PE

Parlamento europeo (PE)




PECO

Paesi dell’Europa centrale e orientale (PECO)




Pedro Láin Entralgo




Pedro Solbes Mira




Pella, Giuseppe

P. diviene presidente del Consiglio nell’agosto 1953, allorché succede all’ultimo governo di Alcide De Gasperi. Nell’estate del 1953 De Gasperi era stato in grande difficoltà e aveva puntato su una riforma elettorale maggioritaria che, con il rafforzamento dell’esecutivo, gli avrebbe consentito il perseguimento della politica centrista con margini parlamentari sufficientemente ampi. P. era nato a Valdengo (Biella) il 18 aprile 1902, era stato imprenditore, aveva esperienza di problemi economici, aveva retto vari ministeri (Finanze, Tesoro e Bilancio), nei governi presieduti da De Gasperi. Protagonista della politica economica, sviluppa la linea inaugurata da Luigi Einaudi di risanamento del bilancio e di lotta all’inflazione, ma con prevalenti finalità di ordine sociale. In quegli anni egli non mostra una particolare sensibilità europea, come rivelano ad esempio le sue eccessive preoccupazioni per le possibili ricadute negative sul bilancio statale delle prime Comunità europee. Per stile politico e tradizione regionale aveva verso il proprio partito l’atteggiamento di un notabile giolittiano. Allorché diviene presidente del Consiglio, la Democrazia cristiana è ancora disorientata dai cattivi risultati elettorali del giugno che hanno impedito la conquista del premio di maggioranza. P. costituisce un ministero monocolore, ma invita a farne parte alcuni tecnici.

La crisi dell’estate 1953 appare subito molto grave e in essa un posto non secondario è occupato dalla ratifica del Trattato sulla Comunità europea di difesa (CED). Questa coincide, peraltro, con l’acutizzarsi del problema di Trieste, da anni tra le priorità della politica estera italiana, anche nel quadro della revisione del Trattato di pace. È in gioco anche la riforma dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) e l’Italia coglie l’occasione per chiedere, di fatto, la revisione di alcune clausole del Trattato. La linea di demarcazione proposta dal governo italiano, orientata su quella di Woodrow Wilson del 1919, viene bene accolta, ma i confini prescelti non tengono conto del solo criterio etnico e si piegano anche a considerazioni di carattere politico.

Lo status del Territorio libero, Trieste e l’area circostante, era stato definito soltanto in via provvisoria alla fine delle ostilità, e alla vigilia delle elezioni del ’48 le tre potenze vincitrici occidentali avevano dichiarato la loro disponibilità perché diventasse territorio italiano a tutti gli effetti. Ma il governo iugoslavo, presieduto da Tito, si oppose risolutamente, sostenendo la tesi di Trieste città libera e internazionalizzata, arrivando a minacciare l’uso della forza.

P. è al governo da quindici giorni quando una agenzia iugoslava annuncia l’annessione della Zona B da parte di Tito. P. si sente incoraggiato a mostrarsi determinato da una sottile propaganda che tende a contrapporre De Gasperi, incline al compromesso, al nuovo presidente, del quale si sottolineano l’età, la fermezza e il senso della dignità nazionale, senza indulgenze verso un internazionalismo che rischia di far dimenticare le ragioni della patria (G. Andreotti, De Gasperi visto da vicino, Rizzoli, Milano 1986, p. 264-275).

P. non è ben visto dai quadri direttivi democristiani, che lo hanno accettato solo per un ordine impartito da De Gasperi. Al momento di lasciare De Gasperi, che intende dedicarsi alla campagna europeista, aveva raccomandato a P., alla riapertura delle Camere, di porre all’ordine del giorno il Trattato CED. È turbato, alla ripresa dei lavori parlamentari, dal silenzio di P. sull’argomento. Un voto favorevole dell’Italia, secondo De Gasperi, può essere l’ancora di salvataggio di un trattato pericolante e può essere colto come un segnale di continuità della politica estera, quanto mai opportuno sotto tutti i profili. La figlia di De Gasperi, Romana, ricorda nei mesi e nei giorni che precedettero il fallimento della CED le frequenti telefonate del padre ai leader della Democrazia cristiana: «le lacrime scendevano senza vergogna sul volto ormai vecchio, mentre gridava al telefono al presidente del Consiglio: meglio morire che non fare la CED». (M.R. De Gasperi, De Gasperi, Mondadori, Milano 2004, p. 322) Secondo De Gasperi l’Italia ha un interesse persino superiore a quello della Germania per un esercito europeo perché, quale che sia la forma finale di quest’ultimo, quello che rimarrà sarà comunque il riarmo tedesco. Ed è ciò che importa di più a Bonn, sia per i suoi rapporti con l’America che per la riunificazione del paese.

La questione è complicata dalla circostanza che dopo la rottura fra Belgrado e Mosca gli occidentali, e gli americani in particolare, sono fortemente interessati ad accentuare tale spaccatura, simpatizzando con Tito e arrivando a sostenere militarmente la stessa Jugoslavia in funzione antisovietica. Così nel luglio, alla vigilia dell’insediamento del governo P., il Pentagono aveva invitato a Washington una delegazione di ufficiali jugoslavi, dandone pubblica comunicazione. Gli italiani sono sconcertati per un tale atteggiamento che dal punto di vista strategico arriva quasi a considerare la Iugoslavia un membro della NATO. D’altra parte al governo di Roma sembra legittimo disporre di una forza nazionale in grado di reagire in una situazione nella quale non può contare sul sostegno della NATO e di un esercito europeo integrato. Da questo punto di vista è comprensibile che la ratifica della CED possa essere momentaneamente sospesa senza essere messa in discussione in linea di principio. Da parte italiana si parla di oggettiva interdipendenza e non di strumentalizzazione. Nell’ottobre 1953 il ministro della Difesa Paolo Emilio Taviani incontra il segretario di Stato tedesco Walter Hallstein, al quale assicura che l’Italia non intende affatto condizionare l’approvazione del Trattato CED alla soluzione di Trieste. A Bonn sembra infatti che P. non segua linearmente come De Gasperi la politica dell’unità europea. Da destra i partiti spingono inoltre al ricatto e riaffiora il sospetto della scarsa affidabilità italiana, come informa da Roma l’ambasciatore tedesco Heinrich von Brentano.

In Campidoglio, il 13 settembre 1953, P. propone un plebiscito nelle due zone del Territorio libero. È il momento in cui gli americani premono maggiormente per la creazione della CED, vale a dire la congiuntura più adatta, secondo P., per recuperare il peso determinante che il paese aveva visto ridimensionato dal dissidio tra Tito e Stalin; dissidio che forse Tito non avrebbe osato spingere fino in fondo se la vittoria democristiana del 18 aprile 1948 non lo avesse, in qualche modo, rassicurato alle spalle. L’Italia, dichiara P., avrebbe ratificato il Trattato della CED se gli alleati gli avessero restituito le due zone del Territorio libero; questa posizione viene aspramente criticata da Altiero Spinelli, che nel suo Diario annota che l’Italia è ormai diventata il fanalino di coda nel processo d’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). (A. Spinelli, Diario europeo 1948-1969, il Mulino, Bologna 1989, p. 188). L’8 ottobre gli inglesi e gli americani annunciano che sono pronti a ritirarsi dalla zona A per cederne l’amministrazione al governo italiano. Londra e Washington confermano l’offerta fatta congiuntamente nel 1948, ma il 12 ottobre Tito fa sapere che l’ingresso delle truppe italiane a Trieste sarebbe considerato un atto di aggressione. Vi sono manifestazioni sia a Trieste che a Belgrado nel corso delle quali a Trieste muoiono sei persone. Ma gli alleati vietano a P. di partecipare ai funerali delle vittime. Nel clima di indignazione nazionale, il governo decide di schierare al confine di Gorizia due divisioni e, consigliato dallo Stato maggiore, ordina la mobilitazione parziale. Gli Alleati non possono però concedere a P. più di quanto non avessero concesso a De Gasperi: dinanzi alle proteste di Tito, fanno marcia indietro e tutto resta come prima. Nella Democrazia cristiana Mario Scelba organizza un movimento contrario al presidente del Consiglio, che finisce per portarlo nel gennaio del ’54 a Palazzo Chigi. Ma nemmeno Scelba riesce a far ratificare il Trattato (v. anche Trattati), che comunque cade definitivamente nell’agosto 1954 nel Parlamento francese.

La CED è il primo grande tentativo di superare la gradualità e la settorialità dell’integrazione per pervenire all’unione politica. La difesa comune avrebbe portato alla federazione nelle difficili condizioni imposte dalla Guerra fredda (v. anche Federalismo). Ma la Francia è ancora agli inizi del processo di decolonizzazione, mentre la Germania è nel pieno di una prorompente ripresa; la Francia non vuole privarsi della autonomia militare nel momento in cui le colonie più lontane sono in rivolta e quelle più vicine non sono più sicure; non ha ancora portato a compimento la conversione resa necessaria dagli esiti della Seconda guerra mondiale ed attraversa una crisi identitaria; intende chiudere il dramma indocinese ed è questa la priorità in base alla quale gestisce l’ultima fase della vicenda CED. Parigi non vuole identificarsi con i vinti, Germania e Italia, e rivendica uno statuto paritario con il Regno Unito, che non ha nessuna intenzione di far confluire il proprio esercito in quello europeo.

L’indiretta responsabilità di P. nel fallimento della CED non gli impedisce tuttavia di andare a ricoprire la carica di presidente dell’Assemblea della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) tra il novembre 1954 e il dicembre 1955 in sostituzione del dimissionario Jean Monnet, così come di sostenere pubblicamente i Trattati di Roma sin dal momento della loro elaborazione.

P. torna come protagonista della scena politica dapprima in qualità di vicepresidente del Consiglio nella breve esperienza del governo guidato da Adone Zoli (maggio 1957-luglio 1958), quindi come titolare degli Esteri nel governo di Antonio Segni (febbraio 1959-marzo 1960). In quegli anni l’Italia si offre come partner nuovo dei paesi mediterranei, anche perché, privata dai Trattati di pace delle colonie, è in grado di ispirare maggior fiducia nel mondo emergente rispetto alle tradizionali potenze europee. Enrico Mattei si pone in concorrenza con le grandi società petrolifere per creare un rapporto di collaborazione con i paesi produttori. Il contratto che egli firma a Teheran nel settembre 1957, alla presenza del presidente Giovanni Gronchi e di P., riconosce agli iraniani il settantacinque per cento dei benefici.

Il ritorno di P. agli Esteri coincide con il tentativo, mancato, di un’arma nucleare europea intorno ai tre maggiori paesi della Comunità: Francia, Italia e Germania. Il negoziato va avanti, sfociando in una serie di incontri riservati tra i ministri della Difesa, durante i quali si arriva a stendere un protocollo degli armamenti, compresa l’applicazione militare dell’energia nucleare.

Il processo entra in una fase decisiva con un colloquio segreto tra il cancelliere Konrad Adenauer e il sottosegretario agli Esteri francese Edgar Faure, svoltosi a Rhöndorf il 16 novembre 1957. Dietro l’iniziativa c’è la spinta di uno degli ultimi governi francesi della quarta repubblica, quello presieduto da Félix Barbezieux Gaillard, peraltro sempre più debole per la crisi in Algeria e sempre più ostaggio della destra. L’iniziativa italo-franco-tedesca nasce anche dal risentimento di Parigi nei confronti degli Stati Uniti, che durante la crisi dell’ottobre ’56 hanno fermato la Legione straniera sulla via del Canale di Suez, ma anche verso i britannici, che hanno troppo presto rinunciato all’impresa. L’idea è quella di sviluppare un terzo polo nucleare, continentale ed europeo, accanto a quelli costituiti da Stati Uniti e Gran Bretagna. Anche per Adenauer è quella una fase di dubbi sulla volontà degli americani di sostenere i tedeschi sino in fondo nel confronto con i sovietici, resi più assertivi dalla superiorità nello spazio, conseguente al lancio dello Sputnik e dei primi missili intercontinentali. L’accordo a tre è firmato a Roma nell’aprile del ’58. Si prevede una spesa di 140 milioni di dollari e una ripartizione percentuale che per l’Italia è solo del dieci per cento. Non è chiaro se solo la Francia avrebbe realizzato le armi nucleari, mentre Italia e Germania avrebbero soltanto avuto una posizione subordinata.

Il progetto, arrivato alle soglie della operatività, di colpo entra in crisi. Innanzitutto perché in anticipo rispetto alla gracile coesione dell’Europa di allora. Il ministro della Difesa italiano Taviani, uno dei protagonisti di quel negoziato, osserva che il punto debole dell’iniziativa sta nel fatto che essa approfondisce aspetti sia tecnici che economici senza aver chiarito quale sia la struttura politica portante. Gli stessi paesi partecipi si muovono secondo logiche diverse. L’idea, in bilico tra i vincoli di solidarietà atlantica e i propositi di emancipazione del vecchio continente, non si realizza. E comunque il ritorno di Charles de Gaulle al potere, nel maggio del ’58, segna la sua rinuncia a una soluzione multilaterale in favore di una forza esclusivamente nazionale. (v. Cacace, L’atomica europea, Fazi, Roma 2004) L’intero processo ha coinciso con il ritorno di P. sulla scena politica interna e internazionale: sullo sfondo di questo tentativo, maturano i fattori che modificano gli equilibri strategici e che condurranno all’abbandono della dottrina della risposta massiccia in favore di quella della risposta flessibile.

Il 1° gennaio 1958 entrano in vigore sia la Comunità economica europea (CEE) che la Comunità europea dell’energia atomica (CEEA). Le prime misure di apertura del mercato sono del gennaio 1959, ma le nuove istituzioni iniziano a lavorare nell’indifferenza quasi generale. Viene costruito l’embrione della prima burocrazia integrata che sarà chiamata a svolgere un’attività sempre più complessa nel corso degli anni. L’avvento di de Gaulle, che è contrario in linea di principio alla forma comunitaria dell’integrazione europea, non comporta un’uscita della Francia dalla CEE. La visione di de Gaulle di un’Europa dall’Atlantico agli Urali prefigura il crollo dell’impero sovietico e il ritorno ad una Russia liberalizzata in seno alla famiglia europea. Il piano ipotizza una forte confederazione costruita intorno al nucleo franco-tedesco, allo scopo di controbilanciare l’area dell’Est. L’idea italiana, della quale si fa interprete P., è quella di un’Europa sufficientemente vitale e compatta, capace di assorbire le energie tedesche e di controbilanciare la Russia con l’aiuto americano. Per realizzare questo piano occorre resuscitare la potenza della Germania e incanalarla in strutture federali continentali. La strategia americana, a sua volta influenzata dalle pressioni europee e sovietiche, assume una fisionomia durevole sotto forma di compromesso tra l’impulso a controllare l’Europa e quello di restituirle l’autosufficienza.

L’ultima esperienza di P. agli Esteri coincide con alcune delle crisi internazionali più gravi della fine del decennio: non solo il ritorno di de Gaulle, ma anche l’intervento americano nel Libano, la fine della monarchia hascemita in Iraq, l’ultimatum con il quale Chruščёv minaccia di firmare un trattato di pace separato con la Repubblica Democratica Tedesca e di mettere fine in tal modo alla responsabilità quadripartita su Berlino. Nel settembre ’59 Chruščёv visita gli Stati Uniti. Ad Harold Macmillan, dopo il fallimento della spedizione di Suez, preme conferire nuovamente un ruolo internazionale alla politica inglese. Nel febbraio ’59 visita l’Unione Sovietica e a marzo incontra de Gaulle, Adenauer e Dwight Eisenhower. Chruščёv è invitato dalle tre maggiori potenze occidentali ad una Conferenza a Parigi all’inizio del ’60.

L’Italia rischia di essere tagliata fuori, soprattutto ora che la Germania sta rioccupando pienamente il posto tra i grandi. Incalzati dal presidente Giovanni Gronchi, il primo ministro Antonio Segni e il suo ministro degli Esteri si mettono in viaggio attraverso le capitali europee per reclamare il diritto dell’Italia alla concertazione. Delicato e complesso è il rapporto con l’Unione Sovietica, la cui economia appare per alcuni aspetti complementare a quella italiana. Le piccole e medie industrie italiane sono particolarmente attrezzate per insinuarsi negli spazi che si aprono di tanto in tanto nella facciata monolitica dell’economia sovietica, mentre le industrie del settore pubblico trovano interlocutori ideali nei grandi gruppi dell’altro paese. Per un capitalismo, come quello italiano, che ha bisogno di essere aiutato dal proprio Stato, il rapporto con l’URSS presenta alcuni vantaggi quali crediti agevolati e garantiti, contratti di lungo respiro, opere di grandi dimensioni. I contratti che Enrico Mattei stipula a Mosca per la fornitura di petrolio sovietico allargano gli spazi dell’economia italiana. Inoltre, sul piano della politica interna, per avere migliori rapporti con il Partito comunista italiano possono essere utili una politica estera e un clima internazionale che permettano di dialogare con l’URSS.

Ma in quegli stessi anni mutano i fattori alla base degli equilibri strategici. Nel 1957 è uscito il libro di Henry Alfred Kissinger Nuclear Weapons and Foreign Policy, che raccomanda il ricorso alle armi nucleari tattiche come un deterrente addizionale a fronte della crescita delle forze strategiche sovietiche. Dal ’57 al ’61 si diffonde invece l’idea di un ritardo occidentale in campo missilistico (missile gap) che, a partire dal lancio dello Sputnik, il 5 ottobre 1957, offrirebbe all’URSS un vantaggio incolmabile. Gli Stati Uniti sono riluttanti a basare il proprio deterrente per l’Europa esclusivamente sulle forze strategiche di stanza in Europa oppure sui mari. La risposta flessibile che comincia a essere elaborata dalla NATO prevede una vasta gamma di armi nucleari da campo o legate a basi regionali studiate per porre fine a un confronto nucleare molto prima di arrivare alla fase dello scambio intercontinentale. In questo contesto l’Italia negozia l’installazione, sul proprio territorio, di missili intermedi Jupiter e Thor. La Repubblica Federale Tedesca rifiuta di ospitarli, poiché essa si definisce la “trincea più avanzata”. I francesi sarebbero disponibili solo se ottenessero il totale controllo sulle nuove armi, che Washington non concede. Sono così soltanto l’Italia e la Turchia a schierare sul continente europeo i sistemi a raggio intermedio. La scelta italiana provoca l’ira di Chruščёv, il quale in un viaggio in Albania minaccia rappresaglie. L’Italia è il paese che, per la struttura politica interna e la presenza del più grande partito comunista occidentale, appare più vulnerabile.

P. accompagna Gronchi a Mosca in un viaggio che, dal 5 all’11 febbraio 1960, ha momenti di grande imbarazzo. Chruščёv li investe con insulti e provocazioni anche in pubblico, contro ogni regola diplomatica. L’episodio contribuisce a smentire l’illusione di una possibile funzione mediatrice dell’Italia nei rapporti Est-Ovest, funzione alla quale il presidente Gronchi crede in modo particolare. (S. Romano, Guida alla politica estera italiana, Rizzoli, Milano 1993, p. 72-73)

P. ricopre il suo ultimo incarico ministeriale nel 1972, nel primo governo di Giulio Andreotti. In quel periodo egli tra l’altro sostiene il progetto federalista per l’elezione diretta dei delegati italiani al Parlamento europeo. Muore a Roma il 31 maggio 1981.

Silvio Fagiolo (2010)




Peréz Llorca, José Pedro

P.L. (Cadice 1940), proveniente da una famiglia che egli stesso definisce “europeista”, frequentò la facoltà di giurisprudenza presso l’Università Complutense. Qui ebbe i suoi primi contatti con la politica come giovane membro dell’Asociación española de recuperación europea (AERE), di orientamento democristiano e liberale, collaborando con alcuni gruppi di sinistra guidati da Enrique Tierno Galván. Diverse borse di studio permisero a P.L. di ampliare la sua formazione nelle università europee di Friburgo, Monaco e Londra, e di perfezionare la conoscenza delle lingue.

Nel 1964 intraprese la carriera diplomatica, ma si allontanò temporaneamente dall’attività politica per esercitare la professione privata come avvocato. Un ritorno agli interessi politici si ebbe nel 1969, quando divenne segretario generale del Club de estudios jovellanos, un’organizzazione cui aderì una parte significativa della classe politica che avrebbe avuto un ruolo di primo piano nella transizione alla democrazia della Spagna.

Dopo la morte di Franco, una parte dell’opposizione più moderata al vecchio regime si propose la costituzione di un partito politico autonomo del governo per affrontare le prime elezioni democratiche, il nucleo originario del Partito popolare. Nel giungo del 1976 P.L. partecipò alla creazione di questa nuova formazione politica e alla costituzione del suo primo segretariato, di struttura collegiata, di cui facevano parte Oscar Alzaga, appartenente alla Sinistra democratica cristiana, il liberale Manuel Fraile, Juan Antonio Ortega, Tácito e lo stesso P.L. che senza essere affiliato a nessun partito si definiva socialdemocratico.

La presentazione ufficiale del Partito popolare ebbe luogo nel novembre dello stesso anno. Vi partecipò un centinaio di personalità illustri, tra cui altri grandi europeisti come José Maria de Areilza, una delle figure più eminenti del nuovo partito. Altri membri furono Pio Cabanillas, José Luis Alvarez, Miguel Herrero de Miñón e José Luis Ruiz Navarro.

Il Partito popolare aspirava a integrare in un programma comune democristiani, liberali, socialdemocratici ed indipendentisti che non si sentivano rappresentati né dai sostenitori del vecchio regime né dai partiti di sinistra. Della nuova formazione facevano parte politici che avevano fatto parte del regime di Franco – una composizione simile a quella che avrebbe avuto, in un futuro non troppo lontano, l’Unione di centro democratico (Unión de centro democrático, UCD).

Il Partito popolare fu istituito ufficialmente a Madrid il 5 e 6 febbraio 1977. P.L. fu incaricato del Coordinamento all’interno di un segretariato confederato di cui facevano parte anche José Luis Alvarez e José Antonio Ortega. La presidenza fu assunta da Pio Cabanillas, vicepresidenti furono nominati Emilio Attard e José Maria de Areilza.

Il Partito popolare finì per integrarsi col partito fondato dal presidente dell’esecutivo spagnolo: l’UCD. P.L. fece parte del comitato esecutivo della nuova formazione fino alla scomparsa del partito di centro.

Nella prime elezioni democratiche tenute in Spagna dopo la morte di Franco, nel giugno del 1977, P.L. fece parte delle liste dell’UCD per Madrid. Per questa circoscrizione si presentarono i principali politici della nuova coalizione di partiti, tra cui Adolfo Suárez, Leopoldo Calvo Sotelo, Ignacio Camuñas, Joaquín Garrigues, Francisco Fernández Ordoñez e Iñigo Cavero.

L’Unione di centro democratico vinse le elezioni e P.L. fu eletto deputato. In questa prima legislatura, divenne presidente e portavoce del gruppo parlamentare di centro nel Congresso dei deputati.

P.L. fu uno dei sette membri della Conferenza parlamentare che elaborò il progetto di costituzione spagnola. Durante la preparazione del testo costituzionale uno degli obiettivi sempre presenti fu la futura integrazione spagnola in Europa, e una delle principali preoccupazioni di tutti i partecipanti fu quindi quella di prevenire qualsiasi impedimento giuridico che potesse impedire tale integrazione. Il progetto costituzionale fu definitivamente approvato il 31 ottobre 1978, e il 6 dicembre dello stesso anno fu approvato con un referendum dal popolo spagnolo.

Due mesi prima, nell’ottobre 1978, si era celebrato il I Congresso dell’UCD. P.L. entrò a far parte della presidenza, come membro del Comitato esecutivo. Eletto nuovamente deputato nelle elezioni del 1979, che videro la vittoria dell’UCD, P.L. entrò a far parte del governo di Adolfo Suárez, come ministro della Presidenza. In questo ruolo accelerò i negoziati per gli statuti autonomi basco e catalano, cosa che creò un certo attrito con Antonio Fontán, responsabile dell’amministrazione territoriale.

Nel gennaio 1980 P.L. fu incaricato del ministero delle Relazioni con il Parlamento, e in questo ruolo cercò di accelerare l’approvazione dei progetti di legge sospesi e di dare un nuovo impulso alla questione autonomistica. Nel settembre dello stesso anno assunse il ministero degli Esteri, incarico che mantenne fino al dicembre del 1982, anno in cui Partito socialista operaio spagnolo (Partido socialista obriero español, PSOE) assunse l’esecutivo dopo la vittoria alle elezioni generali dell’ottobre del 1982.

Gli anni in cui assunse il ministero degli Esteri furono probabilmente uno dei momenti più importanti nella carriera politica di P.L. Oltre a partecipare a varie delegazioni spagnole all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, egli svolse infatti un ruolo molto importante nella politica estera della giovane democrazia spagnola. Sostituendo Marcelino Oreja a capo della diplomazia spagnola durante la presidenza di Adolfo Suárez, P.L. fece parte, come titolare dello stesso ministero, del governo del secondo presidente democratico, Leopoldo Calvo Sotelo. Questo periodo può essere considerato come il momento della transizione spagnola nella politica estera.

Il 29 gennaio 1981, Adolfo Suárez annunciava al paese la sua decisione di rinunciare alla presidenza del governo e alla presidenza dell’UCD. Nel II Congresso dell’UCD P.L. come rappresentate della fazione ufficiale del partito fu eletto presidente, in opposizione ad Emilio Attard che rappresentava l’opposizione interna, ed entrò anche a far parte del Comitato esecutivo. Alla presidenza del governo fu confermata invece la candidatura di Calvo Sotelo, che assunse la carica il 25 febbraio 1981, dopo il fallito colpo di Stato del generale Antonio Tejero. P.L. fu riconfermato al ministero degli Esteri.

In questa carica, P.L. diede grande impulso ai negoziati che portarono all’ingresso della Spagna nella Comunità economica europea (CEE), unificando il ministero degli Esteri e il ministero per i rapporti con la Comunità europea in una Segreteria di Stato affidata a Raimundo Bassols.

Un cambiamento di rotta nella politica estera spagnola fu segnato dal deciso appoggio all’ingresso della Spagna nell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO). Se durante il governo di Adolfo Suárez P.L. non riteneva l’Adesione alla NATO un obiettivo prioritario, ora la considerava di vitale importanza per favorire l’integrazione dei militari nel regime democratico, per compensare le diseguaglianze del rapporto bilaterale Spagna-Stati Uniti e per inserire la Spagna in un’organizzazione di cui facevano parte i più importanti paesi europei. Il nuovo governo, inoltre, intendeva trarre vantaggio delle condizioni geostrategiche e geopolitiche della Spagna, utilizzandole come base per la integrazione del paese nella CEE (v. anche Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). I negoziati per l’ingresso nella NATO, inoltre, secondo P.L. avrebbero contribuito a risolvere altri contenziosi internazionali che la Spagna aveva in sospeso, ad esempio la questione di Gibilterra. L’adesione della Spagna alla NATO si realizzò in tempi brevi, senza che ne venissero specificate le modalità, il 30 maggio 1982.

Nello stesso tempo, P.L. diede un netto impulso ai negoziati per l’ingresso della Spagna in Europa, affrontando due importanti problemi: la questione agraria da un lato, e l’introduzione dell’IVA prevista dopo l’adesione. Infine, nel novembre del 1981, nella riunione dei capi di Stato e di governo europei tenuta a Londra venne firmato il compromesso politico che avrebbe consentito l’ingresso della Spagna nella Comunità europea. Prima dell’ottobre del 1982 si concludevano i primi sei capitoli del Trattato di adesione, altri sette erano in una fase avanzata di negoziazione.

Oltre all’impegno per l’ingresso della Spagna nella NATO e nella Comunità europea, come ministro degli Esteri P.L. diede un contributo importante alla politica estera spagnola dei primi anni della transizione in relazione al contenzioso di Gibilterra, all’Accordo bilaterale con gli Stati Uniti, ratificato nel 1982, e alla politica estera spagnola con l’America Latina e con il Maghreb.

Per quanto riguarda, in particolare, la costruzione dell’Europa comunitaria, P.L. ha sempre difeso a oltranza la rivalutazione del ruolo del Parlamento europeo e ha sottolineato la necessità di costruire una coscienza civile e di un’opinione pubblica europee, attraverso la creazione di un periodico e di un servizio di informazione europei (v. anche Centri d’informazione europea).

Nel dicembre del 1982 P.L. ha abbandonato la vita politica per dedicarsi alla professione legale e all’attività accademica.

Angel Herrerin Lopez (2009)




Personalità giuridica dell’unione europea

Posizione del problema relativo alla personalità giuridica internazionale

Vi sono aspetti cruciali della stessa nozione di personalità (o soggettività) giuridica internazionale che non mancano di manifestarsi come significativi e problematici in relazione a un loro riscontro in riferimento all’Unione europea.

Prescindendo dalla amplissima e ormai risalente elaborazione dottrinaria del concetto di personalità giuridica internazionale, volta in prevalenza a dimostrare l’inapplicabilità di tale nozione, concepita come riservata a soggetti di piena sovranità e indipendenza, ossia ai soggetti primari del diritto internazionale, e negata invece agli enti derivati, quali le organizzazioni internazionali, è sufficiente rammentare alcuni principi cardine consolidatisi nella dottrina più recente e ampiamente maggioritaria.

La tendenza è quella di riconoscere una personalità giuridica “funzionale” alle organizzazioni internazionali, alla stregua di quanto riconosciuto nel celebre parere della Corte internazionale di giustizia del 1949 nel caso Reparation des dommages subis aux services des Nations Unies (in “Recueil des cours”, 1949, p. 174 e ss.). Si tratta, dunque, di una nozione differenziale rispetto a quella propria della soggettività internazionale dello Stato, che è connotabile più a tutto tondo, dal momento che essa inerisce a un soggetto dotato di competenza originaria e generale. Una nozione in certo senso modulare, ossia capace di evolvere con l’incremento (o decremento) delle competenze attribuite.

Ciò che peraltro resta al contempo come postulato e come metro di ogni valutazione in merito alla soggettività internazionale è poi il principio di effettività, il rispetto del quale non può che verificarsi nel concreto atteggiarsi, sul piano internazionale, delle relazioni e dei poteri posti in essere dalla organizzazione: si tratta in particolare della conclusione di trattati, dell’operatività delle immunità, dell’Adesione ad altre organizzazioni internazionali, dell’imputazione di responsabilità internazionale. Occorre infatti rammentare il valore meramente relativo di qualsivoglia previsione pattizia orientata ad affermare la sussistenza della soggettività. Una simile previsione, avendo valore esclusivamente inter partes, non potrebbe determinare, essa sola, il sorgere di uno status, quale è quello della soggettività internazionale, che è per sua natura di valore assoluto, ossia erga omnes, ma può tutt’al più esprimere un valore indiziario.

Venendo con ciò alla problematica del riscontro della soggettività giuridica internazionale in capo all’Unione, si possono preliminarmente enumerare le opzioni teoriche, che sono riconducibili a tre fondamentali filoni: quello orientato a escludere la sussistenza di una soggettività dell’Unione diversa e autonoma rispetto a quella delle Comunità europee (v. Comunità europea del carbone e dell’acciaio; Comunità economica europea; Comunità europea dell’energia atomica); quello orientato a ravvisare la personalità dell’Unione come aggiuntiva rispetto a quelle delle Comunità europee (c.d. teoria della quarta personalità); quello infine orientato ad affermare la sussistenza di una unica soggettività giuridica direttamente in capo all’Unione e a ricondurre a questa le preesistenti soggettività delle Comunità. L’adesione a una opzione, dipendendo dall’esito del riscontro del principio di effettività in relazione al concreto atteggiarsi della dimensione internazionalistica espressa in un dato momento storico dall’Unione, si confronta in maniera decisiva con la natura profondamente evolutiva della medesima. È pertanto inevitabile muovere dall’analisi delle caratteristiche originarie per occuparsi poi degli assetti attuali ed aprirsi infine al vaglio delle prospettive future.

Gli assetti precedenti e contemporanei alla nascita dell’Unione europea

In epoca anteriore alla nascita formale dell’Unione europea, avvenuta con il Trattato di Maastricht del 1992, risultava pacificamente sussistere la personalità giuridica internazionale in capo alle tre Comunità. In un simile quadro, la dottrina fu confrontata con l’esigenza, pratica e sistematica, di inquadrare le emergenti forme di cooperazione che gli Stati membri ponevano in essere al di fuori del quadro comunitario, incontrando peraltro non poche difficoltà a ritrovare per esse una cornice adeguata (v. anche Cooperazione intergovernativa). Non a caso, già prima dell’Atto unico europeo (AUE) del 1986, e poi definitivamente con l’adozione di questo, le disparate manifestazione di quella che si può definire una embrionale Cooperazione politica europea trovavano riconduzione all’alveo del Consiglio europeo, ben prima che esso stesso completasse la propria parabola evolutiva da prassi diplomatica di vertice a vero e proprio organo, cosa che avverrà appunto solo con la nascita della Unione europea.

Con l’entrata in vigore del Trattato sull’Unione europea (TUE) del 1992 prese corpo l’ambizione di ricondurre a una cornice unica, l’Unione europea appunto, tanto il filone comunitario quanto le altre forme di cooperazione istituzionalizzata fra Stati membri, già esistenti o di nuova creazione. Tuttavia deve subito evidenziarsi come il TUE abbia scelto il silenzio in tema di personalità internazionale della neonata Unione. Tale scelta è stata inizialmente interpretata dai più come conferma della tesi della negazione, tanto più alla luce del fatto che disposizioni affermative della personalità erano invece contenute nei Trattati CE (art. 210), Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA, art. 6) e Comunità europea dell’energia atomica (Euratom, art. 184). È pur vero che il negoziato del Trattato di Maastricht reca tracce dell’obiettivo di riduzione del sistema a unità, anche sotto il profilo soggettivo, ma tale idea risulta in esso assai presto accantonata. Decisivo a tale fine fu il combinato operare del timore degli Stati membri per una eccessiva “comunitarizzazione”, ossia per il rischio di pervasività del metodo comunitario, suscettibile di tradursi in una eccessiva compressione delle sfere di sovranità statuale, e dell’inverso timore, nutrito dalla Commissione europea, per un eccessivo spostamento del baricentro del nuovo soggetto al di fuori delle Comunità, con inevitabile affievolimento della centralità degli organi comunitari (v. anche Istituzioni comunitarie).

Dall’operare di questi timori, per così dire opposti e complementari, scaturì pertanto la scelta di non innovare formalmente sotto il profilo della soggettività internazionale. In tale fase si ritrovano al contrario frequenti precisazioni ad opera degli Stati membri, contenute in documenti ufficiali, circa l’assenza di personalità della neonata Unione – si vedano fra l’altro le Dichiarazioni che accompagnano la decisione di denominare il Consiglio dei ministri “Consiglio dell’Unione europea” o, dal punto di vista del diritto interno (v. anche Diritto comunitario), la sentenza della Corte costituzionale tedesca del 12 ottobre 1993, in Bundesverfassunggericht, 89, p. 155.

Il naturale esito di una simile impostazione, imperniata da un lato sulla scelta di non comunitarizzare le nuove competenze e al contempo di non personificare compiutamente il nuovo soggetto, e dall’altro sulla cura di conservare la soggettività internazionale delle Comunità europee, fu il venir meno di ogni riferimento alla competenza della Unione europea a stipulare accordi nell’ambito delle nuove Competenze incorporate nel secondo e nel terzo pilastro (v. Pilastri dell’Unione europea). Il che si tradusse in non irrilevanti problemi connessi non solo alla estetica del nuovo edificio normativo, che solo benignamente poté essere descritto come ispirato alla forma di tempietto greco a tre colonne, ma anche e soprattutto alla profonda ibridazione e incoerenza delle categorie, che presentavano un metodo comunitario dotato di soggettività incorporato all’interno di un metodo intergovernativo formalmente sprovvistone.

La revisione operata dal Trattato di Amsterdam

Una significativa evoluzione si ebbe peraltro in seguito, e, sulla spinta della dottrina e della stessa prassi riscontrabile, si addivenne a un significativo mutamento degli assetti con la Conferenza di revisione del TUE apertasi nel 1996. In essa si segnalarono anche varie proposte orientate al riconoscimento di una personalità per la Unione europea, quasi sempre costruita come sostitutiva e non come aggiuntiva rispetto alle Comunità. Peraltro, l’esito della revisione, incorporato nel Trattato di Amsterdam del 1997, non condusse ad alcun riconoscimento formale di soggettività giuridica, ma sancì l’assai importante inserimento di due disposizioni relative alla competenza dell’Unione a stipulare nell’ambito del secondo e terzo pilastro (si vedano gli artt. 24 e 38 TUE), con previsione della conduzione dei negoziati ad opera della presidenza, eventualmente assistita dalla Commissione, su autorizzazione unanime del Consiglio, e della conclusione dell’accordo da parte del Consiglio con Voto all’unanimità, con possibilità di esenzione per lo Stato membro che dichiari che l’impegno può essere assunto solo in conformità alle proprie procedure costituzionali.

A fronte di tali novità testuali la dottrina maggioritaria si orientò a ravvisare concretamente elementi e indizi per confortare la tesi di una personalità giuridica internazionale dell’Unione, da contrapporre come prevalenti agli ormai esili elementi in senso negativo o dubitativo. Questo nella convinzione circa la scarsa capacità di tenuta nel tempo della ricostruzione volta a negare la personalità giuridica della UE e nella certezza che, al di là delle prese di posizione formali, dotate di scarso valore in relazione al tema in questione, tutto pervaso, come detto, dalla logica dell’effettività, fossero per contro da valorizzare i concreti assetti di fatto.

Il perdurante silenzio del Trattato in merito alla personalità e il fatto che la neoistituita competenza a stipulare, non originariamente prevista, trovasse temperamento nella c.d. clausola di esenzione, apparirono destinati a cedere ad una messe di elementi testuali e sostanziali atti a comprovare la tesi della soggettività. Fra questi, sul fronte testuale, vi è il fatto che il TUE si esprima per l’istituzione dell’Unione in termini del tutto analoghi a quanto fatto dai Trattati di Roma per l’istituzione della Comunità economica europea, dotandola di mezzi e fini autonomi, e prevedendone l’affermazione sulla scena internazionale come spazio di pace, libertà e giustizia (v. Spazio di libertà, sicurezza e giustizia); il fatto che tanto l’adesione di nuovi Stati quanto la cittadinanza siano costruite in riferimento esclusivo all’Unione; il fatto che il Consiglio europeo sia concepito come componente organica specifica ed originaria della UE.

Ancora più decisivi apparvero gli elementi di unicità di sistema, che contemplano l’Unione come struttura unica capace di accorpare le Comunità ad altre forme di cooperazione, con unicità di principi ispiratori, di quadro istituzionale, di norme finali. E con ciò divenne naturale e quasi inevitabile affermare che il complessivo edificio, e gli articolati rapporti ad esso inerenti, assai difficilmente si sarebbero potuti reggere in assenza di una soggettività dell’Unione cui ricondurre, con unicità, il quadro istituzionale e normativo.

La dimensione attuale della personalità

Tali considerazioni valgono anche, in chiave attuale, come argomenti di confutazione della tesi della quarta personalità. A ben vedere, si può infatti ritenere che certe resistenze a una piena affermazione della personalità dell’Unione andassero lette anche come volontà di evitare potenziali ricadute in termini di estinzione delle personalità preesistenti delle tre Comunità. In linea di continuità con simili argomentazioni si è sviluppata la teoria della quarta personalità, o personalità aggiuntiva, dell’Unione: essa si rivela pertanto un compromesso volto a far salve esigenze pratiche, soprattutto di continuità, ma ispirato a scarsa razionalità e capace di svuotare di reale contenuto la stessa nozione di personalità giuridica internazionale, comportando conseguenze irragionevoli in tema di imputazione non unitaria degli effetti di una azione invece concepita come unitaria. Il tutto con ineludibili ricadute problematiche in tema di rappresentanza esterna, di responsabilità internazionale, di competenza a stipulare accordi internazionali, e, in definitiva, di credibilità della complessiva dimensione internazionale dell’Unione.

In realtà la persistenza delle norme dei trattati comunitari dedicate alla personalità giuridica, più che a legittimare la teoria della quarta personalità serve alla logica di conservare, anche sotto il profilo testuale, un elevato grado di autonomia all’azione delle Comunità, il che è peraltro perfettamente compatibile con l’unicità della soggettività internazionale. Tale dato, infatti, non deve, ancora una volta, essere sopravvalutato. In questo come in altri casi (si pensi alla proliferazione di soggettività giuridiche anche in capo alle istituzioni monetarie) la affermata personalità giuridica pare orientata a sancire la separatezza e l’autonomia funzionale e organizzativa piuttosto che la soggettività internazionale. In una simile impostazione, il panorama è piuttosto quello di una moltitudine di strutture organiche che trovano copertura e sistemazione in un soggetto unico, l’Unione europea, che ricomprende sotto di sé anche forme di cooperazione nate come meno strutturate e organizzate rispetto a quelle comunitarie. A questo punto anche gli accordi della CE, pur stipulati secondo le regole proprie della componente “comunitaria”, finiscono per dover essere imputati alla UE. Se dall’esterno l’approccio unitario alla personalità è il solo praticabile, è piuttosto dal punto di vista delle ripartizioni interne di competenze e poteri che si risolve la determinazione delle regole relative a negoziazione e conclusione degli accordi.

In una simile impostazione di soggettività unica, l’Unione europea diviene il bacino di raccolta delle molteplici voci dell’azione esterna sviluppata fin dagli anni Cinquanta a opera della CEE, attraverso la Politica commerciale comune (tanto nella dimensione collegata all’Organizzazione mondiale del commercio quanto nella dimensione degli accordi commerciali bilaterali) e attraverso la Politica europea di cooperazione allo sviluppo, fino alla creazione della Politica estera e di sicurezza comune (PESC) e al suo arricchimento con la componente relativa alla Politica europea di sicurezza e difesa (PESD) e, più in generale, all’azione di promozione dei Diritti dell’uomo, vuoi attraverso clausole inserite in accordi di scambio o cooperazione, vuoi attraverso le clausola di adesione, vuoi infine attraverso azioni in settori specifici, quali, ad esempio, le mine antiuomo.

Tale ricostruzione appare confortata da alcuni dati recenti che sembrano denotare come crescente la dimensione politica internazionale dell’Unione, e dunque la sua capacità di agire, in ossequio al principio di effettività, come soggetto pieno ed unico. Si segnala infatti un ampliamento della sfera di applicazione della competenza a stipulare di cui all’art. 24 TUE, con passaggio da un alveo strettamente tecnico a un alveo comportante una ben precisa valutazione, e discrezionalità, politica. In particolare, la firma, in data 10 aprile 2006, dell’Accordo di cooperazione e assistenza tra la Corte penale internazionale e l’Unione europea (si veda la decisione del Consiglio 2006/313/PESC del 10 aprile 2006, in “Gazzetta ufficiale dell’Unione europea” L 115 del 28 aprile 2006) è inequivocabilmente concluso a nome della UE al fine di impegnare direttamente quest’ultima: esso non è, insomma, accordo collettivo degli Stati membri, i quali peraltro già sono parte dello Statuto di Roma uti singuli. Il che ben si riflette nel fatto che non è dovuta intervenire, né è intervenuta, alcuna ratifica dell’accordo da parte degli stati secondo le normative nazionali.

La dottrina più attenta ha riscontrato da subito come tale accordo non nasca per semplici finalità di politica di sicurezza, tipiche finora dell’utilizzo dell’art. 24 TUE, avvenuto, tra l’altro, in chiave prevalentemente se non esclusivamente “esecutiva” (si vedano gli oltre settanta accordi conclusi nel quadro delle c.d. Missioni di tipo “Petersberg”). In esso vi è chi ha ravvisato il primo accordo internazionale di politica estera dell’Unione, cui ha, per inciso, fatto seguito altro accordo, che potremmo definire di dimensione “diplomatica”, relativo allo status internazionale del Rappresentante speciale dell’Unione europea (RSUE) per il Caucaso meridionale e del suo supporto in Georgia (GUUE L 135 del 23 maggio 2006). Ciò rivela in generale una tendenza al potenziamento della dimensione di politica estera dell’Unione, particolarmente rilevante perché avvenuto in relazione ad un ambito, quello della Corte penale internazionale, che appare al contempo delicato e significativo. L’istituzione di tale giurisdizione è, come ben noto, controversa e quella compiuta dall’Unione è scelta di politica estera che travalica nettamente le posizioni singolarmente espresse dagli Stati membri.

Le prospettive alla luce del testo del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa

Al problema del rafforzamento della dimensione internazionale unitaria dell’Unione, ben chiaramente posto dalla stessa Dichiarazione di Laeken sul futuro dell’Unione europea, del 14-15 dicembre 2001, nei termini di un preciso monito a ricercare soluzioni che permettessero all’Unione europea di presentarsi sulla scena internazionale come attore dotato di piena soggettività, ha tentato di fornire adeguata risposta il Trattato che adotta una Costituzione europea, sottoscritto il 29 ottobre 2004 – Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative), CIG 87/2/04, rev. 2, Bruxelles, 29 ottobre 2004. Tale testo, per il quale, come ben noto, sono tramontate le prospettive di entrata in vigore, contiene un’ampia rielaborazione del ruolo internazionale dell’UE volta al suo potenziamento e alla riconduzione a unità delle diverse politiche europee di dimensione esterna. Una pur breve rassegna delle principali innovazioni profilate appare imprescindibile in chiave di prospettiva, dal momento che il valore e la portata di tale elaborazione costituirà comunque la base di riflessione per qualunque evoluzione futura, segnando in certa misura fin d’ora i binari dello sviluppo. L’intento del trattato “costituzionale” è stato di ricondurre ad unità, o per lo meno a maggiore coerenza, le svariate competenze della UE e della CE in materia di relazioni esterne. Per questo il testo, pur formalmente unico, lascia necessariamente coesistere, con la duplicità di indole che è propria della stessa UE, metodi e procedure differenti, riconducibili alle logiche comunitaria e intergovernativa.

Il dato di partenza è l’espresso riconoscimento della personalità giuridica dell’Unione (art. I-7). Le prerogative di tale personalità unica, concepita come capace di coprire tanto le competenze comunitarie quanto quelle intergovernative, sono ricalcate sull’elaborazione del rapporto finale del Gruppo di riflessione “Personalità giuridica”, (Convenzione europea, 1 ottobre 2002, CONV 305/02, par. 19) e sono sintetizzabili nella conclusione di accordi internazionali, nel diritto di legazione, nella possibilità di presentare reclami a istanze giurisdizionali internazionali, nel beneficio di immunità e privilegi propri dello status internazionale.

Accanto a tale riconoscimento, si ritrova la reductio ad unum del potere di conclusione dei trattati nei tre pilastri, con previsione di una procedura sostanzialmente unica che vede il Consiglio autorizzare l’avvio dei negoziati, definirne le direttive, autorizzare la firma e concludere gli accordi. Vi è poi la significativa creazione del ministro per gli Affari esteri dell’Unione (art. I-27), affiancato da un corpo diplomatico europeo (il Servizio europeo per l’azione esterna, SEAE). La creazione di tale figura, capace di dare maggiore unitarietà all’azione esterna dell’Unione compendiando le prerogative del Commissario alle relazioni esterne e dell’Alto rappresentante della PESC, pone peraltro non pochi problemi in tema di bilanciamento dei poteri fra Commissione e Consiglio: il ministro è infatti anche vicepresidente della Commissione e costituisce, in seno a essa, una sorta di contropotere con regia consiliare, e dunque di ispirazione sostanzialmente intergovernativa.

Altre novità degne di nota sono poi la migliore distinzione fra PESC e PESD, con netto rafforzamento della dimensione di difesa, soprattutto in termini di finanziamento; la sistemazione in unico titolo (il V della parte III, intitolato appunto “Azione esterna dell’Unione”) di tutte le politiche europee di dimensione internazionale; il rafforzamento del ruolo del Consiglio europeo.

Conclusioni

In definitiva, la parabola storico-sistematica che si è tratteggiata rivela tutta la perdurante delicatezza della questione relativa alla personalità internazionale: certo, fra le tre opzioni teoriche prospettate è quella della personalità unica ad apparire preferibile e quasi obbligata, tanto sotto il profilo logico quanto sotto il profilo sistematico, anche se una sua affermazione non manca di sollevare comunque problemi di raccordo con la dimensione comunitaria. In questo senso appaiono significativamente ibride le stesse soluzioni, pur votate alla unificazione, contenute nel testo del trattato “costituzionale”.

In verità, le difficoltà di inquadramento della soggettività internazionale dell’Unione non fanno che rispecchiare la natura sfuggente della medesima, confermando la necessità di considerarla perennemente in evoluzione e sostanzialmente incommensurabile, senza che vi sia possibilità di forzare assimilazioni rispetto alle realtà statali o ad altre realtà internazionali.

In questo senso, il tema della personalità internazionale dell’Unione, raggiunta ormai la maturità e la consistenza minima per evitare di essere posto radicalmente in dubbio, si apre a enormi potenzialità evolutive, che dovranno essere misurate costantemente con gli assetti di fatto, sempre mutevoli, in pieno ossequio a una lettura “modulare” e non certo granitica e immutabile dell’istituto. Ciò dovrà avvenire senza dogmatismi e con la elasticità necessaria ad affrontare circostanze all’apparenza paradossali, come quella che vuole la dimensione esterna capace di svilupparsi più agevolmente sulla base di una più marcata conduzione intergovernativa dell’Unione, e dunque in certa misura a danno della stessa logica di integrazione comunitaria: il che, in fondo, non fa che confermare la convinzione che ravvisa la vera forza della costruzione europea nella capacità di volgere a proprio favore lo scacco subito, arretrando laddove necessario per rilanciare, con ritrovata lena e su basi rinnovate, il proprio cammino.

Alberto Oddenino (2007)




PESC

Politica estera e di sicurezza comune (PESC)




Pescatore, Pierre

P. (Lussemburgo 1919-ivi 2010) conclude la sua formazione umanistica nel Liceo dell’Athénée a Lussemburgo superando l’esame di maturità nel luglio 1939.

Dopo l’invasione del Lussemburgo da parte dei nazisti, nel maggio 1940, P. riesce a iscriversi all’Università di Tübingen in Germania. Prova uno spiccato interesse per il diritto romano, quindi accetta la proposta del suo professore austriaco Paul Koschaker di lavorare come suo assistente in questa università. Grazie alla raccomandazione del docente, P. può proseguire la sua formazione all’università di Lovanio in Belgio, dove segue i corsi dell’internazionalista Fernand de Visscher Ottiene il diploma in legge nel 1946 e il secondo dottorato nel corso dello stesso anno.

Segnalato al ministro degli Esteri Joseph Bech dal presidente della commissione per l’esame di dottorato, Félix Welter, P. entra ufficialmente nel servizio diplomatico all’inizio del 1947, come attaché al ministero degli Esteri. Tuttavia, già nell’ottobre 1946, è segretario della delegazione lussemburghese all’Assemblea delle Nazioni Unite (ONU) a New York. Responsabile del servizio giuridico della missione, acquista dimestichezza con la common law, i problemi del dopoguerra e il funzionamento delle organizzazioni internazionali. Svolge questo incarico fino al 1952.

P. annovera fra i suoi primi colleghi di lavoro Albert Borschette, futuro commissario alla Commissione europea della Comunità economica europea (CEE), e Christian Calmes, futuro segretario generale del Consiglio dei ministri. Ottiene una serie di promozioni: attaché e poi consigliere giuridico nel 1948, segretario di legazione nel 1949, inviato straordinario e plenipotenziario nel 1959 e segretario generale nel 1964. Continua a lavorare sempre nella sezione affari politici del ministero assumendone anche la direzione. Durante la sua carriera ministeriale è anche l’ispiratore di alcuni provvedimenti amministrativi, come la creazione di un servizio giuridico dei trattati internazionali.

Nel 1948 partecipa ai negoziati per la creazione dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE), ispirando alcuni trattati sovranazionali. Nel corso dello stesso anno si dedica al confronto tra gli impegni militari previsti dalla carta dell’ONU e quelli dell’Unione occidentale.

Dopo essere stato membro relatore della commissione di studi per la riforma dell’amministrazione governativa granducale nel 1954, P. partecipa ai negoziati dei Trattati di Roma dall’ottobre 1956 al marzo 1957. Fa parte del gruppo di redazione, chiamato gruppo giuridico, creato il 26 giugno 1956. Si occupa dell’elaborazione delle disposizioni generali dei Trattati, della loro redazione giuridica e anche della struttura istituzionale, legislativa, giuridica e decisionale delle future comunità. Grazie a questi negoziati e all’influenza del giurista francese Michel Gaudet, P. aderisce alla causa della costruzione europea di stampo federalista (v. Federalismo). Questo negoziato sarà, a suo giudizio, il «più straordinario della sua carriera», non solo perché approda alla messa a punto dei Trattati, ma dà anche una «forma duratura ai rapporti intereuropei, fissando il modello di uno dei più notevoli sviluppi del diritto internazionale contemporaneo». Basandosi sulle sue conoscenze sul Benelux e lo Zollverein, P. svolge un ruolo tutt’altro che trascurabile nel gruppo giuridico: ha un rapporto di fiducia reciproca con il segretario generale del Consiglio dei ministri Christian Calmes, sfrutta la sua conoscenza del tedesco per comunicare con la delegazione tedesca e redige le clausole di carattere giuridico e generale grazie alla sua conoscenza della teoria generale del diritto.

Tra il 1957 e il 1958, P. presiede la delegazione lussemburghese che partecipa ai negoziati per costituire l’Unione economica del Benelux. Tra il 1959 e il 1960, è membro del Comitato provvisorio creato dal Consiglio dei ministri della CEE e dell’Euratom per esaminare il progetto di università europea.

Dopo aver presieduto nel 1961 il gruppo di lavoro Cultura della Commissione Fouchet, incaricato di studiare un’eventuale cooperazione in materia culturale a livello europeo, P. partecipa alla revisione delle Convenzioni che istituiscono l’Unione economica belga-lussemburghese (UEBL) nel 1963. Prima di concludere la sua carriera ministeriale, svolge ancora un ruolo tutt’altro che trascurabile nella risoluzione della crisi della “sedia vuota” nel 1965 e nel 1966.

Grazie alla sua conoscenza del Diritto comunitario P. nel 1967 è nominato dagli Stati membri giudice della Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea), succedendo al compatriota Charles-Léon Hammes, e vi rimarrà fino al 1985. Partecipa alla stesura di alcune sentenze fondamentali, come per esempio quella dell’AETR nel 1971, che estende le competenze negoziali internazionali della Comunità, o la sentenza Cassis di Digione nel 1979, che determina le regole e le eccezioni della Libera circolazione delle merci. Assumerà anche la presidenza della Corte di giustizia europea.

P. ritiene che la Corte «tragga dal sistema dei trattati, dall’insieme dei loro scopi, dall’architettura istituzionale, le ispirazioni che le permettono di affermare, indipendentemente dalla congiunture politiche variabili, l’operatività pratica del grande progetto di unificazione realizzato dai trattati di integrazione» (v. Pescatore, 1973, pp. 5- 16). Il ruolo della Corte e dei suoi giudici è capitale per far progredire l’integrazione europea (v. Pescatore, 1974) (v. Integrazione, metodo della).

Nel corso della sua carriera giuridica P. fa parte anche del tribunale amministrativo dell’Organizzazione internazionale del lavoro a Ginevra, della giurisdizione dell’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT), del collegio di arbitrato creato dalla convenzione di Londra sulla pesca e della Corte permanente di arbitrato.

Malgrado la carriera diplomatica e giuridica, P. rimane sempre fedele all’ambiente accademico. Oltre ai corsi di teoria generale del diritto al Centre universitaire de Luxembourg dal 1952, insegna diritto delle Comunità europee all’Università di Liegi. Collabora anche con l’Institut de droit international, l’Institut grand-ducal, l’Institut royal des relations internationales de Bruxelles e l’Istituto Max Planck. Il suo lavoro accademico si concentra, in particolare, sul confronto dei sistemi giuridici francese, tedesco e inglese. Dopo aver ottenuto il premio delle scienze del Granducato di Lussemburgo nel 1963, P. è nominato membro dell’Institut de droit international nel 1965.

Schroeder Corinne (2012)




PESD

Politica europea di sicurezza e difesa (PESD)