all’interno del Mercato comune europeo (v. Comunità economica europea).

Con il 1952 si concluse la prima fase, quella storicamente più rilevante, della storia dell’OECE. Com’è noto, in quell’anno il Piano Marshall fu interrotto e sostituito dai finanziamenti dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO). La politica statunitense della mutua sicurezza legava l’aiuto finanziario all’assistenza militare, segnando quindi la fine del ruolo dell’OECE in questo settore. In un primo momento si credette di poter utilizzare l’OECE come strumento efficace per una gestione degli aspetti economici della corsa al riarmo, di fatto iniziava il declino di quest’istituzione, nata sostanzialmente in funzione del Piano Marshall.

Prima di perdere il suo carattere di organizzazione europea, l’OECE diede vita all’Agenzia per la produttività europea (European productivity agency, EPA, 1952), largamente finanziata dagli USA, e all’Agenzia europea dell’energia atomica (ENEA, 1957) che si occupava di controlli di sicurezza. Alla fine degli anni Cinquanta l’OECE fornì anche la cornice istituzionale ai negoziati per la European free trade area (EFTA, 1960) (v. Associazione europea di libero scambio).

Nel settembre del 1961 l’OEEC fu sostituita dall’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), un organismo internazionale che comprendeva, oltre ai paesi già membri dell’OECE, anche Stati Uniti e Canada.

Daniela Bianchi (2008)




Organizzazione mondiale del commercio

La trasformazione del GATT in organizzazione internazionale

L’Accordo istitutivo dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) è entrato in vigore il 1° gennaio 1995, sette mesi dopo la firma da parte di 120 Stati e della Comunità europea (CE) (v. Comunità economica europea) dell’Atto finale dell’Uruguay Round, un negoziato commerciale multilaterale iniziato nel 1986 nel quadro normativo dell’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (General agreement on tariffs and trade, GATT).

La nascita dell’OMC costituisce il punto di arrivo della cooperazione commerciale internazionale tra Stati, iniziata al termine della Seconda guerra mondiale con la creazione del GATT. In realtà, nel progetto iniziale delle potenze vincitrici, il pilastro commerciale del sistema economico-finanziario internazionale avrebbe dovuto essere l’Organizzazione internazionale del commercio. Tuttavia, la mancata ratifica della Carta dell’Avana, contenente l’atto istitutivo di tale Organizzazione, rese impossibile la realizzazione del progetto, con la conseguenza che per colmare questa lacuna strutturale, il GATT da accordo commerciale provvisorio assunse progressivamente un ruolo istituzionale. Infatti, dopo la mancata ratifica della Carta dell’Avana, il suo organo assembleare (le Parti contraenti) fu affiancato da un Segretariato e, successivamente, da un Consiglio (nel 1960).

Questi sviluppi hanno indotto parte della dottrina a ritenere che il GATT, in origine un accordo commerciale, si fosse progressivamente trasformato in un’organizzazione internazionale. Tuttavia, sembra preferibile la tesi sostenuta da un’altra parte della dottrina, secondo la quale il GATT non sarebbe stato un’organizzazione internazionale, quanto piuttosto un’unione istituzionale di Stati priva di personalità giuridica.

Come è noto, nella teoria generale, al fine di accertare la soggettività di un’organizzazione internazionale, oltre al requisito della struttura stabile, è richiesta all’organizzazione la capacità di esprimere una volontà distinta da quella dei propri membri e di partecipare autonomamente alla vita di relazione internazionale, contribuendo alla formazione del diritto internazionale, sia convenzionale che consuetudinario, e intrattenendo relazioni diplomatiche con gli altri soggetti dell’ordinamento. Entrambi i requisiti non erano soddisfatti dal sistema GATT. Per quanto riguarda il primo, i due organi del GATT, le Parti contraenti e il Consiglio dei rappresentanti, adottavano le proprie decisioni per consensus, con la conseguenza dell’impossibilità di individuare una volontà del GATT distinta e autonoma rispetto a quella dei propri membri. Con riferimento, invece, alla capacità di intrattenere relazioni diplomatiche, dallo scambio di lettere con il quale le autorità svizzere estesero ai funzionari del GATT le immunità concesse nel 1946 a quelli del Segretariato delle Nazioni Unite, si evince chiaramente che all’epoca il direttore generale del GATT agì per conto delle Parti contraenti – organo comune dell’Unione di Stati — e non in rappresentanza del GATT, inteso come organizzazione internazionale.

Diversamente dal GATT, l’OMC soddisfa i requisiti individuati dalla dottrina come necessari per considerare un’organizzazione internazionale dotata di soggettività. Per quanto riguarda la capacità di esprimere una volontà distinta da quella dei propri membri, va infatti osservato che sia l’Accordo istitutivo (all’art. IX, par. 2 e 3) sia l’allegato II (agli artt. 6, par. 1, 16, par. 4, 17 e 22, par. 6) riconoscono la facoltà al Consiglio generale di adottare decisioni vincolanti, indipendentemente dalla volontà di tutti i membri. Nel primo caso, il Consiglio generale può adottare decisioni a maggioranza dei ¾ dei membri; nel secondo caso, invece, mediante la procedura detta del consensus negativo, il Consiglio generale, nella funzione di Organo per la soluzione delle controversie (OSC), può emanare decisioni relative alla istituzione di panels, all’approvazione o al rigetto dei rapporti da essi elaborati, nonché autorizzare l’adozione da parte dello Stato leso di misure sanzionatorie nei confronti dello Stato, che non si sia conformato alla decisione dell’OSC, senza l’approvazione o anche in presenza della eventuale obiezione dello Stato o degli Stati coinvolti.

Per quanto riguarda, invece, la capacità dell’OMC di partecipare autonomamente alla vita di relazione internazionale, fin dalla sua istituzione l’Organizzazione ha dimostrato di essere particolarmente attiva, concludendo un accordo di sede con la Confederazione svizzera (nel 1995) e accordi di collaborazione con il Fondo monetario internazionale (FMI) nel 1996 e con la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (BIRS) nel 1997.

In proposito, proprio l’accordo stipulato con il governo svizzero contiene elementi che confermano la soggettività internazionale dell’Organizzazione. In primo luogo – a differenza dello scambio di lettere del 1977 tra GATT e autorità svizzere, attraverso il quale erano state estese unilateralmente ai funzionari del GATT le immunità e i privilegi concessi a quelli delle Nazioni Unite – il trattato del 1995, senza dubbio alcuno, si configura come un accordo di sede, mediante il quale l’OMC e la Confederazione svizzera hanno stabilito il regime di immunità e di privilegi di cui godono l’Organizzazione ed i suoi funzionari. In secondo luogo, nell’art. 2 di tale accordo, la Confederazione svizzera ha esplicitamente riconosciuto la personalità giuridica internazionale dell’OMC, distinguendola da quella di diritto interno svizzero.

Le considerazioni svolte inducono quindi a ritenere che la sostituzione del GATT con l’OMC non possa essere qualificata come un caso di successione tra organizzazioni internazionali, quanto piuttosto un fenomeno di trasformazione di un’unione istituzionale di Stati priva di personalità in un’organizzazione internazionale vera e propria.

La struttura dell’OMC

l’Accordo istitutivo e i 4 allegati. Al di là della questione relativa alla qualificazione del rapporto intercorrente tra GATT e OMC, è tuttavia indiscutibile che quest’ultima costituisca il naturale sviluppo dell’Accordo generale del 1947. Il trattato istitutivo dell’OMC è un accordo cornice costituito di 16 articoli e di quattro allegati. I 16 articoli contengono la disciplina relativa alla struttura, alla partecipazione, all’adesione, al recesso e alla modalità di adozione degli atti dell’OMC. Per quanto riguarda i 4 allegati – i primi 3 vincolanti per tutti i membri, il quarto solo per quelli che ne siano parte – il I e il IV disciplinano i rapporti sostanziali di natura commerciale tra i membri dell’Organizzazione, mentre il II e il III completano la struttura istituzionale e procedurale dell’OMC.

L’allegato I è suddiviso in tre parti: A, B e C. L’allegato IA, denominato “GATT 1994”, comprende: la disciplina contenuta nel GATT 1947, come emendata o modificata prima dell’entrata in vigore dell’Accordo istitutivo dell’OMC; le disposizioni degli strumenti giuridici entrati in vigore in virtù del GATT, prima della istituzione dell’OMC; i 7 memorandum dell’Accordo GATT elencati; il Protocollo dell’Uruguay Round allegato al GATT del 1994; gli accordi relativi all’agricoltura, alle misure sanitarie e fitosanitarie, ai tessili, agli ostacoli tecnici al commercio, agli investimenti collegati al commercio, all’art. VI dell’Accordo generale, all’applicazione dell’art. VII di tale accordo, all’ispezione prima della spedizione, alla regola di origine, alle procedure in materia di licenze d’importazione, alle sovvenzioni e le misure compensative e, infine, alle salvaguardie.

L’allegato IB contiene l’Accordo generale sul commercio dei servizi (GATS), che rappresenta il primo tentativo di disciplinare a livello multilaterale tale ambito. Esso è composto di due parti: una prima in cui sono individuate le regole e i principi generali cui si ispira l’accordo; una seconda, che contiene gli impegni assunti dai membri per raggiungere l’obiettivo della liberalizzazione dei mercati.

Infine, nell’allegato IC è inserito l’Accordo sulla proprietà intellettuale (Trade-related aspects of intellectual property rights, TRIPs), volto a garantire una tutela minima delle diverse tipologie di proprietà intellettuale (brevetti, diritti d’autore, marchi di fabbrica, denominazioni geografiche, disegni industriali segreti commerciali e know how), attraverso la determinazione di una serie di regole di base. L’accordo è suddiviso in sette parti riguardanti: l’applicazione dei principi fondamentali del GATT; la formulazione di norme sull’esistenza, la portata e l’esercizio dei diritti di proprietà individuale; i mezzi per il rispetto dei diritti; l’acquisizione e il mantenimento dei diritti stessi; la prevenzione e il regolamento delle controversie; le disposizioni transitorie e, infine, quelle istituzionali e finali.

L’allegato II reca l’Intesa sulle regole e le procedure relative alla soluzione delle controversie (Intesa), l’allegato III prevede il Meccanismo d’esame delle politiche commerciali e, infine, l’allegato IV contiene i cosiddetti “accordi commerciali plurilaterali” riguardanti il commercio degli aerei civili, i mercati pubblici, il settore lattiero e la carne bovina.

Gli organi. La struttura istituzionale dell’OMC è costituita da tre organi: la Conferenza dei ministri, il Consiglio generale e il Segretariato.

In conformità all’art. IV dell’Accordo istitutivo, la Conferenza dei ministri, che si riunisce in sessioni almeno biennali, è composta da un rappresentante per ciascuno Stato membro e ha una competenza generale nello svolgimento delle funzioni dell’OMC.

La Conferenza dei ministri è affiancata nella sua attività, dal Consiglio generale. Tale organo presenta la particolarità di potersi riunire nelle tre diverse funzioni di Consiglio generale, di OSC (in conformità a quanto previsto nell’Allegato II) e di Organo di analisi delle politiche commerciali (ai sensi dell’Allegato III). Anch’esso è composto dai rappresentanti di tutti gli Stati membri dell’OMC e, in base all’art. IV, par. 2 dell’Accordo istitutivo, si riunisce negli intervalli tra una riunione e l’altra della Conferenza dei ministri per garantire la continuità d’azione dell’Organizzazione o quando sia considerato necessario. Inoltre, il Consiglio generale svolge una funzione di indirizzo nei confronti dei Consigli per gli scambi di merci, di servizi e per gli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio (Consiglio TRIPs). Tali Consigli sono aperti a loro volta alla partecipazione di tutti gli Stati membri dell’OMC e sono competenti a controllare il funzionamento dei rispettivi accordi allegati al trattato istitutivo. Qualora lo ritengano necessario, anche a questi Consigli è riconosciuta la facoltà di istituire organi sussidiari nell’esercizio delle funzioni ad essi attribuiti.

Infine, l’art. VI, dedicato al Segretariato dell’Organizzazione, disciplina la procedura di nomina, le funzioni e le responsabilità del direttore generale dell’OMC e del suo staff. Per quanto riguarda la procedura di nomina, il direttore generale è indicato dal Consiglio generale, cui compete anche la determinazione dei poteri, dei doveri, delle condizioni di servizio e della durata del suo mandato. A sua volta, il direttore generale nomina i membri del suo staff in conformità a quanto disposto dal Consiglio generale. Ai sensi del par. 4, art. VI, nell’esercizio delle loro funzioni, il direttore generale e il personale del Segretariato alle sue dipendenze devono agire in piena autonomia ed indipendenza sia dai governi degli Stati membri, sia da qualunque altra autorità esterna all’OMC.

L’adozione degli atti. Le modalità di adozione degli atti all’interno dell’OMC sono disciplinate all’art. IX, ai sensi del quale, l’Organizzazione, inserendosi in continuità con la prassi del GATT 1947, adotta le proprie decisioni secondo la pratica del consensus. Una nota, parte integrante dell’accordo, chiarisce che l’adozione di un atto per consensus si ha quando nessuno Stato membro si opponga alla proposta di decisione presentata durante la riunione. Purtuttavia, come già evidenziato, lo stesso Accordo istitutivo prevede che, nel caso in cui tale consenso non riesca a formarsi, l’OMC adotterà le proprie decisioni a maggioranza. Rispetto a tale ipotesi, il primo comma chiarisce che la CE partecipa alla votazione con un numero di voti pari ai suoi membri (cosiddetto voto plurimo).

Gli emendamenti all’Accordo istitutivo e agli accordi multilaterali

L’art. X dell’Accordo istitutivo dispone che qualunque membro e i Consigli per gli scambi di merci, di servizi e TRIPs, limitatamente agli accordi dei quali hanno la supervisione, possano presentare una proposta di emendamento alla Conferenza dei ministri. Il negoziato si svolge nell’ambito di tale organo, che in linea di principio adotta gli emendamenti attraverso la procedura del consensus. Le modifiche così apportate vengono comunicate ai membri dell’Organizzazione per la loro accettazione. Nel caso in cui non sia possibile raggiungere un accordo condiviso da tutti i membri, la Conferenza dei ministri adotta l’emendamento a maggioranza di due terzi, per poi sottoporlo all’accettazione dei suoi membri. Tuttavia, il par. 2 dell’art. X esclude che possano essere emendati a maggioranza le seguenti disposizioni: l’art. XI dell’Accordo istitutivo relativo alle procedure di adozione degli atti, l’art. I e II del GATT 1994, l’art. II, par. 1 del GATS e l’art. 4 dell’accordo TRIPs. Infine, la disciplina relativa alla procedura di emendamento è completata dal par. 5 dell’art. X, ai sensi del quale il Consiglio generale può decidere che la natura di un emendamento è tale da permettere a uno Stato che non lo accetti di recedere dall’Organizzazione o di rimanere suo membro, previo consenso della Conferenza dei Ministri. Prima facie, la disposizione sembra configurare l’ipotesi di un invito al recesso, anche se parte della dottrina ha proposto una tesi alternativa, sostenendo che sarebbe più corretto considerare la fattispecie contemplata all’art X un’espulsione indotta. Tale tesi è in effetti condivisibile perché a differenza del recesso – in cui il comportamento di uno Stato membro è assolutamente libero e non condizionato da fattori esterni – contenuta al par. 5 dell’art. X i margini di libertà per lo Stato che non accetti l’emendamento sono fortemente limitati dalla posizione assunta dalla Conferenza dei ministri.

La membership

L’Accordo istitutivo dell’OMC distingue tra membri originari e membri successivi. Ai sensi dell’art. XI sono membri originari gli Stati parti del GATT 1947, che abbiano accettato l’accordo OMC, e la CE.

Inoltre, il par. 2 dell’art. XI, riconosce ai paesi in via di sviluppo membri originari uno status privilegiato, essendo tenuti sì al rispetto degli obblighi derivanti dalla partecipazione all’Organizzazione, ma in misura compatibile con il proprio sviluppo e le capacità finanziarie, commerciali, amministrative e istituzionali.

La procedura di adesione dei membri successivi è disciplinata all’art. XII, in base al quale può diventare membro dell’OMC qualunque Stato o territorio doganale dotato di piena autonomia nella gestione delle proprie relazioni commerciali esterne. Le trattative tra Organizzazione e Stato (o territorio doganale) si concludono con la stipulazione di un accordo di adesione. Tale accordo viene poi sottoposto alla Conferenza dei ministri, che deve approvarlo con la maggioranza dei 2/3 dei suoi membri. Va tuttavia osservato che questa procedura non si applica agli accordi plurilaterali contenuti nell’allegato IV, poiché ciascuno di essi contiene una propria procedura, in deroga a quella prevista nell’Accordo istitutivo.

L’art. XV disciplina invece il recesso dall’Organizzazione. Ai sensi di tale articolo, qualunque membro può recedere dall’Accordo istitutivo e da quelli commerciali multilaterali, notificando la propria decisione al Segretariato generale. In tal caso, il recesso spiega i propri effetti trascorsi sei mesi dalla notificazione. Anche in questo caso, tale procedura non si applica agli accordi plurilaterali dell’allegato IV, che dispongono proprie regole.

Le funzioni dell’OMC

Tra le funzioni svolte dall’OMC, ai sensi dell’art. III dell’Accordo istitutivo, assumono particolare rilievo quelle relative all’attuazione degli accordi allegati e alla previsione di un forum negoziale commerciale permanente.

L’attuazione degli accordi allegati. Il par. 1 dell’art. III stabilisce che l’OMC persegua come obiettivo principale l’attuazione, l’amministrazione e il funzionamento degli accordi multilaterali e plurilaterali allegati. Allo scopo di raggiungere questi risultati, l’Accordo istitutivo riconosce un ruolo principale alla Conferenza dei ministri e al Consiglio generale. La Conferenza svolge infatti la fondamentale funzione di indicare l’indirizzo politico-commerciale assunto dall’Organizzazione attraverso l’adozione di dichiarazioni al termine di ciascuna sua riunione. Sempre la Conferenza è l’organo a cui l’accordo riconosce potestà normativa anche se, ai sensi dell’art. IV, par. 2, nel periodo intercorrente tra le sue riunioni l’esercizio di tale potestà è estesa al Consiglio generale. In proposito, va osservato che i poteri normativi attribuiti ai due organi sono principalmente di natura organizzativa e gestionale e non finalizzati a disciplinare i rapporti commerciali tra i membri.

 Il forum negoziale permanente degli accordi commerciali multilaterali. Ai sensi del par. 2 dell’art. III, l’OMC costituisce per i suoi membri il forum negoziale permanente sia per le materie già contemplate negli accordi multilaterali e plurilaterali, sia per quelle riguardanti settori non ancora disciplinati per i quali si consideri necessaria una regolamentazione multilaterale.

In proposito, va osservato che l’Organizzazione non si limita a concedere ai suoi membri un semplice supporto logistico-organizzativo, ma è coinvolta attivamente in ognuna delle fasi che portano alla modifica degli accordi esistenti o alla conclusione di nuovi. Nella fase iniziale è infatti riconosciuta alla Conferenza dei ministri la competenza ad individuare le materie oggetto di trattativa, a dare avvio alle negoziazioni e a determinare i principi a cui le parti dovranno uniformarsi. Nel corso dei negoziati poi la presenza dell’Organizzazione è garantita dal Comitato per i negoziati commerciali, cui partecipa in veste di presidente il direttore generale, allo scopo di facilitare e mediare le diverse posizioni degli Stati membri, in vista del raggiungimento di un accordo.

In caso di esito positivo delle trattative, le modifiche apportate agli accordi esistenti o i nuovi accordi conclusi sono adottati dall’OMC ed inseriti tra quelli allegati all’Accordo istitutivo, con la rilevante conseguenza di essere ad essi applicabili gli allegati II e III.

Il sistema di soluzione delle controversie nell’OMC

Il superamento dei limiti del sistema GATT. La soluzione delle controversie nell’ambito dell’OMC è disciplinata nell’Intesa sulle regole e procedure relative alla soluzione delle controversie contenuta nell’Allegato II. Tale allegato costituisce un’importante evoluzione del sistema di soluzione delle controversie di natura commerciale rispetto a quello previsto nell’ambito del GATT 1947, che conteneva già una disciplina della procedura di soluzione delle controversie, non priva di alcuni difetti. Infatti, ciascun accordo conteneva proprie regole per la soluzione delle controversie, dalle quali poteva scaturire un ritardo nella individuazione della procedura applicabile; l’assenza di un termine ad quem per la soluzione delle controversie, con la possibilità del loro protrarsi anche per anni; infine, la previsione della procedura del consensus, sia per l’istituzione dei panels sia per l’adozione dei loro rapporti – rendendo necessario il voto favorevole della parte soccombente – poteva bloccare il meccanismo nella fase iniziale o in quella finale del procedimento.

I limiti del sistema GATT sono stati superati dalla disciplina prevista nell’Allegato II, nel quale, in primo luogo, l’art. 23 impone ai membri dell’Organizzazione di risolvere le loro eventuali controversie in conformità alle procedure di natura diplomatica (art. 5), arbitrale (art. 25) e giudiziale (cosiddetta procedura dei panels). A sua volta l’art. 1 dell’Intesa stabilisce che le norme relative alla soluzione delle controversie si applichino a tutti gli accordi allegati all’Accordo istitutivo, compresi quelli plurilaterali contenuti nell’Allegato IV, risolvendo così il problema della procedura applicabile. Purtuttavia, il comma 2 dell’art. I riconosce che nell’ipotesi in cui si configuri un conflitto tra la disciplina generale prevista nell’Intesa e quella specifica dei singoli accordi, la prevalenza dovrà essere accordata alle disposizioni contenute in quest’ultimi, a titolo di lex specialis.

In secondo luogo, a differenza del sistema GATT, l’Intesa disciplina in modo articolato e completo la durata delle procedure, sia per quanto riguarda la formazione dei panels, sia in riferimento ai termini entro i quali i loro rapporti devono essere adottati o rigettati dall’OSC. Infine, la procedura del consensus è stata sostituita con quella del consensus negativo, con la conseguenza che l’eventuale posizione contraria delle parti coinvolte (in particolare di quelle soccombenti) alla istituzione dei panels o all’adozione dei loro rapporti non costituisce più un ostacolo al funzionamento del meccanismo di soluzione delle controversie.

La natura tendenzialmente giurisdizionale della procedura dei panels. Tra i tre metodi di composizione delle controversie previste nell’Allegato II (diplomatico, arbitrale e dei panels), l’interesse della dottrina si è indirizzato, in particolare, verso la procedura dei panels, considerato un sistema tendenzialmente giurisdizionale, nel quale le procedure diplomatiche si intrecciano con quelle giurisdizionali. In effetti, tale qualificazione del sistema previsto nell’ambito dell’OMC ne coglie la caratteristica principale: in qualunque momento della procedura, sia nella fase dinanzi al panel che in quella di fronte all’OSC, le parti coinvolte nella controversia possono continuare a ricercare la soluzione tramite accordo.

Nel caso in cui tra due o più membri dell’OMC sorga una controversia, il membro che ritenga lesi i propri interessi deve chiedere l’avvio di una fase di consultazione per tentare di trovare una soluzione diplomatica della vicenda (art. 4 dell’Intesa). Se il membro cui la richiesta è rivolta non risponde entro dieci giorni e non avvia le consultazioni entro trenta giorni, o la consultazione non porti entro sessanta giorni dal suo inizio alla ricomposizione del conflitto, la parte che ha domandato la consultazione può chiedere la costituzione di un panel. Peraltro, in caso di urgenza e necessità i tempi per la costituzione e il raggiungimento di un accordo sono diminuiti a dieci e trenta giorni.

La costituzione del panel deve avere luogo entro la prima riunione dell’OSC successiva a quella in cui il membro ne abbia fatto richiesta, a meno che il DSB all’unanimità decida di non istituirlo (art. 6, paragrafi 1 e 2). I panels sono composti di regola da tre membri – meno che le parti non concordino che sia formato da cinque membri – che vengono scelti da una lista depositata presso il Segretariato dell’Organizzazione. La designazione dei membri del panel è proposta dal Segretariato, ma nel caso in cui entro venti giorni non si raggiunga un accordo sulla nomina, essa viene decisa dal direttore generale, consultati i presidenti dell’OSC e del Consiglio o Comitato competente. Il panel esamina la questione oggetto della controversia, operando sia una ricostruzione dei fatti sia un’analisi della normativa rilevante OMC ad essa applicabile, allo scopo di predisporre un rapporto, che non è immediatamente vincolante, ma diventa tale a seguito dell’adozione da parte del DSB cui è indirizzato. Rispetto all’attività compiuta dal panel assume particolare rilievo la cosiddetta fase interinale dell’interim review stage (art. 15, Allegato II). Prima dell’adozione del rapporto, il panel infatti invia alle parti coinvolte una relazione preliminare, contenente le proprie valutazioni e conclusioni, con la evidente finalità di ricercare una ricomposizione per via conciliativa della controversia esistente. Se dopo la presentazione di tale relazione, le parti non addivengono a un accordo, il panel adotta il proprio rapporto nel termine di 6 mesi dalla sua costituzione (3 mesi in casi di urgenza), e lo invia all’OSC per l’adozione finale. Peraltro, l’art. 12. par. 9, ammette in casi eccezionali un termine di presentazione del rapporto superiore ai 6 mesi, ma che non può superare comunque i 9 mesi. Come per l’istituzione del panel, l’eventuale rigetto del rapporto da parte del DSB può avere luogo solo in caso di consensus negativo; in caso contrario, il rapporto deve essere adottato entro sessanta giorni dalla sua presentazione.

L’Organo d’appello. Un aspetto di particolare novità introdotto nel sistema di soluzione delle controversie nell’OMC è la previsione di un Organo d’appello permanente, competente a pronunciarsi sulle sole questioni di diritto relative ai rapporti presentati dai panels all’OSC. Da ciò consegue che una parte coinvolta nella controversia, non soddisfatta del rapporto conclusivo del panel, possa bloccarne l’adozione, notificando all’OSC la sua decisione di presentare appello.

L’Organo d’appello è composto da sette persone, nominate dall’OSC tra studiosi di chiara fama nei settori del diritto, del commercio internazionale o nelle materie oggetto degli accordi. Al fine di garantire l’assoluta indipendenza dell’Organo d’appello, tra i requisiti richiesti ai suoi membri vi è quello di non avere alcun rapporto con le pubbliche amministrazioni. Inoltre, a livello funzionale, l’art. 17, comma 7 stabilisce che l’Organo d’appello non dipenda dal Segretariato ma goda di un’autonomia amministrativa e giuridica. In proposito, va osservato che mentre le regole di procedura dei panels sono disciplinate nell’Intesa e nella sua Appendice 3, quelle dell’Organo d’appello sono state elaborate dallo stesso – previa consultazione con il presidente dell’OSC e con il direttore generale – e adottate il 15 febbraio 1996.

A ciascuna procedura d’appello partecipano a rotazione tre dei sette membri che compongono l’organo. Tale procedura presenta la caratteristica di essere estremamente celere. L’organo d’appello è infatti tenuto a presentare la propria relazione entro sessanta dalla notifica all’OSC da parte di uno dei membri coinvolti della decisione di presentare appello, potendola ritardare al massimo a novanta giorni in circostanze eccezionali e motivate. Infine, le relazioni presentate dall’Organo d’appello sono adottate dall’OSC entro trenta giorni.

 Gli effetti giuridici prodotti dalle decisioni adottate dall’Organo per la soluzione delle controversie. I rapporti adottati dall’OSC producono effetti vincolanti. In proposito, vanno distinti i rapporti che rilevano la “non violazione” di un obbligo OMC da quelli che invece ne dichiarano l’incompatibilità. Nella prima categoria rientrano le misure che, seppur conformi al sistema normativo OMC, producono svantaggi per gli altri membri. In tale ipotesi, il rapporto non impone allo Stato che abbia adottato tale misura la sua rimozione, ma ordina l’erogazione di un’adeguata compensazione allo Stato leso. Diversamente, qualora il rapporto constati l’incompatibilità della misura oggetto di contestazione, viene richiesto alla parte che l’abbia emanata di rimuoverla o modificarla. L’art. 21 stabilisce che tali decisioni debbano essere eseguite in un “periodo ragionevole”, che può essere determinato dal membro interessato, previa approvazione dell’OSC; nel caso in cui manchi questa approvazione, dalle parti controvertenti entro 45 giorni dall’adozione del rapporto e, infine, laddove queste ultime non trovino un accordo, entro 90 giorni attraverso un arbitrato vincolante (art. 21, Allegato II). Qualunque sia la sua modalità di determinazione, il par. 5 dell’art. 21 precisa che detto periodo non possa eccedere i quindici mesi dall’adozione del rapporto.

Peraltro, nel periodo successivo alla sua adozione, l’OSC svolge la funzione di garante della sua esecuzione, poiché sei mesi dopo la fissazione del “periodo ragionevole”, la questione relativa alla applicazione del rapporto è posta nel suo ordine del giorno e vi resta fino a quando non è risolta. In proposito, laddove sorgano controversie tra le parti coinvolte sulle misure adottate dalla parte soccombente per conformarsi a quanto stabilito nel rapporto, esse vanno nuovamente sottoposte ai meccanismi previsti nell’Intesa e se possibile allo stesso panel pronunciatosi in precedenza.

Nel caso in cui il “periodo ragionevole” trascorra inutilmente e la parte soccombente non si conformi al rapporto adottato dall’OSC, l’altra parte può ricorrere a due differenti procedure. Una prima prevede che essa possa richiedere alla parte soccombente di avviare dei negoziati allo scopo di raggiungere un accordo per le compensazioni. Una seconda riconosce la facoltà alla parte ricorrente, previa autorizzazione dell’OSC, di sospendere l’applicazione di concessioni o di altri obblighi nei confronti della parte inadempiente a titolo di contromisura, subordinando però l’esercizio legittimo di tale facoltà al rispetto del principio di proporzionalità. Da ciò consegue che le contromisure devono essere proporzionali al danno subito e riguardare le stesse norme violate dalla parte soccombente – art. 22, par. 3, a). Nell’ipotesi in cui queste contromisure non siano praticabili o si rivelino inefficaci, la parte ricorrente può decidere di sospendere l’applicazione di altre norme dello stesso accordo, o di quelle previste in uno degli altri, allegati al trattato istitutivo dell’OMC – art. 22, par. 3, b) e c).

La partecipazione della CE all’OMC. Come evidenziato in precedenza, la CE è un membro originario dell’OMC. Tuttavia, non sono mancati dei contrasti nei rapporti tra quest’ultima ed i suoi Stati membri, nonché tra l’ordinamento OMC e quello comunitario. Per quanto riguarda i rapporti tra CE e suoi Stati membri, la questione oggetto di maggiore discussione è stata la definizione delle competenze nella conclusione degli accordi commerciali internazionali. Era infatti evidente che dalla qualificazione di esclusiva o concorrente della competenza della CE in tale settore potevano discendere conseguenze enormi sul piano delle relazioni economiche internazionali. Per risolvere il problema, la Commissione europea ha rivolto un quesito alla Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) (CGCE), chiedendo se la CE avesse una competenza (v. Competenze) esclusiva a stipulare gli accordi multilaterali sul commercio dei prodotti, nonché a concludere trattati in ambito GATS e TRIPs. Nel celebre parere 1/94, il giudice comunitario ha stabilito che la CE ha competenza esclusiva nell’ambito del GATT, a esclusione degli accordi che prevedono il trasferimento di persone, mentre ha competenza concorrente per quanto concerne GATS e TRIPs. Inoltre, con riguardo a questi settori di competenza concorrente, la CGCE ha rilevato l’esistenza di un obbligo di cooperazione tra CE e Stati membri sia nel processo di negoziazione e di stipulazione sia nella fase di attuazione degli impegni assunti.

Per quanto riguarda invece i rapporti tra OMC e CE, un problema ancora irrisolto concerne il valore assunto dalle norme GATT nell’ambito dell’ordinamento comunitario. È questione controversa se, da un lato, sia possibile riconoscere alle disposizioni del GATT il valore di parametro di legittimità dell’azione delle Istituzioni comunitarie e, dall’altro, se dette disposizioni attribuiscano ai singoli cittadini il diritto di esigerne giurisdizionalmente l’osservanza. Salvo due ipotesi – atti comunitari (v. Diritto comunitario) che richiamano disposizioni del GATT e adottati per dare esecuzione ad obblighi GATT, Fediol, causa 70/87, “Raccolta della giurisprudenza”, p. 1781 e Nakajima, C-69/89, ivi, p. I-2069 – in cui la CGCE ha accettato di adoperare gli accordi GATT come parametro di legittimità, in generale sembra preferibile una risposta negativa. Infatti, sebbene la CGCE abbia riconosciuto che le disposizioni GATT possono essere considerate parametro di legittimità degli atti delle istituzioni (International Fruit Company NV di Rotterdam e altri c. Produktschap voor Groenten en Fruit dell’Aja, C-21-24/72, ivi, p. 1219), in concreto essa non ha mai affermato l’invalidità di un atto comunitario per contrarietà ad una norma del GATT. Invero, la posizione assunta dalla CGCE trova fondamento nel fatto che condizione necessaria perché le disposizioni del GATT possano essere parametro di legittimità degli atti delle istituzioni è il riconoscimento del loro effetto diretto, che ad oggi viene negato in ragione della natura flessibile del GATT stesso (Portogallo c. Consiglio, C-149/96, ivi, p. I-8395).

Massimo Francesco Orzan (2009)




Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico

L’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) fu istituita da sedici Stati europei occidentali (Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Grecia, Irlanda, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito, Svezia, Svizzera e Turchia) con la Convenzione di Parigi del 16 aprile del 1948. L’OECE ebbe il compito di dare attuazione all’European recovery program, meglio noto come Piano Marshall, proposto dal segretario di Stato americano per promuovere la ricostruzione economica europea attraverso l’assistenza finanziaria statunitense.

Sul finire degli anni Cinquanta, il raggiungimento degli obiettivi per i quali l’Organizzazione era stata istituita rese necessaria una sua riforma: il 14 dicembre del 1960, con la Convenzione di Parigi, l’OECE venne perciò trasformata nell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE). Le mutate relazioni economiche internazionali tra gli Stati membri dell’OECE incisero inevitabilmente anche sui fini della nascente Organizzazione, per cui accanto allo sviluppo economico dei suoi membri, tra gli scopi dell’OCSE furono inseriti la promozione e la liberalizzazione del commercio mondiale su base multilaterale e la crescita economica dei paesi in via di sviluppo (PVS). Ciò modificò la originaria vocazione regionale dell’OECE, facendo assumere all’OCSE una prospettiva tendenzialmente universale: la membership non fu più circoscritta ai soli paesi europei, ma estesa a tutti gli Stati della comunità internazionale. L’art. 16 della Convenzione di Parigi stabiliva infatti che il Consiglio potesse all’unanimità invitare qualunque Stato in grado di assumere gli obblighi derivanti dalla partecipazione all’Organizzazione a diventarne membro. La Convenzione stessa riconosceva, peraltro, il diritto di recesso per ogni membro, previa comunicazione di 12 mesi al governo francese depositario dell’accordo istitutivo. Nonostante il carattere aperto dell’OCSE, per molti anni gli Stati appartenenti al blocco socialista non vi parteciparono, a causa del contrasto politico e ideale scaturito dalla Guerra fredda. Difatti, la membership dell’Organizzazione si accrebbe notevolmente solo dopo la dissoluzione dell’URSS e il conseguente venire meno della pregiudiziale ideologica.

La partecipazione all’OCSE comporta il rispetto da parte degli Stati membri degli obblighi di informazione, di consultazione e di cooperazione. Il primo impone ai membri di tenersi aggiornati sulle misure adottate per realizzare gli obiettivi dell’Organizzazione e per fornire a quest’ultima le informazioni utili al loro raggiungimento; il secondo implica una consultazione continua e la partecipazione a progetti di comune accordo; il terzo, infine, comporta una stretta collaborazione e, se necessario, un’azione concordata. A oggi i membri dell’OCSE sono 30; ai 16 membri della precedente organizzazione (OECE) si sono aggiunti la Repubblica Federale Tedesca (v. Germania) subito dopo il periodo dell’occupazione alleata, la Spagna nel 1959, Il Canada e gli Stati Uniti nel 1960, il Giappone nel 1964, la Finlandia nel 1969, l’Austria nel 1971, La Nuova Zelanda nel 1973, il Messico nel 1994 e la Corea del Sud nel 1996, infine, dopo la dissoluzione del blocco comunista, hanno aderito la Repubblica Ceca (1995), la Polonia (1996), l’Ungheria (1996) e la Slovacchia (2000).

Le funzioni assolte dall’Organizzazione sono due. La prima, di indirizzo, viene realizzata dall’OCSE attraverso l’emanazione di atti che mirano al coordinamento degli Stati membri in vista del raggiungimento degli obiettivi di sviluppo e crescita economica. La seconda, di studio, viene attuata mediante un’attività di analisi comparata compiuta da comitati scientifici, che annualmente predispongono rapporti sullo stato dell’economie dei membri, indicando le riforme ritenute opportune per favorire la crescita economica.

La struttura dell’Organizzazione si caratterizza per la sua flessibilità: il Consiglio e il Segretariato, organi principali in base all’accordo istitutivo, sono affiancati da numerosi organi sussidiari (il Comitato esecutivo, i comitati tecnici, i gruppi di lavoro e le agenzie), istituiti dal Consiglio in conformità alla procedura dell’art. 9 della Convenzione di Parigi.

Il Consiglio è, senza dubbio, l’organo principale dell’OCSE: in base all’art. 7, § 1, è composto da tutti i membri e ha competenza esclusiva nell’emanazione degli atti dell’Organizzazione. Esso può riunirsi in sessione ministeriale, presieduto da un rappresentante di uno Stato membro eletto annualmente, o in sessione dei rappresentanti permanenti, in tal caso presieduto dal segretario generale. La struttura paritaria dell’organo è garantita dal fatto che ciascuno Stato dispone di un voto e del diritto di veto; da ciò consegue che gli atti dell’Organizzazione sono adottati sempre all’unanimità (art. 6, § 1). Tuttavia, per semplificare la procedura, è stabilito che l’astensione di un membro non ostacoli l’adozione di un atto, fermo restando che tale atto non avrà efficacia nei suoi confronti (art. 6, § 2). Peraltro, anche per gli Stati che votano per la sua adozione, l’atto non produce effetti immediati, in quanto la sua efficacia è subordinata all’espletamento delle procedure nazionali di adattamento (art. 6, § 3).

Il segretario generale dell’Organizzazione è nominato dal Consiglio per una durata di 5 anni rinnovabili. Questo risponde della sua attività unicamente a tale organo, agendo nell’esercizio del mandato conferitogli in assoluta indipendenza. Per quanto riguarda le funzioni esercitate, rappresenta l’Organizzazione nelle sue relazioni esterne e formula proposte al Consiglio e agli organi sussidiari, presiede il Consiglio nella Sessione dei rappresentanti permanenti e dirige il personale.

Tra gli organi sussidiari dei quali il Consiglio e il Segretariato si avvalgono nell’espletamento delle proprie funzioni, un ruolo fondamentale per il funzionamento dell’Organizzazione è svolto dal Comitato esecutivo. Istituito il 30 settembre 1961 dal Consiglio, in conformità all’art. 9, § 3, il Comitato esecutivo è un organo a composizione ristretta in cui siedono a titolo permanente i rappresentanti degli Stati economicamente più sviluppati e, a rotazione, tutti gli altri. Esso svolge una duplice funzione: da un lato, in una fase precedente all’adozione di un atto del Consiglio, è incaricato di proporre emendamenti; dall’altro, sempre su delega del Consiglio, può essere investito di compiti specifici, quali la creazione di organi sussidiari o lo studio di questioni di particolare rilievo.

La funzione normativa dell’OCSE viene esercitata dal Consiglio attraverso l’adozione di decisioni (art. 5, a), raccomandazioni e dichiarazioni di principio (art. 5, b), nonché l’elaborazione di modelli di convenzioni (art. 5, c).

Le decisioni producono effetti obbligatori alle condizioni sopra indicate, mentre le raccomandazioni e le dichiarazioni di principio hanno un mero carattere facoltativo, pur essendo la loro osservanza oggetto di controllo esercitato dall’Organizzazione attraverso i rapporti annuali sulle politiche economiche che gli Stati membri hanno l’obbligo di fornire. Infine, nell’assolvimento della sua funzione di coordinamento, l’OCSE conclude accordi di stabilimento e di natura operativa con i suoi membri, accordi di associazione con gli Stati terzi volti a regolare la partecipazione di questi ultimi ai lavori dell’Organizzazione e intese con le altre organizzazioni internazionali allo scopo di coordinare le attività e realizzare progetti di interesse comune.

Massimo Francesco Orzan (2010)




Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa

L’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE) costituisce il risultato di un processo politico-istituzionale avviatosi nel contesto di quel particolare periodo della Guerra fredda chiamato “distensione”, caratterizzato dalla presa d’atto da parte delle due superpotenze della necessità di dialogo, di un riconoscimento reciproco e di una relativa cooperazione nella gestione delle crisi internazionali. Nel 1972 Stati Uniti e Unione Sovietica convennero così di organizzare una conferenza internazionale, aperta ai paesi membri dei due blocchi, al fine di avviare una definitiva distensione nei rapporti Est-Ovest. Essa fu chiamata Conferenza per la sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE), vide la partecipazione di 35 paesi (Unione Sovietica, paesi europei, Stati Uniti e Canada) e si concluse ad Helsinki il 1° agosto 1975, allorché venne firmato il c.d. “Atto finale”, documento giuridicamente non vincolante ma contenente una serie di principi politici che avrebbero impegnato gli Stati nei loro reciproci rapporti e nei confronti dei propri cittadini. L’aderenza agli impegni dell’Atto finale, il rispetto dei suoi principi e il controllo reciproco degli Stati avrebbero consentito di garantire la pace e la sicurezza nel continente e, come effettivamente sarebbe avvenuto ben oltre le aspettative, avrebbero creato gradualmente le condizioni di fiducia reciproca necessarie alla distensione e alla fine della Guerra fredda.

L’Atto finale era diviso in tre parti, i c.d. “cesti”. Il primo conteneva la Dichiarazione dei principi base che avrebbero regolato la vita internazionale europea: l’uguaglianza sovrana, l’astensione dall’uso della forza, l’inviolabilità delle frontiere, l’integrità territoriale, il regime pacifico delle controversie, il non intervento negli affari interni, il rispetto dei diritti dell’uomo, l’autodeterminazione dei popoli, la cooperazione tra gli Stati e la buona fede. Esso prevedeva inoltre misure di cooperazione per la sicurezza politico-militare. Il secondo conteneva misure di cooperazione in campo economico, scientifico e ambientale. Il terzo riguardava la cooperazione soprattutto in tema di diritti umani e questioni umanitarie.

La CSCE era concepita come una conferenza multilaterale permanente che si sarebbe basata sull’Atto finale di Helsinki e che avrebbe costituito una sede di dialogo, di verifica sull’osservanza degli impegni presi nell’ambito dei tre cesti, di eventuale previsione di ulteriori strumenti di cooperazione e di controllo, e di modifica della propria struttura. In quanto Conferenza e non Organizzazione, essa mancava di una sede fissa e di una struttura stabile, essendo i suoi organi previsti e modificati nel tempo, a seconda delle esigenze.

In questo quadro, rilevanti strumenti di sviluppo della CSCE, di verifica dell’applicazione degli impegni assunti ed eventualmente di una loro revisione o di un loro approfondimento, furono le cosiddette “Riunioni sui seguiti della Conferenza”, che si svolsero a Belgrado (1977-1978), a Madrid (1980-1983), a Vienna (1986-1989), a Helsinki (1992), a Budapest (1994).

Nel 1990, a fronte della nuova e fluida realtà dei rapporti internazionali successiva al crollo del Muro di Berlino (v. Germania), fu firmata a Parigi laCarta per una nuova Europa”, che prevedeva una certa istituzionalizzazione della CSCE, con la creazione di un meccanismo di consultazioni politiche e di alcuni organi specializzati. Da allora, la Conferenza andò potenziandosi con la sua trasformazione graduale da semplice foro di dialogo in attore politico della democratizzazione e dell’implementazione dei diritti umani nei paesi di nuova indipendenza. Si andò approfondendo il concetto di sicurezza che, in virtù delle previsioni dell’Atto finale e dello sviluppo del diritto internazionale dei Diritti umani, divenne multidimensionale e basata sull’interdipendenza dei diritti civili, politici, economici, sociali e culturali; caratterizzata dall’interrelazione delle dimensioni politico-militare, economica, sociale e ambientale; focalizzata sull’essere umano e sui suoi bisogni vitali piuttosto che sullo Stato. Inoltre, la CSCE andò acquisendo dinamismo operativo, conducendo missioni di monitoraggio elettorale, di assistenza economica, di sostegno alla democratizzazione e perfino di peace-keeping. Infine, furono adottati un nuovo regime di “misure di fiducia e sicurezza”, un meccanismo per il regolamento pacifico delle controversie e un meccanismo di controllo del trasferimento di armi convenzionali.

Il documento intitolato “Le sfide del cambiamento”, approvato dalla Riunione sui seguiti di Helsinki del 1992, proclamò la CSCE “Organizzazione regionale” ai sensi del cap. VIII della Carta delle Nazioni Unite, che all’art. 53 prevede la possibilità per il Consiglio di sicurezza dell’ONU di avvalersi di accordi ed organizzazioni regionali per azioni sotto la sua direzione. La CSCE assunse così rilevanza in quanto unica organizzazione regionale per la cooperazione ad estensione paneuropea, e si definì un rapporto stabile di collaborazione con l’ONU, rafforzando la competenza della Conferenza nella prevenzione dei conflitti e nella gestione delle crisi. Si verificò, inoltre, un ulteriore rafforzamento istituzionale che culminò nella trasformazione della CSCE in “Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa” (OSCE), prevista dalla Dichiarazione intitolata “Verso una vera partnership in una vera Europa”, approvata a Budapest nel 1994, che la qualificava come uno strumento di preallarme, prevenzione dei conflitti e gestione delle crisi “da Vancouver a Vladivostock”.

La “svolta” di Budapest non reso rendeva l’OSCE un’organizzazione intergovernativa classica, quanto piuttosto una c.d. soft international organization: essa non si fondava su un trattato giuridico internazionale e gli impegni assunti dagli Stati membri continuavano a essere politici, piuttosto che giuridici; il nuovo status indicava invece la volontà di razionalizzare obiettivi, strumenti e strutture e di rendere più incisivi gli interventi dell’istituzione, mantenendo al contempo l’agilità e la capacità di adattamento della CSCE.

Dell’Organizzazione fanno parte 56 paesi, dei quali 8 in Asia, 46 in Europa e 2 in America. Il suo regolare funzionamento ruota attorno ad alcuni organi politici: i Vertici dei capi di Stato e di governo, che si tengono ogni due anni, stabiliscono le priorità e gli orientamenti politici generali; il Consiglio dei ministri riunisce ogni anno i ministri degli Affari esteri dei paesi membri e riesamina le attività dell’OSCE, adotta decisioni e produce direttive generali; il Consiglio superiore, composto da diplomatici, dà attuazione alle decisioni ed esamina le questioni correnti; il Consiglio permanente, composto dai rappresentanti permanenti degli Stati membri, è il principale organo stabile dell’Organizzazione e si riunisce settimanalmente per discutere tutte le questioni correnti e prendere adeguate decisioni; il presidente in esercizio (PiE), ministro degli Esteri del paese che detiene la presidenza, ha la responsabilità generale dell’attività esecutiva; il Foro di cooperazione per la sicurezza (FCS) si occupa del controllo degli armamenti e delle misure miranti a rafforzare la fiducia e la sicurezza.

Accanto a questi organi politici, a supporto della presidenza opera un Segretariato diretto dal segretario generale, che si occupa della gestione delle strutture e delle operazioni dell’OSCE e funge anche da rappresentante del PiE.

L’Organizzazione si avvale inoltre di istituzioni specializzate, quali l’Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti dell’uomo (Office for democratic institutions and human rights, ODIHR), che svolge un ruolo attivo nel monitoraggio delle elezioni e nello sviluppo di istituzioni elettorali e per i diritti dell’uomo a livello nazionale, promuovendo anche lo sviluppo di organizzazioni non governative e la formazione dei giornalisti e degli addetti al monitoraggio elettorale e dei diritti dell’uomo; l’Alto commissariato per le minoranze nazionali, che si adopera per disinnescare situazioni di tensione relative alle minoranze nazionali fin dallo stadio iniziale; il rappresentante per la libertà dei mezzi d’informazione, istituito nel 1997, che vigila sul rispetto degli impegno OSCE nel campo della libertà di espressione e dei mezzi d’informazione.

Nel 1991 è stata istituita l’Assemblea parlamentare, composta da 300 rappresentanti dei parlamenti dei paesi membri, che discute questioni e adotta risoluzioni e raccomandazioni relative alle attività dell’OSCE. Infine, nel 1994 è entrata in funzione la Corte di conciliazione e di arbitrato, che si occupa della composizione pacifica delle controversie.

L’OSCE/CSCE, fin dalla sua nascita nel 1975, contribuì alla soluzione della Guerra fredda in due modi: da un lato agevolò una distensione “dall’alto”, nei rapporti tra le diplomazie; dall’altro costituì il punto di riferimento di una solidarietà popolare “dal basso”, che si sviluppò attraverso la saldatura di movimenti pacifisti dei due blocchi, aiutando a superare di fatto la contrapposizione Est-Ovest. Tali movimenti rivendicarono sempre più la loro partecipazione alla vita dell’OSCE, che si tradusse, in modo particolare dopo il 1989, in un crescente coinvolgimento delle organizzazioni non governative soprattutto nel terzo cesto relativo alla dimensione umana.

Oggi la situazione internazionale non è più cristallizzata, l’area balcanica è ancora instabile e frequentemente teatro di tensioni se non di guerre e le sfide ai diritti umani in Europa, se possibile, sono aumentate. L’OSCE ha dovuto così sviluppare nuovi obiettivi e strumenti per reagire al mutamento e al bisogno di una nuova governance internazionale, sposando l’approccio della human security e ponendo un nuovo jus gentium dell’Europa contemporanea, ovvero un corpus in espansione di norme di diritto internazionale consuetudinario regionale, imperniato sui principi dell’Atto finale, in particolare su quelli relativi alla dimensione umana; la prassi dell’OSCE, in contrasto con la lettera dell’Atto finale, ha perfino sviluppato il principio del dovere di ingerenza negli affari interni di uno Stato che violi i diritti umani fondamentali.

All’adeguatezza dell’approccio OSCE, tuttavia, corrisponde una carenza di strumenti di enforcement rispetto ai suoi principi. A ciò è legata l’assoluta necessità di coordinamento con le altre organizzazioni internazionali che sono coinvolte nel mantenimento della pace e della sicurezza nella regione di interesse dell’OSCE, in particolare l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO), l’Unione dell’Europa occidentale, (UEO) l’Unione europea e l’ONU. Il chiarimento e la riorganizzazione delle competenze di queste organizzazioni in funzione della garanzia giuridica, politica e militare dei principi dell’OSCE (e dell’ONU, in larga parte convergenti), costituirebbe un passo fondamentale per garantire finalmente la pace da Vancouver a Vladivostock.

Giovanni Finizio (2007)




Ortega Y Gasset, José

Filosofo e sociologo, O. y G. (Madrid 1883-ivi 1955) non è solo il più noto fra gli intellettuali spagnoli della prima metà del XX secolo, ma anche quello che più frequentemente viene fatto rientrare nella ristretta cerchia dei precursori dell’europeismo. Proveniente da famiglia altolocata di orientamento liberale – il padre José Ortega Munilla era il direttore di “Los Lunes del Imparcial”, una pubblicazione letteraria di grande prestigio negli anni della Restaurazione borbonica – aveva compiuto i primi studi nel collegio gesuitico di Miraflores del Palo, presso Malaga, prima di laurearsi in filosofia a Madrid nel 1904 con una tesi sulle paure dell’anno Mille e di approfondire negli anni successivi gli studi in questa disciplina nelle migliori università tedesche. Quest’ultima esperienza culturale, congiunta all’influenza esercitata da alcuni suoi professori, quali il krausista Nicolás Salmerón e il neokantiano Hermann Cohen, oltre all’amico Miguel de Unamuno, la figura più autorevole e rappresentativa della cosiddetta “generazione del ’98”, ampliarono notevolmente gli orizzonti intellettuali di O. y G. e lo indussero a intraprendere sin da ragazzo una battaglia in favore di una europeizzazione della cultura spagnola, intesa come primo passo nella prospettiva di un necessario processo di modernizzazione dell’intera società. Il presupposto teorico di questa azione andava ricercato nella constatazione dell’arretratezza del paese, che si manifestava attraverso il suo provincialismo culturale e un approccio alla realtà inadeguato ai tempi per l’assoluta mancanza di razionalismo e di sapere scientifico.

Nominato nel 1908 professore di psicologia, logica ed etica alla Scuola superiore di Magistero di Madrid, l’anno successivo, per nulla intimorito dalla giovane età, O. y G. ingaggiò un’aspra polemica con Unamuno e Marcelino Menéndez y Pelayo, che sulle pagine di “El Imparcial” avevano definito Ortega e i suoi amici dei «sempliciotti europeizzanti». Anzi, le sue convinzioni europeiste sarebbero uscite addirittura rafforzate da questa diatriba, tanto che sempre nel 1909 egli compariva tra i fondatori della rivista “Europa”.

In quegli anni il suo “europeismo” non andava però oltre la consapevolezza della necessità di un’europeizzazione culturale della Spagna in risposta a quel declino del paese che le umiliazioni internazionali del 1898 avevano drammaticamente palesato. Si trattava cioè di recuperare quel legame con i paesi più avanzati del continente che si era affievolito da molto tempo, forse addirittura a partire dalla guerra dei Trent’anni, introducendo anche in questo lembo occidentale dell’Europa massicce dosi di razionalismo e di sapere scientifico. Per uno strano paradosso, in quella fase del pensiero di O. y G., l’europeismo non rappresentava tanto una risposta a un problema internazionale, quanto soprattutto una possibile via di salvezza per la Spagna, un’occasione da non perdere per rinnovare intellettualmente e moralmente il paese e porre così le basi per una sua complessiva modernizzazione.

Tutta l’azione politica di O. y G. nel primo decennio del Novecento aveva principalmente questo obiettivo, e intorno ad esso egli cercò di coinvolgere i giovani intellettuali attraverso l’esperienza della “Liga de educación política española”. Europeizzare la Spagna significava infatti rinnovare il paese dalle sue fondamenta, a partire cioè dalla costruzione di una nuova forma di convivenza nazionale. Di conseguenza la modernizzazione finiva così per intrecciarsi alla nazionalizzazione, per la necessità di superare quei particolarismi sociali e regionali che rappresentavano una delle manifestazioni più evidenti del declino del paese.

Questo punto veniva in particolare approfondito da O. y G. nel noto saggio del 1922 España invertebrada, che indicava nello sviluppo di quei particolarismi che avevano trasformato via via la nazione in una serie di “scompartimenti stagni” e, soprattutto, nel venire meno della tradizionale dialettica tra massa e aristocrazia – quest’ultima intesa non come classe privilegiata bensì come “minoranza egregia” destinata a farsi carico della guida del paese – le principali cause del suo declino. Un declino che peraltro aveva radici storiche profonde, che andavano ricercate in un processo disgregativo iniziato sin dalla fine del XVI secolo e forse addirittura nella assenza, o meglio nella scarsa incidenza, del fenomeno feudale nel Medioevo iberico.

Ma all’indomani della Prima guerra mondiale la crisi della società spagnola aveva perso almeno in parte la sua specificità, dato che come insegnava Oswald Spengler era ormai l’intero Occidente a essere entrato in una grave fase di decadenza. Di conseguenza l’Europa in quanto tale non poteva più rappresentare una possibile soluzione al problema spagnolo. In altre parole non bastava più mettere la Spagna al passo con gli Stati più avanzati dell’Europa, perché anch’essi stavano attraversando un grave momento di crisi, essendo interessati da difficoltà economiche, tensioni sociali e instabilità politica.

Era il momento di pensare a soluzioni radicalmente nuove. E così nel suo più celebre scritto, La rebeliόn de las masas (1930), che costituisce una delle prime e più acute riflessioni sui caratteri della società di massa, O. y G. tornava a riflettere sull’Europa, anche se in un modo completamente diverso. Partendo da una disincantata analisi dei pericoli derivanti dall’emergere di una nuova tipologia di uomo – i cui tratta peculiari consistevano, da un lato nella volgarità e nella mancanza di cultura, dall’altro nel suo animo tendenzialmente intollerante e violento – nonché dal conseguente imbarbarimento della civiltà occidentale, che si manifestava tra l’altro nel venir meno dei principi liberali che l’avevano ispirata, egli individuava negli Stati uniti d’Europa una delle possibili ancore di salvezza di fronte al precipitare degli eventi.

Tale proposta poggiava su considerazioni di carattere economico e politico che rinviavano a quel declino dei vecchi Stati nazionali che era emerso drammaticamente nel corso della Prima guerra mondiale e nella crisi postbellica. Nonostante i milioni di morti sui campi di battaglia, continuava però a operare in Europa un processo di omogeneizzazione del “contenuto mentale” dei popoli che lasciava intravedere la possibilità di costruire una grande nazione europea e ne prefigurava gli eventuali sviluppi statuali. A O. y G. non sfuggiva tuttavia il fatto che tale strada sarebbe stata irta di ostacoli, perché all’unificazione europea si opponevano tutte le classi conservatrici, come del resto era storicamente sempre avvenuto durante ogni processo di nazionalizzazione.

Come per altri pensatori coevi, anche l’europeismo di O. y G. era in fondo frutto di quella stagione di ottimismo e speranze contrassegnata a livello internazionale dallo spirito di Locarno, dalla politica di distensione di Stresemann e dal patto Briand-Kellogg. La crisi del 1929 e le sue drammatiche conseguenze politiche, culminate nell’avvento al potere di Hitler nel gennaio 1933, decretarono la precoce fine di tutti i progetti finalizzati all’unità del continente. Nel caso di O. y G. giocarono poi un ruolo non secondario le stesse vicende interne spagnole, dato che i problemi della Seconda repubblica e lo scoppio della guerra civile non solo lo allontanarono dalla politica attiva, ma lo spinsero, anche sul piano teorico, a concentrarsi principalmente sugli studi di carattere filosofico.

Nel 1936 egli lasciò la Spagna e si rifugiò a Parigi con Azorín e altri esuli. Dopo vari pellegrinaggi in Europa e in America Latina, nel 1946 si ristabilì in patria, avendo accettato un invito del governo franchista. Questa decisione, destinata a suscitare aspre polemiche nell’opposizione, non aveva in realtà alcun carattere politico, non significava alcuna apertura di credito nei confronti del dittatore spagnolo, ma nasceva solo dalle esigenze personali di un uomo stanco e malato, desideroso di passare nella sua Madrid gli ultimi anni di vita.

Alcuni anni dopo O. y G. tornò a riflettere sui destini del vecchio continente. L’occasione gli fu offerta da una conferenza, significativamente intitolata De Europa meditatio quedam, che egli tenne a Berlino nel settembre del 1949. Nel suo discorso, che sarebbe stato pubblicato postumo, egli riprendeva alcune precedenti considerazioni in merito all’esistenza di una plurisecolare società europea, che si era storicamente manifestata con la formazione di abitudini, usi, costumi, idee e valori comuni. Aggiungeva però alcune originali osservazioni circa lo sviluppo di un potere pubblico europeo che si era manifestato principalmente nella presenza di un equilibrio, e quindi di un ordine, continentale.

Da questo punto di vista tutta la storia del vecchio continente veniva letta come frutto di una dialettica tra i particolarismi nazionali e l’universalismo europeo, e le vicende delle singole realtà statali venivano inquadrate all’interno di quel contesto europeo entro cui necessariamente si svolgevano. Ma negli ultimi decenni si era verificato un processo contrario di “desocializzazione” dell’Europa, che aveva fatto precipitare in guerre sanguinose i popoli del vecchio continente e vanificato i progetti d’integrazione. Con cupo pessimismo O. y G. constatava che nel secondo dopoguerra l’unità era definitivamente tramontata, dato che «una parte dell’Europa si sforzava di far trionfare alcuni principi che considerava “nuovi”, mentre l’altra si sforzava di difendere quelli tradizionali». Si doveva inoltre prendere atto del fatto che le nazioni, con buona pace di pacifisti e internazionalisti, continuavano non solo a esistere, ma costituivano ancora «una formidabile realtà».

Con queste amare parole si concludeva la sua meditazione sull’Europa, che da un lato sembrava essere contraddetta dal contemporaneo avvio del processo d’integrazione europeo (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) con la nascita dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) e del Consiglio d’Europa, ma che dall’altro invece rivelava una certa lungimiranza nel lungo periodo, proprio in riferimento a tutte le difficoltà che ne avrebbero caratterizzato i successivi sviluppi.

Guido Levi (2010) 




Ortoli, François-Xavier

O. (Ajaccio 1925-ivi 2007). Trascorre la giovinezza in Indocina, dove il padre è direttore dell’Ufficio del registro. Studia al liceo di Hanoi, poi si iscrive alla facoltà di Legge. Malgrado la giovane età, si distingue durante la Seconda guerra mondiale ottenendo la croce di guerra e la medaglia della Resistenza. Nel 1947 è ammesso ad uno dei primi concorsi dell’École nationale d’administration (ENA). Il giovane ispettore delle Finanze entra subito negli ambienti ministeriali e si specializza in due settori, economia e affari internazionali. Nel 1951 fa parte del gabinetto del segretario di Stato agli Affari economici e in seguito ministro dell’Informazione Robert Buron (del Mouvement républicain populaire, MPR). Non appartiene a nessun partito politico: “gollista dalla guerra”, non aderisce al Rassemblement du peuple français (RPF) e conta amici sia fra i gollisti che nel MPR e nella Confédération française des travailleurs chrétiens (CFCT). O. si definisce “poco dogmatico” e le sue convinzioni europee che vanno definendosi in questo periodo lo confermano. È un sostenitore dell’Europa per ragioni politiche, per la pace che esige un riavvicinamento fra gli Stati. Vede nell’Europa «la riconciliazione con la Germania e uno stimolo per la Francia», ma come Charles de Gaulle crede che «non si possa fare l’Europa senza tener conto delle nazioni», una convinzione che lo porta a ritenere che «la costruzione politica europea sarà un’opera di lungo respiro» (v. Association Georges Pompidou, 2001). Come i gollisti è ostile alla Comunità europea di difesa (CED) e manifesta la sua opposizione attraverso la stampa.

La lunga “carriera” al servizio dell’Europa di O. inizia a metà degli anni Cinquanta. Come vicedirettore (1955) e poi caposervizio della politica commerciale (1957) nella Direzione delle relazioni economiche estere, partecipa per la Francia ai negoziati dei Trattati di Roma. Il percorso europeo è confermato dalla creazione del Mercato comune. Il 1° gennaio 1958 O. accetta di trasferirsi a Bruxelles per assumere l’incarico di capo gabinetto di Robert Lemaignen, uno dei due commissari francesi, e poi di trattenersi per occupare il posto di direttore generale del Mercato interno della Comunità economica europea (CEE). Gli anni trascorsi nella capitale belga rafforzano le convinzioni europee di O., che vive dal centro dell’azione “l’accelerazione del Mercato comune”, a fianco di alti funzionari coinvolti nella costruzione delle fondamenta della CEE come Bernard Clappier, Robert Lemaignen e Robert Marjolin. Nel 1961, a Parigi, O. è considerato nell’entourage del primo ministro “l’uomo che conosce meglio l’Europa” e Michel Debré lo nomina segretario generale del comitato interministeriale per le questioni della cooperazione economica europea, cioè incaricato degli affari europei a Palazzo Matignon. Tra le missioni affidate a O. figura il negoziato che sfocerà in seguito nella Convenzione di Lomé (v. Convenzioni di Lomé) tra la CEE e gli Stati dell’Africa sub sahariana, Caraibi e Pacifico (ACP).

Quando Georges Pompidou arriva a Palazzo Matignon sceglie O. come consigliere economico e poi direttore di gabinetto fino al 1966. In questo periodo O. continua a seguire gli affari europei mantenendo l’incarico di segretario generale del comitato interministeriale. In seguito ricorderà di aver «parlato probabilmente più di chiunque altro dell’Europa con Georges Pompidou» (v. Association Georges Pompidou, 1995, p. 633). Sul piano concreto O. svolge un ruolo significativo nei negoziati preparatori della Politica agricola comune (PAC), sotto la guida del ministro degli Affari esteri Maurice Couve de Murville e del ministro dell’Agricoltura Edgard Pisani, e nella realizzazione effettiva del Mercato comune con la creazione della Tariffa esterna comune. Partecipa anche all’elaborazione della riflessione che porterà Pompidou, e poi il generale de Gaulle, a decidere il veto francese alla candidatura britannica alla CEE nel 1963 e la “politica della sedia vuota” quando gli interessi francesi sono considerati minacciati nel 1965.

Dopo essere stato commissario generale del Piano (1966-1967) O. entra in politica e per un periodo si allontana dall’Europa. Fra il 1967 e il 1972 fa parte senza interruzione del governo, sotto de Gaulle come ministro delle Infrastrutture e dell’edilizia (29 aprile 1967-31 maggio 1968), dell’Educazione nazionale (31 maggio-10 luglio 1968), dell’Economia e delle finanze (10 luglio 1968-20 giugno 1969), e poi sotto Pompidou come ministro dello Sviluppo industriale e scientifico (20 giugno 1969-5 luglio 1972). Parallelamente a queste funzioni nell’esecutivo, O. si impegna nella vita politica elettorale: nel 1968 è eletto deputato dell’Union des démocrates pour la République (UDR) nel Nord (I circoscrizione: Lilla centro e ovest) e nel 1969 consigliere generale di Lilla ovest.

Il 1973 è l’anno che segna il ritorno di O. all’Europa: su proposta di Pompidou è nominato Presidente della Commissione europea. È il primo francese ad assumere quest’incarico e lo esercita in un contesto difficile di crisi monetaria e petrolifera, fra il 6 gennaio 1973 e il 6 gennaio 1977. Questa scelta si spiega con la fiducia del capo dello Stato francese nei confronti del suo vecchio collaboratore e con la competenza europea che gli viene riconosciuta, ma dipende anche dalla concezione del ruolo della Commissione di Pompidou. Infatti il presidente della Repubblica rifiuta che possa diventare “un embrione di governo europeo” e quando fa il nome di O. non nasconde le sue intenzioni presentando in questi termini il suo candidato al cancelliere Willy Brandt: «le sue competenze sono economiche e se diventerà presidente i suoi interventi riguarderanno soprattutto questo ambito». Secondo Pierre Gerbet, «malgrado O. non prenda iniziative che sarebbero giudicate intempestive a Parigi, nondimeno vigila sul pieno svolgimento del ruolo della Commissione» (v. Association Georges Pompidou, 1995, pp. 68-69). Alcune proposte del presidente della Commissione vanno incontro ad un rifiuto francese; per esempio, quella di un “rilancio dell’azione europea nell’ambito dell’Unione economica e monetaria”, nel febbraio 1974, viene commentata con queste parole da un consigliere della Presidenza della Repubblica: «nelle circostanze attuali, pretendere di scegliere il terreno monetario per un rilancio europeo è una follia» (ivi, p. 477). O. conclude la sua carriera europea alla Commissione europea di Bruxelles come vicepresidente per gli Affari economici e finanziari (6 gennaio 1977-25 ottobre 1984), prima di terminare il suo percorso professionale di ispettore generale delle Finanze come presidente-direttore generale di Total Compagnie française des pétroles (dal 1984 al 1990). La sua ultima responsabilità – presidente del consiglio nazionale del Comité national du patronat français (CNPF) diventato MEDEF international – assunta nel 1989, conferma il suo impegno iniziale e rappresenta il riconoscimento della sua grande esperienza europea, al pari delle onorificenze ricevute (medaglia d’oro Robert Schuman, laurea honoris causa delle Università di Oxford e di Atene, presidenza onoraria del Collegio d’Europa a Bruges). Tuttavia il contributo di O. alla storia dell’integrazione europea (Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), rilevante per precocità d’impegno, durata e livelli d’azione, è ancora troppo largamente misconosciuto o sottovalutato in Francia.

Bernard Lachaise (2012)