Piano di Azione Comunitario

Definizione e caratteristiche

Il piano di azione comunitario è un atto atipico; in quanto tale non è previsto formalmente dal Trattato istitutivo della Comunità europea (v. Trattati di Roma) ma si è affermato, ed è frequentemente utilizzato, nella prassi. Con documenti di tal genere, redatti dalla Commissione europea e diffusi tramite comunicazioni, da quest’ultima periodicamente pubblicate e rivolte al Consiglio dei ministri, al Parlamento europeo e spesso anche al Comitato economico e sociale e al Comitato delle regioni, si vuole infatti prevedere e indicare, nelle linee generali e per un arco temporale variabile ma solitamente pluriennale, la realizzazione di una determinata volontà politica relativa a materie oggetto di competenza comunitaria; questa volontà, nella sua fase esecutiva, può poi essere attuata sulla base di quanto indicato in uno o più programmi di azione di futura emanazione. Si tratta pertanto di provvedimenti non vincolanti, privi di un vero e proprio valore normativo, attraverso i quali la Commissione, titolare istituzionale del Diritto d’iniziativa (del potere cioè di formulare proposte per l’adozione di atti giuridici) definisce i limiti della propria discrezionalità. L’elaborazione dei piani di azione, di regola, implica per la Commissione la preventiva consultazione di altri organi comunitari interessati nonché di enti dei vari Stati membri, quali possono essere i ministeri o le organizzazioni rappresentative della società civile.

La suddivisione interna dei piani di azione varia a seconda dei casi. Di regola, essa consta di due parti principali: nella prima parte vengono illustrati il contesto e gli obiettivi strategici fondamentali da perseguire e si individuano i temi attorno ai quali il piano si articola e i settori nei quali occorre adottare misure adeguate; nella seconda parte vengono formulate proposte concrete per ottenere i miglioramenti e i risultati sperati, con la presentazione di iniziative concrete, dettagliate anche nella loro successione cronologica, e le indicazioni relative alle risorse disponibili e al reperimento delle ulteriori risorse necessarie.

I principali piani di azione in vigore

Tra i piani di azione più recenti e più significativi è opportuno segnalare: il piano di azione sulle pari opportunità per le persone con disabilità – comunicazioni COM (2003) 650 def. del 30 ottobre 2003 e COM (2005) 604 def. del 28 novembre 2005 –, riguardante il periodo 2004-2010 e mirante a definire un approccio sostenibile e operativo alle questioni della disabilità nell’Europa allargata; il piano di azione per le tecnologie compatibili con l’ambiente – comunicazione COM (2004) 38 def. del 28 gennaio 2004 –, che ha il fine di promuovere le tecnologie ambientali e di ridurre così la pressione sulle risorse naturali, di migliorare la qualità della vita e di favorire la crescita economica; il piano di azione per l’imprenditorialità – comunicazione COM (2004) 70 def. dell’11 febbraio 2004 –, con il quale vengono proposti interventi per promuovere lo spirito d’impresa; il piano di azione nel settore degli aiuti di Stato – comunicazione COM (2005) 107 def. del 7 giugno 2005 –, che ha dato l’avvio a una esaustiva riforma della politica comunitaria sugli aiuti medesimi da realizzare tra il 2005 e il 2009; il piano di azione per rendere più efficace e tempestivo l’aiuto allo sviluppo –comunicazione COM (2006) 87 def. del 2 marzo 2006 –, stilato con validità 2006-2010 allo scopo di intensificare, migliorare l’impatto e accelerare la diffusione dell’aiuto in parola; il piano di azione per una politica marittima integrata – comunicazione COM (2007) 575 def. del 10 ottobre 2007 –, mediante il quale vengono delineati il quadro di gestione, gli obiettivi e gli strumenti utili al fine di incoraggiare lo sfruttamento sostenibile del mare e lo sviluppo del comparto marittimo e delle zone costiere.

Pierluigi Simone (2008)




Piano Fouchet

Contesto storico

Negli anni Cinquanta il generale Charles de Gaulle aveva contrapposto alla concezione di un’Europa integrata quella di un’Europa confederale. Quando tornò al potere nel giugno 1958, l’aspetto politico del suo progetto europeo era già stabilito: cooperazione tra Stati e non integrazione, ma una cooperazione profonda, “organica”, che sarebbe sfociata in una “politica comune” negli affari europei e mondiali, e una politica indipendente dagli Stati Uniti. È necessario tener presente che il generale nel 1958 non era o non era più ostile al Mercato comune (v. Comunità economica europea) come organismo economico. In effetti, de Gaulle era pienamente consapevole del contributo che il Mercato comune avrebbe fornito all’economia francese, imprimendole un forte impulso allo sviluppo. E come era persuaso che gli organismi economici europei dovessero essere sovrastati e controllati da una cooperazione politica fra gli Stati (v. Cooperazione politica europea), così era altrettanto convinto che non vi sarebbe stata un’“Europa politica reale” se alla sua base non vi fosse stata una solida “entità economica”. Quello che il generale era risoluto a rifiutare non era quindi il Mercato comune di per sé, ma la sua tappa successiva, il passaggio al voto a Maggioranza qualificata, e soprattutto un eventuale sconfinamento del sistema istituzionale integrato dei Trattati di Roma dalla sfera economica al piano politico, che rimettesse in discussione la sovranità degli Stati.

Parallelamente alla definizione delle linee generali della sua politica europea, de Gaulle ricontestualizzava la posizione della Francia nei confronti della Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO). Per questa ragione, il 17 settembre 1958, fu indirizzato un memorandum a Dwight Eisenhower e a Harold Macmillan in cui si chiedeva l’allargamento dell’area d’azione dell’Alleanza e la partecipazione della Francia, in una posizione di parità con la Gran Bretagna (v. Regno Unito) e gli Stati Uniti, all’elaborazione della strategia mondiale, incluso il nucleare. Da questo momento, la questione della riforma dell’Alleanza atlantica sarebbe stata, per de Gaulle, strettamente legata a quella dell’organizzazione politica dell’Europa.

Nel gennaio 1960, il generale tornò sulla questione europea con i suoi collaboratori. L’Europa non sarebbe stata un’Europa integrata ma un’Europa degli Stati, che avrebbe interessato in un primo tempo il “nocciolo duro” dei Sei sulla base fondamentale di un riavvicinamento franco-tedesco, ma senza sbarrare la strada successivamente agli altri Stati europei, compresi quelli dell’Europa orientale. Nel luglio 1960, spiegò ai suoi collaboratori che bisognava contenere le “potenzialità sovrannazionali” dei Trattati di Roma; quindi si interessò alle possibilità di rimettere in discussione il passaggio alla terza fase del Mercato comune, a partire dal 1° gennaio 1967, che prevedeva il passaggio al voto di maggioranza. Parigi adottò una strategia che il generale avrebbe di fatto seguito fino all’inizio del 1962: per evitare di rilanciare il dibattito tra federalisti (v. Federalismo) e confederalisti, non dare ai partner l’impressione che le proposte francesi mirassero a rimettere in discussione le acquisizioni comunitarie e presentarle, al contrario, come una loro integrazione. Ma facendo in modo, al tempo stesso, «che la nuova costruzione europea sottragga alla vecchia quel che può contenere di dannoso». Tuttavia, per aver abbandonato bruscamente questa strategia prudente, il 17 gennaio 1962, de Gaulle fece naufragare il Piano Fouchet.

Concepimento ed elaborazione del Piano

In occasione dell’incontro di Rambouillet fra de Gaulle e Konrad Adenauer il 29 e 30 luglio, il generale consegnò al tedesco una nota manoscritta in cui riassumeva le sue idee: «Per essere efficace, per essere sostenuta dal sentimento e dall’adesione dei popoli, per non perdersi nelle brume delle teorie, l’“Europa” attualmente non può consistere che in una cooperazione organizzata fra gli Stati. Tutto impone che questo si realizzi a partire da un accordo tra la Francia e la Germania, al quale aderiranno subito l’Italia, l’Olanda, il Belgio e il Lussemburgo. Adottare questa concezione significa ammettere che gli organismi “sovrannazionali”, che sono stati costituiti fra i Sei e che tendono inevitabilmente e arbitrariamente a diventare “sovra-Stati” irresponsabili, vanno riformati, subordinati ai governi e utilizzati per i normali compiti della consultazione e della tecnica. Adottare questa concezione significa, d’altra parte, porre fine all’integrazione americana, visto che in ciò consiste attualmente l’Alleanza atlantica, e che è in contraddizione con l’esistenza di un’Europa dotata di una sua personalità e responsabilità dal punto di vista internazionale. L’Alleanza atlantica deve essere fondata su basi nuove. È compito dell’Europa proporle». Il generale proponeva poi riunioni regolari dei ministri e dei capi di Stato o di governo, preparate da quattro commissioni comuni e permanenti di funzionari negli ambiti della politica, dell’economia, della cultura e della difesa.

Adenauer si mostrò complessivamente favorevole alle proposte di de Gaulle: la NATO doveva essere riformata, l’Europa doveva esistere autonomamente sul piano militare, la Francia e la Germania dovevano accordarsi per guidarla. I due uomini politici decisero che Parigi avrebbe consultato gli altri partner mediante colloqui bilaterali che furono avviati immediatamente e si conclusero con la visita del presidente del Consiglio lussemburghese, il 17 settembre. Questi scambi fecero emergere tre problemi: il ruolo della Gran Bretagna, la NATO e lo statuto delle Comunità esistenti. Dopo complessi negoziati, il 9 febbraio 1961, alla vigilia di una riunione dei Sei, de Gaulle e Adenauer riuscirono a trovare un accordo: il giorno successivo, proposero ai quattro partner «un inizio di cooperazione politica» per mezzo di incontri trimestrali dei capi di governo e di riunioni regolari dei ministri degli Affari esteri, dell’Istruzione e della Cultura. La conferenza dei Sei si tenne il 10 e l’11 febbraio: italiani, belgi e lussemburghesi si dichiararono favorevoli al principio di una cooperazione politica a condizione che non mettesse in discussione né la NATO né le Comunità esistenti. Invece, l’olandese Joseph Luns si mostrò fortemente sfavorevole: temeva una collusione franco-tedesca e non voleva prendere alcuna iniziativa senza la Gran Bretagna, né decidere qualunque cosa che rischiasse di rimettere in discussione la NATO o le Comunità. Di conseguenza, non fu possibile cominciare subito le riunioni politiche regolari. Per evitare un completo fallimento, ci si limitò a creare una commissione incaricata di presentare proposte concrete in vista di un prossimo vertice: si trattava della Commissione Fouchet, chiamata ufficialmente Commissione di studi, che prese il nome dal suo presidente, gollista storico, all’epoca ambasciatore della Francia a Copenaghen.

La Commissione Fouchet si riunì a partire dal 16 marzo 1961 e presentò un progetto di rapporto il 24 aprile, accettato da cinque partner su sei, dato che i Paesi Bassi si opposero. Il disaccordo era evidente: la Commissione aveva seguito sostanzialmente le tesi francesi e il progetto prevedeva la creazione di un organismo permanente e di riunioni dei capi di governo ogni quattro mesi, senza limitazioni nell’ordine del giorno. Quindi sarebbe stato possibile affrontare sia le questioni internazionali sia le questioni di competenza delle Comunità. Era proprio questo che gli olandesi intendevano evitare: non volevano che le Comunità rischiassero di uscirne indebolite e non volevano neppure che i Sei affrontassero questioni che ai loro occhi erano di pertinenza dell’Alleanza atlantica. Era questo il nodo centrale del problema. Nelle settimane successive, i tedeschi continuarono ad appoggiare la posizione francese di fronte alle perplessità degli altri partner. Nella riunione dei ministri degli Affari esteri il 5 maggio, Heinrich von Brentano dichiarò che gli europei non dovevano esitare a discutere fra loro di questioni di difesa: era indispensabile avere un peso nei loro rapporti con gli americani. De Gaulle e Adenauer, nel loro incontro a Bonn il 20 maggio 1961, decisero concordemente di fissare un vertice (v. Vertici) dei Sei nel mese di luglio e stabilirono l’ordine del giorno. Ritenevano necessario giungere a un trattato di unione politica che prevedesse riunioni regolari dei capi di Stato o di governo senza limitazioni dell’ordine del giorno, un progetto che rispecchiava la tesi francese e che, in particolare, avrebbe consentito di parlare di difesa (un ambito, fino a quel momento, di competenza esclusiva della NATO) e di economia (sfera di competenza delle Commissioni).

La prima dichiarazione

Alla fine, dopo una serie di compromessi suggeriti in particolare dal Belgio e dall’Italia, e con l’appoggio della Germania, nel vertice di Bonn del 18 luglio 1961, si arrivò a redigere una dichiarazione che soddisfaceva tutti i partner. Secondo una formula trovata dagli italiani, la dichiarazione parlava di «sviluppare [la] collaborazione politica in vista dell’unione dell’Europa e [di] proseguire allo stesso tempo nell’opera già intrapresa nelle Comunità europee». Così de Gaulle otteneva l’avvio di una “cooperazione politica” con riunioni regolari dei capi di Stato e di governo, allo scopo di approdare a una “politica comune”: la Commissione di studi aveva l’incarico di presentare proposte per dare “un carattere statutario” all’unione dei popoli europei. In compenso, il generale accettava di ricordare che l’Europa era «alleata degli Stati Uniti e di altri popoli liberi»; accettava che si dicesse, dopo aver evocato l’unione politica dell’Europa: «rafforzando così l’Alleanza atlantica»; accettava di prendere in considerazione delle riforme «nell’interesse di una grande efficacia delle Comunità» e, in particolare, di invitare l’Assemblea parlamentare europea (v. Parlamento europeo) a «estendere a nuovi ambiti, con la collaborazione dei governi, il campo delle sue deliberazioni».

È palese l’architettura del compromesso, che aveva riguardo sia per i sostenitori delle Comunità che per quelli dell’Alleanza atlantica. Il generale non parlava più di riformare le Comunità, subordinandole all’Unione politica, un punto nevralgico per alcuni parlamentari; tuttavia, aveva ottenuto la cooperazione politica fra gli Stati. La difesa non era esplicitamente menzionata come oggetto di questa cooperazione politica (soltanto la cultura, l’istruzione e la ricerca erano definiti campi d’applicazione della futura unione), ma la dichiarazione non fissava alcun limite alle riunioni dei capi Stati e di governo e la frase «favorire l’unione politica dell’Europa rafforzando così l’Alleanza atlantica» mostrava come i problemi di difesa non avrebbero potuto esserne esclusi.

La Commissione Fouchet continuò i suoi lavori. Il 13 gennaio 1962, il Quai d’Orsay stese un progetto di trattato in vista della riunione della Commissione di studi che doveva tenersi il giorno successivo. Questo testo teneva conto dei dibattiti che dall’autunno si erano svolti all’interno della Commissione. Prevedeva la creazione di un’Unione di Stati, che avrebbe avuto come obiettivo, in particolare, «l’adozione di una politica estera comune» e «l’adozione di una politica di difesa comune che contribuirà al rafforzamento dell’Alleanza atlantica». Le istituzioni previste erano il Consiglio dei capi di Stato e di governo, che si sarebbe riunito ogni quattro mesi e avrebbe deciso all’unanimità; i Comitati dei ministri degli Affari esteri, della Difesa e dell’Istruzione che si sarebbero riuniti almeno una volta a trimestre; una Commissione politica permanente formata da rappresentanti degli Stati membri incaricata di preparare e di seguire le decisioni del Consiglio; l’Assemblea parlamentare europea (quella dei Trattati di Roma). Come si può vedere, le tesi francesi sull’Unione politica, unione di Stati sovrani che decidono all’unanimità, erano ampiamente prese in considerazione, compreso l’inserimento della difesa nelle politiche comuni. Allo stesso tempo, l’equilibrio del compromesso di Bonn era rispettato: la politica di difesa avrebbe contribuito «a rafforzare l’Alleanza atlantica».

L’articolo 17, che prevedeva una revisione del Trattato (v. anche Trattati) tre mesi dopo la sua entrata in vigore, era un punto di compromessi particolarmente delicati tra i francesi e i fautori di soluzioni di natura più federale: questa revisione aveva come finalità quella di «unificare progressivamente la politica estera e la politica di difesa dell’Unione» (si percepisce l’ambizione del programma voluto da Parigi), associando al tempo stesso «più strettamente l’Assemblea parlamentare europea alla definizione e alla realizzazione» di queste politiche, il che corrispondeva agli auspici dei partner. Quanto alle Comunità esistenti, sarebbero state riformate «allo scopo di razionalizzarle e coordinarle» (interesse francese), ma «nel rispetto delle strutture» definite dai trattati esistenti, il che corrispondeva alle preoccupazioni di certi parlamentari di vedere svuotarsi le Comunità della loro sostanza. Questo progetto di trattato era perfettamente compatibile con le vedute di de Gaulle e con la dichiarazione di Bonn del 18 luglio 1961. Tuttavia – e la cronistoria dei negoziati dell’autunno 1961 lo dimostra con chiarezza – questo testo era il limite estremo di quanto si poteva far accettare ai partner.

La seconda dichiarazione

Prima di sottoporlo ufficialmente ai partner, era opportuno far approvare il progetto al generale de Gaulle. Il testo tornò al Quai d’Orsay il 17 gennaio 1962, dopo un Consiglio dei ministri dedicato in particolare alle questioni europee. De Gaulle aveva apportato tre correzioni più significative: aveva soppresso il riferimento all’Alleanza atlantica; aveva introdotto il termine “economia” nell’enunciato sugli scopi dell’Unione (accanto alla politica estera, alla cultura e alla difesa); aveva eliminato la frase «nel rispetto delle strutture previste nei Trattati di Parigi e di Roma che istituiscono le Comunità europee» nell’articolo dedicato alla revisione dopo tre anni. La combinazione di queste ultime due modifiche faceva sì che l’Unione politica finisse per sovrastare le Comunità esistenti. I partner potevano temere che arrivasse a immischiarsi nelle loro competenze e a ridurre il loro ruolo. L’equilibrio del testo del 13 gennaio era interamente distrutto.

Quando il testo francese con le correzioni fu distribuito ai membri della Commissione Fouchet il 18 gennaio, la costernazione fu generale. La sola decisione presa fu quella di stabilire una sinossi che affiancava il testo francese e un documento comune ai Cinque. I timori immediati dei partner non erano privi di fondamento: il testo del Consiglio dei ministri del 17 gennaio notava «la volontà della Francia di promuovere» fra i Sei «l’organizzazione di una cooperazione d’insieme che assimili gli ambiti particolari in cui si comincia ad instaurare la loro solidarietà». Si tornava allo scopo recondito iniziale dei francesi, che era stato occultato dal compromesso del 18 luglio 1961: la nuova Unione avrebbe avuto come finalità anche una riduzione dell’importanza delle Comunità al fine di ricollocare gli organismi “sovrannazionali” sotto il controllo degli Stati.

Le ragioni del cambiamento di strategia di de Gaulle, il 17 gennaio 1962, sono senz’altro complesse. Pare che la soluzione della crisi algerina fosse ormai a portata di mano (accordi del marzo 1962) e il generale quindi si sentiva politicamente più libero. D’altra parte, de Gaulle in questo stesso periodo riprendeva con John Kennedy i suoi progetti di riforma atlantica. Quindi sembra che alla fine del 1961 i progetti del generale si fossero ulteriormente precisati e questo forse può spiegare l’irrigidimento manifestato nelle correzioni del 17 gennaio al progetto di trattato di Unione politica.

La deriva del Piano Fouchet

Tuttavia, il generale teneva all’Unione politica. Nelle settimane successive, dietro consiglio di Adenauer e di Amintore Fanfani e in seguito a incontri con i due uomini politici, fece alcune concessioni sull’Alleanza e in merito alle Comunità esistenti che praticamente riportavano il progetto francese allo stato del 13 gennaio. Ma era troppo tardi: gli europei, nella famosa riunione dei ministri degli Affari esteri del 17 aprile 1962, respinsero un testo che era diventato nuovamente molto simile al progetto del 13 gennaio (che allora erano stati disposti ad accettare) perché la psicologia ebbe un peso al di là dei testi: quello che a gennaio era accettabile non lo era più in aprile perché le modifiche introdotte da de Gaulle avevano rivelato i suoi pensieri reconditi in maniera esplicita e umiliante per i partner. Non si poteva più fingere di credere che da una parte e dall’altra si parlasse della stessa Europa, non si poteva più sperare che, nei fatti, le concezioni in seguito si avvicinassero. Inoltre, l’analisi della riunione del 17 aprile mostra che il vero intoppo, più ancora delle Istituzioni comunitarie, più del problema della partecipazione britannica, era stato quello dell’Alleanza atlantica: Benelux e Italia non accettavano assolutamente di rischiare di rimetterla in discussione. Si riproponeva in questo caso quello che era stato l’autentico centro di gravità dell’intera questione: i problemi strategici e nucleari, il problema della NATO e della sua riforma e dei rapporti fra Stati Uniti ed Europa.

Georges-Henri Soutou (2008)




Piano Genscher-Colombo

Il Piano Genscher-Colombo emerse come la strada per il rafforzamento del processo d’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) proposta dai ministri degli Esteri tedesco e italiano nel gennaio 1981. Più precisamente, il 6 gennaio 1981, a Stoccarda, il ministro degli Esteri della Repubblica Federale Tedesca (v. Germania) Hans-Dietrich Genscher fece un significativo discorso nel quale si auspicava un consistente rafforzamento della cooperazione all’interno della Comunità economica europea. Tale intervento divenne noto come “discorso dell’Epifania”. Nello stesso mese, nel corso di un discorso tenuto a Firenze nell’ambito del congresso delle Associazioni europee delle autorità locali, il ministro degli Esteri italiano Emilio Colombo riprese le proposte avanzate dal suo collega tedesco. Il 3 febbraio venne pubblicato il testo integrale dell’intervento del ministro italiano sul rafforzamento della cooperazione europea, che ottenne dunque forte risalto presso gli ambienti europeisti (v. anche Movimenti europeistici). Nelle aspettative di Colombo l’Europa avrebbe dovuto essere un fattore di esaltazione delle diversità, armonizzandole all’interno di una struttura comunitaria, che fosse al tempo stesso capace di risolvere problemi concreti. L’unica via per raggiungere simili obbiettivi veniva individuata nel potenziamento del processo di integrazione.

I governi dei due paesi diedero il via a uno studio congiunto che si concluse con un progetto, il Piano Genscher-Colombo, finalizzato a un netto rafforzamento della Cooperazione politica europea tra i Dieci: il Piano venne presentato agli altri Stati membri il 6 novembre 1981 e al Parlamento europeo la settimana successiva. Esso mirava a «creare un’Europa capace di assumersi la propria responsabilità nel mondo e di fornire il contributo internazionale corrispondente alla propria tradizione e alla sua missione». Si faceva qui puntuale riferimento alle decisioni prese a Parigi nel 1972 dai capi di Stato e di governo, al Documento sull’identità europea pubblicato nel dicembre del 1973 dai ministri degli Esteri e alla Dichiarazione del Consiglio europeo dell’Aia del novembre 1976, relativi alla progressiva costruzione dell’Unione europea. Si auspicava una maggiore concertazione nelle questioni di politica di sicurezza e il raggiungimento di una posizione comune europea sulle questioni d’interesse vitale, permettendo all’Europa di agire con un’unica voce sul piano internazionale, anche nei settori della Lotta contro il terrorismo e della Lotta contro la criminalità internazionale e contro la droga. Accento particolare veniva posto sulla necessità di uniformare la legislazione degli Stati membri, rafforzando al tempo stesso la comune coscienza europea dei cittadini. Per raggiungere questi ambiziosi obiettivi sarebbe stato necessario elaborare una posizione comune su tutte le questioni fondamentali di politica internazionale, fissando le posizioni definitive della Comunità solamente attraverso consultazioni congiunte di tutti gli Stati membri. Non venivano proposte sostanziali modifiche alle strutture decisionali comunitarie (v. anche Processo decisionale): si lasciava, infatti, al Consiglio dei ministri un ruolo centrale in ambito programmatico e decisionale mentre il Parlamento avrebbe avuto il compito di deliberare sulle questioni di rilevante carattere comunitario e relative alla cooperazione politica europea. Inoltre, il Parlamento avrebbe avuto facoltà di inviare raccomandazioni al Consiglio e alla Commissione europea, mantenendo al tempo stesso una fondamentale funzione di controllo sulle attività delle altre Istituzioni comunitarie. In questa struttura, il Consiglio dei ministri era il detentore di tutti i poteri decisionali, essendo responsabile della reale gestione di tutte le tipologie d’intervento politico della futura Unione. La questione del diritto di veto in materia decisionale veniva affrontata richiamandosi alla natura eccezionale di un simile provvedimento, giustificata dalla difesa dei soli interessi vitali di uno Stato. Veniva fatto riferimento alla volontà di favorire decisioni comuni, cercando di incoraggiare in questo senso gli Stati membri, evidenziando il ruolo essenziale dell’assunzione di posizioni condivise a livello comunitario. La Commissione europea sarebbe stata investita della responsabilità primaria del proseguimento e dell’Armonizzazione del processo d’integrazione, compito in cui sarebbe stata assistita dal quotidiano lavoro della Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea), responsabile delle questioni relative all’applicazione del Diritto comunitario e di conseguenza della fattiva integrazione legislativa. Aspirazione ultima del Piano era la presentazione di un “Atto europeo” al fine di istituire un effettivo processo di unificazione. Lo schema del futuro Atto sarebbe stato sottoposto al Consiglio europeo, responsabile tramite il Consiglio dei ministri degli Esteri della sua fattiva preparazione. Il Piano Genscher-Colombo teneva poi in considerazione le prospettive d’unificazione monetaria e di ampliamento della zona del Sistema monetario europeo (SME), che avrebbe dovuto condurre alla creazione di una più ampia area di scambio e stabilità monetaria (v. anche Unione economica e monetaria).

La bozza di “Atto europeo” venne presentata alla sessione di Londra del Consiglio europeo del 26 e 27 novembre. I governi italiano e tedesco, tramite i rispettivi ministri degli Esteri, si facevano così promotori della proposta di rilancio e accelerazione del processo d’integrazione europea. Si trattava di un piano puramente politico, articolato in una dichiarazione d’intenti adottata dai membri del Consiglio, che affermavano il proprio impegno verso un’effettiva unione europea. Nel progetto figurava una serie di riferimenti d’ampio respiro alle prospettive future dell’Unione, mirando a perfezionarne i meccanismi istituzionali. Il primo obiettivo veniva individuato nella costruzione di una politica estera comune, auspicando l’adozione di un sistema decisionale basato sul voto con maggioranza all’interno del Consiglio dei ministri (v. anche Maggioranza qualificata), cui si sarebbe dovuto affiancare un potenziamento delle capacità decisionali del Parlamento europeo.

Nel corso delle riunioni londinesi il Consiglio decise la formazione, tramite il Consiglio dei ministri degli Esteri, di un gruppo di lavoro intergovernativo, incaricato di studiare a fondo le prospettive di realizzazione del progetto italo-tedesco che, solo in un secondo tempo, sarebbe stato sottoposto al vaglio del Parlamento europeo. Dopo accurata analisi della proposta si decise tuttavia di «limitare il progetto di Atto europeo ai soli punti suscettibili d’essere accettati unanimemente da tutti gli Stati membri».

Nel Consiglio europeo di Stoccarda del giugno 1983, i capi di Stato e di governo e i ministri degli Affari esteri sottoscrissero la dichiarazione solenne sull’Unione europea sulla base della proposta Genscher-Colombo, nella speranza di dare nuovo impeto al processo d’integrazione e di uscire dalla fase di stallo in cui esso si trovava. Si faceva espresso riferimento ad una maggiore coerenza e coordinazione a tutti i livelli delle diverse strutture comunitarie. La Dichiarazione di Stoccarda definiva quattro campi d’attività per l’Unione europea, dividendoli in politica estera, Comunità europea, cooperazione culturale e integrazione dei sistemi legislativi nazionali. Tuttavia la Dichiarazione sull’integrazione europea non costituiva un vincolo legale, derivandone così una scarsa spinta propositiva.

Il Piano Genscher-Colombo costituisce senza dubbio uno dei più importanti tentativi di potenziamento del processo d’integrazione. Il momento in cui esso venne presentato è dunque particolarmente significativo e segna l’inizio di una fase di rilancio sul piano ideale e progettuale. Tuttavia vanno tenute in adeguata considerazione le molte difficoltà pratiche legate allo sviluppo del Piano e al suo successivo trasformarsi in un concreto progetto di “Atto europeo”. Il Consiglio sembrerebbe aver accolto inizialmente con favore la proposta italo-tedesca, ma la successiva evoluzione del progetto lascia intravedere le forti resistenze poste a una sua effettiva realizzazione. Difficile valutare positivamente la scelta dell’istituzione del comitato intergovernativo, composto da funzionari ed esperti nazionali privi di qualsiasi responsabilità politica, il cui unico compito consisteva nella individuazione delle condizioni esistenti al tempo della proposta. Va, inoltre, considerato come i suoi detrattori contestassero la futura posizione del Parlamento, che sarebbe comunque rimasto privo di reale potere decisionale, mentre tutti i poteri avrebbero continuato a essere affidati al Consiglio dei ministri, cosa che avrebbe reso evidentemente difficile la formazione di un’unica politica europea di fronte al sicuro manifestarsi di interessi nazionali.

Andrea Carteny (2008)




Piano Mansholt

Il Memorandum sulla riforma dell’agricoltura, meglio noto come “Piano Mansholt” dal nome di colui che ne era stato l’ispiratore e il principale responsabile politico (Sicco Mansholt, vicepresidente e responsabile dell’agricoltura e successivamente presidente della Commissione europea dal 1958 al 1972), rappresenta il primo e forse più importante tentativo di riforma della Politica agricola comune (PAC). Presentato dalla Commissione europea nel dicembre 1968, il Memorandum mirava a promuovere nella Comunità economica europea un’agricoltura che fosse capace di assicurare ai suoi addetti condizioni di vita e di reddito comparabili rispetto ai lavoratori degli altri settori e che, parallelamente nello stesso tempo, non diventasse insostenibile per il bilancio comunitario (v. Biilancio dell’Unione europea). E spiegava con dovizia di dati e ricchezza di argomentazioni come l’edificio appena completato della «politica dei prezzi e di regolamentazione dei mercati» conducesse, invece, in una direzione opposta.

In effetti, secondo il Memorandum, per la maggioranza delle famiglie contadine il ritardo rispetto al resto della società tendeva sempre di più ad aggravarsi ed era illusorio pensare che questa politica, così come si era venuta configurando, potesse servire a contrastare un processo del genere. Al contrario, i prezzi elevati e garantiti che ne erano alla base contribuivano ad approfondire il solco a tutto vantaggio di una piccola minoranza di aziende già moderne e, per di più, provocavano, specie per i cereali, gli allevamenti bovini da latte e lo zucchero, eccedenze produttive il cui smaltimento avrebbe presto costituito un onere insopportabile per la collettività. A questo riguardo il Memorandum presentava alcune cifre assai eloquenti: nel 1960, cioè prima del varo della PAC, i sei Stati membri fondatori della Comunità – Francia, Germania, Italia, Belgio, Olanda (v. Paesi Bassi) e Lussemburgo – avevano speso per il sostegno dei prezzi agricoli 500 milioni di ECU (European currency unit) (v. Unità di conto europea); nel 1969 le spese in questione, a carico del bilancio della Comunità economica europea (CEE), si avviavano a superare i 2,5 miliardi di ECU. E concludeva: «Se non vengono prese le misure necessarie il costo degli interventi sui mercati raggiungerà eccessi tali da rischiare di travolgere l’insieme dei meccanismi in vigore».

Il Piano Mansholt presentava allora un complesso programma, “Agricoltura 1980, articolato lungo tre linee che esso considerava come strettamente complementari. Innanzitutto, si sosteneva che era necessario e urgente riformare il sistema dei prezzi messo in opera nei sei anni precedenti e che pure aveva consentito di liberalizzare gli scambi agricoli fra i Sei. In particolare, Sicco Mansholt spiegava che occorreva stabilire una nuova gerarchia fra i prezzi dei diversi prodotti agricoli, che sapesse tenere conto, ad un tempo, dei costi di produzione e della prevedibile evoluzione della domanda. Solo in questo modo il funzionamento dei mercati agricoli sarebbe ridiventato normale, si sarebbe impedita la formazione di eccedenze e posto fine allo spreco crescente di risorse finanziarie. La seconda linea di azione concerneva più propriamente la riforma delle aziende agricole. Qui le idee e le misure prospettate avevano una carica particolarmente innovativa. Il Memorandum, infatti, mirava a un’agricoltura non più assistita, ma basata su aziende sufficientemente grandi e dinamiche, capaci adattarsi nel tempo e di assicurare livelli di reddito e condizioni di lavoro adeguati a una società avanzata come quella europea. La risposta a questa sfida sarebbe venuta dalla costituzione di «unità di produzione» e di «imprese agricole moderne», da promuovere preferibilmente su base associativa. Le prime sarebbero state il risultato della messa in comune di parti di aziende da destinare ad una specifica produzione (vigneti, allevamenti da latte o da carne, ecc.), le seconde sarebbero invece derivate dalla fusione totale di più aziende. La terza linea di azione, infine, insisteva sul fatto che era necessario accrescere l’occupazione extra agricola nelle aree rurali. Ciò per evitare che l’esodo agricolo, obbligando i lavoratori ad emigrare, provocasse l’ulteriore impoverimento di queste regioni e rendesse così impossibile lo stesso progresso dell’agricoltura. In via di prima approssimazione il Memorandum stimava che fosse necessario creare nelle aree rurali almeno 80.000 nuovi posti di lavoro all’anno, e prevedeva per un obiettivo del genere una spesa pubblica annuale dell’ordine di 2,5 miliardi di ECU.

Questo programma si sarebbe dovuto realizzare nell’arco di un decennio e alla fine avrebbe consentito alla Comunità di avere una PAC completamente rinnovata e dal costo ragionevole, dell’ordine di 2 miliardi di unità di ECU, di cui meno della metà da destinare al sostegno dei prezzi agricoli. Una vera rivoluzione, quindi, se si considera che, come abbiamo visto sopra, detto sostegno aveva provocato una spesa che già verso la fine degli anni Sessanta aveva raggiunto i due miliardi e mezzo di unità di conto.

Il Memorandum suscitò grande sorpresa e fu oggetto di una consultazione vastissima. Certo, ci furono anche interventi a sostegno delle tesi di Mansholt e di approfondimento critico (v. Zeller, 1981). Ma alla fine prevalsero le posizioni risolutamente contrarie, che mettevano in dubbio non solo gli orientamenti ma gli stessi presupposti su cui poggiava il Memorandum. In particolare, la critica serrata di Mansholt nei confronti della PAC sino ad allora messa in opera e il suo allarme riguardo alla crescita vertiginosa delle eccedenze e delle spese conseguenti vennero tacciati di pessimismo privo di ragionevoli giustificazioni; la proposta di strutture aziendali dinamiche e sufficientemente ampie venne vista come un modo per distruggere l’azienda contadina; la creazione di posti di lavoro extra agricoli nelle aree rurali venne considerata prematura e comunque insopportabile per le casse comunitarie.

Così, dopo un paio di anni di discussioni e di dibattiti, il Piano Mansholt venne di fatto cancellato. La riforma della politica dei prezzi fu rinviata sine die, e degli 80.000 posti di lavoro da creare ogni anno nelle aree rurali scomparve persino la menzione. Solo la seconda delle tre linee di azione da esso preconizzate, quella relativa alle strutture delle aziende agrarie, ebbe un seguito di un qualche rilievo, con l’adozione di tre direttive (v. Direttiva) nel marzo 1972. La prima, la n. 159/72/CEE, stabiliva che avrebbero potuto beneficiare di un aiuto comunitario solo le aziende che, sulla base di un piano di sviluppo, sarebbero state in grado di assicurare un reddito comparabile rispetto agli altri settori ad almeno una unità lavorativa (le altre aziende avrebbero potuto ottenere solo aiuti nazionali e per di più a tassi più gravosi). La seconda direttiva, la n. 160/72/CEE, mirava al prepensionamento degli agricoltori di età superiore ai 55 anni e al conferimento della terra così liberata alle aziende in grado di svilupparsi. Infine, la terza direttiva, la n. 161/72/CEE, mirava a istituire nelle campagne servizi di formazione e di orientamento professionale (“informazione socio-economica”) a beneficio dei conduttori agricoli e dei loro familiari.

Gli sviluppi successivi avrebbero dimostrato quanto invece fossero fondate le analisi e le previsioni che erano state alla base del programma Agricoltura 1980”. Gli anni Settanta, infatti, vedranno crescere in maniera vertiginosa le eccedenze e le spese necessarie per liberarsene. Nel 1980 la spesa comunitaria per il sostegno dei prezzi aveva ormai largamente superato i 10 miliardi di ECU, a fronte dei 750 milioni di ECU previsti da Mansholt per quello stesso anno nel caso il suo programma fosse stato attuato. Gli anni Ottanta saranno caratterizzati da continui aggiustamenti di una politica diventata ormai un gravissimo ostacolo sul cammino dell’integrazione. Dal canto loro, le tre direttive appena ricordate diedero risultati assai scarsi dovunque, e in modo particolare in Italia (v. Guida, 1982), a dimostrazione di quanto fosse illusorio pensare di orientare e accelerare l’evoluzione delle aziende agrarie con misure di tipo esclusivamente settoriale. E dovranno passare ben 25 anni da quel dicembre 1968 perché si arrivi, nel 1992, alla prima profonda riforma della politica agricola comune. Allo stesso modo, sarà solo agli inizi degli anni Novanta che, con il passaggio alla Politica di sviluppo rurale l’ammodernamento strutturale dell’agricoltura sarà integrato in una politica più generale di sviluppo del territorio rurale.

Claudio Guida (2007)




Piano Marshall

Introduzione

Il piano di ricostruzione dell’Europa postbellica, che ha preso il nome dell’allora segretario di Stato americano George C. Marshall va considerato come l’evento antesignano dell’Unione europea. L’iniziativa, decisa per urgenti motivi di ordine umanitario e sociale, pose per la prima volta l’economia a servizio della politica estera in modo coerente e coordinato, a coronamento di una serie di iniziative multilaterali avviate dall’America durante la guerra affinché durassero oltre l’emergenza bellica. Ne emerse un inedito sistema di rapporti internazionali collaborativo, costruito attorno all’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), di cui la Comunità europea rappresentò la prima clonazione regionale (v. Comunità europea del carbone e dell’acciaio; Comunità economica europea; Comunità europea dell’energia atomica).

Ben prima di tornare a impegnarsi in una guerra europea di dimensioni globali, gli Stati Uniti si erano infatti adoperati per impostare un assetto internazionale radicalmente innovativo rispetto all’equilibrio di potenze vigente da quando i Trattati di Vestfalia, nel 1648, avevano posto fine a un’altra guerra fratricida, quella dei Trent’anni. Il deludente risultato di Versailles, al termine del primo conflitto mondiale, aveva dimostrato che i quattordici principi di Wilson non erano in grado di attecchire spontaneamente nel vecchio continente. Ciò convinse il presidente Franklin Delano Roosevelt della necessità di giocare d’anticipo, accantonando l’ammonimento jeffersoniano di stare alla larga da entangling alliances e riproponendo il sillogismo fra liberismo economico, democrazia diffusa e pace stabile. Spinto dall’esperienza del New Deal, Roosevelt aveva individuato nel libero mercato e nella libertà dei mari il filo conduttore di un sistema più efficace del tradizionale intreccio di alleanze di cui lo stesso esperimento intermedio della Società delle Nazioni aveva decretato l’esaurimento.

La traumatica esperienza della recessione del 1929 e le impietose analisi che ne fecero l’economista John M. Keynes e l’opinionista Walter Lippmann, avevano già convinto la classe politica americana della necessità di impegnarsi per cooptare l’Europa in un sistema di rapporti internazionali che ai contrappesi antagonistici sostituisse una sicurezza collaborativa. Da allora, il ricorso a organizzazioni internazionali di sicurezza si andò progressivamente affermando, non sempre per impulso di Washington, a fini di prevenzione oltre che di dissuasione, con l’invocazione di principi morali superiori per stimolare la riconciliazione degli animi e il buon governo e screditare la tutela esasperata di illusorie sovranità nazionali.

Contesto storico e ragioni politiche ed economiche dell’iniziativa statunitense

A un militare, il generale George C. Marshall, va attribuito il merito di aver dato l’impulso decisivo per il coinvolgimento americano nella riabilitazione di un’Europa sconvolta dalla guerra. Ma il terreno era stato preparato da un drappello di tecnocrati, uomini d’affari ed economisti prestati alla politica, fra i quali W. Averell Harriman, Robert E. Lovett, John J. McCloy, James V. Forrestal e Paul H. Nitze, banchieri a Wall Street, Paul Hoffman, direttore dell’industria automobilistica Studebaker, William L. Clayton, proveniente dall’industria cotoniera, oltre che dall’avvocato Dean Acheson e dal meno noto politologo Leo Pasvolski, principale artefice dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Fu Clayton, assistente segretario al Dipartimento di Stato per le questioni economiche, ad avvertirne per primo la necessità: «Soltanto un’immediata affermazione della leadership americana può impedire il riproporsi di una guerra entro un decennio», scrisse in un memorandum a Marshall, sottolineando altresì l’urgente esigenza di «markets, big markets», anche per assorbire il sopravvenuto surplus produttivo e creditizio americano. Ma fu Acheson, sottosegretario politico al Dipartimento di Stato, il primo a dichiarare pubblicamente, in un discorso tenuto nel maggio del 1947 a Cleveland, nel Mississippi, al ritorno dalla Conferenza di Potsdam, l’impellente necessità di stabilizzare la situazione politica ed economica nel continente europeo devastato. A questo obiettivo lavorò quella che fu definita la “migliore generazione” di funzionari, convinti internazionalisti per comune formazione e frequentazione, giunti alla conclusione che la ripresa dell’Europa era anche nell’“illuminato interesse” degli Stati Uniti.

Per coinvolgere l’America nell’impegno bellico contro l’Asse, Roosevelt aveva in effetti invocato ragioni morali piuttosto che mere esigenze di autodifesa. «Questa [nostra] forza – disse – è diretta verso un bene futuro, oltre che contro un male immediato», e concludeva: «noi americani siamo dei costruttori». Una serie di iniziative aveva conseguentemente predisposto l’assetto postbellico. Nel marzo del 1941, quando Pearl Harbour era ancora lontana e inimmaginabile, la cosiddetta legge “affitti e prestiti”, un’iniziativa disposta inizialmente a beneficio del Regno Unito ed estesa subito dopo all’URSS, aveva fatto dell’America “l’arsenale della democrazia”, mettendo a disposizione degli oppositore della forza le risorse materiali degli Stati Uniti. La legge “affitti e prestiti” disponeva, inizialmente per il solo Regno Unito, il diritto di acquistare materiali bellici e materie prime con rimborso alla fine del conflitto, garantito dalle riserve auree e dagli investimenti britannici, per una esposizione complessiva di 35 miliardi di dollari in approvvigionamenti e 11 miliardi di crediti.

Il 14 agosto, al largo di Terranova, Roosevelt e Winston Churchill firmavano una “Carta atlantica” che indicava quali scopi bellici i principi di libertà, sicurezza e solidarietà internazionale. Si trattava dell’esplicitazione delle quattro libertà (dalla paura e dalla fame, nonché di parola e di fede, «ovunque nel mondo») che Roosevelt aveva invocato nel suo quarto discorso di investitura del gennaio 1941 e che riecheggiavano i quattordici punti proclamati vent’anni prima da Woodrow Wilson. Il 1° gennaio del 1942, subito dopo l’entrata in guerra degli Stati Uniti, i due leader chiamarono a raccolta a Washington, alla presenza anche dell’ambasciatore russo Maxim Litvinov, altri 23 Stati per sottoscrivere la Dichiarazione delle Nazioni Unite (unite contro l’Asse), che esplicitava meglio l’impegno condiviso, escludendo ogni pace separata e proclamando la comune dedizione a principi quali «le libere istituzioni, il governo rappresentativo, le libere elezioni, le libertà individuali, la libertà di parola e religione, e la libertà dall’oppressione politica». Vi si registrò anche il proposito di «far sì che tutti i paesi, grandi e piccoli, vincitori e vinti» avessero accesso «in condizioni di parità ai commerci e alle materie prime mondiali necessarie alla loro prosperità economica». L’America andava ben oltre la cobelligeranza del 1917.

A San Francisco, il 26 giugno 1945, la Carta dell’ONU venne firmata non senza difficoltà negoziali, nel dichiarato intento di «mantenere la pace e la sicurezza e di promuovere, attraverso la cooperazione internazionale, condizioni di stabilità e benessere fra le nazioni». All’inizio di quell’anno fatidico, Roosevelt aveva affermato che l’organizzazione delle Nazioni Unite avrebbe segnato «l’inizio di una struttura permanente per la pace», che Churchill, più vigorosamente, descriveva come «l’incontestabile potere destinato a condurre il mondo verso la prosperità, la libertà e la felicità». Nel marzo 1946 a Fulton, nel Missouri, lo stesso Churchill dirà invece senza mezzi termini agli americani che una «cortina di ferro» era stata innalzata in Europa.

Subito dopo la vittoria, i rapporti interalleati si erano infatti rapidamente deteriorati, al punto che nel 1947, Harry Spencer Truman decise di chiamare al suo fianco l’artefice della vittoria militare, il generale Marshall, in qualità di Segretario di Stato. Fu lui, uomo d’azione tramutatosi in diplomatico risoluto, a contrastare l’ormai palese espansionismo sovietico, a impegnare i suoi collaboratori nell’elaborazione delle visioni ideali e delle strategie politiche e nella combinazione di strumenti diplomatici, economici e culturali oltre che militari necessari per puntellare il sistema internazionale appena impostato. A delinearne la struttura Marshall chiamò il diplomatico George Kennan che, con il “lungo telegramma” del febbraio 1946 dall’ambasciata a Mosca e poi con l’anonimo articolo apparso su “Foreign Affairs” del luglio 1947, invocò il “contenimento” della Russia sovietica. Si trattava soprattutto di elaborare nell’arco di tre settimane le argomentazioni più appropriate per superare le prevedibili resistenze di una opinione pubblica e di un Congresso decisi a tornare al tradizionale astensionismo dalle faccende internazionali. Fu sempre Marshall, subito dopo la sua investitura, a convincere il presidente Truman della necessità di sostenere anche militarmente la Grecia e la Turchia, in sostituzione di una Gran Bretagna esausta. Un mese dopo, al ritorno dalla conferenza quadripartita di Mosca che dimostrò l’impossibilità di conseguire un trattato di pace con la Germania, in una allocuzione radiofonica, Marshall dichiarò che la ricostruzione in Europa era molto più lenta del previsto: si diffondevano «forze disgregatrici», il paziente peggiorava mentre i medici discutevano, né si poteva far affidamento sull’esaurimento delle parti perché emergessero soluzioni di compromesso.

Il 21 aprile 1947 un rapporto dell’apposito Comitato di coordinamento fra i Dipartimenti di Stato, della Guerra e della Marina, affermò la necessità di contenere la sovversione comunista e di «assicurare sviluppi nazionali liberi da ogni forma di coercizione e da regimi totalitari imposti da aggressioni dirette o indirette, minoranze armate o pressioni esterne», circostanze tutte in contrasto con i principi della Carta delle Nazioni Unite, che avrebbero condotto «a una perdita di fiducia nella leadership degli Stati Uniti». Nel rapporto, i deficit delle bilance dei pagamenti in Europa venivano calcolati in 2,3 e 1,8 miliardi di dollari rispettivamente per la Gran Bretagna e la Francia vittoriose, e in 0,5 miliardi per l’Italia sconfitta, con la precisazione che quest’ultima non sarebbe stata in grado di ripianare il debito in tempi brevi. Le relative ripercussioni per l’America vennero descritte da Clayton come «potenzialmente disastrose» in termini di perdita di mercati e conseguente disoccupazione e nuova depressione, mentre le risorse e le capacità produttiva statunitensi erano «sufficientemente consistenti da fornire all’Europa tutta l’assistenza necessaria».

Il 16 maggio un memorandum di Kennan, posto a capo del neoistituito Policy planning staff con la laconica istruzione di «evitare le banalità», sentenziava che «l’elemento più importante ed urgente per la pianificazione della politica estera è quello di restituire speranza e fiducia all’Europa occidentale […] ivi compresa la rivitalizzazione della capacità produttiva nella Germania occidentale […]». Le azioni intraprese avrebbero avuto «effetti moltiplicatori» per la politica estera americana altrove. Vi si precisava che l’assistenza americana avrebbe dovuto affiancarsi a un programma di collaborazione economica integrato fra i paesi dell’Europa occidentale, possibilmente impostato da uno di loro oltre che approvato dalla Commissione economica per l’Europa (ECE) dell’ONU, e posto al riparo da «ogni sabotaggio o cattivo uso da parte dei comunisti». Il programma avrebbe dovuto essere impostato in modo tale «da incoraggiare e contribuire a una qualche forma di associazione politica regionale fra gli Stati dell’Europa occidentale». Un altro memorandum precisava il 21 luglio che il duplice scopo dell’operazione era far sì che gli Stati europei acquistassero dagli Stati Uniti, e che avessero «sufficiente fiducia in se stessi da resistere a pressioni esterne». Il 23 maggio un documento più elaborato, inviato ad Acheson, ribadirà che lo sforzo di assistenza all’Europa doveva consistere «non nel combattere il comunismo come tale, ma nel restaurare la salute e il vigore economico della società europea». L’iniziativa sarebbe dovuta partire dall’Europa, più precisamente «congiuntamente da un gruppo di Stati europei», comprendenti la Gran Bretagna e possibilmente coordinati da essa, sulla base del piano elaborato da Jean Monnet per la Francia. Si finiva però per escludere l’eventualità di affidarne l’impostazione all’ECE, di cui la Russia ma non l’Italia né la Germania facevano parte, e si affermava che sarebbe stato «essenziale» agire in modo tale che Mosca e i suoi satelliti si autoescludessero qualora non intendessero accettarne le condizioni.

Dal discorso di Marshall al varo del Piano di ricostruzione

Dopo che Acheson ebbe sensibilizzato i più influenti congressmen (fra i quali il repubblicano Arthur H. Vandenberg, presidente della Commissione Affari esteri del Senato e il democratico J. William Fullbright, impegnato nell’elaborazione di un programma educativo su scala mondiale), la scena era pronta per il discorso di Marshall all’Università di Harvard, il 5 giugno 1947 (Marshall ne aveva affidato la stesura a un altro diplomatico, il sovietologo Charles E. Bohlen). «Non ho bisogno di dirvi», esordì il Segretario di Stato nel ricevere la laurea honoris causa di fronte ai laureandi di quell’anno, «che la situazione mondiale è molto seria, com’è evidente ad ogni persona intelligente. È logico che gli Stati Uniti debbano fare tutto quello che possono per contribuire alla restaurazione nel mondo di normali condizioni economiche, senza le quali non può esservi né stabilità politica né pace sicura». Oltre alle devastazioni della guerra, il segretario di Stato sottolineava le avverse condizioni di scambio internazionale aggravate dai ritardi nella conclusione degli accordi di pace. I bisogni alimentari e di altri prodotti essenziali per l’intera Europa, proseguiva Marshall nel tono didattico appropriato al suo uditorio giovanile, avrebbero potuto essere assicurati soltanto «spezzando il circolo vizioso e ristabilendo la fiducia dei popoli europei nel futuro dei loro paesi e dell’Europa nel suo complesso». Marshall precisava che l’iniziativa statunitense non era rivolta «contro alcuna nazione o dottrina, bensì contro la fame, la povertà, la disperazione ed il caos». I suoi scopi sarebbero stati quelli di «favorire il ritorno nel mondo di un ambiente economico funzionante in grado di consentire l’affermarsi di condizioni politiche e sociali nelle quali le libere istituzioni possano sussistere». Il programma avrebbe dovuto essere «condiviso, concordato da un certo numero se non da tutte le nazioni europee»; gli Stati Uniti intendevano agire in collaborazione con gli Stati che si fossero impegnati «nel medesimo senso e in accordo fra loro». L’iniziativa, precisava Marshall, doveva venire dall’Europa: il ruolo statunitense sarebbe stato quello di «un’assistenza nel formulare un programma europeo, e poi nel sostenerlo concretamente», nella misura in cui si fosse rivelato possibile farlo.

Il presidente Truman continuò a rimanere in disparte, ma sostenne appieno l’iniziativa convenendo con i suoi immediati collaboratori che si trattava di raccogliere la sfida di Mosca, una sfida che a suo avviso andava assumendo i connotati dei grandi antagonismi della storia: fra Atene e Sparta, Roma e Cartagine, Alessandro e i persiani, Francia e Inghilterra. La questione aveva in effetti finito coll’assumere connotazioni politiche tali da suscitare il disorientamento del Dipartimento del commercio diretto da Averell Harriman. Truman lo aveva chiamato alla presidenza di un apposito Committee of distinguished citizens, composto da esponenti del mondo degli affari, della finanza, del lavoro, dell’agricoltura, dell’istruzione e della ricerca, per determinare l’entità e i limiti della capacità dell’economia americana di corrispondere alle esigenze europee. Una nota interna osservava che il Piano Marshall era «come un disco volante: nessuno sa a che cosa assomigli, che dimensioni abbia, in che direzione si muova, o se esista veramente». Ma si apprezzava che l’impegno non pesasse tutto sulle spalle americane, come sarebbe avvenuto se fosse stato lasciato all’United Nations relief and rehabilitation administration (UNRRA) (che aveva comportato esborsi per 9 miliardi di dollari di aiuti alimentari, finanziati all’80% dagli americani, con le dispersioni dovute ad una distribuzione a pioggia e ad una gestione ripartita fra 17 paesi) ma fosse invece articolato in «una combinazione di accordi multilaterali e bilaterali, sulla base di una serie di promesse reciproche e responsabilità incrociate».

Londra, Parigi e Varsavia reagirono subito positivamente all’esortazione americana. Il ministro degli Esteri britannico Ernest Bevin, preavvertito da Acheson, apprese del discorso di Marshall dalla BBC e sollecitò un Georges Bidault esitante. Ambedue invitarono immediatamente Molotov a Parigi dal 27 giugno al 3 luglio, con la segreta speranza che Mosca rifiutasse di associarsi. L’impegno personale di Clayton si rivelò più laborioso del previsto, per le persistenti riluttanze, anche a Londra, nei confronti di quel che si presentava come un processo di accelerata liberalizzazione e integrazione continentale osteggiato in particolare dalle sinistre tornate al potere, e dalla necessità di predefinire la questione delle riparazioni tedesche.

La Russia si rese conto di non poter contrastare il Piano Marshall, ma non poteva associarsi a esso, né consentire ai suoi satelliti di farlo. Andrej Zdanov dichiarò che si trattava di un «piano di asservimento, diretto contro le basi dell’indipendenza degli Stati democratici in Europa». A Parigi Molotov, contrario all’implicita perpetuazione della presenza americana in Europa, si oppose a ogni condizionamento dell’offerta americana, proponendo che ci si limitasse invece a sommare alcune richieste dei singoli Stati («come chiedere un assegno in bianco», commentò Bevin) nonché, con minor determinazione nei confronti dell’Italia, che gli ex nemici partecipassero soltanto in posizione “consultiva”. La conferenza tripartita, convocata per esplorare le intenzioni reciproche, ebbe pertanto il pregio di mettere le carte in tavola, distanziando i russi e avvicinando Londra e Parigi, che sollecitarono quindi la partecipazione degli altri Stati europei (la Spagna si autoescluse, mentre la Turchia aderì). Mosca si ridusse a sperare che una recessione americana vanificasse le intenzioni di Washington (e annunciò un “piano Molotov” per i paesi dell’Est occupati). La defezione per le pressioni di Mosca del “fronte degli Stati slavi”, come Josif Stalin lo definì, facilitò il raggiungimento di un’intesa, ma determinò la prima frattura intraeuropea riducendo le capacità di una ripresa europea complessiva. Marshall stesso si adoperò invece perché Bevin accettasse la partecipazione di Roma alla Conferenza di Parigi ancor prima della firma del Trattato di pace, con l’argomentazione che «la ripresa dell’Italia, per le sue dimensioni», era «essenziale per la salute economica dell’Europa e del mondo» e che si trattava di tagliare ulteriormente l’erba sotto i piedi ai comunisti, che non osarono opporsi alla partecipazione italiana. Quanto alla Germania, essa non poteva essere rappresentata che dalle potenze occupanti, peraltro consapevoli che la soluzione della questione tedesca rimaneva essenziale per il successo dell’impresa. Le resistenze francesi non mancarono, ma cedettero presto a fronte delle esigenze complessive.

Avviata il 12 luglio, sempre a Parigi, la Conferenza per la cooperazione economica in Europa (CEEC) racchiuse gli europei occidentali in una coabitazione forzata, impegnandoli nell’elaborazione di progetti comuni e delle implicazioni tecnico-operative della distribuzione dei relativi investimenti. Gli assistenti segretari Lovett (che sostituì Acheson a fine giugno del 1947) e Clayton operarono dietro le quinte, con dichiarate funzioni di “supporto amichevole”, anche per superare le residue esitazioni degli europei, vincitori e vinti. Anche Kennan fu dislocato a Parigi per ribadire i rigorosi condizionamenti di Washington, consistenti essenzialmente nella convergente progressione verso l’autosufficienza e l’eliminazione di tariffe doganali, oltre che in una struttura permanente per amministrare il programma. A differenza di Italia e Francia, il Regno Unito resistette alle pressioni per un’Unione doganale e altre intese multilaterali. Inoltre, osservava Kennan, gli scandinavi erano «patologicamente timorosi della Russia. Trovandosi in modo in un certo senso inatteso in una associazione denunciata da Moltov come politicamente perniciosa» si comportavano «con la nervosa incertezza di chi percorre la strada eccitante ma insolita del peccato», concludendo che l’Europa doveva essere aiutata «suo malgrado». Complessivamente, furono tremila gli esperti americani coinvolti nell’impostazione, assistenza e valutazione dei progetti. I sedici paesi europei erano sostanzialmente divisi in tre gruppi: il Regno Unito e alcuni Stati minori con i bilanci in ordine; la Grecia e la Turchia con necessità di un’assistenza di emergenza; la Francia e l’Italia in situazione politica instabile, oltre che con economie prevalentemente pianificate e a partecipazione pubblica; la Germania era invece rappresentata dai paesi occupanti presenti. Nel Comitato esecutivo, presieduto da Bevin, figuravano Francia, Italia (con Giovanni Malagodi), Olanda (v. Paesi Bassi) e Norvegia. A Jean Monnet, copresidente dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) (successivamente Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, che avrebbe amministrato la ripartizione degli stanziamenti del Piano Marshall e avrebbe provveduto alla multilateralizzazione del sistema di pagamenti, alla collaborazione monetaria e alla progressiva instaurazione di una maggiore libertà degli scambi), assieme al britannico Sir Oliver Franks e amico personale dei principali interlocutori americani dai tempi prebellici in cui era investment banker a Washington, fu affidato il compito di predisporre un questionario di base per l’elaborazione del rapporto conclusivo che, “preliminare” ed “emendabile”, fu pubblicato il 22 settembre. Alla fine, la richiesta complessiva avanzata dagli europei ammontava a 28 miliardi di dollari per il previsto periodo quadriennale.

Il Dipartimento di Stato ritenne accettabili le linee generali finalmente concordate, sia pur nella consapevolezza che la maggior parte degli aspetti tecnici andavano ulteriormente precisati per soddisfare non soltanto il Congresso ma anche una business community prevenuta da anni di New Deal. Una profusione di discorsi pubblici, interviste, volantini, articoli di stampa dei maggiori opinionisti, tra cui Walter Lippmann, Joe e Stewart Alsop e James Reston, si rivolse direttamente all’opinione pubblica. Come interfaccia americana dell’OECE fu istituita una Economic cooperation administration (ECA), interministeriale, indipendente dal Dipartimento di Stato, affidata all’industriale automobilistico Paul Hoffman, di cui Averell Harriman era stato rappresentante alla Conferenza di Parigi. Un suo memorandum insisteva il 29 settembre che «dal punto di vista degli interessi vitali degli Stati Uniti, la questione principale in Europa oggi è se o meno diventerà totalitaria […] e se la cortina di ferro si sposterà sull’Atlantico […] ciò che comporterebbe il completo ri-orientamento della nostra politica estera, con la conseguenza che gran parte degli obiettivi per i quali abbiamo combattuto e che abbiamo ottenuto andrebbe perduto». Data l’urgenza, in dicembre il Congresso si risolse ad approvare uno stanziamento preliminare di 600 milioni di dollari.

Nel marzo del 1948 il colpo di Stato comunista a Praga alzò drammaticamente il livello d’allarme, tanto da indurre il Congresso ad approvare finalmente, il 3 aprile, il Foreign assistance Act (al Senato con 69 voti contro 17 e al Congresso con 318 contro 75), avviando l’European recovery program (ERP) per un ammontare iniziale di 5,3 miliardi di dollari. Alla fine saranno 13,3 miliardi su 4 anni, corrispondenti a quasi 100 miliardi odierni, pari allora a 1% del PNL statunitense (4 miliardi in più di quanto stanziato per l’UNRRA, una somma pari a quel che la Russia estrasse subito dai suoi nuovi satelliti, e paragonabile a quanto la Germania odierna ha speso dal 1990 per i Länder orientali). Si trattava per un terzo della fornitura di prodotti agroalimentari e fertilizzanti, mentre i prestiti rimborsabili, a 30 o 40 anni al 2,5 di interesse, erano limitati a un decimo dell’esborso totale. Il mercato americano ne beneficiò per il 30%. La ripartizione alla fine premiò il Regno Unito e la Francia, nazioni alleate e formalmente vincitrici, rispettivamente col 23% e il 20% degli stanziamenti, seguite dall’Italia e dalla Germania con l’11% e il 10%, l’Olanda con l’8%, l’Austria col 5%, e via via gli altri. In termini relativi primeggiarono però la Norvegia e l’Austria con 130 dollari pro capite rispetto ai 19 per la Germania, fanalino di coda. Oltre alle esigenze umanitarie e alimentari, la priorità nella destinazione di quel che oggi si chiamerebbe “sovvenzione iniziale”, venne data alla ricostruzione delle infrastrutture e all’acquisto di beni capitali, contribuendo anche all’aumento del potere di acquisto europeo sui mercati mondiali e negli Stati Uniti («lubrificante, non combustibile della macchina economica europea, cura e non palliativo», aveva raccomandato Marshall). Si determinarono così tre livelli di assistenza: a breve termine, i beni di consumo, il 46% dell’assistenza americana con la fornitura di viveri, grano, medicinali, fertilizzanti e cotone, (finanziati mediante doni); a medio termine, il 40%, in materie prime, acciaio, petrolio, carbone e macchinari (mediante prestiti della Banca mondiale); e a lungo termine, il 14%, in investimenti capitali.

Conseguenze politico-economiche del Piano in Italia

In Europa, sulle “navi e treni dell’amicizia” e sui manifesti murali spiccavano a caratteri cubitali le parole “grano, carbone, viveri, medicinali”. Il logo prescelto fu uno scudetto a stelle e strisce attraversato dalla frase «Strength for the free world from the USA». In media il programma si risolse in un introito supplementare del 2,5% che rilanciò la produttività, ma servì anche a finanziare (specie in Italia) il disavanzo commerciale e della bilancia dei pagamenti. In Italia la somma totale di 1,5 miliardi fu utilizzata in buona parte per l’acquisto di macchinari, mentre i prodotti alimentari, rivenduti a operatori privati, alimentarono un “fondo di contropartita” che andò a finanziare interventi nel Mezzogiorno. Al termine del quadriennio dell’ERP, il PIL europeo era aumentato del 32,5% rispetto ai livelli prebellici (da 119 miliardi del 1947 a 159 nel 1951), quello pro capite del 37%, la produzione agricola del 25%, la produzione industriale del 40%, quella dell’acciaio del 100%, il commercio del 40%. Il tenore di vita crebbe del 33,5%. Se ne avvantaggiò ovviamente anche l’economia americana con il graduale riassorbimento del surplus occasionato dall’economia di guerra, mentre la zona dollaro si imporrà fino all’agosto del 1971, in una combinazione fra convenienza reciproca e comunanza di valori.

In Italia, la partecipazione al Piano Marshall comportò un scelta di campo in anticipo sull’adesione all’Organizzazione del trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO), come riconobbe subito l’ambasciatore a Parigi, Pietro Quaroni: «Aderendo al Piano Marshall siamo entrati in pieno nel sistema politico americano». Il Trattato di pace non aveva riconosciuto il periodo di cobelligeranza italiano, tanto che alla Conferenza di Parigi Alcide De Gasperi lo dichiarò «ingiusto», facendo tuttavia appello non soltanto alla «personale cortesia» degli astanti ma anche e soprattutto all’esigenza di una «pace duratura e ricostruttiva». Nel gennaio del 1947 la scissione di Palazzo Barberini aveva chiarito gli schieramenti in campo socialista. Nello stesso mese De Gasperi compiva il viaggio in America che per il paese vinto costituì una tangibile «dimostrazione di amicizia e fraternità», suggellata dall’immediata elargizione di un assegno da 50 milioni di dollari. Il primo ministro italiano comparve sulla copertina del “Time” sullo sfondo della penisola aggredita da un polipo rosso. In marzo, l’Italia fu ammessa alla Banca mondiale e al Fondo monetario internazionale. Il 26 maggio 1947, col varo del primo governo monocolore con l’aggiunta di tecnici fra i quali un rigoroso Luigi Einaudi alle finanze, pose fine ai governi di unità nazionale. In dicembre, le truppe d’occupazione lasciarono l’Italia. L’instaurazione del Fronte popolare non indusse le sinistre a far mancare la loro collaborazione nell’Assemblea costituente, e nell’aprile del 1948 le elezioni politiche condussero alla netta affermazione della Democrazia cristiana, che sfiorò la maggioranza assoluta.

Conclusioni

Se le motivazioni originarie del Piano Marshall erano state umanitarie ed economiche, il suo significato politico divenne subito evidente. L’European recovery program fu l’acceleratore se non l’unico motore della ripresa economica e politica in Europa occidentale, il puntello e l’elemento federatore esterno (v. anche Federalismo). Marshall stesso lo concepì come «una via di mezzo fra un suggerimento e una esortazione». Retrospettivamente, nel cinquantennale del 1997, George F. Will lo descrisse come «il catalizzatore della fiducia e la psicoterapia per un continente in stato di choc, oltre che la presentazione del modello americano a un mondo indigente». Storicamente, il Piano fu la risposta americana alla constatata impossibilità di un trattato di pace in Europa, per la pretesa di Mosca di consolidare le sue conquiste territoriali e perpetuare la divisione della Germania. Nel dedicare il 5 gennaio 1948 la sua copertina a Marshall, la rivista “Time” lo presentava infatti come «una iniziativa dinamica destinata a riequilibrare l’equilibrio di potere su scala mondiale e persuadere alla fine i Russi della necessità di scendere a compromessi».

In termini di sicurezza e stabilità su scala mondiale, il 1947 rappresentò lo spartiacque del XX secolo, e il Piano Marshall il primo strumento per contenere i drammatici eventi mondiali che si accavallarono dal 1948 al 1950, nel disgregarsi dalla cooperazione interalleata con la Russia, attraverso l’istituzione del Communist information bureau (Cominform), il blocco di Berlino, il colpo di Stato a Praga, la Corea, eventi cui anche l’Europa liberata reagì con il Consiglio d’Europa e il Trattato di Bruxelles (v. anche Unione dell’Europa occidentale) di mutua difesa fra Regno Unito, Francia e Benelux, che aprirono la strada all’Alleanza atlantica, e poi alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) e alla Comunità europea di difesa (CED). Si può pertanto affermare che il Piano Marshall completò la dottrina Truman, nella consapevolezza che il “contenimento” doveva consistere in un sapiente dosaggio di bastone politico-militare e carota economica. Nel 1952, con l’elezione di Dwight Eisenhower, un militare dalle ambizioni politiche ben più pronunciate di quelle di Marshall, avviò la “ritirata” e la Guerra fredda.

Affiancandosi all’Organizzazione delle Nazioni Unite, il Piano Marshall costituì la prima pietra del nuovo assetto multilaterale impostato dalla diplomazia americana durante l’intero svolgimento del conflitto. Agli europei, con la collaborazione politica e la liberalizzazione dei commerci, gli americani imposero una nuova mentalità. Ne risultò soprattutto, come auspicato, la definitiva riconciliazione franco-tedesca (testimoniata dall’immediata presenza della Germania alla Conferenza di Parigi), e più in generale uno stimolo politico che condusse anche all’Alleanza atlantica e stimolò il processo di integrazione europeo (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Ne emerse l’“Occidente”, come coalizione per la libertà, la democrazia e la solidarietà internazionale contro il risorgere dei nazionalismi, nella rivitalizzazione dei principi wilsoniani della sicurezza collaborativa e complessiva. Si affermò anche, per converso, quell’“universalismo funzionale” americano che emergerà in modo ricorrente per mantenere gli equilibri strategici continentali e mondiali, una funzione esercitata per secoli dalla Gran Bretagna nei confronti dell’Europa.

L’esperienza del Piano Marshall dovrebbe poter servire tuttora da esempio anche per la perenne opera di ricomposizione del sistema di rapporti internazionali. È agli anni Quaranta che risalgono i concetti di edificazione istituzionale, democrazia partecipativa, sistema internazionale collaborativo, sicurezza complessiva e buon governo, propri della filosofia politica dell’illuminismo e che vengono oggi riproposti dopo il dissolvimento del sistema bipolare. L’applicazione di tali principi da parte dell’Europa, fallita con la CED e proseguita in modo più graduale con i Trattati di Roma, è tuttora in corso.

Guido Lenzi (2009)




Piano Schuman

La Dichiarazione di Schuman del 9 maggio 1950 è considerata il primo passo del processo d’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). All’indomani della Seconda guerra mondiale, l’allora ministro degli Affari esteri francese Robert Schuman si trovava ad affrontare il problema di come tenere sotto controllo il futuro potenziale politico, militare ed economico tedesco, ancorando il più possibile la Germania al blocco occidentale. Il Piano Schuman, disegnato in realtà da Jean Monnet, fervente europeista che era allora a capo della Commissariat au Plan, proponeva che le risorse carbosiderurgiche fossero messe in comune e gestite congiuntamente sotto la direzione di un ente sopranazionale, l’Alta autorità, con lo scopo di eliminare gradualmente tutte le tariffe in questi due settori fino ad arrivare alla fusione dei mercati nazionali.

«L’Europa non potrà farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme: essa sorgerà da realizzazioni che creino anzitutto una solidarietà di fatto». Le parole di Schuman rivelano l’approccio funzionalista (v. Funzionalismo) di Monnet, che prelude a una futura unità politica: il Piano, limitato ai settori del carbone e dell’acciaio, è visto come un primo passo che «getterà le fondamenta reali dell’unificazione economica» tra i paesi europei e «costituirà il primo nucleo concreto di una Federazione europea indispensabile al mantenimento della pace» (v. Federalismo). La scelta del settore carbosiderurgico era strategica: innanzitutto, da un punto di vista politico, poiché la produzione di tali materie prime si concentrava nella fascia di confine tra Francia e Germania, il Piano era l’occasione per rimuovere le cause di conflitti passati e potenziali; da un punto di vista militare, trattandosi delle materie per la produzione d’armamenti, si volevano impedire riarmi ostili; infine, da una prospettiva economica, oltre a trattarsi di due industrie fondamentali per la ricostruzione postbellica, entrambe stavano attraversando difficoltà dovute alla sottoproduzione di carbone e sovrapproduzione d’acciaio.

Consapevole che la pace mondiale e «l’unione delle nazioni esige l’eliminazione del contrasto secolare tra Francia e Germania», Robert Schuman si rivolgeva in primo luogo ai tedeschi, ma il progetto era aperto a tutti gli altri paesi europei: Benelux e Italia vi aderirono da subito, mentre la Gran Bretagna (v. Regno Unito), pur senza manifestare aperta opposizione, declinò l’invito sia per ragioni economiche (produceva sufficiente carbone e aveva appena nazionalizzato le industrie di settore), sia soprattutto per l’impossibilità di accettare il principio di un’autorità sopranazionale, principio cui la partecipazione era condizionata. L’allora cancelliere tedesco Konrad Adenauer fu subito entusiasta, considerando il piano come un’occasione importante per riportare la Germania su un piano di parità a livello internazionale e per risolvere le questioni della Ruhr, sottoposta all’amministrazione dell’Autorità internazionale, e della Saar, ancora in mano francese.

Il Piano Schuman rimane ancora oggi una pietra miliare della costruzione dell’Europa, soprattutto per aver introdotto nell’architettura istituzionale della nuova organizzazione (cui per la prima volta ci si riferisce con il termine “comunità”), quei principi unici e innovativi che caratterizzano ancora oggi l’Unione europea. Per la prima volta, infatti, si va aldilà del carattere meramente consultivo e intergovernativo tipico nelle relazioni internazionali, creando un’istituzione indipendente e sopranazionale, l’Alta autorità, «le cui decisioni saranno vincolanti per […] i paesi che vi aderiranno». Il principio dell’assoluta sovranità nazionale veniva dunque scalfito per la prima volta, anche se limitatamente al settore carbosiderurgico.

Per la portata rivoluzionaria della Dichiarazione Schuman, i leader europei, riuniti a Milano nel 1985, hanno stabilito che proprio il 9 maggio venga festeggiata la “giornata d’Europa” e tale data è stata confermata nel progetto costituzionale (v. Costituzione europea) all’articolo I-8 relativo ai Simboli dell’Unione europea.

Elisabetta Holsztejn (2009)




Piero Calamandrei




Piero Malvestiti




Pierre Chatenet




Pierre José Marie Charles Harmel