OSCE

Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE)




OSE

Osservatorio Sociale Europeo (OSE)




Oskar Lafontaine




Osservatorio Sociale Europeo (OSE)

L’Osservatorio sociale europeo (OSE), con sede a Bruxelles, è un centro d’informazione e di ricerca sugli aspetti sociali dell’integrazione europea (v. Integrazione, metodo della). È stato creato nel 1984 su iniziativa del mondo sindacale e la sua missione principale consiste nel contribuire a migliorare la comprensione – e di conseguenza la gestione – delle implicazioni sociali della costruzione europea. Alla base della sua creazione, al principio degli anni Ottanta, vi è l’intuizione che la Comunità economica europea (CEE) sarebbe diventata uno dei più importanti centri di regolazione economica e sociale, con tutte le ricadute nazionali che questo comporta. La creazione di una sede di riflessione autonoma e critica sull’Europa, che all’epoca contava dieci paesi membri, rappresenta quindi una piccola innovazione.

L’idea di partenza ispirata da Felice Dassetto, poi docente dell’Université catholique di Lovanio, consiste, da un lato, nello sviluppare un’informazione sul tema dello sviluppo del processo d’integrazione europea, in quanto all’epoca si constatava a questo proposito una carenza di informazione, in particolare sui nuovi orizzonti che si andavano profilando: mercato interno, politica di ricerca, progetti a favore dell’occupazione. Dall’altro, si tratta di sviluppare un’informazione critica approfondita, abbastanza insolita per l’epoca, nelle materie europee spesso trattate in modo piatto, come se la loro tecnicità escludesse qualsiasi interpretazione critica. Quest’iniziativa corrisponde a un’esigenza precisa; infatti allora il sindacalismo aveva una visione riduttiva del progetto europeo che era necessario ampliare, tanto più che la Comunità economica europea all’epoca attraversava un periodo di crisi che investiva anche il mondo sindacale e, in particolare, si ripercuoteva sull’informazione sindacale.

Al progetto di Dassetto concorrono ricercatori e militanti, ai quali si associa anche Franco Chittolina, all’epoca direttore dell’unità “Informazione sindacale” alla Commissione europea all’interno della Direzione generale X. Anche Albert Carton, del Servizio studi della Confédération des syndacats chrétiens (CSC), si fa coinvolgere nel progetto, che peraltro si avvale del sostegno di Jacques Bourgaux, all’epoca presidente dell’Association belge des juristes démocrates, organismo già attivo nel patrocinio dell’Action sociale immigrée (ACSI) creata sempre da Dassetto in Belgio. Il progetto dell’Osservatorio ottiene anche un appoggio istituzionale dalla CISL italiana e da Emilio Gabaglio, allora responsabile delle relazioni internazionali in questo sindacato. Anche Robert d’Hondt, segretario generale della CSC, esprime il suo interesse contribuendo alla creazione e allo sviluppo dell’OSE. Vengono ad aggiungersi anche altri appoggi, come per esempio quello di Gérard Fonteneau, all’epoca direttore del Bureau international du travail (BIT) a Bruxelles.

Il progetto si evolve progressivamente verso la creazione di un Osservatorio sociale europeo, “osservatorio” per sottolineare la continuità e regolarità dell’impegno che intende assumersi. La realizzazione dell’OSE si inquadra anche in un mutato approccio del mondo sindacale all’integrazione europea. Dalla diffidenza e da una certa distanza riscontrabili agli inizi della Comunità europea si passa intorno agli anni Settanta – anni di crisi e di Allargamento – a una maggiore attenzione, per approdare infine, alla metà degli anni Ottanta, a una partecipazione più attiva, a un ruolo più impegnato del sindacalismo nell’elaborazione del progetto globale della Comunità. Da un atteggiamento di ascolto piuttosto passivo e ritroso da parte dei sindacati si approda a una richiesta crescente di informazione.

I primi lavori dell’OSE riguardano l’immigrazione, le politiche sociali e le politiche di ricerca. “Notabene”, la lettera d’informazione dell’OSE, in origine in italiano e in francese, fornisce un appoggio diretto alla missione informativa dell’Osservatorio. Il contesto appare piuttosto cupo: il mercato interno è ben lungi dall’essere realizzato e non si parla nemmeno più di unione monetaria. Ma a partire dal 1985 alcune iniziative di un certo rilievo della Commissione, come il Libro bianco (v. Libri bianchi) Mercato interno e soprattutto l’adozione dell’Atto unico europeo sottoscritto dai dodici Stati membri nel febbraio 1986, insieme all’Obiettivo 92, danno il segnale di partenza a una profonda trasformazione istituzionale dell’Europa, che si traduce nel Trattato di Maastricht, poi nel Trattato di Amsterdam e infine nel Trattato di Nizza. Alcune importanti iniziative in materia sociale alla fine degli anni Ottanta – come l’adozione della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori al Consiglio europeo di Strasburgo dell’8-9 dicembre 1989 – attirano l’attenzione dell’OSE, che con rigore e spirito pluralista accompagna i lavori e le riflessioni della CISL e della CSC, suoi partner storici, su queste diverse materie.

Nel 1992 Philippe Pochet subentra nella direzione dell’OSE a Pierre Jonchkeere. In questo stesso periodo l’OSE si inserisce nella dinamica della Confederazione europea dei sindacati (CES), collabora con l’Istituto sindacale europeo creato nel 1978 e con l’Accademia sindacale europea. L’unione monetaria e le sue conseguenze diventano un importante tema di studio per l’OSE, che elabora le sue valutazioni costruendo una rete di ricercatori, sindacalisti e funzionari europei. Nel 1992 realizza un’analisi sinottica del Trattato di Maastricht, impegno che si ripeterà in occasione del Trattato di Amsterdam nel 1997.

A metà degli anni Novanta l’OSE sviluppa un’importante attività di formazione rivolta ai comitati d’impresa europei usando il potenziale di internet per la diffusione dell’informazione. Si sofferma inoltre sulle politiche sociali attuate in Belgio in rapporto con le politiche europee, in particolare sullo sviluppo sempre più coerente del Metodo aperto di coordinamento. L’OSE fornisce quindi il suo contributo in termini di supporto alla decisione politica.

Nel 1997 l’Osservatorio adotta il metodo comparativo attraverso una serie di studi sui patti sociali in Europa. Nel 1999 si dota di un comitato scientifico per rafforzare il carattere accademico dei suoi lavori assicurando il rispetto dei criteri di ricerca accademici. In un contesto molto dinamico si sviluppano numerose collaborazioni in Belgio, in Europa e nel mondo, in particolare con l’Institut de recherches économiques et sociales (IRES-France), il “Journal of european social policy”, il programma di ricerca svedese SALTSA (Samarbetsprogram mellan Arbetslivsin institute, LO, TCO och SACO), l’Università del Wisconsin-Madison, la Commissione europea, la Fondazione europea per il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, il Gruppo di studi politici europei (GSPE), la Hans-Böckler-Stiftung e vari ministeri belgi e francesi. Altre prospettive di sviluppo dell’OSE puntano verso un lavoro di partenariato più allargato con le ONG e un’analisi dell’altermondialismo.

Continuando a sviluppare la ricerca pluridisciplinare basata su una specializzazione empirica, l’OSE si è pienamente inserito nelle reti accademiche che conducono ricerche più teoriche, diventando progressivamente un punto di riferimento e un crocevia di informazioni per le organizzazioni sindacali, le ONG, i ricercatori, i decisori politici ma anche per i funzionari, i giornalisti o gli studenti che desiderano informazioni concrete e critiche in merito all’integrazione europea. Testimonia quest’impegno la messe impressionante di pubblicazioni che ha prodotto.

Le sfide europee oggi sono ben diverse da quelle degli anni Ottanta. Sul piano sociale il campo d’azione degli attori europei si è notevolmente ampliato: da un’Europa sociale essenzialmente circoscritta alla salute e alla sicurezza dei lavoratori e alla non discriminazione si è passati a un’Europa dell’occupazione, della concertazione sociale, della lotta contro l’esclusione e la povertà, della salute pubblica, delle pensioni. Tuttavia l’OSE constata criticamente che, se pure questa dimensione sociale si è allargata e rinnovata, resta nondimeno soggetta agli imperativi economici ed è accompagnata da un Euroscetticismo crescente. Questo non impedisce all’OSE di dare prova, da oltre vent’anni, del suo impegno e di un’autentica militanza intellettuale per contribuire alla costruzione di una dimensione sociale nel processo d’integrazione europea.

Pierre Tilly (2009)




Ostpolitik

Il termine “Ostpolitik” descrive la politica di distensione fra la Germania occidentale e i suoi vicini dell’Est e i tentativi messi in atto per attenuare le tensioni diplomatiche con la Germania orientale a partire dal 1969. Suo fondamento è il principio Wandel durch Annäherung (“cambiamento attraverso l’avvicinamento”), concettualizzato nei primi anni Sessanta dal socialdemocratico Willy Brandt e dal suo consigliere per la politica estera Egon Bahr. Il concetto illustra il graduale capovolgimento dello status quo, che avrebbe consentito nel lungo termine l’unificazione della Germania.

Lo sfondo sul quale si delineò la Ostpolitik è connesso alla fine della Seconda guerra mondiale. Dopo la disfatta della Germania nazista, gli Alleati (le “quattro potenze”) erano risoluti a impedire una ripresa dell’espansione della Germania verso oriente. Nella conferenza di Potsdam del 1945 le quattro potenze, inoltre, si accordarono affinché la Polonia e l’Unione Sovietica ricevessero risarcimenti territoriali a discapito della Germania per le perdite subite durante la guerra. A Potsdam gli Alleati non legittimarono comunque l’occupazione polacca dei territori ad est dei fiumi Oder e Neisse, ma rinviarono la definizione finale dei confini della Germania del dopoguerra a un futuro imprecisato. Il movimento effettivo delle frontiere verso occidente, con l’Unione Sovietica che aveva conquistato parti della vecchia Polonia e la Polonia che, a sua volta, aveva occupato parti della vecchia Germania, si concluse in definitiva con lo spostamento di milioni di tedeschi che vivevano negli ex territori orientali del Reich tedesco. Inoltre, la divisione della Germania in quattro settori portò alla fine alla separazione della nazione, con il settore sovietico che in seguito costituì il territorio della Repubblica democratica di Germania (Deutsche Demokratsche Republik, DDR) mentre il resto divenne la Repubblica federale di Germania (Bundesrepublik Deutschland, BRD). Queste circostanze nella Germania occidentale diedero impulso al dibattito sulla politica estera nei confronti dell’Europa dell’Est.

Sotto il primo cancelliere Konrad Adenauer, la politica estera della Germania occidentale si concentrò sull’integrazione dello Stato nelle alleanze con l’Europa occidentale e soprattutto sulla riconciliazione con la Francia. Comunque, una prima pietra miliare delle relazioni con l’Est fu la visita di Adenauer a Mosca nel 1955. In seguito a questo viaggio l’Unione Sovietica, in risposta alla ripresa delle relazioni diplomatiche con la Germania occidentale, rilasciò gli ultimi prigionieri di guerra tedeschi. Lo scambio di ambasciatori con l’Unione Sovietica rappresentò una palese eccezione nella politica della Germania occidentale nei confronti degli Stati comunisti orientali. In particolare, l’obiettivo fu quello di impedire il riconoscimento diplomatico della DDR da parte di altri Stati. In conformità con la dottrina Hallstein, che aveva preso nome dal segretario di Stato per gli Esteri Walter Hallstein, era considerato un atto di ostilità riprendere le relazioni diplomatiche con la DDR, dal momento che ciò avrebbe minato il diritto della rappresentanza esclusiva della Repubblica federale. La richiesta di parlare a nome di tutti i tedeschi era giustificata dal fatto che i cittadini della DDR vivevano sotto una dittatura e per questo motivo non potevano esercitare il loro diritto all’autodeterminazione. Come conseguenza di questa dottrina le relazioni della Germania occidentale con gli Stati dell’Europa dell’Est, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, conoscevano di fatto una situazione di stallo e alcuni uomini politici temevano che questo tipo di politica avrebbe isolato la Germania occidentale. Il nuovo governo social-liberale eletto nel 1969 alla fine rinunciò a questi principi e, vista la positiva riconciliazione con gli Stati occidentali, tentò di ottenere analoghi progressi con i paesi orientali allo scopo di attenuare le tensioni causate dalla Guerra fredda in Europa.

Il cancelliere Willy Brandt del Partito social-democratico (Sozialdemokratische Partei Deutschlands, SPD) e il suo ministro degli Esteri Walter Scheel del Partito liberal-democratico (Freie demokratische Partei FDP) decisero di avviare i negoziati con il blocco comunista. Nel 1970, per la prima volta dal 1948, i leader della Repubblica federale e della Repubblica democratica avviarono una serie di colloqui quando Brandt incontrò il primo ministro della Germania orientale Willi Stoph a Erfurt, città della DDR. Malgrado queste conversazioni non abbiano prodotto risultati concreti in quanto Brandt rifiutò di riconoscere la DDR come Stato sovrano, se non altro il dialogo era stato avviato.

Dopo aver coordinato gli obiettivi politici con gli Stati Uniti, la Repubblica federale cominciò i negoziati con l’Unione Sovietica per un trattato che normalizzasse le relazioni, con il quale entrambi i paesi avrebbero rinunciato all’uso della forza. La Germania federale acconsentì a non fare rivendicazioni territoriali e riconobbe di fatto lo status quo del confine Oder-Neisse e del confine fra DBR e DDR. I negoziatori della Repubblica federale, comunque, vollero sottolineare che questi accordi non modificavano le speranze della Germania federale in una futura riunificazione del paese e che il trattato avrebbe lasciato immutate le responsabilità delle quattro potenze in Germania. Quindi vincolarono la firma del trattato all’apertura di colloqui finalizzati a normalizzare la situazione di Berlino. Dopo che l’Unione Sovietica accettò queste condizioni, il Trattato di Mosca fu sottoscritto nell’agosto 1970. Questi accordi aprirono la strada ai negoziati con altri paesi del blocco sovietico. Già nel dicembre 1970, dopo mesi di complessi negoziati, fu firmato il Trattato di Varsavia fra la Repubblica federale e la Polonia. Questo Trattato conteneva sostanzialmente gli stessi punti del Trattato di Mosca in merito ai confini occidentali della Polonia e la rinuncia a rivendicazioni territoriali da parte della Repubblica federale. Inoltre, venivano garantiti risarcimenti per le atrocità compiute dai nazisti. In cambio la Polonia acconsentiva all’emigrazione nella Repubblica federale dei tedeschi ancora residenti in Polonia. I partiti conservatori e specialmente le associazioni dei cosiddetti tedeschi “espulsi” dall’Est respinsero questa nuova politica e si lamentarono per l’abbandono dei territori in cui avevano vissuto. L’opposizione cristiano-democratica, con il parziale sostegno della FDP, cercò anche di bloccare in Parlamento la ratifica dei Trattati con l’Est attraverso una mozione di sfiducia contro il cancelliere Brandt. La mozione non passò in circostanze piuttosto misteriose, nondimeno furono annunciate nuove elezioni federali per il novembre 1972, che segnando una netta vittoria di SPD e FDP potevano essere interpretate come un consenso alla Ostpolitik.

Parallelamente ai negoziati tra la Repubblica federale e l’Unione Sovietica e la Polonia, rispettivamente, le quattro potenze cercarono di porre fine alle divergenze sullo status di Berlino. I colloqui cominciati nel marzo 1970 ebbero un avvio difficile, in quanto gli alleati occidentali e l’Unione Sovietica erano profondamente divisi in merito all’interpretazione di fondo dello status quo. Dopo “aver concordato sul disaccordo” su questo punto, alla fine furono compiuti alcuni progressi e l’Accordo fra le quattro potenze nel settembre 1971 stabilì che lo status quo di Berlino non poteva essere modificato unilateralmente. L’Unione Sovietica fece due importanti concessioni: il traffico da e verso Berlino Ovest nel futuro non sarebbe stato ostacolato e i legami esistenti fra Berlino ovest e la Repubblica federale venivano de facto riconosciuti. Gli ufficiali sovietici, comunque, sottolinearono che Berlino ovest non doveva essere considerata un territorio appartenente alla Repubblica Federale e quindi non sarebbe stata governata da quest’ultima.

Quest’accordo del 1971 servì di base per ulteriori negoziati fra la Repubblica federale e quella democratica. Il successivo Accordo di transito del maggio 1972 organizzava l’accesso da e per Berlino ovest dalla Repubblica federale e garantiva agli abitanti di Berlino ovest il diritto di visitare Berlino Est e la Repubblica federale. Consentiva parimenti agli abitanti di Berlino Est di visitare la Repubblica federale, ma solo a certe condizioni. In seguito all’accordo riguardante la circolazione, entrambe le parti riconobbero la fattibilità di un trattato di più ampia portata tra i due Stati tedeschi. Nell’agosto 1972 ebbero inizio i colloqui che culminarono nella firma del Grundlagenvertrag (“Trattato fondamentale”) nel dicembre dello stesso anno. Entrambi gli Stati si impegnavano a sviluppare normali relazioni, garantendo sia la reciproca integrità territoriale che i confini tra loro e riconoscendo mutuamente l’indipendenza e la sovranità dell’altro. Si accordarono quindi per insediare “missioni permanenti” in sostituzione delle ambasciate a Bonn e a Berlino est per lo sviluppo ulteriore di queste relazioni. In conseguenza del Trattato la Repubblica federale e la Repubblica democratica divennero entrambe membri delle Nazioni Unite nel giugno 1973. Il riconoscimento de facto della Germania orientale come Stato separato rappresentò per molti conservatori il colpo di grazia alla possibilità di riunificare la Germania. Il governo conservatore della Baviera tentò anche di ostacolare la ratifica del Trattato da parte della Corte costituzionale federale, che tuttavia lo giudicò compatibile con gli articoli della Costituzione.

Il Trattato di Praga tra Repubblica federale e Cecoslovacchia (v. Repubblica Ceca; Slovacchia), simile nei contenuti al Trattato di Varsavia, segnò il completamento della Ostpolitik nel 1973. Il risultato fu l’avvio di relazioni diplomatiche, e poco dopo la Germania occidentale procedette allo scambio di ambasciatori con Ungheria e Bulgaria.

Nel 1971 Willy Brandt ricevette il premio Nobel per la pace per il contributo dato alla politica di distensione europea. L’attenzione di tutto il mondo si fissò su Brandt quando nel dicembre 1970, durante una visita di Stato, si inginocchiò spontaneamente di fronte al monumento commemorativo del ghetto di Varsavia. Senza la Ostpolitik probabilmente non si sarebbe giunti alla riunificazione della Germania.

Elke Viebrock (2012)