Paavo Lipponen




PAC

Politica agricola comune (PAC)




Pacelli, Eugenio

Pio XII




Padoa-Schioppa, Tommaso

P.-S. (Belluno 1940-Roma 2010) frequenta il liceo classico a Trieste e si laurea all’Università Luigi Bocconi di Milano nel 1966. Nel 1970 ottiene il Master of Science dal Massachussets Institute of Technology (MIT). Figlio di Fabio Padoa-Schioppa, già amministratore delegato delle Assicurazioni generali, inizia la carriera professionale in Banca d’Italia alla sede di Milano, nel 1968. Dal 1979 al 1983 è a Bruxelles, come direttore generale alla Commissione europea. Nel 1983, con Carlo Azeglio Ciampi governatore, diventa funzionario generale per la ricerca economica e, nel 1984, entra nel direttorio come vicedirettore generale. Nel maggio del 1997 lascia la Banca d’Italia per diventare presidente della Commissione nazionale di controllo sulla Borsa (Consob). Un anno dopo, nel giugno del 1998, è nominato dal Consiglio europeo nel Comitato direttivo della neonata Banca centrale europea. Il 17 maggio 2006, un anno dopo aver lasciato Francoforte, Romano Prodi lo nomina ministro dell’Economia e delle Finanze del suo secondo governo. Dal novembre del 2007 alle dimissioni dell’esecutivo, nel maggio 2008, P.-S. presiede il Comitato monetario e internazionale del Fondo monetario internazionale. Dirige “Notre Europe”, Istituto di studi europei fondato nel 1996 da Jacques Delors ed è presidente per l’Europa della società di consulenza internazionale Promontory financial group. Il 17 giugno del 2010 è nominato presidente dell’International accounting standards committee foundation, organismo indipendente impegnato nella costruzione di standard contabili globali. Ad agosto dello stesso anno il governo greco lo indica come consulente per la gestione della crisi economico-finanziaria. Il 15 dicembre 2010 è nominato membro indipendente del consiglio di amministrazione di FIAT Industrial.

Convinto europeista, gran parte della carriera professionale e della produzione scientifica di P.-S. è dedicata alla moneta unica e alla costruzione della sua architettura. Il primo impegno di rilievo è nel 1979, quando viene nominato direttore generale della direzione affari economici e finanziari della Commissione. È l’anno nel quale decollano le Istituzioni comunitarie: proprio nel 1979 si insedia il primo Parlamento europeo eletto a suffragio universale. Fra i deputati ci sono Jacques Delors e Altiero Spinelli, le due personalità che più influenzeranno il pensiero europeista di P.-S. Il 13 marzo entra in vigore il sistema monetario europeo. Nel settembre del 1983, Altiero Spinelli presenterà al Parlamento europeo un progetto di trattato che istituisce l’Unione europea. Su quel progetto, al quale lavora anche P.-S., si ispira la prima stesura dell’Atto unico europeo. La versione definitiva che verrà approvata e ratificata nel 1986 risulterà però molto diversa dal modello di partenza.

Nel 1988 P.-S. è relatore e cosegretario del Comitato per lo studio dell’Unione economica e monetaria, gruppo di lavoro guidato dall’allora Presidente della Commissione europea Jacques Delors. Si tratta di un organismo istituito su mandato del Consiglio europeo di Hannover del giugno di quell’anno e del quale fanno parte i governatori delle banche centrali europee, rappresentanti governativi ed esperti indipendenti. Il compito è quello di preparare una relazione e una proposta concreta per l’unificazione monetaria.

Sotto il profilo teorico, il rapporto Delors è costruito intorno al paradigma del “quartetto incoerente”: sin dai primi anni ottanta, P.-S. aveva sostenuto che per la costituenda Unione europea era impossibile aspirare contemporaneamente ai quattro grandi obiettivi economici, ovvero libero commercio estero, mobilità dei capitali, autonome politiche monetarie nazionali e tassi di cambio fissi. Per risolvere la contraddizione senza distruggere il mercato unico era necessario coniare una moneta comune e un’unica Banca centrale europea. Alla fine degli anni Ottanta i primi due obiettivi erano stati raggiunti; per conseguire gli ultimi due, era necessario passare all’Unione monetaria. È quanto proposero le conclusioni del rapporto nell’aprile del 1989.

In qualità di vicedirettore generale della Banca d’Italia, P.-S. partecipa ai lavori preparatori del Trattato sull’Unione europea, firmato nella cittadina olandese di Maastricht il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il primo novembre 1993. Il Trattato di Maastricht sosterrà la necessità di unificare la moneta, la politica monetaria, e di istituire una banca centrale che tutelasse entrambe nell’area dei paesi aderenti alla moneta unica. Per fare ciò, era necessario rivedere il concetto di sovranità nazionale monetaria.

I passaggi tecnici necessari alla costruzione della moneta unica saranno lunghi e complessi. P.-S., come tutti i vertici delle banche centrali nazionali, è direttamente impegnato nello sforzo, spesso con ruoli di coordinamento. A partire dal 1991 assume la guida del gruppo sui sistemi di pagamento delle banche centrali della Comunità europea (1991-1995) e del Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria (1993-1997). Fra il 1997 e il 1998 è a capo del comitato regionale dell’International organization of securities commissions (IOLCO) e crea e presiede il Forum of the European securities commissions (FESCO). Tra il 1992 e il 1997 partecipa agli incontri dei vicegovernatori delle banche centrali presso l’Istituto monetario europeo. L’IME, allora guidato da Alexandre Lamfallussy, è l’organismo nato dalle ceneri del comitato dei governatori e dal quale, nel 1998, nascerà la Banca centrale europea. Compito dell’incontro mensile degli Alternates (così vengono chiamati i vicegovernatori), spesso preceduto da riunioni preparatorie di sottocomitati tecnici, è quello di definire gli standard operativi e affrontare tutte le problematiche connesse alla nascita della politica monetaria comune e della moneta unica.

Nella seconda metà degli anni Novanta, i singoli governi nazionali devono accelerare il lavoro necessario a preparare le rispettive istituzioni pubbliche e il sistema finanziario all’appuntamento della moneta unica. Nel 1996, con Carlo Azeglio Ciampi ministro del Tesoro, P.-S. è nominato membro del Comitato per l’Euro. Il vicedirettore generale della Banca d’Italia ha la responsabilità di coordinare il Sottocomitato finanza, ovvero il gruppo impegnato a rendere possibile il passaggio all’euro dell’intero comparto bancario e finanziario. Un analogo Comitato per l’euro viene istituito anche presso la Banca d’Italia: in questo caso P.-S. è impegnato a coordinare il lavoro degli esperti impegnati nei sottocomitati Ime e a individuare le modifiche organizzative e logistiche necessarie a consentire la partecipazione dell’Italia al costituendo SEBC, il Sistema europeo delle banche centrali, l’ultimo passo prima della nascita ufficiale della BCE.

Nominato presidente della Commissione di controllo sulla Borsa (Consob) nel marzo 1997, P.-S. continua a presiedere il Sottocomitato finanza e a collaborare con il governo per la transizione all’euro del sistema bancario e finanziario italiano. In questo periodo viene pubblicato il primo Schema nazionale di piazza, lo strumento operativo grazie al quale gli attori del sistema si prepareranno ai due passaggi all’euro: il primo, formale, nel 1999, e il vero e proprio changeover del 2002.

Poco più di un anno dopo la designazione, a maggio 1998, P.-S. lascia la Consob per tornare a fare il mestiere del banchiere centrale, questa volta a Francoforte. Come membro italiano dell’esecutivo BCE, P.-S. è responsabile per le relazioni europee e internazionali, il sistema dei pagamenti e la vigilanza prudenziale. Per P.-S. la costruzione di un sistema di vigilanza bancaria e finanziaria comune è l’ultima frontiera per la costruzione di una compiuta Europa monetaria. Durante i sette anni del suo mandato, spenderà molte energie per far crescere una divisione che all’inizio conta appena sette funzionari. Come responsabile del sistema dei pagamenti, si occuperà della configurazione del cosiddetto sistema europeo “TARGET”. “TARGET”, acronimo di Sistema transeuropeo automatizzato di trasferimenti rapidi con liquidazione lorda in tempo reale, è il tassello fondamentale della politica monetaria comune: grazie a esso vengono regolati il sistema dei pagamenti e le operazioni monetarie dell’area euro. Durante il settennato a Francoforte P.-S. ha un ruolo fondamentale nella definizione dei nuovi parametri per la politica monetaria della zona euro e del suo Allargamento ad altri paesi.

Nonostante le difficoltà, anche nei due anni alla guida del ministero dell’Economia P.-S. non deroga all’ispirazione europeista. Lo fa anzitutto sul fronte dei conti pubblici con la finanziaria per il 2007. Quando il banchiere centrale approda al ministero del Tesoro, nel 2006, l’Italia è già da un anno sottoposta a procedura per deficit eccessivo; P.-S. rinuncia a chiedere deroghe all’Europa e, fra le proteste interne alla stessa maggioranza di governo, impone una dura manovra di risanamento che permetterà la chiusura della procedura di infrazione. Da ministro tenta anche – senza successo – di proseguire la battaglia per il rafforzamento della vigilanza bancaria a livello europeo: le prime avvisaglie della crisi finanziaria, a fine 2007, lo spingono a scrivere una lettera al presidente di turno dell’ECOFIN. Nella lettera, pubblicata dal “Financial Times” il 10 dicembre, P.-S. invoca la costruzione di un sistema accentrato di controllo e la condivisione delle informazioni di supervisione. Poco meno di un anno dopo fallisce Lehman Brothers e la finanza globale è attraversata dalla più grave crisi finanziaria dal 1929. Due invece le occasioni in cui il ministro P.-S. spinge simbolicamente l’acceleratore sull’integrazione economica: tenta di promuovere la fusione della Borsa di Milano con quelle di Parigi e Francoforte e sostiene, al termine di una lunga procedura di selezione, la fusione della compagnia di bandiera Alitalia con i cugini di Air France-KLM. In entrambi i casi le vicende avranno un esito diverso, ma le soluzioni saranno in linea con quell’impostazione: la Borsa di Milano si fonderà con quella di Londra, Alitalia assorbe Air One ed avrà in Air France-KLM il socio di maggioranza. Con quest’ultima, la compagnia italiana, nel frattempo privatizzata, ha anche firmato un accordo di condivisione degli utili sulle tratte intercontinentali.

Almeno la metà dei 18 volumi scritti da P.-S. sono dedicati all’Europa. Alcuni di essi sono di natura strettamente scientifica, come L’euro e la sua banca centrale, edito in inglese nel 2004, altri fanno emergere più nettamente la visione del P.-S. “politico”. Fra questi ultimi ci sono anzitutto Europa forza gentile (2001), Europa, una pazienza attiva (2006) e Italia, una ambizione timida (2007). Nel corso degli anni, all’Europa e al suo futuro P.-S. dedica innumerevoli discorsi pubblici. A ottobre del 2005, di fronte agli studenti dell’Università Bocconi di Milano il banchiere centrale fa un vero e proprio inno alla forza del sogno europeo rispetto a quello, culturalmente dominante, dell’America: «Oggi consideriamo l’economia il punto debole dell’Europa. L’Unione europea […] è il più grande mercato integrato del mondo; il primo esportatore di beni e servizi nell’economia mondiale; sta creando una rete integrata nei trasporti, nell’energia, nelle telecomunicazioni, nella finanza; ha importanti programmi in campo educativo come Socrates, Leonardo, Erasmus [v. Programma Socrates; Programma europeo per la mobilità degli studenti universitari]. Diversamente dall’America, l’Europa non vive a credito per mantenere il suo alto tenore di vita. […] L’Europa ha una più alta qualità di vita, una più rigorosa protezione della privacy, una più stringente tutela dell’ambiente, un grado di solidarietà sociale più elevato, un più prudente atteggiamento verso la sperimentazione scientifica e l’innovazione tecnologica, una più forte capacità di proporre e trasmettere ad altri paesi e regioni del mondo il proprio modello di relazioni sociali, politiche, internazionali».

P.-S. non considera l’Europa «cosa fatta, perché fatta non è». Manca «la capacità di trovare una propria linea nelle grandi questioni della sicurezza, della politica estera e quella di riformare la politica agricola [v. anche Politica estera e di sicurezza comune; Politica agricola comune], lo spreco immenso di risorse dovuto al rifiuto di unire le forze per obiettivi comuni e il ridicolo sfoggio di parsimonia nel comprimere il bilancio comunitario [v. Bilancio dell’Unione europea], gli impudichi litigi sulla destinazione di quei pochi fondi e le liti sul Patto di stabilità e crescita, le promesse di Lisbona e il blocco della direttiva Bolkenstein, la rivolta degli elettori francesi e la diserzione dei seggi elettorali europei».

Il 17 gennaio 2007, nella Lecture Spinelli del Centro Studi sul Federalismo, P.-S. spiega che il «profondo senso di impotenza ed estraniazione di fronte al farsi del mondo di oggi non è nelle mancanze dell’Unione europea, ma nella mancanza d’Europa. […] L’incapacità dell’Unione di prendere decisioni e di metterle in atto aggrava i problemi della società nei paesi dell’Europa. […] La cura altro non è che la scelta consapevole del modello federale, quello che crea un effettivo potere di decidere e di agire ad un livello superiore a quello degli Stati per le materie che gli Stati non sono più in grado di affrontare da soli. Solo questa scelta può, rimediando alla mancanza d’Europa, rimediare alle pretese mancanze dell’Europa» (v. Federalismo).

Quella di P.-S. si può definire una visione europeista improntata alla fiducia nelle capacità dell’uomo e ispirata dalla visione dei suoi padri costituenti. La convinta scelta per un’Europa forte, integrata e coesa regge anche alle gravi turbolenze finanziarie verificatesi a partire dall’estate del 2008. Spiega nel 2009 P.-S. a Beda Romano ne La veduta corta, pochi mesi prima del fallimento greco: «Da quando è nata la Comunità non è mai stata di fronte ad una tempesta di queste proporzioni. Se al posto dell’euro ci fosse stato il vecchio Sistema monetario europeo, che legava fra di loro le monete nazionali, i mercati avrebbero, come minimo, imposto ad alcune di svalutare nei confronti della moneta forte, il marco tedesco; più probabilmente avrebbero esercitato una pressione tale da mettere a rischio l’intero sistema e la stabilità interna di certi paesi, non solo finanziaria ma anche politica e sociale tale da scardinare i rapporti economici e politici. […] L’Europa ha superato non poche turbolenze grazie all’euro: le crisi finanziarie asiatica e russa di fine anni Novanta, gli attentati terroristici del 2001, lo scoppio della bolla dei titoli tecnologici nei primi anni Duemila, il fortissimo aumento del prezzo del greggio nell’estate del 2007. Senza la moneta unica saremmo probabilmente giunti moribondi, se non morti, a quest’ultima crisi». Il problema resta quello di un’Europa «soggetto incompiuto, e in parte inesistente, di politica economica e di politica tout court». La ricetta di P.-S. è quella di proseguire nella integrazione finanziaria e politica. Infatti, ancora oggi l’Europa «non è attrezzata per affrontare le sfide della storia». All’Unione europea e alle sue istituzioni mancano ancora «sia gli strumenti ordinari sia quelli di emergenza, perché entrambi sono nelle mani degli Stati membri». Ciò «vale per le misure di vigilanza, per i salvataggi bancari, per il sostegno alle imprese, le misure di bilancio. Il procedere ciascuno per sé non solo è inefficace ma anche pericoloso». Il problema non è nella quantità di poteri, ma nella capacità delle istituzioni di «esercitare in maniera piena le Competenze che i Trattati già le attribuiscono».

Il banchiere centrale si autodefinisce «trionfalista con i critici e critico coi trionfalisti». Perché «solo la combinazione dei due atteggiamenti costituisce una valutazione completa dello stato dell’Europa di oggi. L’Europa ha compiuto nell’ultimo mezzo secolo un passo straordinario che l’umanità non aveva mai fatto prima: il superamento del potere assoluto degli Stati. È un passo fondamentale della storia umana, come la nascita della democrazia, la separazione dei poteri, o il suffragio universale. È sciocco usare la caricatura dell’Europa imperfetta per opporsi al progetto europeo: anzi, lo trovo addirittura riprovevole sul piano della responsabilità che una persona ha nei confronti degli altri e in particolare di coloro a cui lasceremo le nostre istituzioni. Alcuni amano ironizzare sul fatto che l’Europa ha realizzato in cinquant’anni meno di quanto la Convenzione di Filadelfia seppe fare creando la federazione americana, ma commettono un errore. Gli Stati americani erano, per così dire, senza storia, avevano una sola lingua, non si erano combattuti fra loro per secoli; al contrario avevano conquistato insieme l’emancipazione coloniale. Gli Stati d’Europa che hanno iniziato ad unirsi nel 1950 avevano alle spalle una storia tutta diversa. Deve far riflettere che l’Unione europea sia qualificata dalla parola sovranazionale mentre gli Stati Uniti nascono con l’obiettivo di creare una nuova nazione».

Insomma, indietro non si può e non si deve tornare, dice P.-S. Anche nella gestione della crisi greca e la decisione di varare un fondo anticrisi, malgrado i ritardi, l’ex membro dell’esecutivo della BCE riconosce all’Europa di aver fatto qualcosa che «qualitativamente e quantitativamente non ha precedenti nella storia dell’Unione» (“Notre Europe”, 18 giugno 2010). «Il vero motore degli attacchi all’euro è la mancanza di fiducia nella capacità dell’Europa di progredire verso l’obiettivo storico che si è assegnata, che è quello di creare una vera unione, di costruire un potere che completi e limiti quello degli Stati membri. In sostanza, la posta in gioco di questa crisi europea non è la Grecia, ma l’euro, e al di là dell’euro, la stessa Unione europea. […] Resta in piedi una ideologia, che potremmo chiamare westfaliana» in virtù della quale «si riconosce ad ogni Stato il diritto di scegliere la propria religione e il diritto di non subire interferenze dall’esterno. […] L’Unione europea costituisce il tentativo storico di creare un ordine post-westfaliano».

Alessandro Barbera (2012)




Paesi Bassi

Il rifiuto in massa del progetto di Trattato costituzionale europeo da parte degli olandesi (v. Costituzione europea), nel giugno 2005, ha messo in luce che i Paesi Bassi, i cui governi succedutisi a partire da quella data hanno chiesto un nuovo trattato meno ambizioso, costituiscono un caso piuttosto particolare nella storia della costruzione europea. Pur avendo adottato fin dalle origini il principio di una partecipazione attiva alle Istituzioni comunitarie, i Paesi Bassi hanno manifestato regolarmente grandi reticenze in una serie di settori. Pur privilegiando costantemente opzioni atlantiche, inoltre, si sono dimostrati al tempo stesso molto esigenti in termini di sviluppo della cooperazione europea in vari ambiti.

Se ogni paese membro ha contribuito e contribuisce con la propria storia e identità al processo di costruzione europea, i Paesi Bassi richiedono senz’altro un’attenzione particolare in questo senso.

Fattori storici determinanti

Segnate dal protestantesimo, che nel XVI secolo fu il motore della lotta che mirava a separarle dalle province del Sud con le quali allora costituivano i Paesi Bassi spagnoli, le province olandesi, diventando le Province Unite, acquistarono un carattere istituzionale specifico e conobbero uno sviluppo caratterizzato da quattro fattori determinanti: la lingua, la conquista della terra sottratta al mare, l’espansione commerciale e coloniale, un sentimento marcato della sovranità nazionale.

Essendosi dotati molto precocemente di un sistema istituzionale che riconosceva alle province una grande autonomia, nel quadro di uno Stato che presentava tratti federali in un’Europa prevalentemente monarchica e centralizzatrice, nel XVI e nel XVII secolo i Paesi Bassi a causa della pressione demografica dovettero ingaggiare una lotta titanica contro il mare per guadagnare terra. Questa stessa pressione incoraggiò l’emigrazione verso l’Africa australe. Di pari passo con l’espansione commerciale che li rese uno dei principali interlocutori del Giappone, la colonizzazione dell’Indonesia introdusse un paese di modeste dimensioni nel novero delle potenze coloniali. Grande potenza, favorita dalla posizione e dal ruolo di Amsterdam nell’Europa nord occidentale sia sul piano finanziario che commerciale, i Paesi Bassi dimostrarono anche una grande capacità di difendere la loro integrità rafforzando al tempo stesso la loro identità. Le iniziative del re di Spagna nel XVI secolo e quelle di Luigi XIV nel secolo successivo, suscitarono una diffidenza duratura nei confronti dell’altro e favorirono la tendenza a gravitare verso il mare anziché verso il continente. In questo senso, si può stabilire senz’altro un certo parallelismo tra i Paesi Bassi e l’Inghilterra (v. Regno Unito).

Sotto la tutela della Francia imperiale al principio del XIX secolo, i Paesi Bassi formarono, con il loro vicino del Sud, un regno in cui belgi e olandesi convivevano con difficoltà. La rivoluzione belga del 1830 aprì un lungo periodo di risentimento fra i due paesi. Lo sviluppo industriale del Belgio e il ritorno del porto di Anversa in posizione preminente nel traffico marittimo mondiale costituiscono, in particolare, per i Paesi Bassi, una notevole concorrenza.

Vedendo rispettata la loro Neutralità nel 1914, contrariamente a quanto accaduto al Belgio, i Paesi Bassi trassero dall’esperienza e dall’impero coloniale considerevoli benefici materiali e al tempo stesso il rafforzamento di un certo isolazionismo. Tuttavia, la situazione economica mondiale spingeva verso una politica di avvicinamento ad altri piccoli Stati nel quadro del patto di Oslo, e di un dialogo ancora timido, in particolare, con il Belgio. Per quanto riguarda i rapporti con questo paese, l’idea di un’intesa sul piano economico era stata formulata a varie riprese dal 1914, ma non c’era stato alcun seguito concreto e l’auspicio era rimasto sulla carta. In compenso, la grande depressione e la minaccia sempre più evidente rappresentata dal vicino tedesco incoraggiarono Bruxelles e l’Aia, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, con il ministro Colijn in primo piano e i sovrani dei due Stati, non solo a tentare iniziative congiunte per salvare la pace, ma anche a moltiplicare i contatti “tecnocratici” su tutta una serie di questioni collegate al commercio e al settore fluviale, in considerazione dell’importanza della Mosa che attraversa il Belgio e conclude il suo corso nei Paesi Bassi.

La consapevolezza dell’interdipendenza

Ma fu a Londra, dove si trovava il governo olandese in esilio durante la Seconda guerra mondiale, che l’orientamento della politica estera cambiò decisamente rotta. Una volta scoppiate le ostilità in Estremo Oriente, i Paesi Bassi, che nel 1940 avevano esitato a lanciare nella battaglia il loro impero, si schierarono più risolutamente a fianco degli alleati anglosassoni. Al tempo stesso l’occupazione del paese e il destino aleatorio delle colonie posero i Paesi Bassi di fronte alla necessità imperiosa di riesaminare la loro posizione internazionale ed europea nella prospettiva del dopoguerra. In questo contesto, e in un certo senso perché costretti dalle prospettive a lungo termine suscitate dalle circostanze contingenti, i Paesi Bassi aggiornarono, rafforzandole, le aperture avviate negli anni Trenta dal loro governo.

Scoprendo meglio, come il Belgio, che cosa significhi l’interdipendenza, i Paesi Bassi si impegnarono con i vicini del Belgio e del Granducato (v. Lussemburgo) in un percorso di cooperazione triangolare che darà origine al Benelux.

Atlantismo e preferenza inglese.

Nel 1945-1946 il governo olandese, che non desiderava il ritorno a una politica di indipendenza e di rigida neutralità come nell’anteguerra, auspicò la conclusione, sotto l’egida inglese, di un’intesa occidentale che ottenesse il consenso e, se possibile, la partecipazione degli Stati Uniti. Tuttavia, finché questa speranza restò irrealizzata, i Paesi Bassi ritenevano che la sicurezza collettiva dovesse essere assicurata nel quadro dell’ONU. Sebbene non nutrissero illusioni sulla politica dell’URSS, i ministri olandesi degli Esteri, Van Kleffens e poi Van Roijen, temendo il rimpatrio delle truppe americane nel loro paese, assunsero un atteggiamento particolarmente prudente ispirato, fino alla fine del 1947, dalla posizione di Washington, secondo la quale un cambiamento di rotta non doveva intervenire prima che un avvicinamento con Mosca non fosse fallito definitivamente.

Essendo meno preoccupati del Belgio di organizzare la loro sicurezza secondo un’architettura a tre livelli, i Paesi Bassi ritenevano anche che la collaborazione effettiva tra Londra e Parigi fosse un’illusione. E che l’idea cara a Paul-Henri Spaak di un avvicinamento privilegiato fra Inghilterra e Belgio fosse irrealistica.

I Paesi Bassi erano convinti che la loro sicurezza fosse dovuta agli Stati Uniti, mentre la Gran Bretagna era considerata il perno della cooperazione economica in Europa, essendo un partner commerciale importante; non senza ragione era vista come la porta del mondo atlantico e rappresentava il contrappeso alla Francia. Ma la delusione era alle porte. Come i suoi partner del Benelux, i Paesi Bassi dovettero arrendersi all’evidenza. I britannici, valutando l’importanza delle loro relazioni economiche con il Commonwealth e gli Stati Uniti, non desideravano affatto giocare la carta della cooperazione regionale europea.

L’atteggiamento di Londra ebbe tre conseguenze per i Paesi Bassi. La prima fu il consolidamento dei legami con il Belgio. La seconda fu il rafforzamento dell’opposizione alle ambizioni francesi di giocare un ruolo di primo piano a livello regionale. La terza fu l’adozione di un atteggiamento che si può definire attendista (v. Brouwer, 1997), oscillando fra cooperazione regionale e cooperazione su scala mondiale nel quadro delle Nazioni Unite, in cui gli Stati Uniti dovevano avere un ruolo preminente. In questo senso la posizione olandese era più atlantista che europea, ma le due opzioni non si escludevano reciprocamente.

Verso la cooperazione regionale europea

L’avvicinamento fra Londra e Parigi, sancito dal Trattato di Dunkerque (4 marzo 1947), rilanciò l’ipotesi di un’alleanza occidentale. Prudenti, i Paesi Bassi erano anche molto sensibili all’atteggiamento negativo di Washington nei confronti delle intese regionali. Al contrario di Spaak, che dal fronte belga preconizzava una serie di patti di assistenza bilaterali, il governo olandese mantenne la sua preferenza per una politica di sicurezza collettiva nel quadro dell’ONU, non senza considerare, al punto da mettere in dubbio il principio stesso del Benelux, che il Belgio aveva tradito lo spirito di cooperazione fra i due paesi e rischiava di trascinarli nell’orbita della Francia.

Diffidenti nei confronti della politica belga, i Paesi Bassi erano comunque indotti a rivedere le loro posizioni complessive una volta consumato il fallimento della conferenza anglo-franco-russa sul Piano Marshall. Questa revisione li portò a svolgere un ruolo attivo nel processo che condusse al Trattato di Bruxelles del 1948.

L’aggravarsi delle tensioni causate dalla Guerra fredda, avendo incoraggiato la crescita dell’impegno americano nell’Europa occidentale, ridimensionò il ruolo della Gran Bretagna e della Francia. In questo contesto l’Aia e i suoi partner del Benelux potevano far sentire meglio la loro voce. Ne conseguì una concezione quasi identica all’Aia e a Bruxelles in merito a un blocco occidentale sotto la direzione degli Stati Uniti, con la prospettiva di una ripresa della Germania occidentale e la partecipazione britannica ai negoziati sul Piano Marshall.

Badando sempre, con determinazione, a mantenere le distanze con Parigi, e quindi cercando di sostituire l’Inghilterra con un altro protagonista capace di assicurare un indispensabile contrappeso all’influenza francese nel quadro di una cooperazione regionale europea, i Paesi Bassi, malgrado la costituzione dell’unione occidentale con la Gran Bretagna (marzo 1948) (v. anche Unione dell’Europa occidentale), ritenevano che la partecipazione tedesca fosse diventata una condizione essenziale dell’accordo economico.

Malgrado queste convergenze, le posizioni dell’Aia e di Bruxelles potevano divergere, come dimostrano le prese di posizione differenti in merito al Consiglio d’Europa e al Piano Schuman. In altre parole, se le due capitali, senza dimenticare il Lussemburgo, riuscirono fra il 1948 e il 1950 a creare un “mito Benelux” che fu loro utile per molto tempo, esistevano anche ì problemi, spesso considerevoli, che segnarono il breve, medio e lungo termine.

Se l’Aia sul piano politico non poteva permettersi, in fin dei conti, di non aderire al Piano Schuman (v. Griffiths, 1990), è significativo osservare che nel giugno 1950 il ministro Stikker, molto influenzato da Washington, presentava davanti al consiglio dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) un «piano d’azione per l’integrazione economica dell’Europa». Il suo obiettivo era quello della liberalizzazione degli scambi per settori economici come tappa indispensabile prima della creazione di un mercato comune, confermando così il carattere vitale della liberalizzazione del commercio per i Paesi Bassi e, al tempo stesso, la diminuzione della cooperazione politica fra i paesi del Benelux poiché i Paesi Bassi avevano agito senza concertazione con i partner. La stessa osservazione vale per i negoziati del trattato che istituiva la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA).

Comunque, in generale, l’adesione olandese alla CECA indicava che nel complesso i paesi del Benelux accettavano la cooperazione in una “piccola Europa” che si dimostrò il solo comune denominatore possibile (v. Griffiths, Lynch, 1989), ma l’accettarono unicamente perché la Germania ormai poteva svolgere quel ruolo di contrappeso che avevano sognato di assegnare all’Inghilterra.

Quale cooperazione?

Il modo in cui i Paesi Bassi accolsero il progetto di Comunità europea di difesa (CED) indicava che, ai loro occhi, la costruzione o integrazione europea doveva essere limitata alle questioni economiche e commerciali (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Il settore politico e a fortiori quello della difesa dovevano restare prerogative nazionali. Di conseguenza l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), la cui cooperazione era in larga misura intergovernativa e non richiedeva quindi grandi sacrifici in materia di sovranità, fu privilegiata rispetto ai progetti di difesa europea integrata (v. Harryvan, van der Harst, 2000). Opponendosi energicamente alla Francia durante i negoziati e guadagnando alla causa anche i partner del Benelux, i Paesi Bassi furono tuttavia i primi a ratificare il trattato (La Tweede Kamer o Camera bassa nel marzo 1953; la Eerste Kamer o Chambre alta nel gennaio 1954).

I motivi di questo ribaltamento della situazione mentre la disputa sulla CED divideva la Francia, consente di mettere in luce alcuni elementi interessanti. Sul piano congiunturale, occorre presi in considerazione gli incoraggiamenti profusi dalla nuova amministrazione americana ai Sei e la sostituzione al ministero degli Esteri dell’atlantista Stikker con Johan Willem Beyen, fervente difensore della causa europea (settembre 1952). Lo stesso dicasi per la manovra politica, oggi giudicata machiavellica, consistente nel proporsi senza fatica come modello della classe europea nella convinzione che in ogni caso la CED era condannata in Francia, la sua promotrice. Sul piano strutturale, il voto nelle due Camere olandesi indicava che una parte significativa dei parlamentari difendeva le posizioni federaliste e stigmatizzava regolarmente il governo per il suo attendismo o la sua diffidenza nei confronti della costruzione europea (v. Federalismo).

Il fallimento della CED offrì al governo olandese, e in particolare a Beyen, ma anche a personalità come Sicco Mansholt (Agricultura) e Jelle Zijlstra (Economia), l’occasione di dimostrare le loro capacità in materia economica e, ancora di più commerciale. A questo proposito il ruolo dei Paesi Bassi, e del Benelux, nel rilancio del processo di Messina è noto. (v. Serra, 1989, pp. 172-174) (v. Conferenza di Messina).

I lavori del comitato Spaak, poi i negoziati di Val Duchesse, dovevano tuttavia provocare tra gli olandesi non poche disillusioni. Pochissimo interessati al trattato che istituiva la Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom), lo erano invece fortemente a quello che istituiva la Comunità economica europea (CEE). Ma il governo olandese lo firmò di malavoglia, rassegnandosi, come sottolinea Joseph Luns nel gennaio 1957, a dover scegliere fra un cattivo trattato e l’assenza di un trattato. Per i Paesi Bassi il trattato CEE non andava bene perché non raggiungeva tutti i loro obiettivi in materia agricola (v. Politica agricola comune), di tariffa esterna (superiore alle loro attese), di Politica comune dei trasporti e di Associazione dei Paesi d’Oltremare (v. Regioni ultraperiferiche dell’Unione europea), in merito ai quali ritenevano che non dovessero far parte delle priorità. Inoltre, l’armonizzazione sociale era giudicata controproducente per il rialzo dei prezzi che avrebbe provocato; inoltre il trasferimento di competenze, in origine affidate alla Commissione europea, verso il Consiglio dei ministri avrebbe comportato, a causa della procedura di voto, un indebolimento della difesa degli interessi olandesi (v. Griffiths, Asbeek Brusse, 1989, pp. 492-493).

I Paesi Bassi, entrando nella CEE, aderirono a una «associazione protezionista relativamente piccola», come dichiarò il primo ministro Drees in una riunione del gabinetto olandese nell’aprile 1957. Di fatto, la tentazione dell’Oceano restava potente.

Negli anni Sessanta, la politica dei Paesi Bassi fu segnata sia dall’ansia di vedere l’adesione della Gran Bretagna alla Comunità sia dalla diffidenza verso la Francia. La politica di sviluppo portata avanti dalla Commissione sotto l’influenza di Parigi ebbe l’effetto di esasperare l’Aia, che non solo la considerava costosa, ma anche rivolta esclusivamente all’Africa francofona. A questo proposito i Paesi Bassi ritenevano che, come in altri ambiti, l’adesione britannica fosse una vittoria perché allargava gli orizzonti contrastando al tempo stesso gli obiettivi francesi.

In ogni caso gli anni Sessanta furono il periodo in cui il coinvolgimento della società olandese nelle questioni internazionali aumentò notevolmente, soprattutto in seguito all’intervento americano in Vietnam. Allo stesso tempo il governo olandese, ben lungi dall’appoggiare Washington senza condizioni, prese per certi versi le distanze dagli Stati Uniti e il ministro degli Esteri Joseph Luns lanciò un’iniziativa di pace nel 1968 e poi nel 1970 (v. van der Maar, 2007).

Fu in questo contesto, caratterizzato dalle relazioni con Londra, Parigi e Washington, che, dal 1958 al 1973, cioè nel periodo dall’effettiva messa in opera della CEE fino al primo allargamento, i Paesi Bassi favorirono l’elaborazione di una Politica agricola comune (PAC) il cui principale artefice, a Bruxelles, fu il commissario europeo Sicco Mansholt. Per i Paesi Bassi, che avevano l’agricoltura più competitiva della CEE e contendevano alla Francia il secondo posto fra i paesi esportatori di prodotti agricoli, dopo gli Stati Uniti, la posta in gioco era fondamentale.

Negli anni Cinquanta la politica dei Paesi Bassi mirava a colmare le disparità di sviluppo tra regioni costiere ricche e regioni interne più povere, per utilizzare pienamente le risorse agricole caratterizzate da strutture a gestione familiare di dimensioni generalmente modeste. Avendo scelto, alla fine del XIX secolo, di mantenere verso e contro tutti il libero scambio, lo Stato svolse un ruolo trainante sia in materia di ricerca e di insegnamento sia nel settore del credito, anche nella prospettiva di facilitare l’accesso al prestito fondiario. Fra il 1950 e la metà degli anni Ottanta la politica agricola olandese, particolarmente originale nell’Europa del nordovest, usò strumenti differenti e «si caratterizzò per la grande coerenza, con una ripartizione armoniosa dei finanziamenti tra la ricerca, l’insegnamento e la divulgazione agricola, la modernizzazione delle coltivazioni, la ristrutturazione dello spazio rurale e il sostegno all’agro-industria» (v. Devienne, 1989).

Questa originalità della politica si accompagnò alla creazione di strutture istituzionali (rappresentanza paritaria delle organizzazioni dei coltivatori diretti e dei salariati agricoli; organizzazione della rappresentanza paritaria dei diversi operatori secondo la filiera dei prodotti; “fondazioni” incaricate dell’applicazione delle misure relative alla politica agricola). Molto sindacalizzato (l’80% dei coltivatori), il mondo agricolo olandese era un settore che pesava non solo economicamente ma anche politicamente nella società olandese e nelle sue scelte, in particolare europee. Dato che sul piano interno il governo olandese adottò una politica decisionista e innovativa, si attendeva dai partner europei un atteggiamento altrettanto risoluto.

I Paesi Bassi speravano di veder adottare dai Sei misure dirette alla riduzione degli squilibri regionali di sviluppo agricolo analoghe a quelle adottate sul piano nazionale: politica dei prezzi differenziati a livello regionale, limitazione della produzione avicola, sostegno alle imprese più piccole per permettere loro di compensare l’handicap di dimensione, ristrutturazione integrale dello spazio rurale (v. Molegraaf, 1999). A queste misure degli anni Cinquanta e Sessanta si aggiunsero poi gli aiuti all’investimento differenziato a livello regionale, come pure l’intervento dei pubblici poteri sul mercato fondiario, in attesa dello sviluppo, a partire dal 1970, di un vero apparato di ricerca-sviluppo.

Per vedere affermarsi la loro concezione della politica agricola comune, e più in generale del Mercato comune, i Paesi Bassi si presentarono in quest’ambito come i campioni della sovranazionalità, giudicata indispensabile per proteggere i piccoli contro i grandi paesi. Fautori del rafforzamento del ruolo della Commissione e del voto a Maggioranza qualificata nel Consiglio, si opposero ai progetti intergovernativi e accettarono con riluttanza la riunione del Consiglio europeo a partire dal 1974. Ma fedeli al principio secondo cui le questioni politiche e di difesa dipendono essenzialmente dagli Stati, mostrarono uno scarso entusiasmo per la cooperazione politica lanciata negli anni Settanta.

Soluzione di continuità intorno al 1990

La continuità che si osserva nelle posizioni olandesi subì un cambiamento alla fine degli anni Ottanta e più ancora all’inizio del decennio successivo. Sembra che a partire da questo periodo i Paesi Bassi si siano allontanati dall’Europa storica di cui avevano fatto parte fin dalle origini.

Ritenendo che la NATO restasse la pietra angolare della politica di sicurezza, i Paesi Bassi si mostrarono particolarmente riluttanti nel seguire le iniziative dirette all’elaborazione di un’identità europea in materia di difesa (v. anche Politica estera e di sicurezza comune; Politica europea di sicurezza e difesa). In effetti, si insistette su iniziative e su principi più ampi. Così, i Paesi Bassi ritennero indispensabile il rafforzamento del ruolo dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, creata nel 1995, in particolare nell’ambito della prevenzione dei conflitti, del mantenimento della pace e dei Diritti dell’uomo. Di qui l’accento posto sulle relazioni non solo con gli Stati Uniti, ma anche con i paesi dell’Europa centrale e orientale, la cui transizione verso l’economia di mercato, soprattutto nel settore agricolo, destò molta attenzione.

L’allargamento considerevole del raggio della politica estera dei Paesi Bassi testimonia una grande sensibilità verso la globalizzazione, della quale possiedono una cultura dovuta alla loro storia. Al tempo stesso la globalizzazione ha portato a una crisi d’identità della società olandese, che ha dato l’impressione di ripiegarsi su se stessa. Di qui il paradosso: volendo essere campioni della democrazia e dei diritti dell’uomo, desiderando promuovere l’ordine giuridico mondiale e operare per lo sviluppo del diritto internazionale pubblico, i Paesi Bassi, la cui capitale ospita la sede della Corte internazionale di giustizia, della Corte permanente di arbitrato, del Tribunale penale internazionale per l’ex Iugoslavia, dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche e della Corte penale internazionale, sono stati anche protagonisti di un rifiuto dell’altro che in diverse circostanze ha assunto proporzioni allarmanti.

Tuttavia, malgrado le reticenze in materia di sovranazionalità non economica, i Paesi Bassi, durante la loro presidenza nel secondo semestre del 1991 (v. anche Presidenza dell’Unione europea), proposero (30 settembre) un’unione politica che includesse una politica estera e di sicurezza comune integrate, invece di inserirle in pilastri intergovernativi separati (v. Pilastri dell’Unione europea). Sostenuto solo dal Belgio e dalla Commissione, il progetto olandese fu una Waterloo diplomatica non priva di conseguenze. Riesumando lo schema lussemburghese dei tre pilastri, adottato alla fine a Maastricht (v. Trattata di Maastricht), l’Aia andava allontanandosi più che mai dall’Europa politica, e ciò tanto più che a livello del Mercato comune l’Unione economica e monetaria costituiva il punto d’approdo di un programma formulato agli inizi degli anni Cinquanta. Se da un lato si schierarono a fianco della Germania per esigere il rispetto della disciplina finanziaria dopo il passaggio alla moneta unica e difendendo il principio dell’indipendenza della Banca centrale europea, i Paesi consideravano invece una “chimera” il progetto di federazione europea del ministro tedesco degli Esteri Joschka Fischer (maggio 2000).

Il divario fra obiettivi politici generalmente respinti e obiettivi economici considerati raggiunti non è tuttavia l’unico fattore che spiega il disincanto e poi la disaffezione dei Paesi Bassi nei confronti della costruzione europea. A varie riprese, fra il 1996 e il 2004, i Paesi Bassi si sono sentiti esasperati dalla politica e dall’atteggiamento della Francia. Dalle pretese francesi in materia di lotta contro la droga comportanti la richiesta di revisione della legislazione olandese, giudicata troppo permissiva (1996), al ritardo registrato fra la designazione e la nomina effettiva di Wim Duisenberg a capo della Banca centrale europea (1996-1998), la tensione fra Parigi e l’Aia è stata costante, come dimostra anche l’irritazione dell’Aia di fronte alla violazione del patto di stabilità da parte della Francia e anche della Germania (2003-2004). Agli occhi dell’Aia, esistono due pesi e due misure, a seconda che si tratti di un piccolo o di un grande paese.

Il relativo nervosismo della diplomazia olandese nel settore degli affari europei si accompagnò alla scomparsa del consenso che esisteva da lustri all’interno del Parlamento dell’Aia e a un’evoluzione in seno all’opinione pubblica. Quest’ultima era disorientata dall’ampiezza dell’allargamento, che suscitava un sentimento di diffidenza e poi di rifiuto nei confronti di un processo che era percepito, secondo l’espressione del ministro Frans Timmermans, come un «allargamento big bang», perché andava troppo in fretta e troppo lontano. Il timore di perdere la propria identità in un’Europa “senza frontiere”, fino alla prospettiva di includere la Turchia, l’impressione ricavata da un passato recente che i grandi paesi dettino le loro leggi ai piccoli, gli effetti reali o presunti dell’introduzione dell’euro sul costo della vita, sono altrettanti fattori che spiegano l’esito referendum costituzionale del 1° giugno 2005, che può interpretato come una sanzione diretta più alle élites politiche del paese che all’idea europea in quanto tale (v. Dekker, 2005).

Tre giorni dopo il “no” francese, quello del 61,5% degli elettori olandesi (1° giugno 2005) partecipanti al voto (63% del corpo elettorale) segnò la fine del progetto di trattato costituzionale.

In seguito a questo terremoto, che rivelava il profondo smarrimento della società e della classe politica olandesi, bisogna aspettare la formazione del quarto governo Balkenhende, nel febbraio 2007, per assistere a un aggiornamento della posizione dei Paesi Bassi sul dossier europeo.

Il governo di grande coalizione uscito dalle elezioni del novembre 2006 affermava nel suo programma la volontà di «partecipazione attiva» dei Paesi Bassi alle istituzioni europee. Il Principio di sussidiarietà era considerato una priorità per l’Unione europea, e si auspicava uno sviluppo della cooperazione europea in settori quali l’energia, la politica dell’immigrazione, la Lotta contro il terrorismo e la criminalità, la politica estera.

Lasciando al Consiglio di Stato la decisione su un eventuale nuovo referendum sul progetto di trattato, il governo olandese riteneva che le modifiche da introdurre nel testo originario dovessero prevedere cambiamenti nel contenuto, nell’ampiezza e nella denominazione.

La ratifica del Trattato di Lisbona da parte del Parlamento olandese avvenne nel 2008, dopo che il Consiglio di Stato stabilì che il progetto, non avendo portata costituzionale, non doveva essere sottoposto agli elettori.

Elementi della tradizione e dati nuovi si mescolano attualmente come se i Paesi Bassi fossero in cerca di una politica nuova diretta all’articolazione fra spazio europeo e multilateralismo.

Quello che potrebbe costituire un ritorno dei Paesi Bassi in Europa sembra legato al placarsi dei dibattiti sull’immigrazione, l’identità e l’islamofobia, ma anche a un ritorno di equilibrio.

Michel Dumoulin (2009)




Paesi candidati all’adesione

In base dell’articolo 49 del trattato sull’Unione europea (v. anche Trattato di Maastricht), ciascun paese europeo che soddisfi i principi sanciti all’articolo 6(1), ovvero il rispetto della libertà, dei Diritti dell’uomo, della democrazia e dello stato di diritto, può chiedere di diventare membro dell’Unione europea. La domanda di Adesione deve essere presentata al Consiglio europeo, che, pronunciandosi all’unanimità (v. Voto all’unanimità) previa consultazione della Commissione europea e parere conforme (v. Procedura di parere conforme) del Parlamento europeo, deciderà se attribuire al paese lo status di candidato e avviare quindi negoziati formali di adesione. Essi sfociano infine in un Accordo o Trattato, che stabilisce le condizioni di adesione e gli adeguamenti da apportare ai Trattati vigenti e alle Istituzioni comunitarie e che entrerà in vigore solo dopo la ratifica di tutti gli Stati membri e dei paesi aderenti.

Al paese cui viene riconosciuto lo status di candidato è tuttavia richiesto di soddisfare alcuni criteri fondamentali prima di avviare i negoziati. Si tratta dei criteri definiti dal Consiglio europeo di Copenaghen (1993): stabilità delle istituzioni democratiche, Stato di diritto e rispetto dei diritti umani e delle minoranze; esistenza di una valida economia di mercato; capacità di assumere pienamente gli obblighi di membro derivanti dalle politiche dell’UE e dal Diritto comunitario (il cosiddetto Recepimento dell’acquis comunitario), compresi gli obiettivi dell’unione politica, economica e monetaria (v. Unione economica e monetaria). Nel 1995 il Consiglio europeo di Madrid ha inoltre ribadito la necessità che il paese candidato sia in grado di applicare la normativa comunitaria mediante adeguate strutture amministrative e giudiziarie. Dopo la decisione unanime del Consiglio di stabilire un mandato negoziale, si aprono le trattative, condotte bilateralmente con ciascun candidato e incentrate sulla definizione delle misure necessarie affinché il paese candidato raggiunga la piena capacità di rispettare tutti gli obblighi inerenti all’adesione, sulla determinazione dei tempi e delle modalità di adattamento e sull’assistenza finanziaria. Le trattative assumono la forma di conferenze intergovernative bilaterali, a livello di ministri o di ambasciatori, e si basano sulla suddivisione dell’acquis in 35 capitoli tematici: per ciascuno di essi la Commissione esamina il livello di partenza del candidato (screening), indica eventuali parametri di riferimento per l’apertura del capitolo, fissa i criteri di riferimento (benchmarks) da raggiungere per la chiusura del capitolo e monitora costantemente i risultati raggiunti informandone il Consiglio e il Parlamento europei. Durante tutto il processo il Consiglio decide all’unanimità sull’apertura e chiusura dei capitoli.

La procedura prevista dall’articolo 49 rimarrà sostanzialmente invariata anche con l’entrata in vigore del Tratto di Lisbona: si prevede inoltre l’obbligo di informare i parlamenti nazionali e il Parlamento europeo di ogni domanda di adesione e di tener conto dei criteri di ammissibilità convenuti dal Consiglio europeo.

Sono tre al momento i paesi candidati all’adesione: Croazia, Turchia ed ex Repubblica iugoslava di Macedonia. Tutti gli altri paesi dei Balcani occidentali (Albania, Bosnia-Erzegovina, Serbia e Kosovo ai sensi della risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’ONU) sono considerato “candidati potenziali” e con essi è stato avviato un “processo di stabilizzazione e Associazione” teso ad avvicinarli progressivamente all’UE con la prospettiva di futura adesione.

La Croazia ha inoltrato la propria candidatura il 21 febbraio 2003 e ha ricevuto lo status di paese candidato nel giugno 2004, ma l’avvio dei negoziati di adesione si è avuto solo il 3 ottobre 2005, dopo soddisfacimento della condizione di piena collaborazione con il Tribunale penale internazionale per l’ex Iugoslavia. Nel corso del 2008 il processo di adesione ha ripreso nuovo slancio, dopo la decisione del Parlamento croato di sospendere l’applicazione della Zona ecologica e di pesca protetta in Adriatico (ZERP), che era stata stabilita il 1° gennaio 2008 venendo meno all’accordo fra Italia, Croazia, Slovenia e Commissione. A questo punto – salvo il sopravvenire di ulteriori difficoltà, in particolare sul capitolo pesca che sembra essere il più delicato – si attende la definizione di un calendario “accelerato”, che potrebbe portare alla conclusione del processo negoziale entro il 2009 e all’adesione nel 2011.

La Turchia, associata dal 1964 alle Comunità, ha presentato la domanda di adesione nel 1987, ma solo nel dicembre 1999 è stata ufficialmente riconosciuta come paese candidato. Nel frattempo nel 1995 è stata creata un’unione doganale tra Turchia e Unione europea. I negoziati di adesione sono stati avviati il 3 ottobre 2005.

La prospettiva europea della Turchia continua a essere caratterizzata dalla contrapposizione fra i paesi sostenitori del processo di adesione di Ankara (in particolare Regno Unito, Italia, Svezia, Spagna, Finlandia, Polonia ed Estonia) e la posizione contraria della Francia, che mantiene una riserva politica sui cinque capitoli negoziali, in quanto considerati direttamente legati alla prospettiva di adesione. D’altra parte la stessa Commissione ritiene che, malgrado alcuni recenti sviluppi positivi (quali la legge sulle fondazioni e la modifica dell’art. 301 del codice penale sui reati di opinione) il governo turco – forse troppo concentrato sui problemi di politica interna e sul riacuirsi dello scontro tra laici e religiosi – non abbia ancora mostrato la necessaria determinazione nel perseguimento delle riforme richieste. Il negoziato di adesione della Turchia continua pertanto a essere fortemente condizionato: non solo dallo scenario europeo (atteggiamento della Francia) e dalle incertezze della situazione interna turca, ma anche dalla questione turco-cipriota e dal mancato adempimento turco con riguardo all’applicazione del Protocollo di Ankara sull’estensione dell’unione doganale a Cipro (che ha portato nel dicembre 2006 al congelamento di otto capitoli negoziali).

L’ex Repubblica iugoslava di Macedonia (Former Yugoslav Republic of Macedonia, FYROM) ha inoltrato la propria candidatura il 22 marzo 2004 e ha ottenuto lo status di paese candidato nel dicembre 2005, ma i negoziati non sono stati ancora avviati a causa dei mancati progressi nelle riforme e nel perseguimento dei criteri di Copenaghen (v. Criteri di adesione). A rendere il quadro ancora più incerto è poi l’ancora irrisolta controversia con la Grecia sulla questione del nome.

I paesi aventi status di candidato sono associati ai lavori dell’UE e partecipano ai programmi, agenzie e comitati, sia pure generalmente come osservatori e senza diritto di voto. Per assisterli nella transizione e nel perseguimento delle riforme necessarie, l’Unione europea stanzia appositi fondi. Per il periodo finanziario 2007-2013 lo strumento di preadesione (Instrument for pre-accesion assistance, IPA) prevede uno stanziamento finanziario complessivo di 11,565 miliardi di euro a favore dei paesi candidati e potenziali candidati. L’IPA – in cui sono confluiti i vecchi programmi di preadesione quali Poland and Hungary: Action for the restructuring of the economy (PHARE), Special accession program for agriculture and rural development (SAPARD), Instrument for structural policies for pre-accession (ISPA) e Community assistance for reconstruction, development and stabilisation (CARDS) – è uno strumento pluriennale flessibile che fornisce un aiuto variabile a seconda dei progressi compiuti dai beneficiari e delle loro esigenze, quali risultano dalle valutazioni e dai documenti di strategia annuali preparati dalla Commissione. L’IPA è suddiviso in cinque componenti, ovvero settori di intervento: “assistenza alla transizione e rafforzamento delle istituzioni”, “cooperazione transfrontaliera”, “sviluppo regionale”, “sviluppo delle risorse umane” e “sviluppo rurale” (gli ultimi tre destinati esclusivamente ai paesi candidati in quanto volti a prepararli all’attuazione della politica di coesione e all’utilizzo dei fondi strutturali). Un ruolo importante nell’assistenza finanziaria di preadesione è inoltre svolto, sul fronte dei prestiti, dalla Banca europea per gli investimenti (BEI).

Elisabetta Holsztejn Tarczewski (2008)




Palliser, Arthur Michael

P. (Reigate, Surrey 1922-2012), dopo aver studiato al Wellington College, partecipò alla Seconda guerra mondiale nei ranghi delle Coldstream guards. Nel 1947 entrò nel Servizio diplomatico britannico occupando le cariche di primo segretario a Parigi (1956), primo segretario e capo di consolato a Dakar (1960), consigliere presso l’Imperial defence college (1963), direttore del Policy planning staff (1964), segretario particolare del primo ministro (1966), ambasciatore a Parigi (1969), capo della delegazione britannica alla Comunità europea (CE) (1971), rappresentante permanente del Regno Unito a Bruxelles (1973) e sottosegretario di Stato permanente (1975).

Giovane funzionario degli Affari esteri subito dopo la Seconda guerra mondiale, P. assistette sconfortato al rifiuto dei leader britannici di partecipare al processo di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). A suo avviso la Comunità economica europea (CEE) non era in contrasto con gli interessi del paese, anzi rappresentava una strada non solo per la ripresa economica, ma anche per la sicurezza della regione. Il mercato comune era il primo e indispensabile passo verso una politica economica comune, una moneta unica e un ruolo politico efficace sullo scacchiere internazionale.

La sua profonda conoscenza della politica e dei politici francesi lo rese un attore importante nel terzo tentativo del Regno Unito di aderire alla CEE. Svolse anche la funzione di traduttore per il primo ministro Harold Wilson durante la rinegoziazione delle condizioni di adesione britanniche alla Comunità del 1975, i cui risultati, a suo avviso, furono modesti e limitati all’ambito del bilancio.

Dal 1975 al 1982 rivestì la carica di sottosegretario di Stato permanente e capo del servizio diplomatico britannico. Lo scenario geopolitico di quel periodo richiese al Foreign office di intervenire in varie questioni, quali la partecipazione britannica alla Comunità europea e gli sforzi per mantenere la sua influenza sul coordinamento delle politiche, le fondamentali relazioni con gli Stati Uniti, l’attento follow-up della politica sovietica sotto Brežnev e l’affermazione del Giappone come importante attore sulla scena internazionale.

L’arrivo di Margaret Thatcher nel 1979 rappresentò un momento difficile per P. Sebbene il primo ministro tenesse in considerazione le opinioni dei più alti funzionari del servizio diplomatico, riteneva il Foreign & commonwealth office (FCO) disfattista e poco impegnato a promuovere gli interessi britannici rispetto al resto dell’establishment.

Non meno importante fu l’invasione delle Falkland da parte dell’Argentina, che avvenne lo stesso giorno in cui P. sarebbe dovuto andare in pensione. Nonostante la scarsa opinione della Thatcher in merito allo staff dell’FCO, il primo ministro gli chiese di diventare suo Consigliere speciale durante la campagna.

Nel 1983 P. fu nominato membro del Consiglio della Corona (Privy Council) svolgendo fino al 1996 anche incarichi direttivi nel settore privato, come quello presso la banca di investimenti di Londra Samuel Montagu & Co. Ltd.

Successivamente impegnò a contrastare sia il presunto euroscetticismo dei britannici che la scarsa obiettività mostrata dai media britannici sul tema degli affari comunitari. Partecipò a “Citizens for Europe”, un gruppo che si proponeva di promuovere il dibattito sugli sviluppi politici dell’Unione europea (UE) nel Regno Unito.

P. svolse ruolo cruciale nell’adesione britannica alla CE nonché nella complessa relazione tra gli affari interni e comunitari.

Dopo aver lasciato la diplomazia, divenne vicepresidente del Consiglio direttivo del Salzburg Seminar, un’organizzazione non-governativa indipendente creata per affrontare problemi di rilevanza globale attraverso analisi e dibattiti cui partecipano accademici e leader politici provenienti da varie regioni e aeree di competenza.

È autore del libro Britain and British Diplomacy in a World of Change (1975).

Tatiana Martins Pedro do Coutto (2012)




Palme, Olof

Il politico svedese più in vista del Novecento a livello internazionale, P. (Stoccolma 1927-ivi 1986), figlio di un dirigente in una società di assicurazioni e discendente per parte di madre dalla nobiltà tedesco-lettone fu educato da istitutori privati e in seguito si iscrisse alla prestigiosa Sigtuna Läroverk, dove completò gli studi secondari diplomandosi nel 1944. Concluso il servizio militare, studiò scienze politiche al Kenyon College in Ohio (Stati Uniti), dove si laureò in lettere, e poi legge all’Università di Stoccolma, dove si laureò nel 1951. Nello stesso anno aderì all’Associazione studentesca socialdemocratica e in seguito fu eletto presidente dell’Unione nazionale studentesca svedese.

Nel 1953 il primo ministro Tage Erlander lo nominò suo segretario personale, un incarico che P. mantenne accanto alla sua posizione nella Lega della gioventù socialdemocratica fino al 1963, quando divenne ministro senza portafoglio. Il ruolo di segretario personale del primo ministro comportava anche la stesura di discorsi e la collaborazione fra i due politici si fece molto stretta. Nel 1965 P. fu nominato ministro dei Trasporti e in seguito, nel 1967, divenne ministro dell’Istruzione, carica in cui si confrontò con il crescente radicalismo del movimento studentesco. Nel 1969 successe a Erlander sia come leader del partito che come primo ministro. Dopo un periodo come leader dell’opposizione fra il 1976 e il 1982, divenne di nuovo primo ministro dal 1982 fino al suo assassinio nel febbraio 1986.

Le convinzioni ideologiche di P. erano fondate su concetti come l’anticolonialismo, l’anticomunismo e le politiche del New Deal, si inserivano coerentemente in ciò che viene classificato come socialismo democratico, una versione più radicale della socialdemocrazia, in cui la democrazia politica deve essere integrata dalla democrazia sociale ed economica. P. poneva l’accento con forza sulla terza via, vale a dire la socialdemocrazia come un’alternativa al comunismo e al capitalismo. Solidarietà, democrazia e senso della comunità erano i principi guida sia nelle politiche interne che in quelle internazionali.

Nelle politiche interne P. promosso promosse l’espansione del welfare State, con lo Stato che si assumeva crescenti responsabilità, per esempio nei settori dell’assistenza all’infanzia e dell’occupazione. Inoltre era un convinto sostenitore del potere dei sindacati, che vide come alleati cruciali nel perseguimento della crescente sicurezza dell’occupazione e di un ambiente di lavoro migliore. Il neoliberalismo era il suo principale avversario ideologico e P. si batteva in favore di un welfare State generalizzato in cui lo Stato doveva essere il fornitore esclusivo di istruzione, assistenza all’infanzia, salute.

La fama internazionale di P. dipendeva, comunque, innanzitutto dal suo impegno nella politica internazionale e nella sua posizione di organizzatore della dinamica politica estera della Svezia. I fondamenti della politica estera svedese nel dopoguerra andavano individuati nella politica di neutralità, nella difesa fondamentale della sovranità e del diritto internazionale e nel principio di solidarietà. Con P. la politica estera svedese si trasformò, in particolare nella forma; naturalmente ciò non fu frutto solo dell’iniziativa di P., ma palesemente fu lui a imprimerle grande slancio e a imporre un modello che poi sarà seguito per decenni.

Come primo ministro P. dedicò notevoli sforzi a coltivare le relazioni internazionali e spesso “scavalcò” il ministero degli Affari esteri per portare avanti la sua forma di diplomazia aperta. L’enfasi posta sui valori centrali dei paesi di piccole dimensioni, ossia sovranità e autodeterminazione nazionale, fecero sì che la Svezia rappresentasse una voce critica ogni volta che questi valori erano minacciati. Questa forma di critica attiva si avvertì al massimo durante la guerra del Vietnam, che P. vedeva come un attacco ai valori fondamentali della politica internazionale. La politica della Svezia consistette, fra l’altro, nel dare aiuto al Vietnam del Nord e nel dar voce alle critiche sulla conduzione della guerra. Le critiche alla guerra da parte di P. raggiunsero il culmine all’epoca del bombardamento di Hanoi nel Natale del 1972: lo condannò con un linguaggio estremamente duro, confrontandolo con le atrocità commesse dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale. L’effetto immediato di questa condanna fu che le relazioni diplomatiche fra gli Stati Uniti e la Svezia furono congelate per quindici mesi e rimasero fredde anche negli anni successivi. Oltre al forte coinvolgimento nel movimento per il Vietnam P. spese molte energie per promuovere le cause del Terzo mondo, inclusi il diritto all’indipendenza dei paesi colonizzati, il diritto all’autodeterminazione e la lotta alla povertà. La sua attiva opposizione all’apartheid nel Sudafrica e i suoi stretti legami con l’African national congress testimoniano queste convinzioni, come pure i suoi sforzi come mediatore nominato dal segretariato generale delle Nazioni Unite durante la guerra fra Iran e Iraq negli anni Ottanta.

In generale la promozione del disarmo e l’eliminazione degli armamenti nucleari in particolare, furono un’altra manifestazione della politica estera svedese sotto P., che assunse l’iniziativa di creare la Commissione indipendente sul disarmo e la sicurezza, nota anche come Commissione Palme. Il rapporto finale della Commissione, sottoposto all’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1982, sottolineava l’esigenza di sicurezza comune, parlava dei pericoli della guerra nucleare, mettendo anche l’accento sulle conseguenze economiche del traffico d’armi, e presentava proposte concrete per il disarmo. Inoltre P. – assieme al cancelliere tedesco Willy Brandt e al cancelliere austriaco Bruno Kreisky – fu in larga misura responsabile della rinascita dell’Internazionale socialista dai primi anni Settanta in avanti.

Le cause di fondo della singolare decisione svedese di restare fuori dalle Comunità europee (v. Comunità economica europea) possono essere in parte a P. La Svezia era uno dei paesi fondatori dell’Associazione europea di libero scambio (EFTA), che insieme con l’organismo che le succedette, l’European economic area (EEA), sarebbe rimasta il principale pilastro dell’approccio della Svezia all’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), finché nel 1995 il paese non aderì all’Unione europea (UE). In un discorso fondamentale scritto da P. insieme a Erlander, e pronunciato da quest’ultimo nel 1961, si stabiliva che l’Adesione della Svezia non rientrava nel programma politico a causa di ragioni sia interne che di politica estera. Sul piano della politica estera l’adesione era incompatibile con la politica di neutralità portata avanti dalla Svezia, mentre le ragioni interne consideravano l’adesione come una minaccia al modello di welfare State svedese. Questi due livelli di argomentazione avrebbero caratterizzato il dibattito pubblico svedese sulle Comunità nei decenni a venire.

Quando altri paesi aderenti all’EFTA come la Danimarca e il Regno Unito decisero di chiedere di diventare membri delle Comunità nel 1967, la Svezia rinnovò la richiesta per un’intesa di Associazione, sebbene non venisse scartata completamente la possibilità di una piena adesione. Quando Charles de Gaulle si dimise nel 1969, nello stesso anno in cui P. divenne primo ministro, la prospettiva di avviare i negoziati per l’adesione divenne reale, ma P. sottolineò che la prosecuzione della neutralità e del non allineamento svedese erano le condizioni preliminari per le discussioni imminenti. I negoziati con la Svezia non decollarono mai soprattutto perché la Comunità europea aveva associato l’Allargamento a progetti per ampliare la cooperazione nei campi della politica economica e monetaria e della politica estera, secondo quanto prevedevano il Rapporto Werner e il Rapporto Davignon. In particolare quest’ultimo, che imponeva formalmente la Cooperazione politica europea, portò P. a concludere che l’adesione non era un’opzione possibile dal momento che non intendeva mettere alla prova o compromettere la politica di neutralità della Svezia. Ma sembra che abbiano svolto un ruolo anche considerazioni sulla sovranità svedese in rapporto alle politiche interne. Nel resto della sua vita di P. sembrò essersi bloccato su questa valutazione e le posizioni svedesi non furono riconsiderate fino a dopo la sua scomparsa.

P. non fu un politico convenzionale. Pochi dei suoi contemporanei rimasero indifferenti al suo stile, alla sua personalità e alle sue prese di posizione politiche. Era lui a determinare l’agenda politica e gli altri uomini politici svedesi venivano giudicati sul suo modello. Fu un comunicatore vivace e abile e il suo stile oratorio era insolitamente aggressivo per la scena politica svedese. Fu anche detestato da alcuni segmenti della società, come non è accaduto a nessun altro politico svedese moderno, una circostanza che probabilmente era dovuta sia al suo stile che alla sostanza della sua politica, mentre alcuni osservatori hanno attribuito questo astio anche alle sue origini sociali. L’eredità politica di P. è stata offuscata e ridimensionata dal suo assassinio mai chiarito, su cui si sono concentrati molti dei dibattiti successivi. Solo occasionalmente P. viene menzionato nei discorsi pubblici. Tuttavia alcuni aspetti della sua politica, come lo status inviolabile della politica di neutralità, l’ambivalenza perdurante nei confronti dell’integrazione europea, la promozione del welfare State universale, la continua enfasi posta sul diritto internazionale e sul diritto all’autodeterminazione nazionale, hanno continuato ad esercitare un’influenza sulla politica svedese anche dopo la sua morte. E se pure, dall’inizio degli anni Novanta, sono stati compiuti effettivamente dei passi per distanziarsi da questi dogmi della politica svedese, questo nuovo orientamento di rado è interpretato pubblicamente come una riconsiderazione dell’eredità lasciata da P.

Fredrik Langdal (2010)




Pandolfi, Filippo Maria

P. (Bergamo 1927) si è laureato in filosofia all’università Cattolica di Milano. Ha partecipato alla Resistenza e collaborato con il Fronte della gioventù. Il padre era stato esponente locale del Partito popolare e per questo, oltre che per la sua formazione cattolica, P. entrava naturalmente in rapporto con esponenti della Democrazia cristiana della sua città. Nel 1946 diventava segretario provinciale del Movimento giovanile, esperienza che lo portò ad avere i primi contatti in sede nazionale, che lo videro poi partecipe della campagna elettorale del 18 aprile 1948 anche in Campania e in Sicilia. Nel 1950 Giuseppe Dossetti lo chiamava a Roma presso il suo ufficio di vicesegretario, dove fu redattore delle “Note politiche” riservate ai consiglieri nazionali del partito.

Dopo il 1951 a Roma P. collaborava alle attività internazionali della DC in America Latina e in particolare svolgendo come docente, a partire dal 1959, corsi presso l’Istituto di formazione democratico cristiana di Caracas. Ma il centro della sua attività politica fu principalmente Bergamo e la sua provincia, dove dall’inizio degli anni Sessanta imponeva la sua leadership. Segretario provinciale, capo della maggioranza consiliare al Comune di Bergamo, consigliere nazionale della DC, veniva eletto deputato nel 1968 (collegio Bergamo-Brescia), mantenendo la carica dalla quinta alla decima legislatura, fino al 1988, dopo la sua nomina a membro della Commissione europea.

P. si applicava all’attività parlamentare con inusata serietà, perfezionando le sue conoscenze e capacità tecniche nell’attività legislativa, finalizzata all’efficacia dell’azione di governo, venendo assegnato alla Commissione Finanze e Tesoro. Partecipava, tra l’altro, al lungo e complesso lavoro di elaborazione della riforma tributaria, che portò alla legge-delega 9 ottobre 1971, n. 825 e ai successivi decreti delegati del 1972 3 del 1973. In seno alla Commissione dei Trenta, chiamata ad esprimere il parere sui decreti delegati, è stato relatore su alcuni dei testi più importanti, tra cui il decreto n. 633 relativo all’introduzione dell’IVA.

La successiva carriera politica di P. si deve principalmente all’acquisizione di queste competenze tecniche. Bruno Visentini che nel governo Moro-La Malfa (v. Moro, Aldo; La Malfa, Ugo) del novembre 1974 era ministro della Finanze, lo volle come sottosegretario, affidandogli la delega per l’attuazione della riforma tributaria. Dopo le elezioni del 1976, nel III governo presieduto da Giulio Andreotti, P. assumeva il portafoglio delle Finanze, dove si distinse, attuando in meno di un anno l’Anagrafe tributaria, semplificando gli adempimenti per i contribuenti, riducendo drasticamente i tempi per i rimborsi di imposta, accrescendo il gettito delle imposte dirette che aumenteranno, con piena applicazione della riforma, in un anno del 24,9% in termini reali.

Nel IV governo Andreotti, nel marzo 1978, con il determinato sostegno di Ugo La Malfa, assumeva l’incarico del Tesoro. Portava rapidamente a termine la riforma delle regole della finanza pubblica, sollecitata dal Fondo monetario internazionale (FMI), con la nuova struttura del bilancio dello Stato, quadro unico di riferimento per l’intero settore pubblico allargato, istituzione della legge finanziaria annuale (l., 4 agosto 1978, n. 468). Rilevante è anche l’attuazione della fusione del Poligrafico con la Zecca di Stato, che risolveva anche la questione dei “mini-assegni”, dovuti alla scarsità di contante. Ma gli impegni più significativi, che P. realizzava in stretta sintonia con la Banca d’Italia (si sarebbe schierato all’interno del governo e di fronte all’opinione pubblica a favore di Paolo Baffi e Mario Sarcinelli nella oscura vicenda giudiziaria che li coinvolse) furono la preparazione dell’ingresso nel Serpente monetario europeo (SME) per cui elaborava il progetto “Una proposta per lo sviluppo, una scelta per l’Europa”, il cosiddetto “Piano P.”, volto, tra l’altro, al contenimento dei deficit di bilancio. Obbiettivo realizzato solo durante il triennio 1979-1981, nell’arco di un ventennio di crescita esponenziale del debito e che consentì l’adesione allo SME dell’Italia, con l’ottenimento di un più ampio margine di fluttuazione della moneta nazionale.

Dopo le elezioni del 1979 Pertini incaricava P. di formare il nuovo governo, senza successo. Entrava poi nel I governo Cossiga come ministro del Tesoro (incarico che tenne anche nel II governo Cossiga), e fu eletto nell’ottobre del 1979 presidente dell’“Interim Commitee” del FMI, su proposta del cancelliere Helmut Schmidt, impegnandolo a fondo nel tentativo di riforma. Nello stesso periodo era protagonista del negoziato con la Repubblica di Malta che doveva concludersi con un accordo nel settembre 1980 in cui quest’ultima assicurava la propria neutralità di contro a un Protocollo relativo all’assistenza finanziaria, economica e tecnica da parte italiana. Nella fase finale di questo suo mandato P. doveva affrontare le pesanti ricadute sul sistema bancario delle maggiori crisi industriali di quel periodo, in particolare quella dell’industria petrolchimica SIR che minacciava si travolgere l’Istituto mobiliare italiano (IMI), risolta con un inusuale ricorso alla Cassa depositi e prestiti con cartelle speciali decennali per un ammontare di 1704 miliardi.

Nel dicembre del 1980 P. sostituiva Antonio Bisaglia all’Industria nel governo presieduto da Amintore Forlani, incarico che avrebbe nuovamente ricoperto nel V governo Fanfani (dicembre 1982-agosto 1983). Gli impegni più salienti affrontati sono segnati dalla legge 46 in materia di innovazione tecnologica e lo schema del “Piano energetico nazionale”, che diede particolare impulso all’energia nucleare.

Con il governo Craxi (v. Craxi, Bettino) P. diveniva ministro dell’Agricoltura, incarico che manterrà nei successivi governi fino al 1988. Del 1985 è il “Programma-quadro di piano agricolo nazionale” e la successiva legge pluriennale di spesa (1986), fortemente innovativa nei contenuti e nelle procedure, oltre al “Piano forestale nazionale”, mirato a regolare i rapporti in materia fra Stato e regioni e a fornire un aggiornato censimento delle superfici forestali. Nel 1983 P. aveva affrontato in sede comunitaria il problema delle “quote latte”, sostenendo con successo la posizione italiana di esenzione dal sistema delle “quote individuali” e la richiesta che il paese fosse ammesso al sistema di “bacino unico”, nonché una riduzione volontaria della produzione, incentivata da premi di abbattimento a carico dello Stato (art. 3 del Regolamento del Consiglio del 16 marzo 1987), criterio poi abbandonato dal governo De Mita che tornerà alle “quote individuali”. P. si impegnerà poi all’applicazione nel sistema nazionale delle disposizioni previste dalla disciplina comunitaria, in particolare in materia di organismi di controllo, come ad esempio l’Agecontrol nel settore dell’olio di oliva, e di lotta contro le frodi in molti campi, come agrumicoltura e viticoltura, e di battaglia per la riduzione delle eccedenze, con l’obbiettivo della valorizzazione delle produzioni nazionali anche attraverso campagne promozionali vincenti.

Alla fine del 1988 P. veniva designato membro della Commissione europea, divenendone per quattro anni uno dei vicepresidenti, con delega alla “Ricerca e sviluppo tecnologico e alle Telecomunicazioni”, valendosi del rapporto di fiducia e amicizia con il presidente Jacques Delors. Il settore della ricerca, caratterizzato da importanti dotazioni di bilancio e da oltre 4400 addetti, era stato per la prima volta disciplinato dal Trattato con l’entrata in vigore dell’Atto unico europeo nel 1987. P. procedeva innanzitutto a una revisione degli atti legislativi di riferimento, “Programma quadro” e “Programmi specifici”, elaborando e conducendo all’approvazione del Consiglio dei ministri il “III Programma quadro 1990-1994”. Avviava nel contempo gli studi e le procedure per la preparazione del “Programma-quadro” successivo. Riportava inoltre la redazione dei programmi specifici, sino ad allora lasciata completamente all’iniziativa delle singole Direzioni, sotto la competenza del Commissario e l’autorità politica della Commissione, evitando così la prassi assai diffusa degli interventi a pioggia, favorendo il concentrarsi del sostegno comunitario su iniziative e progetti internazionali di rilievo, con ricadute sul sistema industriale, come nel caso delle cosiddette “tecnologie generiche”, compatibili con le regole della concorrenza. Nel quadro delle sue competenze, P. cercò la collaborazione internazionale, ristabilendo un rapporto di collaborazione positivo con gli Stati Uniti, stabilendo un rapporto personale efficace con Alan Bromley, responsabile della ricerca nell’amministrazione Bush, aprendo la partecipazione dell’Unione europea a grandi programmi di ricerca americani, come quello sul genoma umano, e rendendo regolari le riunioni dei ministri della Ricerca del G7, che dopo il crollo dell’Unione Sovietica, con l’appoggio della Carnegie Foundation rese possibile varare un primo programma di sostegno a ricercatori russi. P. avviava anche un’iniziativa europea a sostegno delle istituzioni scientifiche dei paesi dell’Est, con primi contatti con i rispettivi governi, per cui si avvalse della consulenza dell’Istituto di Scienze Umane di Vienna ed ebbe la fattiva collaborazione del vicecancelliere austriaco Erhard Busek.

Nel settore delle Telecomunicazione la competenza di P., distinta da quella del commissario alla Concorrenza (v. anche Politica europea di concorrenza), riguardava lo sviluppo delle tecnologie, al supporto delle industrie attraverso programmi di ricerca, alla disponibilità di un foro autorevole di consultazione in materia di nuovi e più avanzati strumenti di trasmissione, e fu gestita con risultati utili in un momento di profonde trasformazioni, soprattutto nel settore televisivo (v. anche Politica europea delle telecomunicazioni). Fu inoltre strettamente associato da Delors nel progetto, che ebbe una non trascurabile valenza politica, da quest’ultimo particolarmente patrocinato, dei “Carrefours de la science et de la culture”, che vide numerose iniziative nelle sedi universitarie da Oxford a Saragozza, da Poznan e Bologna e a Coimbra.

Nel gennaio del 1993, terminato il mandato di commissario europeo, P. partecipava con impegno, durante la segreteria Martinazzoli, al passaggio dalla Democrazia cristiana al Partito popolare, per ritirarsi definitivamente dalla vita politica nel 1994.

Piero Craveri (2012)




Paneuropa

L’Unione paneuropea fu fondata nel 1922 dal conte Richard Coudenhove-Kalergi, autore del manifesto programmatico del movimento. L’Unione, inizialmente organizzata attraverso una sede centrale a Vienna e un ufficio economico a Bruxelles, avviò la sua attività negli anni successivi alla Prima guerra mondiale, diffondendo le proprie idee attraverso la rivista “Paneuropa”, pubblicata anch’essa a Vienna.

Il movimento fece proseliti nei circoli politici e intellettuali dei maggiori paesi europei, ottenendo il consenso e l’adesione di esponenti di primo piano del mondo politico, scientifico ed intellettuale, dal fisico Albert Einstein agli scrittori Thomas Mann e Franz Werfel, dai futuri cancellieri tedesco e austriaco Konrad Adenauer e Bruno Kreisky all’allora ministro degli Esteri francese Aristide Briand. Fu proprio la condivisione delle istanze europeistiche da parte di quest’ultimo a permettere all’Unione di andare oltre la prospettiva programmatica e di approdare alla concreta proposta politica. Il 17 maggio 1930 Briand indirizzava ai governi dei paesi europei membri della Società delle Nazioni un memorandum nel quale proponeva l’istituzione di un’unione economica che, lungi dall’intaccare le prerogative sovrane dei singoli Stati, avrebbe dovuto fungere da strumento di integrazione e di superamento dei contrasti nazionali. Il progetto ebbe seguito in ambito societario, dove fu costituita una commissione di studio per l’Unione europea, che affrontò il problema nel corso del 1931. I tempi non erano però maturi e il progetto di Briand naufragò, trascinando con sé le speranze del movimento paneuropeo. Il deterioramento del quadro internazionale negli anni Trenta coincise con la crisi delle istanze europeistiche (v. anche Movimenti europeistici). Lo stesso movimento andò incontro a difficoltà: con l’avvento al potere del nazionalsocialismo in Germania e con la sua espansione sul continente, l’Unione paneuropea fu prima avversata e poi perseguitata, tanto che Coudenove-Kalergi e il suo futuro successore alla guida del movimento, Otto von Habsburg, dovettero fuggire negli Stati Uniti.

Il secondo dopoguerra vide il rifiorire, pur tra molte difficoltà e in un contesto minato dal confronto bipolare, degli ideali europeistici. La creazione del Consiglio d’Europa, della Comunità europea per il carbone e l’acciaio (CECA) e della Comunità economica europea (CEE) rappresentarono per certi riguardi l’inverarsi di quegli ideali di cooperazione ed integrazione che l’Unione aveva abbracciato sin dal primo momento (v. anche Integrazione, metodo della; Integrazione, teorie della). Il consolidamento delle istanze europeistiche era però un dato tutt’altro che acquisito, tanto che, in seguito all’emergere, nei primi anni Sessanta, di visioni divergenti dell’Europa, il processo di integrazione sarebbe entrato in una fase di ristagno durata fin quasi alla fine degli anni Settanta. Ancora una volta la crisi dell’Europa coincise con la crisi dell’Unione paneuropea, che si trovava peraltro a vivere un momento di lacerazione interna in seguito alla scomparsa, nel 1973, del suo fondatore.

Sotto la guida di Otto von Habsburg il movimento ritrovò la sua unità di azione e si profuse in un’opera di diffusione delle istanze europeistiche nell’opinione pubblica. Tale impegno coincise con l’inizio del processo d democratizzazione delle Istituzioni comunitarie, iniziato proprio nel 1979 con la prima elezione a suffragio universale del Parlamento europeo (v. Elezioni dirette del Parlamento europeo).

Con l’incrinarsi del sistema bipolare l’Unione affiancò al tradizionale impegno per l’integrazione tra i paesi dell’Europa occidentale un attivismo volto all’abbattimento di quelle frontiere che la logica della Guerra fredda aveva imposto. Ne scaturirono diverse iniziative mediatiche e di protesta, la più clamorosa delle quali è sicuramente quella del “picnic paneuropeo”, che nella giornata del 19 agosto 1989 permise la fuga di 661 persone dalla Repubblica democratica tedesca, creando il primo grande buco nel sipario di ferro.

Attualmente l’Unione paneuropea è un’associazione internazionale indipendente da partiti politici il cui fine rimane la creazione degli Stati Uniti d’Europa, in conformità al dettato della “Declaration de base” di Strasburgo del 12 maggio 1973. Riunita in Assemblea generale a Strasburgo il 9 dicembre 1995, l’Unione, riaffermando nello statuto gli ideali che animarono il suo fondatore, un’Europa pacifica, unita nella libertà e nel diritto, ed esprimendo soddisfazione per la scomparsa dei regimi comunisti, ha ridefinito ed attualizzato i suoi obiettivi, riprendendo il concetto di Europa come entità innanzitutto morale, fondata sui valori del cristianesimo, aperta anche alla Turchia e ai paesi del bacino del Mediterraneo.

Federico Niglia (2008)