Poher, Alain

P. (Ablon-sur-Seine 1909-Parigi 1996) ha segnato la storia francese soprattutto per aver esercitato la più lunga presidenza del Senato, sotto quattro Presidenti della Repubblica, dall’ottobre 1968 all’ottobre 1992. Ma questo democratico-cristiano si è distinto anche come uno dei massimi protagonisti della costruzione europea fin dagli anni Cinquanta.

Ingegnere alle Mines, laureato in scienze politiche, poco prima della Seconda guerra mondiale inizia una carriera di alto funzionario al ministero delle Finanze. Attivo nella Resistenza, milita nella rete Libération-Nord. Nel 1946 Robert Schuman, uno dei padri dell’Europa, lo nomina direttore del suo gabinetto. Nello stesso anno è eletto consigliere della Repubblica di Seine-et-Oise. Relatore generale della commissione Finanze, gli viene affidata la segreteria di Stato al Bilancio nel secondo, effimero governo Schuman, il 5 settembre 1948, un incarico che conserva nel governo Queuille fino al 20 novembre 1948, prima di essere nominato commissario generale per gli Affari tedeschi e austriaci.

Europeista convinto, assume importanti responsabilità nelle organizzazioni che prefigurano l’Europa integrata. Dal 1950 al 1952 è il delegato francese presso l’Autorità internazionale della Ruhr. Dopo essere stato nominato presidente del Conseil supérieur du commerce nel novembre 1953, dal 1954 al 1955 è presidente della commissione internazionale dei trasporti all’interno dell’Assemblea comune del Pool europeo del carbone e dell’acciaio concepita da Schuman nel 1950 (v. Comunità europea del carbone e dell’acciaio). È delegato all’Assemblea parlamentare europea fin dalla sua creazione nel 1958; dall’ottobre 1958 all’ottobre 1968 è presidente del gruppo democratico-cristiano e per tre anni, dal marzo 1966 al marzo 1969, è presidente dell’Assemblea.

Nel frattempo costruisce la sua carriera politica in Francia, su scala locale come sindaco di Ablon, su scala nazionale come segretario di Stato alle Forze armate e alla Marina nel governo di Félix Gaillard, dal novembre 1957 al maggio 1958, e come presidente dell’Association des maires de France dal 1974 al 1983.

Ma la carriera di P. è legata soprattutto al Senato, che non lascerà mai dal 1946 al 1992, essendone presidente per un quarto di secolo. Per due volte, nel 1969 e nel 1974, esercita l’interim della presidenza della Repubblica. Ma per questo discepolo di Schuman la posta in gioco politica più importante rimane, durante tutta la sua carriera, esterna alle frontiere: la costruzione europea.

Non passa mese senza che P. intervenga, nelle occasioni più diverse, per riaffermare il suo credo europeista e per chiedere un’accelerazione del processo di integrazione (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Nel marzo 1958, per esempio, davanti al congresso nazionale dell’Association populaire des élus municipaux et départementaux invita le collettività locali ad aderire attivamente all’opera di costruzione del nascente Mercato europeo (v. Comunità economica europea). Il 16 maggio 1961, al congresso del suo partito – il Mouvement républicain populaire (MRP) – a Royan, è incaricato della relazione introduttiva centrata sull’Europa: sottolinea l’impotenza di «un’Europa di sola cooperazione nel rispetto assoluto della sovranità degli Stati», cioè l’Europa gollista, e in particolare chiede l’elezione dell’Assemblea di Strasburgo a suffragio universale. Il 12 giugno 1962, in occasione del grande dibattito in Senato sulla politica estera del governo guidato da Georges Pompidou, P. dichiara che «le Istituzioni comunitarie assolvono un compito di cui i governi nazionali sono incapaci» e si richiama agli «Stati Uniti d’Europa». Il 9 febbraio 1965, davanti al comitato nazionale del MRP, auspica la creazione imminente «di una moneta europea, come aveva previsto Jean Monnet».

Questo impegno federalista ovviamente lo induce a opporsi al generale Charles de Gaulle, come accade per esempio nel suo discorso del 6 giugno 1965 al Senato, dove P. critica energicamente la “superbia” in cui si isola la Francia, che P. giudica «responsabile della rinascita del nazionalismo» nell’Europa dei Sei. «Machiavelli non sedeva al tavolo al quale è stato concluso il Trattato della CECA [Comunità europea del carbone e dell’acciaio]. I negoziatori non credevano nelle virtù esclusive dei sentimenti nazionali», conclude il senatore di Seine-et-Marne. Il 4 luglio 1966, quando Monnet consegna al cancelliere Konrad Adenauer la prima medaglia d’oro dell’Association des amis de Robert Schuman, a Montigny-lès-Metz, P. si esprime nuovamente contro la politica gollista: «Non vogliamo ridiscendere i gradini sui quali siamo saliti con tanta fatica».

Quattro mesi dopo, l’8 marzo 1966, questo oppositore dichiarato del gollismo viene eletto presidente del Parlamento europeo di Strasburgo, raccogliendo al primo turno 73 voti su 111 e diventando il secondo presidente francese dopo Schuman. Il 17 febbraio 1968, a Strasburgo, P. offre una colazione di lavoro alla stampa per ricordare il ruolo e le difficoltà incontrate dall’Assemblea europea, che un mese più tardi lo rielegge presidente all’unanimità, per acclamazione: è il primo presidente eletto per tre anni di seguito. Tuttavia non arriverà al termine del suo mandato perché nell’ottobre 1968 è eletto presidente del Senato. Avrà comunque l’occasione di esprimere il suo credo europeo durante la campagna presidenziale nella primavera del 1969.

Ostile al progetto di riforma del Senato, milita attivamente per il “no” al referendum dell’aprile 1969, il cui fallimento porta alle dimissioni del generale de Gaulle. Presidente della Repubblica ad interim, il 12 maggio 1969 presenta la sua candidatura alle presidenziali. È sostenuto dall’Unione europea dei partiti democratico-cristiani e da tutti gli “europeisti” della classe politica francese. Anche una buona parte della stampa e della classe politica tedesca vedono con favore la sua candidatura: Quand Bonn vote Poher, è il titolo di “Le Monde” il 15 maggio 1969.

Tutta la stampa evoca la passione di P. per l’Europa, in particolare per il Parlamento europeo, realista e tecnico, che preferisce al Consiglio d’Europa, troppo accademico e poco efficace. In “Le Monde” del 14 maggio 1969 il suo collega italiano Natale Santero sottolinea il carattere pragmatico di P., un «uomo che non ama rinchiudersi nelle formule» come «l’Europa delle patrie» o la «sovranazionalità», ma preferisce «le decisioni collegiali» e detesta «qualsiasi subordinazione», in favore di una «Europa delle possibilità».

Il programma presidenziale in dodici punti, presentato da P. il 27 maggio, mette al secondo posto la costruzione dell’Europa, chiedendo un’unità monetaria comune, un progetto di unione politica per tappe, l’Allargamento al Regno Unito, l’iniziativa di una conferenza dei capi di Stato per aprire nuove prospettive verso un’Europa dei popoli. Ma contrariamente a quanto ha dichiarato al quotidiano “L’Aurore”, non propone le Elezioni dirette del Parlamento europeo a suffragio europeo.

Ampiamente battuto da Georges Pompidou al secondo turno delle presidenziali, con il 41,28% dei voti contro il 58,21% dell’ex primo ministro di de Gaulle, P. dedica gli anni successivi a militare a favore dell’ingresso della Gran Bretagna nel Mercato comune, a condizione che questo possa rafforzare l’integrazione europea. Lo testimoniano numerosi discorsi, come quello pronunciato a Grenoble il 16 febbraio 1970 in occasione delle giornate di studio europee: «La Gran Bretagna vuole entrare nel club. È logico che ne accetti il regolamento. Certo, possono essere accordate delle misure transitorie, ma sarebbe inutile credere e accettare che gli inglesi possano chiedere la trasformazione del Mercato comune in una zona di libero scambio». A Londra, il 16 luglio 1970, in occasione degli stati generali del Consiglio dei comuni d’Europa, ritiene che l’ingresso della Gran Bretagna «non debba compromettere l’evoluzione della Comunità verso la costruzione di una vera Unione economica e monetaria».

Alla fine di maggio del 1971 P. si rallegra per l’incontro fra Pompidou ed Edward Heath che mette fine ad anni di malintesi: «L’ingresso della Gran Bretagna nel Mercato comune non può che avere effetti positivi sull’evoluzione democratica delle istituzioni europee». Il 29 ottobre 1971, ricevendo a Bonn il premio Robert Schuman, si compiace del voto favorevole del Parlamento britannico all’adesione, ma ricorda che è necessario soprattutto che il Mercato comune divenga «innanzitutto un’unione politica, o non sarà nulla».

In effetti l’ossessione di P. è la costruzione di una vera Europa politica. A Caen, il 27 marzo 1970, in un convegno internazionale di giovani quadri, ricorda che «l’Europa è un fatto politico più che una necessità commerciale», che il «Mercato comune è soprattutto un mezzo e non un fine» e deplora che si sia «perso di vista l’obiettivo della costruzione europea». Non smette di insistere su questa concezione volontaristica di un’Europa politica. Il 6 giugno 1970, davanti all’Association des chefs d’entreprise afferma che «l’Europa deve dotarsi di istituzioni comuni», di un Parlamento e di un esecutivo. Otto giorni più tardi, in occasione del ventesimo anniversario della Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950, parla a favore di una moneta europea, ma anche perché si arrivi a «dare un senso all’unità politica già abbozzata». Il 2 ottobre 1970, nelle giornate di studio del gruppo democratico-cristiano al Parlamento europeo, ricorda che «di fronte alla potenza dell’Unione sovietica solo un’Europa unita potrà dialogare su basi veramente serie, il gioco personale ed egoistico dei nostri Paesi non può portare a niente di buono». Nella sua prospettiva la politica di apertura a Est del cancelliere tedesco-occidentale Willy Brandt gli appare come un tradimento della politica di amicizia franco-tedesca, fondamento della costruzione europea. Il 24 marzo 1971, di fronte ai membri dell’Unione europea dei federalisti riuniti a Lione, deplora «lo strano languore malato» che ha contagiato la costruzione europea: «L’Europa manca d’aria e di orizzonte – dichiara – bisognerebbe darle un’anima […]. L’Europa non ha un avvenire se non approda ad un governo europeo».

Alla testa del Senato, del quale celebra fastosamente il centenario nel 1975, non perde occasione per affermare le sue convinzioni europeiste. Nell’ottobre 1973, per esempio, è l’artefice di un voto unanime del Senato a favore del progetto di legge che ratifica la Convenzione europea dei diritti dell’uomo, firmata a Roma il 4 novembre 1950. Per ottenere questo risultato ha moltiplicato le iniziative presso i capi della maggioranza gollista. Nell’aprile 1974 la scomparsa di Pompidou lo riporta all’Eliseo, per il periodo della campagna elettorale, ma questo non gli impedisce di partecipare a Strasburgo, il 6 maggio 1974, al 25° anniversario del Consiglio d’Europa, dove chiede «un afflato nuovo per la costruzione europea» e un’apertura esterna.

Nel maggio 1984 esprime la sua soddisfazione dopo il discorso di François Mitterrand di fronte all’Assemblea delle Comunità europee. Invece non interviene nelle elezioni europee organizzate un mese più tardi, come non era intervenuto in occasione di quelle del giugno 1979, le prime a suffragio universale. Alle elezioni presidenziali dell’aprile-maggio 1988, P. sostiene Raymond Barre, il più “europeista” dei candidati. L’ultimo, importante intervento europeo di P. risale al 2 dicembre 1991, quando chiede che il ruolo del Parlamento di Strasburgo nella costruzione europea sia stabilito nel Trattato di Maastricht, che sarà firmato nel febbraio 1992. Qualche mese più tardi si ritira dalla vita politica, a 83 anni, lasciando il suo incarico al Senato a René Monory nell’ottobre 1992.

Infaticabile militante della costruzione europea, nella grande tradizione democratico-cristiana del suo mentore Schuman, P. ha risentito della sua marginalità politica, stretto fra i gollisti e i socialisti. Il paradosso di questo grande europeista è che, in mancanza di poteri esecutivi, non ha mai potuto influire in modo determinante sulla costruzione europea.

Jean Garrigues (2012)




Poland and Hungary aid for the restructuring of the economy

Programma di aiuto comunitario ai paesi dell’Europa centrale e orientale (PHARE)




Politica agricola comune

Introduzione

La Politica agricola comune (PAC) ha sempre occupato e continua a occupare un ruolo centrale nel processo di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). Assorbe oltre un terzo delle risorse di bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea), è importante per la vita dei cittadini in virtù degli stretti legami che sussistono fra agricoltura e sicurezza alimentare e fra agricoltura e protezione dell’ambiente, condiziona le relazioni dell’Unione europea con il resto del mondo stante l’importanza decisiva che hanno gli scambi agricoli nei rapporti fra i vari paesi, e in particolare con quelli in via di sviluppo. Si tratta, quindi, di una politica settoriale che incide in maniera decisiva sulle condizioni di reddito e sulle prospettive dei lavoratori agricoli e che nello stesso tempo riguarda l’intera società europea. Ed è anche la politica comunitaria per eccellenza, dal momento che tutte le disposizioni legislative in materia di agricoltura sono prese dalle Istituzioni comunitarie e non più dai singoli governi nazionali. Dai prezzi dei prodotti alla politica commerciale con il resto del mondo (v. anche Politica commerciale comune), dai sussidi diretti ai produttori agli aiuti pubblici agli investimenti nelle aziende agrarie e a quelli riguardanti le attività di trasformazione; dalla fissazione dei tassi di tolleranza in materia di pesticidi alle norme igieniche per la lavorazione dei prodotti o per gli allevamenti degli animali; dalle imposizioni di limiti alla produzione alla regolamentazione dell’agricoltura biologica o dei prodotti di qualità sino alla loro etichettatura. Senza dimenticare che è la Commissione europea che negozia in seno all’Organizzazione mondiale del commercio.

La PAC ha ormai una lunga storia dietro di sé, che comincia con una Comunità di soli sei Stati membri: Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi. Il suo atto di nascita si trova sancito negli stessi Trattati di Roma del 1957, che dedica all’agricoltura l’intero capitolo II (articoli 38-47). Quella di dotare la nascente Comunità di una specifica politica per il settore primario fu una scelta obbligata (v. Comunità economica europea). Alla fine degli anni Cinquanta, nei sei paesi fondatori, così come in tutti i paesi industrializzati, esistevano politiche agrarie nazionali che si erano venute consolidando a partire dalla grande crisi del 1929 e ulteriormente rafforzate nel secondo dopoguerra. Queste politiche non erano compatibili con l’apertura delle frontiere agli scambi agricoli essendo tutte imperniate, sia pure con gradi diversi di intensità, su tre principali gruppi di misure: restrizioni alle importazioni; aiuti all’esportazione, incentivi alla produzione e, in molti casi, discipline particolari in materia di commercializzazione. Fu questa la ragione per cui, nel Trattato istitutivo della Comunità europea, venne stabilito che, in sostituzione delle preesistenti politiche nazionali, «la realizzazione e lo sviluppo del mercato comune dei prodotti agricoli devono essere accompagnati dalla messa in opera di una politica agricola comune» (art. 38, par. 4).

L’articolo 39 indicava, al paragrafo 1, gli obiettivi che la PAC avrebbe dovuto perseguire: accrescere la produttività agricola promuovendo il progresso tecnico, assicurando lo sviluppo razionale della produzione agricola e il migliore impiego dei fattori di produzione, in particolare del lavoro; garantire così un equo tenore di vita alla popolazione agricola, soprattutto aumentando il reddito individuale di coloro che lavorano nell’agricoltura; stabilizzare i mercati; garantire la sicurezza degli approvvigionamenti; assicurare prezzi ragionevoli ai consumatori (v. Politica dei consumatori).

Al successivo paragrafo, l’articolo 39 precisava che nella messa in opera della PAC si sarebbe dovuto tenere conto di tre speciali elementi: della particolare natura dell’attività agricola, dovuta alla struttura sociale dell’agricoltura e alle disparità strutturali e naturali fra le varie regioni; della necessità di effettuare i necessari cambiamenti con gradualità; del fatto che negli Stati membri l’agricoltura è un settore strettamente legato all’economia nel suo insieme.

Quanto alle concrete caratteristiche che la PAC avrebbe dovuto assumere per poter perseguire i suddetti obiettivi, il Trattato si limitava a fornire indicazioni di ordine generale, assegnando alla Commissione il compito di presentare le opportune proposte in materia e al Consiglio dei ministri la responsabilità di prendere le necessarie decisioni, dopo aver consultato il Parlamento europeo e il Comitato economico e sociale. Peraltro lo stesso Trattato precisava che per far fronte alle spese cui la PAC avrebbe dato origine era da prevedere la creazione di uno speciale Fondo agricolo, da articolare in due sezioni: una sezione “orientamento”, destinata a finanziare gli investimenti diretti ad ammodernare gli assetti strutturali dell’agricoltura; una sezione “garanzia”, destinata a finanziare gli interventi volti a sostenere i prezzi agricoli e a stabilizzare i mercati (v. Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia).

Nel 1960, con le proposte della Commissione al Consiglio e al Parlamento, ha inizio l’avventura della PAC, un’avventura nella quale, con qualche schematizzazione, è possibile individuare tre distinti periodi: gli anni Sessanta, il periodo durante il quale si costruisce la PAC e il mercato comune agricolo diventa realtà; i due decenni successivi, il periodo dell’instabilità monetaria, dei conflitti di bilancio con il Regno Unito, dell’esplosione della spesa agricola e degli infiniti tentativi di metterla sotto controllo; gli anni Novanta, il periodo degli sviluppi e delle riforme radicali, che peraltro non si esaurisce con la fine del secolo ma continua nella prima parte del decennio successivo.

Lungo i suoi 45 anni di vita, peraltro, la PAC si è venuta a trovare in contesti in permanente mutazione per effetto dei ricorrenti allargamenti (v. Allargamento). Gli Stati membri sono 6 durante la fase della costruzione; agli inizi del decennio successivo diventano 9 con l’adesione di Irlanda, Danimarca e Regno Unito; negli anni Ottanta sono 12 a seguito dell’entrata di Grecia, Portogallo e Spagna; diventano poi 15 negli anni Novanta con l’adesione di Austria, Finlandia e Svezia. Infine, agli inizi del nuovo secolo sono 27 con l’allargamento dell’Unione ai paesi dell’Europa centro orientale, a Malta e a Cipro.

Gli anni Sessanta, la fase dell’elaborazione e della messa in opera della PAC

Il 30 giugno 1960 la Commissione presentava le sue «proposte per l’elaborazione e l’attuazione della politica agricola comune». Queste proposte si basavano sull’assunto che uno degli scopi primari della PAC era quello di migliorare il reddito e le condizioni di vita di coloro che lavorano in agricoltura e sulla consapevolezza – insisteva la Commissione – che la sola liberalizzazione degli scambi agricoli non solo non avrebbe potuto eliminare le cause dell’insufficienza dei redditi, ma avrebbe anche portato a una ulteriore accentuazione delle disparità che già allora esistevano all’interno dello stesso settore agricolo. La Commissione proponeva allora di dar vita a una politica agricola comune che fosse articolata in maniera equilibrata in due componenti fra loro complementari: una “politica delle strutture” che mirasse ad ammodernare le aziende agrarie, i servizi e le infrastrutture rurali, che fosse collegata con una politica di sviluppo regionale nonché con una politica sociale che tenesse conto delle condizioni peculiari del settore agricolo e della struttura sociale tipica dell’agricoltura; una “politica dei prezzi e dei mercati”, che avesse come finalità di assicurare ai produttori prezzi sufficientemente remunerativi senza tuttavia incoraggiare la produzione di eccedenze, di regolamentare i mercati in maniera da regolare l’offerta e, in quest’ottica, definire una politica commerciale nei confronti dei paesi terzi con meccanismi idonei a stabilizzare importazioni e esportazioni dei prodotti agricoli e alimentari.

Nella realtà, il Consiglio dei ministri scelse di distaccarsi in maniera sostanziale dalle posizioni della Commissione, decidendo innanzitutto di concentrare la sua attenzione soltanto sulla seconda di queste due componenti: la politica dei prezzi e dei mercati diventava quindi lo strumento centrale, il fulcro della PAC, che veniva completata intorno al 1968 con i seguenti elementi costitutivi. Per ogni prodotto o gruppi di prodotti (latte, carne bovina, cereali, olio d’oliva, tabacco, ecc.) era stata creata una “Organizzazione comune di mercato” (OCM). Il perno di ciascuna OCM era il “prezzo indicativo”, cioè il prezzo che si desiderava che il prodotto interessato raggiungesse sul mercato comunitario. Detto prezzo indicativo veniva fissato annualmente dal Consiglio su proposta della Commissione e, nello stesso tempo, all’interno di ciascuna OCM, venivano definite apposite misure affinché il prezzo effettivo di mercato si avvicinasse a esso il più possibile. Fra le più importanti di queste misure erano da annoverare: le “restituzioni” all’esportazione, cioè i sussidi volti a permettere ai prodotti comunitari di essere venduti sui mercati mondiali malgrado i prezzi comunitari fossero più elevati; l’acquisto pubblico a carico del bilancio della Comunità economica europea (CEE) allorché il prezzo di mercato si situava al di sotto di un limite prefissato del prezzo indicativo; l’imposizione di dazi sui prodotti importati dal resto del mondo calcolati in maniera da assicurare sul mercato interno dei Sei la “preferenza” ai prodotti agricoli comunitari, ecc. In mancanza di una moneta europea comune, i prezzi venivano espressi in “unità di conto” (European currency unit, ECU): una Unità di conto europea equivaleva a 1 dollaro USA, a 625 lire italiane, 3 marchi tedeschi, a 4,9 franchi francesi, ecc.

La costruzione di questo complesso sistema aveva reso possibile estendere il mercato comune anche all’agricoltura e ai prodotti agricoli. Ma tale indubbio successo presentava un rovescio della medaglia che può essere schematizzato come segue. I prezzi dei diversi prodotti e i rapporti fra di essi non erano espressione di dati economici, non avevano alcun rapporto con ragionevoli obiettivi di produzione o con una accettabile distribuzione del reddito fra gli agricoltori, ma erano piuttosto il risultato di estenuanti compromessi fra i ministri dell’agricoltura sui quali facevano sentire il loro peso i gruppi di pressione più forti e meglio organizzati. Tale approccio, inoltre, non veniva applicato in maniera uniforme, ma privilegiava i cereali, il latte, lo zucchero, la carne bovina: vale a dire i prodotti che già allora apparivano strutturalmente eccedentari, che erano appannaggio delle aree agricole più ricche e che sino a quel momento avevano beneficiato del sostegno più forte nel quadro delle preesistenti politiche agrarie nazionali. Ancora, l’azione diretta della Comunità nel campo dell’ammodernamento strutturale dell’agricoltura veniva nella sostanza accantonata.

In altre parole, erano state create le condizioni che molto presto avrebbero fatto esplodere il fenomeno delle eccedenze di produzione, avrebbero provocato la crescita incontrollata della spesa agricola e una sua distribuzione che sarebbe andata a tutto vantaggio delle aree più ricche, delle aziende e dei comparti più forti. Alcune cifre a questo riguardo possono essere utili. Nel 1960, cioè prima del varo della PAC, i sei Stati membri fondatori avevano speso per il sostegno dei prezzi agricoli un totale di 500 milioni di unità di conto; nel 1969 le spese in questione, questa volta a carico del bilancio CEE, risultavano quintuplicate, erano dell’ordine di 2500 milioni di unità di conto.

Sviluppi e adeguamenti della PAC negli Settanta e Ottanta

Il Piano Mansholt, il varo della politica delle strutture agricole e il pacchetto mediterraneo. L’edificio della politica dei prezzi e dei mercati era stato appena ultimato e già la Commissione lanciava l’allarme. Con il suo memorandum “Agricoltura 1980”, meglio noto come “Piano Mansholt” dal nome dell’allora vicepresidente che ne era stato il principale artefice (v. Mansholt, Sicco), la Commissione ammoniva i ministri dell’agricoltura e l’intero mondo agricolo che era urgente cambiare quanto era stato realizzato nel corso dei sette anni precedenti e indicava con chiarezza i cambiamenti necessari. In pratica, essa riprendeva e sviluppava con dovizia di dati e di proposte la sua comunicazione del giugno 1960, confidando che questa volta la forza dei fatti e della ragione avrebbe finalmente prevalso. Cominciava così in maniera clamorosa la storia infinita dei tentativi di riforma della Politica agricola comune. In sintesi, il memorandum spiegava come per effetto della politica dei prezzi e dei mercati quale si era venuta configurando, con i suoi prezzi alti e garantiti senza porre limiti alle quantità prodotte, le eccedenze e i costi conseguenti per sbarazzarsene sarebbero presto esplosi e, parallelamente, si sarebbe ancora allargato il divario fra una piccola minoranza di aziende moderne ed efficienti e l’immensa maggioranza delle piccole aziende contadine. Esso preconizzava allora un programma articolato lungo le tre seguenti linee di azione: una nuova politica dei prezzi che non fosse più la risultante di compromessi politici, ma che tenesse conto dei costi di produzione e della prevedibile evoluzione della domanda; la promozione su vasta scala di aziende capaci di stare da sole sul mercato e di assicurare condizioni di vita e di reddito degni di una società avanzata come quella europea; la creazione nelle aree rurali di almeno 80.000 posti di lavoro industriali all’anno al fine di evitare che l’esodo agricolo, obbligando i lavoratori ad emigrare, impedisse lo stesso progresso dell’agricoltura.

Il programma si sarebbe dovuto realizzare nell’arco di 10 anni. Alla fine, nel 1980, la Comunità si sarebbe ritrovata con una agricoltura rinnovata nelle sue strutture produttive, con un territorio rurale a forte presenza di attività extra agricole, con una PAC equilibrata nelle sue componenti e con un costo che Mansholt stimava intorno ai 2 miliardi di ECU, di cui 700 milioni da destinare al sostegno dei prezzi. Un obiettivo davvero ambizioso se si considera che, come abbiamo visto più sopra, la spesa per il solo sostegno dei prezzi già nel 1969 aveva raggiunto i 2 miliardi e mezzo di ECU.

Il memorandum suscitò grande interesse, i dibattiti si protrassero per oltre due anni ma alla fine i ministri dell’agricoltura decisero di accantonarlo. E così la nuova politica dei prezzi venne rinviata alle calende greche e degli 80.000 posti di lavoro da creare ogni anno nelle aree rurali scomparve persino la menzione. Solo la seconda delle tre linee di azione ebbe un certo seguito, con le tre direttive socio-strutturali che il Consiglio approvò nel marzo del 1972 (v. Direttiva). La prima, la 159/72/CEE, riguardava l’ammodernamento delle aziende agrarie e concedeva aiuti in favore di quelle aziende che, attraverso un piano di sviluppo, si dimostravano suscettibili di raggiungere un «reddito di lavoro comparabile» con il reddito di lavoro extra agricolo. La seconda, la 160/72/CEE, riguardava il prepensionamento degli agricoltori di età superiore ai 55 anni. La terza direttiva, la 161/72/CEE, incoraggiava la creazione di servizi di formazione e di orientamento professionale a beneficio della popolazione agricola.

Certo, con queste tre direttive la politica delle strutture diventava ormai una realtà. Ma era una realtà intrinsecamente debole, perché si affidava a provvedimenti settoriali che ignoravano come lo sviluppo dell’agricoltura sia causa ed effetto insieme dello sviluppo generale dei territori rurali dei quali essa è solo una delle componenti. D’altronde, anche la direttiva approvata tre anni più tardi, la 168/75/CEE, sull’agricoltura di montagna e zone svantaggiate, seguiva il medesimo approccio. La Comunità intendeva porre fine ai processi di deterioramento e di abbandono di quelle zone e tal fine concedeva alle aziende ivi situate uno speciale aiuto annuale, la cosiddetta “indennità compensativa”, a compenso appunto dei maggiori costi derivanti dalle più difficili condizioni naturali di produzione (altitudine, pendenza e povertà dei terreni, clima sfavorevole, ecc). Un provvedimento importante, ma del tutto insufficiente se si considera che già allora nei territori in questione esercitavano sull’agricoltura un peso non certo inferiore fattori quali l’isolamento, la carenza di collegamenti e di servizi, la mancanza di altre attività produttive, le difficoltà di accesso al mercato. Ebbene, la direttiva rimaneva muta al riguardo e pretendeva di far fronte a carenze di tanto rilievo con una misura di tipo esclusivamente agricolo.

Qualche anno più tardi, nel 1978, l’esito fallimentare delle tre direttive del 1972 nelle regioni meridionali della CEE e la prospettiva dell’adesione di Grecia, Portogallo e Spagna inducevano il Consiglio ad adottare a favore di queste regioni un insieme di misure strutturali specifiche, meglio note come “pacchetto mediterraneo”. Queste misure, di durata quinquennale, includevano: il finanziamento dei programmi di irrigazione nel Mezzogiorno (regolamento CEE n. 1362/78); la ristrutturazione della vitivinicoltura nel Languedoc-Roussillon (regolamento CEE n. 78/627); il finanziamento delle infrastrutture rurali nel Mezzogiorno, nelle zone di montagna e svantaggiate del centro e del nord dell’Italia e del sud della Francia (regolamento CEE n. 1760/78); una più elevata partecipazione del FEOGA (Fondo europeo di agricolo di orientamento e garanzia) ai programmi di miglioramento delle attività di trasformazione e di commercializzazione in queste stesse zone (regolamento CEE n. 1361/78).

La questione agro-monetaria, l’esplosione delle eccedenze e delle spese, il conflitto di bilancio col Regno Unito. La costruzione delle PAC, che nella sostanza si era identificata nella politica dei prezzi e dei mercati, era avvenuta in regime di cambi fissi, il che aveva reso agevole tradurre nelle varie monete nazionali i prezzi comunitari che venivano fissati in ECU. Questa situazione favorevole aveva però avuto assai breve durata. Agli inizi degli anni Settanta, a seguito della sospensione della convertibilità del dollaro rispetto all’oro si era entrati in una fase del tutto nuova, una fase caratterizzata dall’instabilità dei tassi di cambio e dalle ricorrenti fluttuazioni fra le monete europee, con la rivalutazione sistematica del marco tedesco e del fiorino olandese, da un lato, e la svalutazione progressiva del franco francese e della lira italiana, dall’altro. La questione monetaria aveva fatto così irruzione nel funzionamento della PAC rischiando di distruggere quel regime dei prezzi unici che era il fondamento del mercato comune agricolo. In effetti, la continua variazione dei tassi di cambio avrebbe comportato l’instabilità dei prezzi agricoli che si sarebbero mossi verso il basso nei paesi che rivalutavano e verso l’alto nei paesi la cui moneta veniva svalutata. Le autorità comunitarie si impegnarono quindi in via prioritaria nelle ricerca e nella gestione di strumenti che consentissero di impedire queste variazioni e di salvaguardare così il regime dei prezzi unici: le monete verdi e gli importi compensativi monetari vennero istituiti, si pensava in via provvisoria, per fronteggiare tale nuova situazione (v. Fanfani, 1990).

Con le “monete verdi” il tasso di cambio utilizzato per le transazioni relative ai prodotti agricoli veniva isolato dal tasso di cambio di mercato e fissato ogni anno al momento del negoziato annuale sui prezzi agricoli: in questo modo si poteva continuare a tradurre con sufficiente stabilità nelle diverse monete nazionali i prezzi comunitari espressi in unità di conto. Dal canto loro, gli importi compensativi monetari avevano lo scopo di evitare distorsioni nel commercio agricolo intracomunitario, distorsioni possibili per il fatto che, come abbiamo appena ricordato, il tasso “verde” divergeva dal tasso di cambio di mercato. Con essi, i paesi a moneta forte vedevano sussidiate le esportazioni e tassate le importazioni agricole; per i paesi a moneta debole avveniva il contrario, erano le esportazioni a venire tassate e le importazioni a essere sussidiate. Nella realtà, la gestione di questi due delicati e complessi meccanismi monopolizzò ben presto l’attenzione del Consiglio dei ministri dell’agricoltura e divenne oggetto di aspri negoziati nell’ambito della fissazione annuale dei prezzi agricoli per il fatto che gli Stati membri – nel frattempo erano passati a 9 con l’ingresso di Danimarca, Irlanda e Regno Unito – avevano interessi divergenti. Così i paesi a moneta debole come la Francia e l’Italia spingevano per la svalutazione delle loro monete verdi in maniera da ottenere un aumento nelle rispettive monete nazionali dei prezzi fissati a Bruxelles in unità di conto e nel contempo si battevano per la riduzione degli importi compensativi monetari per non veder frenate le loro esportazioni. Al contrario, Germania e Olanda si opponevano alla rivalutazione delle loro monete verdi per evitare una diminuzione dei prezzi interni e, ovviamente, alla riduzione dei loro importi compensativi monetari visto che questi fungevano da sussidi alle loro esportazioni e da freno all’afflusso sui loro mercati di prodotti agricoli francesi e italiani.

Per il resto, il Consiglio dei ministri, lungi dal riformare la politica dei prezzi in modo da ridare ad essa la funzione di orientare la produzione in vista di un migliore equilibrio dei mercati, aveva scelto la via più semplice, si era cioè limitato ad aumenti annuali “prudenti”. L’unico tentativo specifico di contenimento degli squilibri crescenti fra domanda e offerta che merita forse di essere ricordato riguardò il settore del latte, per il quale nel 1977 erano state adottate alcune particolari misure di dissuasione. Fra queste, una indennità agli agricoltori che accettavano di non commercializzare il latte prodotto ma di utilizzarlo in azienda per l’allevamento dei vitelli, una “tassa di corresponsabilità” su ogni litro di latte commercializzato di un importo pari al 3% del prezzo indicativo del latte, il divieto di aiuti nazionali o comunitari agli investimenti nel settore lattiero (v. anche Aiuti di Stato). Tutte misure che dovevano rivelarsi ben presto largamente inadeguate rispetto agli obiettivi per i quali erano state istituite. L’intensificazione dell’agricoltura nelle aree più ricche e meglio dotate di risorse aveva così trovato nella PAC un fattore di spinta decisivo, le eccedenze avevano continuato ad accumularsi e la crescita delle spese a carico della Comunità per liberarsene appariva ormai fuori controllo. Alcune cifre al riguardo possono essere utili. In precedenza abbiamo ricordato che Sicco Mansholt aveva previsto per il 1980 una spesa della sezione garanzia del FEOGA dell’ordine di 700 milioni di unità di conto nel caso che il suo piano decennale fosse stato realizzato. Ebbene, nel 1979 questa categoria di spesa aveva già superato i 9 miliardi e mezzo di ECU e si avviava a sfiorare, per il 1980, gli 11 miliardi.

Una tale evoluzione aveva poi innescato un grave conflitto con il Regno Unito, che registrava il disavanzo più elevato nei confronti del bilancio CEE pur figurando, con Italia, Irlanda e Grecia nel gruppo di quelli che erano definiti i “paesi meno prosperi” della Comunità. Ora, la causa principale di tale squilibrio veniva individuata nel fatto che questa categoria di spesa rappresentava ben il 70% del totale del bilancio comunitario e il Regno Unito ne beneficiava per meno dell’8%, contro il 25% della Germania, il 21% della Francia, il 16% dell’Italia, il 12% dell’Olanda, ecc. Il Consiglio europeo del 30 maggio 1980 dava allora mandato alla Commissione di studiare le modifiche da apportare alle diverse politiche comunitarie in maniera da correggere una tale situazione che esso stesso definiva come “inaccettabile”.

La riforma della PAC ridiventava così di attualità. Questa volta però erano i problemi finanziari a dettare scopi e contenuti della riforma e a confinarla, quindi, in una cornice assai più ristretta rispetto a quella che Mansholt aveva preconizzato dodici anni prima. Il memorandum “Agricoltura 1980” era stato disegnato per modernizzare l’agricoltura; adesso erano le dispute di bilancio fra gli Stati membri a dettare la riforma e non certamente, al di là delle affermazioni di rito, l’avvenire del settore primario e dei suoi addetti.

Il rapporto-mandato, la compensazione finanziaria al Regno Unito, gli stabilizzatori di bilancio e le quote-latte. Il 24 giugno 1981 la Commissione presentava il suo rapporto al Consiglio. In via di principio la Commissione avrebbe potuto cogliere l’occasione dell’incarico ricevuto e riproporre una sorta di nuovo Piano Mansholt, debitamente aggiornato. Ma i tempi erano ormai cambiati: 20 anni di PAC avevano creato rendite di posizione difficili da scalfire tanto fra gli Stati membri che fra le categorie più forti e organizzate. Prevalsero perciò la prudenza e il realismo. Nella sostanza, il rapporto-mandato spiegava che la questione britannica non si sarebbe potuta risolvere nel breve periodo mediante una riforma della PAC e il parallelo sviluppo di altre politiche; riconosceva perciò che per la sua soluzione immediata non vi era altra strada se non quella del versamento annuale di una adeguata compensazione finanziaria al Regno Unito; affermava che era comunque necessario porre sotto controllo la spesa agricola se si voleva evitare l’insorgere di nuovi squilibri del tipo di quello lamentato dal governo britannico.

A questo riguardo, il rapporto presentava orientamenti del tutto ragionevoli. In particolare, si sosteneva che per ogni prodotto si sarebbero dovuti fissare obiettivi quantitativi di produzione e chiamare i produttori, in caso di superamento di questi obiettivi, a farsi carico di una parte delle spese conseguenti. Gli anni Ottanta furono così gli anni in cui vennero introdotti gli strumenti idonei a dare attuazione a questo nuovo principio. Il processo fu lungo e difficile e si concluse solo nel 1988 con il varo degli “stabilizzatori di bilancio” (Per un esame dettagliato di quel periodo ricco di analisi, di proposte e di prese di posizione, v. Vieri, 1994). Con essi veniva introdotto un meccanismo di riduzione automatica del prezzo nel caso in cui la produzione avesse superato la “quantità massima garantita”. Questa quantità veniva fissata ogni anno per la Comunità nel suo insieme per ogni singolo comparto e la riduzione, che avrebbe avuto luogo l’anno successivo, sarebbe stata tanto più forte quanto maggiore il superamento di detta quantità.

Per il latte, invece, era stata adottata una soluzione assai più severa. In effetti, la spesa per sbarazzarsi delle eccedenze di burro e di latte in polvere risultava davvero fuori controllo, tanto che assorbiva ormai un terzo dell’intera spesa agricola: la “tassa di corresponsabilità” e le altre misure in vigore sin dal 1977 si erano rivelate del tutto inefficaci. E così, nella primavera del 1984 era stato introdotto il regime delle quote. Con esso la produzione complessiva di latte veniva riportata e stabilizzata ai livelli del 1981 (Italia e Irlanda avevano ottenuto di conservare i livelli del 1983). Questa produzione complessiva, pari a 99,9 milioni di tonnellate di latte, veniva ripartita fra i diversi paesi. La quota nazionale veniva poi ripartita fra le aziende produttrici o le latterie e i caseifici. In ogni caso, ogni produttore si vedeva assegnato un certo quantitativo di latte, equivalente a quello da esso commercializzato nel 1981 (nel 1983 per irlandesi e italiani) e veniva stabilito che per ogni litro di latte eccedente la quota l’azienda interessata avrebbe dovuto pagare una “soprattassa” pari al prezzo indicativo del latte che veniva fissato ogni anno a livello CEE. Come si vede una decisione davvero drastica che bloccava la crescita della produzione di latte e metteva finalmente sotto controllo la relativa spesa.

È forse il caso di ricordare che tanto il regime delle quote quanto il contributo finanziario al Regno Unito erano stati concepiti come misure transitorie. Sono passati da allora 20-25 anni, ma sono sempre in applicazione. Il contributo al Regno Unito è ormai diventato nella sostanza permanente. Dal canto suo, la fine del regime delle quote è stata continuamente spostata in avanti: prima al 1999, poi al 2006 e, da ultimo, al 2016. Decisione, questa, che è stata presa in occasione della più recente riforma della PAC, quella del 2003 di cui si dirà più avanti.

La nuova fase delle riforme

Nel corso degli anni Ottanta il processo di revisione della PAC era stato dunque dominato da fattori e preoccupazioni di ordine interno alla Comunità, in particolare dalle questioni di bilancio e dalla necessità di mettere finalmente un freno alla spesa agricola. Da qui le misure via via adottate durante quel decennio: tasse di corresponsabilità, quote latte, quantità massime garantite, stabilizzatori di bilancio. Misure certamente importanti e innovative, ma che rimanevano all’interno di una cornice che assegnava la difesa del reddito degli agricoltori al solo sostegno dei prezzi agricoli. Gli anni Novanta segnavano invece un periodo di cambiamenti radicali, alla cui origine vi erano fattori di ordine internazionale cui si aggiungevano, oltre alle consuete preoccupazioni di bilancio, nuove preoccupazioni di ordine interno, quali la salvaguardia dell’ambiente e la salute dei consumatori. La riforma del 1992, le regolamentazioni relative all’agricoltura biologica e ai prodotti di qualità, il lancio della politica di sviluppo rurale, le nuove modifiche apportate alla PAC nel quadro di “Agenda 2000” sono stati gli eventi che hanno marcano questa nuova fase che, peraltro, non si è esaurita con la fine del decennio, ma è continuata in quello successivo con la nuova riforma del 2003.

La riforma Mac Sharry del 1992 e Agenda 2000. Nel 1992 la riforma Mac Sharry, dal nome dell’allora commissario all’agricoltura, segnava la rottura rispetto al tradizionale approccio gradualistico, introducendo uno strumento nuovo ed estremamente efficace ai fini della difesa dei redditi agricoli sino ad allora lasciata al sostegno dei prezzi: gli aiuti diretti agli agricoltori.

Agli inizi degli anni Novanta il rilancio delle trattative sulla liberalizzazione del commercio dei prodotti agricoli vedeva sul banco degli accusati la PAC cui si imputavano gravi effetti distorsivi sugli scambi mondiali. A creare forti motivi di tensione erano soprattutto i sussidi europei alle esportazioni (“restituzioni” nel gergo comunitario) mediante i quali la Comunità riusciva ad esportare i suoi prodotti a prezzi nettamente più bassi rispetto a quelli praticati al suo interno. Per avere un’idea dell’importanza del problema si consideri che in quegli anni i sussidi in questione rappresentavano il 30% dell’intera spesa agricola e avevano ormai superato in volume i 10 miliardi di ECU.

Oggetto della riforma furono i grandi seminativi – cereali, colture oleose e proteiche quali girasole, colza, soia ecc. – nonché la carne bovina, vale a dire i prodotti aventi un mercato mondiale. Le principali decisioni prese in quell’occasione furono le seguenti: i prezzi dei cereali e delle colture ad essi legate venivano ridotti del 30% in tre anni; queste riduzioni di prezzo venivano integralmente compensate da aiuti annuali ai produttori (“pagamenti compensativi”) per evitare che questi avessero a subire perdite di reddito; l’importo degli aiuti veniva calcolato con riferimento sia alla superficie che nell’azienda interessata era stata destinata a queste colture nel biennio 1990-1991, sia alla loro resa unitaria registrata nello stesso biennio nella zona agraria di appartenenza dell’azienda (ciò significa che eventuali allargamenti di superficie o aumenti di rese non sarebbero stati compensati, e questo avrebbe dovuto porre un freno alla crescita della produzione); il prezzo della carne bovina veniva ridotto nell’arco di tre anni del 15% e, parallelamente, i produttori venivano compensati con speciali premi, rapportati al numero di capi bovini presenti nelle rispettive aziende nel biennio 1990-1991; ancora, venivano adottate tre speciali misure dette di “accompagnamento”: programmi agro-ambientali, forestazione, incentivi all’esodo anticipato degli agricoltori con più di 55 anni di età.

Infine, merita di essere sottolineato il ruolo importante che, ai fini del riequilibrio del grande comparto dei seminativi, veniva assegnato al set aside, cioè alla messa a riposo dei terreni. Questa misura era già in vigore da alcuni anni, dal 1988, ma aveva carattere facoltativo. Con la riforma del 1992 essa diventava obbligatoria. Con l’esenzione di quelli più piccoli, i produttori venivano cioè obbligati a lasciare a riposo, beninteso dietro compenso, una parte dei loro terreni destinati a cereali, colture oleose e proteiche. Così, per effetto del set aside, che veniva confermato anche dalla nuova riforma del 2003 di cui diremo più avanti, la superficie agraria che ogni anno era lasciata a riposo registrava un’ampiezza davvero notevole, oscillando fra i 4 e i 6 milioni di ettari nell’Unione a 15, con una spesa conseguente a carico del bilancio comunitario non certo di entità trascurabile. Nel 2004, ad esempio, furono spesi per il set aside 1 miliardo e 840 milioni di euro. Maggiori destinatari erano ovviamente i paesi nei quali si concentrano le grandi colture a seminativo dell’Unione. Così la Francia assorbivaper il set aside 549 milioni di euro, la Germania 428, il Regno Unito e la Spagna rispettivamente 262 e 248 milioni. Dal canto suo, l’Italia era destinataria nel 2004 di una spesa assai più contenuta: 71 milioni di euro. La nostra agricoltura risultava quindi poco interessata a questa speciale misura, e ciò per due ragioni. La prima è che i seminativi hanno un peso nettamente minore rispetto ai paesi ora elencati; la seconda è che nell’agricoltura italiana prevalgono le aziende di piccole dimensioni le quali, come detto sopra, erano esentate dall’obbligo di mettere a riposo una parte dei loro terreni.

La riforma del 1992 mirava dunque a ridurre drasticamente i sussidi alle esportazioni per effetto della diminuzione dei prezzi interni e del loro avvicinamento ai prezzi mondiali. Parallelamente, mirava a porre un freno alla crescita della produzione di cereali e di carne bovina e ciò non solo grazie al set aside, ma anche in virtù del fatto che, come si è prima ricordato, gli aiuti diretti venivano calcolati sulla base delle rese, del numero di ettari e di capi di bestiame allevati da ciascuna azienda nel periodo 1990-1991. Infine, si proponeva di incoraggiare un’agricoltura più rispettosa dell’ambiente per l’effetto congiunto dei programmi agro-ambientali, dello stesso set aside nonché del freno posto all’intensificazione produttiva. Di questi obiettivi, il primo veniva effettivamente raggiunto e i dati che seguono lo dimostrano ampiamente.

Tabella I. Evoluzione delle spese per restituzioni

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1993 1994 1995 1996 1997 1998 1999 2000 2001 2002 2003 2004 2005

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(milioni di euro)

10.159 8.160 7.802 5.705 5.884 4.826 5.573 5.646 3.401 3.432 3.729 3.384 3.052

(in % totale FEOGA-garanzia)

29,4  24,8 22,6 14,6  14,6 12,5 14,1 14,0 8,1  7,9 8,4 7,6  6,2

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Fonte: Commissione europea, Relazioni finanziarie FEOGA, sezione garanzia.

 

Come si vede, nel 1999 la spesa per “restituzioni” risultava già dimezzata in rapporto al 1993, anno di avvio della nuova politica. Il processo continuava negli anni successivi attestandosi, a partire dal 2001, intorno ai 3-3,5 miliardi di euro (6%-8% della spesa agricola totale).

Nel 1999 la PAC subiva nuove importanti modifiche. Il Consiglio europeo di Berlino del marzo di quell’anno approvava infatti “Agenda 2000”, il documento programmatico sul futuro a medio termine dell’Unione. Questo documento comprendeva tre grandi capitoli: la fissazione del quadro finanziario dell’Unione per il periodo 2000-2006; l’impegno per la preparazione all’adesione dei paesi candidati; una nuova revisione della PAC insieme a quella della politica regionale, le due politiche che insieme assorbivano il 70% del bilancio comunitario.

 

Tabella II. Quadro finanziario dell’Unione 2000-2006

(milioni di euro)
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Capitoli    2000  2001  2002  2003  2004  2005  2006

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Agricoltura   40.920 42.800 43.900 43.770 42.760 41.930 41.660

 

Azioni strutturali 32.045 31.455 30.865 30.285 29.595 29.595 29.170

 

Azioni interne  5.930  6.40  6.150  6.260 6.370  6.480 6.600

 

Azioni esterne  4.550  4.560  4.570  4.580 4.590  4.600 4.610

 

Aiuto candidati 3.120  3.120  3.120  3.120 3.120  3.120 3.120

 

Amministrazione 4.560  4.600  4.700  4.800 4.900  5.000 5.100

 

Riserve       900   900   650  400   400   400  400

 

Complesso    92.025 93.475  93.955 93.215 91.735 91.125 90.660

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Fonte: Consiglio europeo di Berlino, Conclusioni della Presidenza, 24-25 marzo 1999.

 

Il Consiglio europeo di Berlino riconfermava dunque l’assoluta preminenza della PAC dal punto di vista del volume di risorse. Per il periodo 2000-2006 la PAC avrebbe potuto contare in media su 42,5 miliardi di euro all’anno, corrispondenti a più del 45% dell’intero bilancio, e addirittura al 49% se si escludevano i 5 miliardi del capitolo “Amministrazione”. Per quanto riguarda specificatamente le nuove modifiche ad essa apportate, queste si collocavano nel solco della riforma del 1992, che intendevano appunto approfondire e completare. I prezzi dei cereali, delle colture oleose e proteiche subivano una nuova riduzione del 15% e quelli della carne bovina del 20%. Tali riduzioni venivano in parte compensate mediante un aumento del livello degli aiuti diretti ai produttori decisi nel 1992. Per il latte, il regime delle quote veniva prorogato sino al 2006 e, successivamente, al 2016.

La riforma del 1992 e “Agenda 2000” hanno avuto conseguenze assai significative sulla distribuzione della spesa fra i diversi comparti. In particolare, si sono ulteriormente aggravati gli squilibri che già vedevano nettamente avvantaggiate le grandi colture a seminativo (cereali, colture oleose e proteiche). Si vedano al riguardo i dati riportati nella tabella III.

 

Tabella III. Evoluzione della spesa per seminativi e della spesa totale del FEOGA-garanzia

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1991-1992   2004-2005

 

% seminativi su totale produzione      14,1      14,2

 

spesa per seminativi (miliardi euro)     9,7      17,6

 

totale FEOGA-garanzia (miliardi euro)     31,4      40,2*

 

% spesa seminativi su totale FEOGA-garanzia  30,8      43,8

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*al netto delle risorse destinate allo sviluppo rurale.

Fonte: Commissione europea, Relazioni finanziarie FEOGA, sezione garanzia.

Dunque, agli inizi degli anni Novanta i seminativi già assorbivano il 31% dell’intera spesa da addebitare alla politica dei prezzi e dei mercati. Dodici anni dopo questa aliquota sfiorava addirittura il 45%, anche se il loro contributo al totale della produzione agricola comunitaria era rimasto invariato, intorno al 14%. La crescita della spesa per i seminativi è stata dunque superiore all’80%, mentre quella totale del FEOGA-garanzia è stata nettamente più contenuta, del 28%. Naturalmente, questo consolidamento della posizione di privilegio delle grandi colture a seminativo non è stato affatto neutrale quanto alla distribuzione dell’immenso flusso della spesa agricola fra gli Stati membri. Il confronto tra la media dei tre anni che precedono la riforma e quella del 2003-2005 riportato in tab. IV fornisce al riguardo indicazioni abbastanza chiare.

Tabella IV. Evoluzione delle spese del FEOGA-garanzia in alcuni Stati membri

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Stati membri       1990-1992          2003-2005

(miliardi euro) (% su tot. garanzia) (miliardi euro) (% tot. garanzia)

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Francia        6.066     20,7       9.926    21,6

Germania       4.495     15,2       6.127    13,3

Spagna        2.956     10,1       6.395    13,9

Regno Unito      2.119     7,2       4.058    8,8

Italia         4.821     16,4       5.298    11,5

Belgio        1.227     4,2       1.041    2,3

Olanda        2.429     8,3       1.293    2,8

Danimarca      1.158     3,9       1.221    2,7

Grecia        2.127     7,3       2.763    6,0

………..

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Fonte: Commissione europea, Relazioni finanziarie FEOGA, sezione garanzia.

La tabella mostra che la Francia, la Spagna e il Regno Unito hanno tratto i maggiori vantaggi dalla riforma. La prima è riuscita addirittura a migliorare la sua già indiscussa posizione di preminenza. La Spagna ha visto più che raddoppiato il flusso di spesa a favore della sua agricoltura (+116%), il Regno Unito ha quasi sfiorato il raddoppio (+88%) ed entrambi hanno visto crescere la loro parte nel totale della spesa di ben 4 punti. L’Italia, il Belgio e l’Olanda si collocano all’altro estremo, fra i maggiori “perdenti”. Il regresso dell’Italia colpisce in misura particolare. Il paese, che prima della riforma occupava il secondo posto dietro la Francia, risulta ormai preceduto anche dalla Germania e dalla Spagna. In particolare, esso ha accusato una caduta di ben 5 punti: dal 16,4% del triennio iniziale all’11,5% della fine del periodo. E questo malgrado il fatto che l’aliquota dell’Italia nel totale della produzione agricola dell’Unione prima dell’allargamento a 27 Stati membri fosse rimasta inferiore soltanto a quella francese: 14,1% e 20,5%, rispettivamente.

Peraltro, questi spostamenti fra gli Stati membri che la tabella mette in luce non devono sorprendere. Era cioè prevedibile che da una riforma che orientava ancora di più il flusso della spesa agricola verso le grandi colture a seminativo l’Italia avrebbe finito con il subire arretramenti di notevole entità e che il contrario si sarebbe verificato per quelle agricolture nelle quali queste colture registrano un peso particolarmente elevato. La Francia, ad esempio, produceva il 35% del frumento, il 37% del mais, il 20% dell’orzo e ben oltre il 40% delle colture oleose e proteiche della Comunità a 15. L’Italia, invece, con l’eccezione del mais (28%) denunciava aliquote nettamente più basse: 10% per il frumento e i semi oleosi, 4% per l’orzo.

L’agricoltura biologica e la politica di qualità. La crescente attenzione dei cittadini europei per la questione di un’agricoltura che non sia in conflitto con l’ambiente e che fornisca prodotti sicuri e di qualità trovava risposta da parte delle autorità comunitarie già agli inizi degli anni Novanta. Nel 1991 il Consiglio dei ministri approvava una speciale regolamentazione relativa «al modo di produzione biologico dei prodotti agricoli»; l’anno successivo era la volta di due speciali regolamenti in materia di qualità dei prodotti agroalimentari.

Con il primo di questi regolamenti (reg. 2092/91/CEE) la Comunità definiva una normativa estremamente dettagliata che copriva l’intero arco del processo che dall’azienda agraria arriva sino al consumatore. Essa si applicava tanto ai prodotti di origine vegetale quanto a quelli di origine animale e imponeva regole precise e assai restrittive in materia di produzione e di trasformazione, di ispezioni e di controlli, di etichettatura e di importazioni dai paesi terzi. Così, per quanto riguarda la fase della produzione, il regolamento vietava il ricorso ai mezzi chimici di sintesi – fossero essi concimi, antiparassitari o diserbanti – e stabiliva che il miglioramento della fertilità del suolo o la difesa dai parassiti dovessero essere assicurati da una appropriata rotazione delle colture, dalla scelta di varietà resistenti, dal ricorso alla lotta biologica e, per il bestiame allevato, prescriveva che gli alimenti (foraggi freschi o essiccati, mangimi) dovessero non soltanto essere biologici, ma anche ottenuti di preferenza nell’azienda stessa. Questa normativa poneva fine a decenni di incertezze che derivavano dall’esistenza in materia di diverse “scuole”, dalla mancanza di una terminologia armonizzata, da presentazioni eterogenee al consumatore e consentiva finalmente ai produttori biologici di operare in condizioni di certezza visto che le regole su ciò che è ammesso e ciò che è proibito erano chiare e dettagliate; nello stesso tempo tranquillizzava i consumatori, anche perché le ispezioni e i controlli erano rigorosi e la stessa etichettatura era di grande chiarezza e visibilità.

Tutto questo ha avuto certamente un peso decisivo nelle sviluppo vertiginoso che l’agricoltura biologica è venuta registrando in poco più di un decennio:

Tabella V. Evoluzione delle aziende biologiche e della relativa superficie

1988   1993   1998    2001

aziende (n.)  9.521   28.868  105.657  142.340

ettari (n.)   243.112  700.574  2.774.890 4.442.876

Fonte: Commission Européenne, L’agriculture biologique dans l’UE: faits et chiffres, Bruxelles 2002.

Dai 243.000 ettari e dalle 9500 aziende del 1988 si era dunque passati, nel 2001, a quasi 4 milioni e mezzo di ettari e a oltre 142.000 aziende. Naturalmente le tendenze evolutive e le dimensioni di questa nuova realtà variano notevolmente all’interno dell’Unione. E quello che mette conto rilevare è il ruolo di assoluta preminenza che l’Italia ha saputo conquistare: nel 1988 il paese contava solo 1100 aziende biologiche per un totale di 9 mila ettari; nel 2001 le aziende erano diventate 56.440 e gli ettari 1.230.000. In pratica, nel 2001 il 40% del totale delle aziende biologiche dell’Unione e il 28% della relativa superficie si trovavano in Italia. Seguivano, nettamente staccati, il Regno Unito con 680.000 ettari e 4000 aziende, la Germania con 632.000 ettari e 14.000 aziende, la Spagna con 485.000 ettari e 15.600 aziende.

Come in precedenza accennato, nel 1992 venivano approvati due speciali regolamenti, volti a proteggere e valorizzare quei prodotti agroalimentari aventi un legame certo e antico con il territorio o che fossero il frutto di tecniche tradizionali di produzione o di trasformazione. Il primo era relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine (reg. 2081/92/CEE); il secondo alle attestazioni di specificità (reg. 2082/92/CEE). Entrambe le normative hanno avuto un grande successo, malgrado la complessità e il rigore inevitabili delle procedure di riconoscimento. Sono ormai molte centinaia i prodotti iscritti nel “registro delle denominazioni di origine protette e delle indicazioni geografiche protette” o nel “registro delle attestazioni di specificità”. Anche questa volta l’agricoltura italiana ha saputo reagire con prontezza, facendo valere il suo primato in materia di qualità: i prodotti agroalimentari italiani che sono stati ufficialmente riconosciuti dalle autorità comunitarie superano ormai largamente il numero di 150. Tanto che oggi sigle quali DOP (Denominazione d’origine protetta), IGP (Indicazione geografica protetta) e STG (Specialità tradizionale garantita) sono diventate familiari anche presso il grande pubblico.

Vale la pena ancora considerare che i prodotti in questione sono ottenuti mediante l’uso di tecniche di norma non aggressive nei confronti dell’ambiente. Tanto più che per la gran parte appartengano ad aree di agricoltura estensiva: si pensi, ad esempio, al pecorino toscano, al pecorino sardo, al canestrato pugliese, alla fontina della Valle d’Aosta, alla nocciola del Piemonte, al fagiolo lamon del bellunese, al peperone di Senise, al marrone del Mugello o ancora al farro della Garfagnana. Molti di questi prodotti erano in via di sparizione e il grande merito della normativa comunitaria (v. anche Diritto comunitario) è stato quello di arrestare tale processo, fornendo gli strumenti per resistere alla concorrenza soverchiante delle derrate delle pianure altamente intensive e della grande industria alimentare. Con vantaggio per i produttori interessati, per i consumatori ma anche per la conservazione del suolo e per la difesa di un patrimonio di biodiversità che è frutto del lavoro di secoli.

L’avvio della politica di sviluppo rurale. Abbiamo osservato in precedenza come gli anni Novanta siano stati anche gli anni durante i quali si assiste alla graduale affermazione della politica di sviluppo rurale. In effetti, nel giugno del 1988 la Commissione aveva presentato al Consiglio e al Parlamento una sua comunicazione dal titolo “Il futuro del mondo rurale”. Riprendendo in un certo senso l’analisi di Mansholt di venti anni prima, con quel documento la Commissione insisteva su tre temi fondamentali: che l’agricoltura è solo uno dei settori produttivi dei territori rurali e spesso non ne è nemmeno il più importante in termini di occupazione e di ricchezza prodotta; che non è possibile perseguire il progresso dell’agricoltura con provvedimenti settoriali perché questo è causa ed effetto insieme dello sviluppo generale del territorio nel quale l’attività agricola viene esercitata; che le azioni tendenti ad ammodernare gli assetti strutturali dell’agricoltura devono quindi diventare parte di una politica mirante allo sviluppo generale dei diversi territori. Veniva così avviato il passaggio dalla tradizionale politica delle strutture agricole alla politica di sviluppo rurale.

Qui ci limiteremo a ricordare come la politica di sviluppo rurale abbia ormai acquisito una sua propria identità tanto da essere definita “secondo pilastro” della PAC e, soprattutto, come il programma sperimentale LEADER (Liasons entre actions de developpement de l’economie rurale) ne rappresenti una delle innovazioni di maggiore interesse. Introdotto nel 1991 e giunto ormai alla sua terza edizione, il programma è rigorosamente incentrato su un approccio che parte dal basso, è articolato per aree di piccole dimensioni e coinvolge tutti gli attori presenti sul terreno organizzandoli in “gruppi di azione locale” (GAL). Questi gruppi hanno il compito di individuare le azioni meglio capaci di assicurare un futuro sostenibile alle loro comunità e di passare poi alla fase della realizzazione secondo strategie integrate di sviluppo che poggiano su precisi piani di finanziamento, sul partenariato fra organismi pubblici e attori privati, sul monitoraggio sistematico. In virtù del successo di LEADER, l’approccio bottom-up appare destinato a diventare il perno della nuova politica di sviluppo rurale nell’Unione allargata.

La riforma del 2003: dai pagamenti compensativi per prodotto al pagamento unico disaccoppiato

Nel giugno 2003 la PAC veniva di nuovo riformata. I ministri dell’Agricoltura cambiavano in maniera radicale il sistema di aiuti diretti ai produttori, cambiavano cioè quello che era ormai diventato lo strumento più costoso per il sostegno dei redditi agricoli: poco meno di 30 miliardi di euro all’anno, corrispondenti al 65-70% del totale della spesa agricola.

Abbiamo ricordato in precedenza che gli aiuti diretti ai produttori introdotti con la riforma del 1992 erano stati definiti “pagamenti compensativi” appunto perché servivano a compensare le diminuzioni di prezzo, in particolare di cereali, colture oleose e proteiche che erano state decise in quell’occasione. Questi pagamenti erano quindi “accoppiati” alla produzione, venivano cioè concessi separatamente per ciascuno dei prodotti interessati e in funzione dei quantitativi ottenuti in azienda. Con la riforma del giugno 2003, dal regime degli “aiuti accoppiati” si passava al regime degli “aiuti disaccoppiati”. Il nuovo sistema può essere schematizzato come segue. Un “pagamento unico”, slegato dalla produzione, sostituisce i singoli “pagamenti compensativi”e il suo importo viene calcolato sulla base dei diversi pagamenti annuali che ogni singola azienda ha ricevuto in media nel triennio 2000-2002; nel “pagamento unico” confluiscono anche gli aiuti diretti che venivano concessi già prima della riforma del 1992 a ovini, foraggi essiccati e patate da fecola; il sistema viene esteso anche al settore del latte, ma entra in applicazione solo a decorrere dal 2008 (sino a quella data i produttori di latte ricevono pagamenti specifici il cui importo è cresciuto progressivamente da 11,81 euro/t del 2004 a 35,5 euro/t nel 2006); il 21 aprile 2004 si decideva di far confluire in parte nel “pagamento unico” gli aiuti a tabacco, olio di oliva e cotone, aiuti che preesistevano anch’essi alla riforma del 1992; proprio perché “disaccoppiato” il pagamento continuerebbe a essere versato anche alle aziende che decidessero di cessare di produrre.

Da notare che la corresponsione di questo nuovo tipo di aiuto è subordinata a due speciali condizioni. La prima, la “eco-condizionalità”, prescrive che la piena erogazione del pagamento è subordinata al rispetto di norme in materia di ambiente, di sicurezza alimentare e di benessere degli animali: le aziende inadempienti se ne vedranno ridotto l’importo in misura proporzionale al danno provocato dal mancato rispetto di queste norme. La seconda condizione, detta della “modulazione”, stabilisce che le aziende di maggiori dimensioni, quelle aventi diritto a pagamenti superiori a 5000 euro all’anno, si vedranno progressivamente ridotti i relativi importi e le somme così recuperate – la stima è dell’ordine di 1,2 miliardi di euro all’anno – saranno destinate alla politica di sviluppo rurale. In particolare, saranno utilizzate affinché gli agricoltori migliorino la qualità dei loro prodotti e si adeguino alle norme comunitarie in materia di ambiente, di sanità, di sicurezza sul lavoro e di trattamento degli animali.

La nuova riforma è stata salutata con entusiasmo dalle autorità comunitarie. Valga per tutte la dichiarazione rilasciata alla fine dei lavori del Consiglio di quel 26 giugno 2003 dall’allora commissario all’agricoltura Franz Fischler: «Si tratta di una decisione storica, che segna l’inizio di una nuova era. La nostra politica agricola cambia profondamente. Oggi l’Europa si è dotata di una politica agricola nuova, moderna ed efficiente che contribuirà a stabilizzare i redditi degli agricoltori e permetterà loro di produrre ciò che chiede il consumatore. I contribuenti e i consumatori beneficeranno di una maggiore trasparenza e di un migliore rapporto qualità/prezzo. Questa riforma manda un segnale forte al resto del mondo. La nostra nuova politica è favorevole al commercio. Abbiamo deciso di voltare pagina con il vecchio sistema di sovvenzioni che distorceva gli scambi internazionali e danneggiava i paesi in via di sviluppo […]».

Queste parole di Franz Fischler mostrano con chiarezza che alla base della nuova riforma vi era il riconoscimento che quella del 1992 non aveva dato i risultati attesi. Sul piano internazionale, il resto del mondo non si era accontentato dell’avvenuta drastica riduzione dei nostri sussidi alle esportazioni e aveva accusato il sistema di “pagamenti compensativi” di provocare gravi effetti distorsivi sugli scambi agricoli mondiali. Sul piano interno, questi pagamenti legati alle quantità prodotte avevano indotto gli agricoltori europei, specie quelli delle aree più ricche e meglio dotate di risorse, a continuare come per il passato, aggravando di conseguenza gli squilibri fra domanda e offerta e perseverando nel ricorso a tecniche agricole aggressive nei confronti dell’ambiente.

Parlare di “nuova era” o di “decisione storica” è forse esagerato. È comunque certo che la nuova PAC intende perseguire obiettivi estremamente ambiziosi. Gli aiuti disaccoppiati dalle quantità e dal tipo di prodotti ottenuti in azienda dovrebbero indurre gli agricoltori a produrre per il mercato, o anche a non produrre affatto, perché non più costretti a inseguire i vecchi sussidi legati ai vari prodotti. La fine di questi sussidi ridurrebbe drasticamente gli effetti distorsivi della PAC sul commercio internazionale e darebbe finalmente la possibilità all’Unione di svolgere un ruolo attivo nei negoziati sugli scambi agricoli in seno all’Organizzazione. D’altra parte, il fatto che la corresponsione piena del pagamento unico sia condizionata al rispetto di norme ambientali dovrebbe servire a migliorare il rapporto fra attività agricola e ambiente. Inoltre, la cosiddetta modulazione del pagamento unico a carico delle aziende più grandi contribuirebbe anche a rendere meno squilibrata la distribuzione della spesa fra i diversi gruppi di produttori. Al riguardo si tenga conto che al momento della nuova riforma un quinto dei produttori si accaparrava i quattro quinti degli aiuti diretti, che già allora rappresentavano quasi il 70% dell’intera spesa agricola. In sostanza, con la riforma del 2003 il sostegno finanziario all’agricoltura europea dovrebbe diventare finalmente accettabile per il cittadino-contribuente. Al riguardo, vale la pena precisare che questo sostegno sarà per il periodo 2007-2013 dell’ordine di 42 miliardi di euro all’anno, un terzo all’incirca dell’intero bilancio comunitario.

I fatti dimostreranno se e in quale misura la nuova PAC di un’Unione costituita da 27 Stati membri saprà rispondere alle attese. Intanto ogni cautela appare necessaria. In proposito, non è certo inutile riflettere sul fatto che anche la precedente riforma del 1992 si era visti assegnati gli stessi obiettivi.

Claudio Guida (2007)




Politica ambientale

L’ambiente e le Comunità europee: dai Trattati al primo Programma d’azione comunitaria

Nel Trattato di Roma (v. Trattati di Roma) istitutivo della Comunità economica europea (CEE) del 1957 la protezione dell’ambiente non era prevista esplicitamente tra le finalità della nuova organizzazione, sia perché non era ancora considerata una questione prioritaria a livello sovranazionale, sia perché il processo di integrazione comunitario (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della) era volto a perseguire principalmente il raggiungimento di obiettivi economici (v. Unione doganale; Mercato unico europeo). Tuttavia, al fine di promuovere «il miglioramento costante delle condizioni di vita» e di realizzare «uno sviluppo armonioso delle attività economiche, una continua e bilanciata espansione, un aumento della stabilità, una crescita accelerata del tenore di vita» (art. 2 Trattato CEE – ora art. 3 del Trattato dell’Unione europea, TUE, prima parte delle due delle quali è composto il Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009, che comprende anche il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, TFUE), alla Comunità europea (CE) era già consentito, in via incidentale, un intervento indiretto a difesa dell’ambiente, secondo quanto stabilito all’art. 30 del Trattato CEE (ora art. 36 TFUE) che ammetteva la possibilità di introdurre limiti o restrizioni in diversi settori, tra i quali «la protezione della salute e della vita degli uomini, degli animali e delle piante», al fine di attuare le disposizioni per l’attuazione del mercato comune (v. Comunità economica europea). In particolare, risultarono applicabili per tali azioni l’ex art. 100 (ora art. 115 TFUE), che consentiva al Consiglio dei ministri, su proposta della Commissione europea e dopo aver consultato il Parlamento europeo (PE) e il Comitato economico e sociale, di stabilire direttive idonee a Ravvicinamento delle legislazioni nazionali in funzione della realizzazione del mercato comune e l’ex art. 235 (ora art. 352 TFUE), che rendeva possibili interventi legislativi comunitari riguardanti azioni non previste dagli scopi comunitari originari, ma necessarie per poterli raggiungere (“poteri impliciti”) (v. anche Diritto comunitario).

Alcuni riferimenti all’ambiente erano peraltro stati inseriti negli artt. 54 e 55 del Trattato istitutivo della Comunità economica del carbone e dell’acciaio (CECA) (v. Trattato di Parigi) del 1951 e in quello istitutivo della Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom). La prima direttiva comunitaria di rilevanza ambientale fu infatti adottata nel 1959 (dir. Euratom 221/59) in merito alle radiazioni ionizzanti, al fine di individuare standard comuni per la protezione della salute dei lavoratori e della popolazione, per monitorare l’aria, l’acqua e il suolo e tenere informata la Commissione sui piani di smaltimento dei rifiuti radioattivi (art. 2, comma b e art. 30 Trattato Euratom). La prima direttiva ambientale avente come base giuridica il Trattato CEE riguardò, invece, nel 1967 la classificazione, l’imballaggio e l’etichettatura delle sostanze chimiche pericolose (dir. CEE 548/67).

Già tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Settanta l’aumento dei disastri ecologici a livello internazionale aveva determinato, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, la formazione di una sensibilità ambientalista a livello locale, nazionale e sovranazionale tra larghi strati dell’opinione pubblica, dovuta in particolare all’opera di denuncia e di tutela svolta da scienziati, movimenti, associazioni, gruppi ecologisti, comitati civici. Alcuni trattati e convenzioni diedero impulso allo sviluppo del diritto ambientale internazionale (numerosi, ad esempio, quelli riguardanti la prevenzione dell’inquinamento marino). Un rilievo particolare assunse la Convenzione di Ramsar (Iran) del 2 febbraio 1971 sulle zone umide di importanza internazionale, in particolare con riferimento agli habitat degli uccelli acquatici, più volte emendata, che istituì un elenco di zone protette al quale ogni Stato poteva iscrivere quelle del suo territorio.

In ambito comunitario dopo il Vertice dell’Aia dei capi di Stato e di governo tenutosi il 1° e 2 dicembre 1969 che favorì la ripresa di un clima favorevole allo sviluppo dell’integrazione europea dopo la caduta di Charles de Gaulle in Francia e l’inizio di un’azione mirata direttamente a ridurre l’inquinamento atmosferico prodotto dalle emissioni di gas provenienti da veicoli a motore avvenuto con una direttiva del 1970 volta al Ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia (dir. CEE 220/70), la Commissione europea decise di attuare un’Armonizzazione legislativa delle norme ambientali vigenti e, nel febbraio 1971, istituì al suo interno un Gruppo di lavoro per l’ambiente (v. Comitati e gruppi di lavoro) composto da alcuni commissari e presieduto da Altiero Spinelli. Con la comunicazione 2616 del 22 luglio 1971 la Commissione europea presentò al Consiglio dei ministri un memorandum che individuava per la prima volta la protezione dell’ambiente come obiettivo della CE. La Conferenza mondiale sull’ambiente umano convocata dalle Nazione Unite dal 5 al 16 giugno 1972 a Stoccolma segnò l’inizio di una politica internazionale ambientale. In questa circostanza vennero adottati il Piano mondiale di azione ambientale e la Dichiarazione di principi, che prevedeva con il principio 21 una limitazione all’autodeterminazione degli Stati. Pur mantenendo «il diritto sovrano di sfruttare le loro risorse secondo le loro politiche ambientali», essi avevano «il dovere di assicurare che le attività esercitate nei limiti della loro giurisdizione o sotto il loro controllo» non provocassero «danni all’ambiente di altri Stati o in aree al di fuori dei limiti delle giurisdizioni nazionali». Seguì la nascita di un Programma delle nazioni per l’ambiente (UNEP), istituito dall’Assemblea generale nel dicembre 1972 come organo autonomo e con una struttura specifica con sede a Nairobi (Kenia), avente funzioni di studio, assistenza tecnica e legislativa rivolta all’elaborazione di progetti di convenzione da sottoporre agli Stati. Tale compito fu svolto con altre organizzazioni internazionali attraverso la promozione di numerosi Trattati internazionali che instauravano regimi giuridici con differenti gradi di effettività e cogenza per gli Stati contraenti.

Al Vertice europeo di Parigi tra i capi di Stato e di governo tenutosi tra il 19 e il 21 ottobre 1972, i paesi della CE, dietro pressione della delegazione tedesca e con l’accordo dei tre paesi in procinto di entrarvi (Danimarca, Regno Unito e Irlanda), decisero di avviare un’azione ambientale comune, dichiarando che l’espansione economica prevista dall’art. 2 del Trattato CEE avrebbe dovuto realizzarsi con un miglioramento della qualità della vita, con una particolare attenzione «ai valori intangibili e alla protezione dell’ambiente». Alla Conferenza interministeriale di Bonn del 31 ottobre 1972 vennero così poste le basi per la preparazione di un programma d’azione sulla base della cooperazione tra i ministri responsabili della politica ambientale. Nacque così, il 22 novembre 1973, su decisione del Consiglio dei ministri delle Comunità europee, il primo Programma d’azione per l’ambiente (1973-1976). Nello stesso anno al vicepresidente della Commissione europea Carlo Scarascia Mugnozza venne affidato l’incarico di commissario all’ambiente (ricoperto fino al 1977 e poi passato a Lorenzo Natali da quell’anno al 1981) e furono costituiti un Servizio per l’ambiente e la protezione del consumatore all’interno della Direzione generale per la politica industriale (DGIII) della Commissione europea e la Commissione per l’ambiente (v. Commissioni parlamentari) del PE.

Il Programma d’azione ambientale, adottato con Risoluzione del Consiglio dei ministri su proposta della Commissione, rappresenta un quadro di riferimento generale (non direttamente vincolante gli Stati membri sotto il profilo giuridico) che individua principi e obiettivi sulla base dei quali implementare le politiche ambientali attraverso atti dotati di potere normativo differenziato – regolamenti, direttive (v. Direttiva), decisioni (v. Decisione), raccomandazioni (v. Raccomandazione). Nell’ambito della nutrita e complessa normativa comunitaria ambientale si possono individuare quattro distinte tipologie di direttive: le direttive concernenti la disciplina generale del diritto ambientale europeo, finalizzate alla creazione di un complesso omogeneo di principi e misure europee di protezione ambientale; le direttive settoriali, miranti a individuare norme comuni per contrastare singole forme di inquinamento; le direttive volte a integrare strumenti giuridici con misure economiche e iniziative volontarie di enti pubblici e privati; le direttive su situazioni materiali meritevoli di tutela – come l’individuazione di siti di interesse comunitario (SIC) e la protezione delle specie vegetali e animali a rischio o della fauna selvatica migratoria. Ad esempio, la dir. CEE 409/79 sulla protezione degli uccelli selvatici, la prima ad occuparsi specificamente di habitat naturali e fauna, stabiliva all’art. 14 che «gli Stati membri possono prendere misure di protezione più rigorose di quelle previste dalla presente direttiva», precorrendo il principio di maggior protezione ambientale, più tardi riconosciuto a livello comunitario.

Il primo Programma d’azione comunitaria per l’ambiente, incentrato sulla lotta all’inquinamento delle acque e dell’aria era volto, essenzialmente, a eliminare o limitare i danni ambientali prodotti in particolare dagli scarichi agricoli e industriali, dalle emissioni di gas nocivi e dall’inquinamento acustico. Tale programma portò all’adozione di diverse direttive riguardanti principalmente la determinazione di soglie massime di emissione per alcuni agenti inquinanti. L’obiettivo principale era la prevenzione del danno soprattutto in funzione dell’eliminazione di eventuali barriere non tariffarie alla costruzione del mercato comune e distorsive della libera concorrenza prodotte da differenti legislazioni ambientali nazionali.

Il secondo e il terzo Programma d’azione per l’ambiente

Il secondo Programma d’azione (1977-1981) accentuò l’attenzione per la prevenzione e ampliò il proprio orizzonte alla ricerca scientifica in campo ambientale, alla cooperazione internazionale e tra gli Stati europei e allo studio di un sistema di valutazione di impatto ambientale. Nel 1980 la Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) sancì definitivamente la compatibilità del ricorso all’ex art. 100 e all’ex art. 235 del Trattato CEE e la necessità di uniformare le legislazioni nazionali in materia di tutela ambientale per difendere la concorrenza, con la previsione di oneri per le imprese inquinanti (causa 91/79 – Commissione europea c. Italia – relativa al rifiuto di rispettare il termine di adeguamento alla direttiva sulla biodegradabilità dei detergenti da parte dell’Italia, sulla base dell’argomento che la CE non aveva competenze in campo ambientale). Nel 1981 la Commissione, presso la quale da quell’anno al 1985 venne designato commissario per l’ambiente il tedesco Karl-Heinz Narjes, costituì la Direzione generale XI (DGXI) con il compito di occuparsi di ambiente, sicurezza nucleare e protezione civile e iniziò ad affermarsi come il principale “attore” del policy-making ambientale comunitario. Dal canto suo la Corte di giustizia tornò a definire la tutela dell’ambiente come «uno degli scopi essenziali della Comunità» in una sentenza del 1985 (causa 240/83 – Procureur de la République c. Association de défense des bruleurs d’huiles usagées – ADBHU).

Chiamata a giudicare sull’ammissibilità di misure di tutela ambientale riguardo alla Libera circolazione delle merci, la Corte contribuiva notevolmente a chiarire e legittimare le politiche ambientali nazionali e comunitarie quali “esigenze imperative” capaci di imporre restrizioni alla libertà degli scambi, ritenendo legittime imposizioni fiscali applicabili a prodotti non biodegradabili o riconoscendo i rifiuti come beni. Nella causa 302/86, in cui la Commissione europea citava in giudizio la Danimarca per la rigida normativa da essa stabilita sui tipi di contenitori per birre e bibite ammessi sul mercato nazionale, che dovevano essere riciclabili e dotati di particolari requisiti, la Corte di giustizia, con la sentenza del 20 settembre 1988, riconosceva la legittimità di restrizioni al libero mercato per il perseguimento di obiettivi ambientali, purché proporzionate ai vantaggi ottenibili.

Con il passare degli anni si manifestò sempre più evidente nella legislazione europea l’interdipendenza dei fenomeni aventi incidenza ambientale e non circoscrivibili alla competenza dei singoli Stati membri. Negli anni Ottanta si avviò anche un serrato confronto tra paesi dell’Europa settentrionale – Repubblica Federale Tedesca (v. Germania), Danimarca e Paesi Bassi –, dotati di normative ambientali più severe e maggiormente influenzati dall’affermarsi dell’ambientalismo e dei movimenti verdi, e quelli dell’Europa del Sud (Francia, Italia e i paesi entrati nella CE tra il 1981 e il 1986, cioè Grecia, Spagna e Portogallo) che, insieme alla Gran Bretagna, erano contrari a maggiori vincoli e impegni. Un ostacolo notevole alla concreta attuazione di norme comunitarie era dovuta al principio dell’unanimità richiesto per le votazioni del Consiglio in tale materia (v. Voto all’unanimità), utilizzato dai paesi contrari a una tutela ambientale comunitaria più rigida. La CE favorì la cooperazione ambientale internazionale aderendo per conto degli Stati membri a diverse Convenzioni e trattati, primi tra i quali la Convenzione di Parigi sulla prevenzione dell’inquinamento marino (1974), la Convenzione di Barcellona sulla protezione del Mediterraneo dall’inquinamento (1975), la Convenzione di Ginevra sulla prevenzione dell’inquinamento atmosferico a lunga distanza in Europa (1979) e la Convenzione di Berna sulla conservazione delle specie di flora e di fauna selvatica e dei loro habitat in Europa (1979).

Con il terzo programma d’azione (1982-1986) venne avviata l’integrazione della tutela ambientale all’interno delle politiche comunitarie esistenti (in particolare la Politica agricola comune, la Politica industriale, la Politica dell’energia e la Politica comune dei trasporti) e furono introdotti strumenti importanti di controllo – come la prima delle direttive sui rischi di incidenti rilevanti connessi con determinate attività industriali (dir. CEE 501/82, conosciuta come “direttiva Seveso” dal nome della località italiana colpita dell’incidente a un’industria chimica nel 1976) e la direttiva sulla Valutazione di impatto ambientale (VIA) del 1985 (dir. CEE 337/85), la quale istituiva controlli e procedure rigorose per valutare la compatibilità ambientale di iniziative atte a trasformare il territorio (opere edilizie, infrastrutture, ecc.). L’art. 3 della direttiva sulla VIA forniva per la prima volta in ambito comunitario una definizione di ambiente comprensiva di determinati fattori (uomo, flora, fauna, suolo, acqua, aria, clima, paesaggio) e delle loro relazioni reciproche, dei beni materiali e del patrimonio culturale. Nel 1985, all’interno della Commissione europea presieduta da Jacques Delors venne designato un commissario per i trasporti e l’ambiente (l’inglese Stanley Clinton Davis, che mantenne questo incarico fino al 1989) e venne istituito il programma CORINE (Coordination information environment) per raccogliere e coordinare le informazioni sullo stato dell’ambiente in Europa.

Tra emergenze e sviluppo sostenibile: la nascita della politica ambientale europea e il quarto Programma d’azione per l’ambiente

Dopo il disastro nucleare di Chernobyl del 26 aprile 1986 e il grave inquinamento provocato nel novembre dello stesso anno alle acque del Reno con il rilascio da parte dell’industria Sandoz di Basilea di decine di tonnellate di sostanze chimiche che danneggiarono la fauna e la flora fluviale in Germania, Francia e Paesi Bassi creando forti problemi anche per l’approvvigionamento idrico umano, divenne ancor più chiara la comune percezione della dimensione internazionale dei problemi ambientali e la necessità di affrontarli mediante una stabile e costante cooperazione transnazionale, sovranazionale e internazionale.

Con l’Atto unico europeo, sottoscritto nel 1986 ed entrato in vigore il 1° luglio 1987, la politica ambientale veniva inserita tra gli obiettivi riconosciuti della CE, chiamata a intervenire per garantire la protezione e il miglioramento della qualità dell’ambiente e della salute umana e l’utilizzo razionale delle risorse. Nel titolo VII (artt. 130R, 130 S e 130T) la politica ambientale era infatti riconosciuta come scopo “legittimo”. L’assunzione delle decisioni doveva altresì avvenire da parte del Consiglio dei ministri secondo la Procedura di cooperazione, alla quale si affiancava il PE con un voto a Maggioranza qualificata quando queste fossero collegate al funzionamento del mercato unico (art. 100 A, ora artt. 114 e 115 TFUE), mentre permaneva la procedura di voto all’unanimità del Consiglio negli altri casi, salvo la possibilità di stabilire con decisione unanime il voto a maggioranza qualificata (art. 130 S). Era anche prevista la possibilità per gli Stati membri di introdurre nei propri ordinamenti standard più ecologici di quelli minimi e obbligatori adottati in sede comunitaria, nonché la valutazione della protezione ambientale come elemento fondamentale nelle altre politiche di settore (art. 130 T). I principi a cui doveva ispirarsi la politica ambientale europea nella sua azione erano i seguenti: la prevenzione, la correzione del danno alla fonte (cioè l’eliminazione del danno ambientale nello Stato dove esso era prodotto), il principio “chi inquina paga”, il principio di integrazione con altre politiche, il principio di elevato livello di tutela ambientale e il Principio di sussidiarietà (introdotto per la prima volta nell’ordinamento comunitario soltanto in riferimento alla politica ambientale nell’art. 130 R, par. 4 e poi divenuto principio generale con il Trattato di Maastricht e ivi spostato all’art. 3 B, poi all’art. 5 n. 2, nel Trattato di Nizza e infine ora all’art. 5 nel TUE). In base a quest’ultimo principio è importante rilevare che la CE concorre, insieme con gli Stati membri, alla tutela dell’ambiente, nei limiti atti a garantire un suo più agevole perseguimento e al fine di evitare il mantenimento o l’introduzione di norme e azioni nazionali incapaci di garantire standard minimi comuni.

Il quarto Programma d’azione (1987-1992) tentò di delineare un approccio globale per le politiche ambientali, allargando gli ambiti di intervento alla gestione delle aree naturali e inserendo tra i possibili nuovi strumenti utilizzabili quelli economici e fiscali disincentivanti l’inquinamento. Il periodo tra il marzo del 1987 e quello del 1988 venne proclamato “Anno europeo per l’ambiente” e negli anni successivi aumentò sensibilmente l’attività comunitaria in materia, parallelamente però a una crescente inadempienza (v. Infrazione al Diritto dell’Unione europea) nell’applicazione delle normative europee negli Stati membri e alla difficoltà di monitorare i risultati conseguiti. Il Consiglio europeo sull’ambiente di Dublino, tenutosi nel giugno 1990, sottolineò, in particolare, il ruolo che la CE doveva svolgere nei negoziati per la risoluzione dei problemi ambientali internazionali (effetto serra e assottigliamento dello strato di ozono, cambiamento climatico, salvaguardia della biodiversità), in considerazione della sua posizione di autorità morale, economica e politica. Nel giugno 1991, nel castello di Dobris, nei pressi di Praga, si svolse il primo incontro di tutti i ministri dell’Ambiente d’Europa, che decise la stesura di un inventario completo e paneuropeo dei problemi ambientali e l’avvio del processo di cooperazione “Ambiente per l’Europa” comprendente i paesi dell’Europa centrale e orientale (PECO) e gli Stati che avevano conseguito l’indipendenza con la disgregazione dell’Unione Sovietica. Tra le iniziative della Commissione europea va segnalata la pubblicazione del Libro verde (v. Libri verdi) sull’ambiente urbano (1990), che presentò le azioni necessarie al fine di migliorare la qualità della vita delle città ove risiedeva oltre il 75% della popolazione europea e di promuovere lo sviluppo della cooperazione tra le città per l’attuazione di politiche urbane ecologiche, cooperazione consolidatasi nel 1994 con l’adozione della Carta di Aalborg (Danimarca) per uno sviluppo durevole delle città, sottoscritta inizialmente da un’ottantina di enti locali europei.

Il Trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio 1992 ed entrato in vigore il 1° novembre 1993, all’articolo 2 incluse tra i fini dell’Unione europea (UE) «una crescita sostenibile, non inflazionistica e che rispetti l’ambiente». Veniva così recepito nell’ordinamento comunitario il principio dello Sviluppo sostenibile, definito ufficialmente per la prima volta a livello internazionale nel 1987 dal Rapporto della Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo intitolato Our common future (Rapporto Brundtland) come lo sviluppo economico e sociale capace di soddisfare i bisogni presenti senza privare le generazioni future della possibilità di soddisfare i propri. L’intero titolo XVI era riservato all’ambiente e stabiliva pienamente la politica ambientale come politica comunitaria, applicandovi quale regola decisionale generale la maggioranza qualificata, salvo limitate ma rilevanti eccezioni – misure fiscali, assetto territoriale ed energia – che prevedevano il ricorso al voto all’unanimità (v. anche Processo decisionale).

Nuovi sviluppi internazionali ed europei: dalla Conferenza mondiale di Rio de Janeiro al quinto Programma d’azione per l’ambiente

Una nuova strategia di intervento a livello internazionale venne impostata dalla Conferenza mondiale sull’ambiente e sullo sviluppo di Rio de Janeiro, convocata dalle Nazioni Unite e svoltasi dal 3 al 14 giugno 1992 (Earth summit). La Conferenza approvò il documento noto come Agenda 21, contenente le linee guida per l’adozione di decisioni specifiche a livello locale, la Dichiarazione su ambiente e sviluppo, la Dichiarazione sui principi per la tutela delle foreste, la Convenzione sulla biodiversità (in vigore dal 1993 e poi affiancata dal Protocollo sulla biosicurezza di Cartagena, in vigore dal 2003), la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici (in vigore nel 1994 e in applicazione della quale veniva firmato nel 1997 il Protocollo di Kyoto, entrato in vigore nel 2005), e decise la costituzione di una Commissione mondiale per lo sviluppo sostenibile. Sull’onda di questa tendenza verso un maggior impegno ecologico internazionale l’UE, dopo il fallimento di un ambizioso tentativo di introdurre a livello comunitario una tassa europea sul biossido di carbonio e sull’energia (carbon tax), proposta dal commissario all’ambiente Carlo Ripa di Meana (in carica dal 1989 al 1992 quando si dimise in polemica con le posizioni troppo vicine agli interessi economici assunte dalla Commissione europea al Vertice di Rio e venne sostituito dal greco Ioannis Paleokrassas, commissario fino al 1994), inaugurò il quinto Programma d’azione europeo per uno sviluppo durevole e sostenibile (1993-2000). Volto ad approfondire ed estendere un approccio globale alla prevenzione per garantire un elevato grado di tutela ambientale, il Programma era focalizzato su sei obiettivi fondamentali: l’integrazione della tutela ambientale nelle altre politiche; la condivisione e l’assunzione di responsabilità a diversi livelli (UE, Stati membri, imprese e popolazione); l’ampliamento del potenziale repertorio di strumenti d’azione da promuovere all’interno dei paesi membri (incentivando misure di tipo economico come tasse, imposte, sussidi, accordi volontari, a fianco delle già previste misure legislative e alle sanzioni amministrative); il cambiamento dei modelli di consumo e di produzione; l’applicazione e l’attuazione della già cospicua normativa ambientale dell’UE; infine, la cooperazione internazionale nel quadro delle indicazioni provenienti dall’Agenda 21. L’industria, il settore energetico, l’agricoltura, i trasporti e il turismo risultavano le cinque aree prioritarie nelle quali applicare una nuova strategia integrata d’intervento basata sull’adozione di misure trasversali.

Se quindi da un lato veniva abbandonato il precedente approccio di intervento per categorie di inquinamento, dall’altro erano per la prima volta prese in considerazione questioni ambientali complesse e in parte nuove, come il cambiamento climatico e la tutela della biodiversità, a fianco di azioni incisive per garantire la qualità dell’aria, una corretta gestione delle acque, la vivibilità degli ambienti urbani, la salvaguardia delle zone costiere e il recupero e lo smaltimento dei rifiuti. Era prevista anche la “gestione del rischio” ambientale relativamente ai rischi industriali, alla sicurezza nucleare e alla protezione dall’esposizione radioattiva, alla protezione civile e alla mobilitazione nei confronti delle calamità naturali e dei disastri ambientali. Il principio di precauzione (già enunciato dall’art. 15 della Dichiarazione di Rio de Janeiro), secondo il quale «dove ci sono minacce di serio ed irreversibile danno, la mancanza di una piena certezza scientifica non deve essere usata come ragione per rinviare l’adozione di misure, i cui risultati sono proporzionati ai costi, atte a prevenire il degrado ambientale», venne esplicitamente inserito all’art. 174, par. 2 del Trattato dell’UE (ora art. 191, par. 2, del TFUE). Tale principio implica che nei casi in cui non sia possibile prendere decisioni sicure sulla base di dati scientifici certi, occorre astenersi da esse. La Commissione individuava altresì cinque criteri generali per l’applicazione del principio di precauzione: la proporzionalità delle misure al livello di protezione richiesto; la non discriminazione per situazioni uguali o simili; la coerenza con altre misure prese in situazioni equivalenti; l’esame dei benefici e dei costi derivanti dall’azione o dall’inazione; l’esame dell’evoluzione scientifica (comunicazione 1/2000). Il principio di precauzione nel diritto comunitario si configura, secondo la pronuncia della Corte di giustizia delle Comunità europee del 10 dicembre 2002 (causa C-153 del 2001, The Queen c. Secretary of State for health, ex parte British American Tabacco – Investments) come un «principio generale del diritto comunitario che obbliga le autorità competenti ad adottare provvedimenti appropriati al fine di prevenire taluni rischi potenziali per la sanità pubblica, per la sicurezza e per l’ambiente, facendo prevalere le esigenze connesse alla protezione di tali interessi sugli interessi economici».

Diretto ispiratore del quinto Programma era stato il Libro bianco (v. Libri bianchi) della Commissione europea Crescita, competitività e occupazione (1993), nel quale era esposto un nuovo orientamento politico a sostegno dell’occupazione che introduceva le politiche ambientali come una delle nuove frontiere del lavoro e dell’innovazione, incentivando la diminuzione dei consumi energetici e la contemporanea allocazione delle risorse in base ai bisogni nonché, dove era previsto, a tassazione invariata, lo spostamento del prelievo fiscale dal lavoro al consumo delle risorse energetiche e ambientali, nell’intento di conseguire contemporaneamente il duplice obiettivo (“doppio dividendo”) di diminuire il costo del lavoro rilanciando l’occupazione e di limitare gli sprechi e l’uso di risorse naturali non rinnovabili nelle attività produttive. Al fine di coordinare l’attività della Commissione europea con quella degli Stati membri dell’UE in materia di politiche ambientali era stata istituita, nel 1992, una rete informale dei ministri dell’Ambiente dei paesi membri denominata Implementation and enforcement of EU environmental law (IMPEL).

Un’UE più “verde”: nuovi attori e strumenti per la politica ambientale e l’integrazione con le altre politiche comunitarie 

L’ingresso nell’UE di Austria, Finlandia e Svezia nel 1995 (anno in cui divenne commissario dell’ambiente la danese Ritt Bjerregaard, esponente di un paese particolarmente sensibile alle tematiche ecologiche) contribuiva al rafforzamento della politica ambientale comunitaria, favorendo l’adozione di misure più severe in linea con quelle già presenti in questi paesi. Diverse iniziative comunitarie erano peraltro già state avviate nella prima metà degli anni Novanta. Così nel marzo 1992 veniva inaugurato il marchio ecologico Ecolabel per alcune categorie di prodotti e servizi, da allora accessibile a industrie, imprese e società che si sottopongano volontariamente a una certificazione ambientale tesa a verificare il rispetto di parametri ecologici in tutto il ciclo di vita del prodotto o del servizio (bassi livelli di inquinamento idrico e di emissione di gas a effetto serra in atmosfera, consumo limitato di energia elettrica ecc.). Inoltre, nel maggio 1992, veniva creato il Programma comunitario L’Instrument Financier pour l’Environnement (LIFE), l’unico esclusivamente preposto al cofinanziamento di progetti ambientali presentati da enti pubblici e privati. Obiettivi del Programma erano la conservazione degli habitat naturali e della flora e della fauna selvatiche di particolare interesse per l’UE (LIFE Natura), la promozione di azioni innovative e dimostrative fondate sulla collaborazione fra industria e comunità locali, finalizzate alla riduzione dell’impatto ambientale dei processi produttivi e a stimolare un intervento ecologico e di pianificazione degli enti pubblici, anche mediante l’introduzione di una contabilità ambientale (LIFE Ambiente), il sostegno della cooperazione ambientale con i paesi confinanti e lo sviluppo di capacità amministrative, di strutture di gestione e di azioni dimostrative soprattutto nell’area mediterranea e baltica (LIFE Paesi terzi). Dopo tre fasi di implementazione – LIFE I (1992-1995), LIFE II (1996-1999), LIFE III (2000-2004 ed esteso fino al 2006) – il Programma veniva sostituito, per il periodo 2007-2013, da LIFE Plus, strumento finanziario per l’ambiente (introdotto dal regolamento 614/2007 che accorpa i precedenti programma LIFE, Forest Focus, sviluppo urbano sostenibile e sostegno alle ONG ambientali), diviso in tre settori (Natura e biodiversità, destinatario di almeno la metà delle risorse per progetti europei, Politica ambientale e governance, Informazione e comunicazione), dotato di un fondo di circa un miliardo e novecento milioni di euro e ripartito annualmente tra gli Stati membri (in misura del 78% agli Stati membri) e la Commissione europea (il restante 22%) per finanziare organizzazioni non governative dedite ad attività nel settore ambientale (almeno il 15% rivolto a progetti transnazionali).

Nel 1994 diventava operativa l’Agenzia europea dell’ambiente (European environment agency, EEA), con sede a Copenaghen dal 1993 e già prevista da un regolamento del 1990. Si tratta di un’agenzia di informazione priva di poteri decisionali e di controllo sulla politica ambientale comunitaria, alla quale aderiscono oltre ai paesi dell’UE anche Islanda, Liechtenstein, Norvegia, Svizzera e Turchia, incaricata di raccogliere, analizzare ed elaborare dati ambientali, fornire informazioni, studi, misurazioni e controlli agli Stati e a paesi terzi e responsabile della Rete europea d’informazione e di osservazione in materia ambientale European environment information and observation network (EIONET). Nell’aprile 1995 è entrato in vigore il regolamento istitutivo del sistema comunitario di ecogestione e audit Environmental management and audit system regulation (EMAS) che prevede, su base volontaria e previa sottoposizione a controllo da parte di un soggetto indipendente, la certificazione ambientale delle procedure di gestione per le imprese, estesa nel 2001 dal nuovo regolamento EMAS 2 anche a piccole e medie aziende, aziende di distribuzione di energia elettrica, gas, acqua, trasporti, consorzi per la raccolta e smaltimento dei rifiuti, supermercati, banche, assicurazioni.

Con lo sviluppo delle relazioni esterne dell’UE sono stati varati programmi e interventi in campo ambientale. Tra questi, in particolare, il Programma di azioni prioritarie a breve e a medio termine per l’ambiente del Mediterraneo (Short and medium-term priority environmental action programme, SMAP), approvato nel 1997 nell’ambito del Partenariato euromediterraneo inaugurato dal Processo di Barcellona che prevede dal 2005 il Programma orizzonte 2020 contro l’inquinamento marino e costiero e per la cooperazione e la ricerca interistituzionale, nonché il coinvolgimento di soggetti privati e della società civile; il Centro regionale per l’ambiente dell’Europa centrale ed orientale, costituito nel 1990 come organizzazione non governativa su iniziativa di Stati Uniti, UE e Ungheria per affrontare i problemi ecologici degli ex Stati comunisti; lo strumento di preadesione Instrument for structural policies for pre-accesion (ISPA), volto a finanziare progetti riguardanti la protezione dell’ambiente e i trasporti, aggiuntosi alle misure già previste nel programma Poland and Hungary aid for the reconstruction of the economy (PHARE) (v. Programma di aiuto comunitario ai paesi dell’Europa centrale e orientale) per assistere i dieci paesi candidati nel processo di Allargamento dell’UE a venticinque membri attuatosi nel 2004.

Nel Trattato di Amsterdam del 2 ottobre 1997, in vigore dal 1° maggio 1999, il principio dell’integrazione della politica ambientale in tutti i settori, prima previsto all’art. 130 R nella parte dedicata all’ambiente, veniva inserito tra le disposizioni generali (art. 6), mentre l’art. 95 (ora art. 114, par. 4 TFUE) era garante della salvaguardia di leggi e disposizioni nazionali più rispettose dell’ambiente, precedenti o successive a misure di armonizzazione comunitaria, purché non lesive nei confronti degli altri Stati e sottoposte al vaglio della Commissione. Gli artt. 174-176 del Titolo XIX dedicato all’ambiente definivano i principi comunitari già enunciati, gli elementi di valutazione (dati scientifici e tecnici disponibili, condizioni ambientali regionali, vantaggi e oneri derivanti da azione o inazione, sviluppo socioeconomico complessivo comunitario, sviluppo equilibrato delle regioni europee), le modalità di attuazione e le procedure (semplificate a due, con l’estensione della Codecisione a tutte le materie, salvo il mantenimento dell’unanimità per l’approvazione di disposizioni in tema di tributi, di assetto territoriale e di approvvigionamento energetico e con l’inclusione nel processo decisionale, nella fase consultiva, del Comitato delle regioni, insieme al già previsto Comitato economico e sociale). Il Trattato individuava i seguenti obiettivi della politica dell’UE in campo ambientale per ottenere «un elevato livello di tutela»: salvaguardia, difesa e miglioramento dell’ambiente; protezione della salute umana; utilizzo moderato e razionale delle risorse naturali (analisi del rapporto costi-benefici e valutazioni di ecoefficienza nelle attività produttive); promozione sul piano internazionale di misure destinate a risolvere i problemi ambientali regionali e mondiali.

Il Consiglio dei ministri sull’ambiente di Cardiff, riunitosi nel giugno 1998 su invito del Consiglio europeo di Lussemburgo del dicembre 1997, valutò le proposte della Commissione per procedere all’attuazione di una strategia d’integrazione delle politiche ambientali nelle politiche comunitarie in applicazione dell’art. 6 del Trattato dell’UE, individuando un programma di scadenze e azioni che portò all’adozione di strategie in diversi settori (trasporti, agricoltura, energia, mercato interno, sviluppo, pesca, affari generali e questioni economiche e finanziarie).

L’ultimo decennio: il sesto Programma d’azione per l’ambiente e le sfide globali

La prospettiva della tutela ambientale assumeva carattere costituzionale nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ufficialmente recepita al Consiglio europeo di Nizza (dicembre 2000) dai paesi membri. Nel Preambolo della Carta, infatti, tra gli obiettivi comunitari veniva ribadito quello di «promuovere uno sviluppo equilibrato e sostenibile» e, all’art. 37, si affermava che «un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile».

Il Trattato di Nizza del dicembre 2000, entrato in vigore dal 1° febbraio 2003, apportava soltanto piccole modifiche nella parte dedicata alla politica dell’ambiente (Titolo XIX), tra le quali va segnalata la previsione del voto all’unanimità per quelle misure in grado di incidere in modo rilevante sulla gestione delle risorse idriche e di interferire sulla loro disponibilità (art. 175), voluta dal Portogallo, paese dipendente per l’approvvigionamento idrico da corsi d’acqua provenienti dal territorio spagnolo.

Il sesto Programma d’azione comunitario per l’ambiente “Ambiente 2010: il nostro futuro, la nostra scelta” (2001-2010), approvato nel 2002, individuava quali questioni prioritarie il cambiamento climatico, la protezione della natura e della biodiversità, la salute e la qualità della vita, la gestione delle risorse naturali e dei rifiuti, introducendo nuove modalità di intervento (partnership con enti locali, realtà economiche e sociali, incentivazione economica dei comportamenti ecologicamente sostenibili, diffusione di informazioni sui buoni risultati raggiunti e delle migliori pratiche ambientali).

Nel giugno 2001 il Consiglio europeo di Göteborg approvava una Strategia europea per lo sviluppo sostenibile (aggiornata annualmente ad opera del Consiglio primaverile dei ministri sull’ambiente), la quale inseriva la dimensione ambientale, accanto a quelle economica e sociale nella Strategia di Lisbona, allo scopo di perseguire «una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale» e di affrontare in maniera coordinata le politiche economiche mediante la coerenza tra le politiche comunitarie, l’individuazione di prezzi congrui per segnalare l’impatto ambientale ai cittadini e alle imprese, l’investimento nella ricerca scientifica e tecnologica, il miglioramento della comunicazione ambientale e la mobilitazione di cittadini e imprenditori, il partenariato globale tra istituzioni e diversi attori sociali.

L’UE ha anche sottoscritto la Convenzione di Aarhus (Danimarca) sull’accesso all’informazione, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale, adottata nel 1998 e in vigore dal 2001. Un controllo sistematico sulla pianificazione e programmazione ambientale comunitaria è l’obiettivo della Valutazione ambientale strategica (VAS), introdotta con la dir. CE 42/2001, inserita soprattutto nella gestione dei fondi strutturali dell’UE e nella verifica dell’ecocompatibilità delle grandi opere.

In occasione del Vertice mondiale sull’ambiente delle Nazioni Unite di Johannesburg (26 agosto-4 settembre 2002) che ha prodotto scarsi risultati a livello internazionale, l’UE ha dimostrato la statura di leader tra le organizzazioni internazionali regionali più attive in campo ambientale. Molto tuttavia deve ancora essere fatto per riuscire a prevenire disastri e situazioni di degrado e per applicare complessivamente alle politiche comunitarie il principio di precauzione, poiché persistono ancora ampi settori privi di adeguati controlli e valutazioni ambientali. Il bilancio complessivo di un trentennio di politiche ambientali comunitarie porta a riscontrare alcuni miglioramenti e numerosi punti critici. Tra i successi conseguiti, in base ai dati ufficiali forniti dall’Agenzia europea dell’ambiente, è possibile costatare miglioramenti per quanto concerne la diminuzione delle piogge acide, grazie alla riduzione delle emissioni di anidride solforosa, dell’inquinamento atmosferico dovuto al mercurio e al piombo e del trattamento delle acque reflue. Anche l’uso di vari pesticidi e prodotti chimici pericolosi è diminuito notevolmente, ma è aumentata la produzione complessiva dei rifiuti industriali e domestici e degli imballaggi e si sono aggravate le minacce e le perdite di patrimonio naturale e della biodiversità, nonostante la Direttiva habitat e l’avvio della costituzione di una rete europea di siti ecologici soggetti a una protezione speciale e rigorosa denominata Natura 2000 (riguardante circa il 18% del territorio dell’UE) e il piano d’azione stabilito nel 2006 dalla Commissione europea con la comunicazione “Arrestare la perdita di biodiversità entro il 2010. Sostenere i servizi ecosistemici per il benessere umano”. Con la revisione della Politica agricola comune (PAC) sono stati parzialmente modificati i meccanismi di finanziamento: il sostegno al reddito non è più legato al volume della produzione, ma è soggetto alla “condizionalità”, cioè al rispetto di requisiti minimi di protezione ambientale e di buone pratiche, premiando chi migliora ulteriormente prodotti e attività rispetto agli standard ecologici richiesti, e di direttive comunitarie quale quella sul benessere animale negli allevamenti (dir. CE 58/1998). Inoltre, l’UE ha predisposto un piano d’azione europeo per lo sviluppo dell’agricoltura e per gli alimenti biologici. Per evidenziare l’accentuato impegno ambientale in questo ambito va rilevato che il bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) del 2009 prevede che il 43% del finanziamento complessivo del Fondo per lo sviluppo rurale (v. Politica di sviluppo rurale) sia destinato alla gestione sostenibile del territorio e delle foreste (per le quali è la Commissione ha definito un piano d’azione di tutela per il periodo 2007-2011 riguardante il 38% della loro estensione).

Un altro problema aggravatosi fortemente, segnalato dallo studio annuale “Segnali ambientali in Europa” dell’Agenzia europea per l’ambiente è quello della crescita dei trasporti, con gravi ripercussioni ambientali ed energetiche. Nuovi rischi ambientali possono essere costituiti dall’introduzione di potenziali elementi di perturbazione nell’ambiente quali gli organismi geneticamente modificati (OGM), oggetto di una direttiva comunitaria (dir. CE 18/2001 che stabilisce i requisiti per l’autorizzazione all’emissione deliberata di OGM nell’ambiente), sottoposti a moratoria nell’UE. Nel marzo 2006, peraltro, la Commissione europea ha autorizzato per la prima volta la commercializzazione di un OGM (il granturco geneticamente modificato tipo 1507), basandosi sul parere favorevole espresso dall’Autorità europea di sicurezza degli alimenti (EFSA) e ai sensi del regolamento riguardante i generi alimentari e gli alimenti geneticamente modificati per animali (reg. CE 1829/2003) che impone per tutti questi prodotti l’etichettatura e la rintracciabilità delle fasi di formazione. Infine, il numero di sostanze chimiche immesse negli ecosistemi continua ad aumentare, senza che si conoscano con precisione i loro effetti sulla flora, sulla fauna e sull’uomo. Nel dicembre 2006, dopo nove anni di dibattito, il PE e il Consiglio dei ministri hanno varato una nuova direttiva sulle sostanze chimiche che prevede la nascita di un sistema di registrazione, valutazione e autorizzazione di queste sostanze, denominato Registration, evaluation and authorisation of chemicals (REACH), entrato in vigore dal giugno 2007 e a pieno regime dal 2018. Basato su una banca dati gestita da un’Agenzia europea delle sostanze chimiche, con sede a Helsinki e costituita nel 2008, il REACH è frutto di un compromesso (contestato dalle dieci principali organizzazioni e reti ecologiste e ambientaliste, riunite nel coordinamento Green 10, dopo una dura battaglia ingaggiata contro le lobby dell’industria chimica) il quale, se da un lato rende obbligatoria la sostituzione delle sostanze chimiche persistenti nell’ambiente e garantisce una maggiore trasparenza nelle informazioni su quelle contenute nei prodotti destinati ai consumatori, dall’altro non stabilisce controlli adeguati sulla sicurezza di sostanze importate in quantitativi ridotti o cancerogene o potenzialmente responsabili di malformazioni nell’uomo.

Tra le più recenti iniziative si segnala la direttiva 35/2004 del PE e del Consiglio sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale, la cui adozione è avvenuta nell’aprile 2007 (con modifiche sopraggiunte con l’approvazione della direttiva 21/2006 riguardante la gestione dei rifiuti delle industrie estrattive) che qualifica il danno ambientale sia il «danno alle specie e agli habitat naturali protetti», che quello provocato alle acque e al terreno e stabilisce che l’operatore deve sostenere i costi di prevenzione e riparazione del danno ambientale, indipendentemente da quali persone fisiche o giuridiche siano legittimate ad agire in presenza del danno o di una minaccia imminente di danno. Tale direttiva applica anche il principio generale secondo il quale la mancata attuazione di una direttiva fa sorgere per lo Stato membro reo di omissione l’obbligo del risarcimento dei danni che ne siano derivati ai singoli individui (sentenza Francovich C6/90 del 1991). Con il Piano d’azione “Ambiente e salute 2004-2010” l’UE ha intenzione di favorire un maggior collegamento tra le politiche in materia di salute e quelle ambientali e della ricerca. Inoltre, la Commissione europea ha deciso di sviluppare, con un approccio globale, sette strategie tematiche riguardanti l’inquinamento atmosferico, l’ambiente marino (con l’obiettivo di garantire una buona condizione biologica delle acque europee entro il 2021), l’uso sostenibile delle risorse, la prevenzione e il riciclaggio dei rifiuti, l’ambiente urbano, il suolo e i pesticidi.

Nel Trattato che adotta una Costituzione europea, firmato a Roma il 29 ottobre 2004, lo sviluppo sostenibile dell’Europa «basato su una crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva, che mira alla piena occupazione e al progresso sociale e su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente» (art. I-3, par. 3), formulazione ripresa integralmente anche nel Trattato di Lisbona elaborato dopo la mancata ratifica di quest’ultimo (art. art 2, par. 3) ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009. L’ambiente viene confermato come uno dei settori di competenza concorrente, risultando invece di competenza esclusiva la «conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca» sia nel Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa (art. I-13, par. 1, lett. d), che nel Trattato di Lisbona (Titolo I, art. 2 B, lett. d). Diversi altre indicazioni sulla tutela ambientale sono comuni ai due Trattati, sia riguardo alla sua integrazione nelle altre politiche (art. 11 del TFUE), sia per quanto concerne la scelta di tenere conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti, rispettando nel contempo le disposizioni legislative o amministrative e le consuetudini degli Stati membri per quanto riguarda, in particolare, i riti religiosi, le tradizioni culturali e i patrimoni regionali, in diverse politiche comunitaria. Nel Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa alla politica dell’ambiente erano riservati esplicitamente gli artt. III-233 (obiettivi coincidenti con quelli già indicati nel Trattato di Amsterdam, Clausola di salvaguardia che autorizza gli Stati membri «a prevedere, per motivi ambientali di natura non economica, disposizioni provvisorie soggette ad una procedura di controllo dell’Unione», cooperazione internazionale ambientale dell’UE e degli Stati membri con paesi terzi e organizzazioni internazionali competenti senza pregiudicare «la competenza degli Stati membri a negoziare nelle sedi internazionali e a concludere accordi internazionali») e III-234 (nuovi strumenti giuridici per definire le azioni volte a realizzare gli obiettivi della politica ambientale – la legge europea, corrispondente al regolamento comunitario, e la legge quadro europea, equivalente alla precedente direttiva comunitaria, adottati previa consultazione del Comitato delle regioni e del Comitato economico e sociale, finanziamento ed esecuzione della politica ambientale da parte degli Stati membri salvo misure prese dall’UE, possibilità di deroghe temporanee o sostegno del Fondo di coesione per misure implicanti costi sproporzionati per uno Stato membro, possibilità per i singoli Stati membri di «prendere misure per una protezione ambientale ancora maggiore»). Alcune di queste previsioni legate alla previsione alla semplificazione delle norme giuridiche (legge europea, ecc.) non sono stati recepiti nel Trattato di Lisbona, dopo la mancata ratifica del Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa. Tuttavia la sostanza delle indicazioni ivi contenute si ritrovano nel Trattato di Lisbona, il quale, complessivamente, tiene conto degli sviluppi della politica ambientale già avvenuti nella prassi e al Titolo XX “Ambiente” del TFUE (artt. 191, 192, 193) e ribadisce l’obiettivo di contribuire alla lotta ai cambiamenti climatici a livello internazionale. Inoltre, il Titolo XXI è dedicato alla nuova politica energetica dell’UE, prevista sia al fine di fronteggiare la necessità di garantire gli approvvigionamenti, il funzionamento del mercato interno e l’interconnessione delle reti, che allo scopo di preservare e migliorare l’ambiente e di perseguire il risparmio energetico, l’efficienza energetica e lo sviluppo di energie nuove e rinnovabili (art. 194 TFUE).

L’UE, ratificando il Protocollo di Kyoto nel 2002, entrato in vigore il 16 febbraio 2005, ha assunto un impegno rilevante e ambizioso in merito alla riduzione delle emissioni di gas serra: diminuzione dell’8% delle emissioni entro il 2008-2012 nell’UE rispetto alle emissioni del 1990, a fronte di un impegno medio complessivo del 5,2%, con l’esenzione di alcuni paesi dalla riduzione e con l’introduzione di meccanismi flessibili per favorire l’abbattimento delle emissioni, come ad esempio la joint implementation (finanziamenti rivolti da Stati verso altri paesi per consentire il raggiungimento degli obiettivi), il clean development mechanism (finanziamento di progetti di riduzione in paesi in via di sviluppo), l’emission trading (trasferimento di unità di emissione da un paese all’altro). Tuttavia, mentre alcuni Stati avanzano verso quest’obiettivo, altri hanno visto aggravarsi l’inquinamento prodotto da questi fattori. Al fine di affrontare questa problematica, ma anche per ridurre la dipendenza energetica dai combustibili fossili importati, l’UE ha varato un Programma europeo sul cambiamento climatico, e a partire dal 1° gennaio 2005 tutti i governi dell’UE hanno stabilito un limite massimo per le emissioni di biossido di carbonio delle loro industrie. Le imprese che producono emissioni superiori alla soglia autorizzata dovranno, per compensare la situazione, acquistarne quote da imprese che sono riuscite a ridurne i propri livelli, nell’ambito del nuovo sistema europeo di scambio delle quote di emissione di biossido di carbonio (dir. CE 87/2003 del PE e del Consiglio dei ministri, mentre la dir. CE 101/2004 ha consentito il riconoscimento di crediti a vantaggio di imprese impegnate in progetti di riduzioni di emissioni in altri paesi convertendoli in quote da utilizzare nel sistema di scambio comunitario). In attesa di un nuovo accordo globale sul clima per il periodo posteriore al 2012, che preveda la partecipazione al Protocollo di Kyoto di ulteriori paesi industrializzati e in via di sviluppo l’UE, dichiaratasi favorevole ad una diminuzione planetaria delle emissioni del 30% entro il 2020, è attiva nello sviluppo e nella diffusione di tecnologie a basse emissioni inquinanti (con il ricorso a fonti energetiche rinnovabili e all’efficienza energetica, temi già considerati in alcuni precedenti programmi comunitari come ALTENER e SAVE), di tecnologie ambientali (per le quali è stato varato dalla Commissione europea nel 2004 uno specifico piano d’azione, ETAP, volto all’incremento della ricerca, all’introduzione delle ecotecnologie nel mercato e alla loro diffusione nei paesi in via di sviluppo) e di strumenti di mercato flessibili. Al vertice di primavera dell’8-9 marzo 2007 il Consiglio europeo ha altresì deciso di perseguire una politica integrata riguardante l’energia e il cambiamento climatico assumendo l’impegno unilaterale di ridurre entro il 2020 le emissioni di gas a effetto serra di almeno il 20% rispetto ai livelli del 1990, con la volontà di estendere il sistema comunitario di riduzione dei gas serra ai settori del trasporto aereo, del trasporto marittimo e della silvicoltura e ad altre tipologie di gas (in particolare gli ossidi d’azoto). Per raggiungere questo traguardo l’UE ha stabilito un insieme di obiettivi da raggiungere entro il 2020 (denominato “pacchetto energia”): migliorare l’efficienza energetica con una riduzione del 20% rispetto alle previsioni stabilite; aumentare la quota di energie rinnovabili rispetto al consumo energetico complessivo del 20%, quasi triplicando in questo modo il ricorso a queste fonti; raggiungere la quota di almeno il 10% di carburanti rinnovabili (inclusi i biocarburanti purché prodotti in maniera ecosostenibile e con incentivi per quelli ricavati da rifiuti, residui e fonti non alimentari) sul consumo totale di benzina e gasolio (circa dieci volte la situazione attuale); sviluppare e diffondere tecnologie a bassa emissione o a emissione zero tra le quali la cattura e lo stoccaggio del carbonio nel sottosuolo; integrare i mercati energetici dell’UE (in particolare nei settori del gas e dell’elettricità) garantendo la concorrenza; integrare la nascente politica energetica con altre azioni presenti nella politica ambientale e in le altre politiche (Politica della ricerca scientifica e tecnologica, agricoltura, Politica commerciale comune, trasporti ecc.); rafforzare la cooperazione internazionale.

Nonostante il suo ruolo di attore globale nella politica ambientale, l’UE fatica a impostare quel “cambiamento di rotta” urgente per alleviare i problemi ambientali che dovrebbe prevedere una ridefinizione dei processi economici e finanziari internazionali e istituzioni e politiche globali per affrontare le principali emergenze ecologiche. Dopo la prima metà degli anni Novanta, la Commissione europea ha fatto ricorso alla concertazione e alla mediazione con altri soggetti istituzionali e con le lobby economiche per sviluppare la propria politica ambientale, dovendo rinunciare a innovazioni radicali. La Direzione generale (DG) dell’Ambiente, con sede a Bruxelles (a esclusione dell’unità competente della radioprotezione che è ubicata a Lussemburgo) svolge un ruolo centrale nell’articolazione e nella gestione della politica ambientale comunitaria, occupandosi di numerose aree tematiche (aria, biotecnologie, sostanze chimiche, protezione civile e incidenti ambientali, cambiamento climatico, economia ambientale, allargamento europeo e ambiente, salute, industria, questioni internazionali, uso del territorio, natura e biodiversità, rumore, suolo, sviluppo sostenibile, rifiuti, acqua) mentre altre DG (DG Energia e trasporti, DG Agricoltura, DG Ricerca, ecc.) svolgono un ruolo significativo in specifici ambiti, entrando talvolta in competizione o in contrasto con essa. A fronte quindi degli sforzi e dei risultati ottenuti nell’integrazione ecologica orizzontale delle diverse politiche comunitarie, nello sviluppo di programmi e azioni e nell’impulso dato all’informazione ai cittadini proseguiti e intensificatisi con la commissaria all’ambiente svedese Margot Wallström (1999-2004) e i commissari che le sono succeduti – il greco Stavros Dimas (2004-2010) e lo sloveno Janez Potočnik (2010) –, permangono alcune evidenti debolezze strutturali. L’esclusione dal metodo comunitario e dal voto a maggioranza di alcuni settori di importanza fondamentale per incidere sulle scelte economiche e politiche degli Stati impedisce la realizzazione di una vera politica ambientale comune coordinata e flessibile, necessaria affinché l’UE adotti un approccio olistico e coerente per favorire un nuovo sistema di relazioni economiche e sociali compatibili con la protezione dell’ambiente e la redistribuzione delle risorse. Anche in considerazione di questi limiti della politica ambientale comunitaria, si ripropone come ineludibile e di fondamentale importanza l’attuazione di riforme istituzionali capaci di conferire all’UE una più definita, netta e univoca identità a livello internazionale per contribuire a un governo globale ambientale. La profonda diversità di vedute tra l’UE, promotrice del multilateralismo per lo sviluppo di una politica ambientale globale nelle sedi internazionali, e gli Stati Uniti, che si sono rifiutati di aderire agli impegni internazionali per la riduzione dell’inquinamento responsabile dell’effetto serra non ratificando il Protocollo di Kyoto e impedendone l’attuazione, ha reso difficile il progresso verso un’azione internazionale condivisa e costruttiva, soprattutto durante la presidenza di George Bush jr. Con l’arrivo alla Casa Bianca del democratico Barack Obama la situazione è soltanto parzialmente mutata mentre l’UE, in assenza ancora di un accordo globale per ridurre le emissioni di gas serra, ha confermato l’intenzione di ottenere traguardi ambiziosi e la volontà di agire concretamente in questa direzione. A tale scopo la nuova Commissione europea (Barroso II), in carica dal 2010, ha incluso per la prima volta anche una commissaria con delega all’azione per il clima, la danese Connie Hedegaard.

Giorgio Grimaldi (2010)




Politica commerciale comune

Principi generali

La politica commerciale comune costituisce uno degli strumenti di azione della Comunità (ex art. 3, lett. b) ed è disciplinata dagli articoli 131-134 (ex artt. 110, 112, 113 e 115) del Trattato costitutivo della Comunità europea (TCE) (v. Trattati di Roma). La sua istituzione è dovuta all’esigenza di gestire in maniera unitaria gli scambi commerciali con paesi terzi al di là degli aspetti meramente tariffari. In tal senso, la politica commerciale comune costituisce un complemento della Tariffa doganale comune (v. Daniele, 2000, p. 179 e ss.). Le misure adottate dalla Comunità economica europea in materia di politica commerciale possono essere contenute sia in provvedimenti interni che in accordi internazionali con Stati terzi (Corte di giustizia, parere 1/75, 11 novembre 1975).

Il contenuto della politica commerciale

Secondo l’art. 133, norma di riferimento principale in materia, la politica commerciale, oltre alle misure tariffarie e la conclusione di accordi tariffari e commerciali, comprende anche l’uniformazione delle misure di liberalizzazione, la politica di esportazione, nonché le misure di difesa commerciale tra cui quelle da adottarsi in caso di dumping e sovvenzioni.

La sfera di applicazione della politica commerciale, che la Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) definisce a carattere “generale” (Corte di giustizia, parere 41/76, 15 dicembre 1976), ha subito un progressivo ampliamento nel corso del tempo. La Corte ha, infatti, inizialmente esteso la competenza comunitaria a profili funzionalmente e strettamente connessi al settore commerciale come il credito all’esportazione in riferimento ad un accordo sulle spese locali nell’ambito dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE; parere 1/75, cit.) (v. Organizzazione europea per la cooperazione economica), o a misure sulla stabilizzazione dei prezzi sul mercato mondiale in riferimento ad un accordo sulla commercializzazione della gomma naturale (Corte di giustizia, parere 1/784, ottobre 1979). La questione, tuttavia, ha assunto un interesse cruciale in virtù della crescente importanza acquisita dagli scambi di merci e di servizi a livello internazionale, come evidenziata in occasione del noto parere 1/94 (Corte di giustizia, 15 novembre 1994), e che ha indotto gli Stati membri a opporsi fermamente a un’interpretazione estensiva della nozione di politica commerciale. La posizione della Corte è stata quello di attrarre funzionalmente nel campo della politica commerciale le disposizioni riguardanti la fornitura di servizi non implicante trasferimento di persone, nonché le misure commerciali connesse alla proprietà intellettuale, e cioè quelle dirette a contrastare l’immissione in libera pratica di merci contraffatte. Tale principio è stato poi ripreso dal Trattato di Amsterdam mediante l’inserimento di un nuovo paragrafo all’interno dell’art. 133 in base al quale il Consiglio dei ministri avrebbe avuto la facoltà di estendere, con deliberazione all’unanimità (v. Voto all’unanimità), la disciplina dell’art. 133 (paragrafi da 1 a 4) agli accordi sui servizi e sulla proprietà intellettuale nella misura in cui non fossero già rientranti in tale disciplina (sul fatto che il nuovo testo avrebbe apportato modifiche del tutto marginali ispirandosi ad una logica di più “basso profilo”; v. Nizzo, 1998, p. 290 e ss.). Tale norma non è mai stata utilizzata ed è ora superata dalle nuove disposizioni inserite con il Trattato di Nizza a opera delle quali, la disciplina dell’art. 133, paragrafi 1-4, si estende in ogni caso agli accordi nei settori degli scambi di servizi e degli aspetti commerciali della proprietà intellettuale, se non già rientranti nei menzionati paragrafi, mentre il Consiglio (par. 7) ha la facoltà, deliberando all’unanimità, di estendere ulteriormente l’applicazione di medesimi paragrafi a negoziati e accordi internazionali in materia di proprietà intellettuale nella misura in cui non rientrino già nel nuovo par. 5. L’intervento del Consiglio rimane dunque necessario per quegli aspetti della proprietà intellettuale che non presentano un carattere commerciale. Come può agevolmente evincersi, la competenza riguardo ai nuovi settori è limitata alle relazioni esterne della Comunità, mentre nessun ampliamento è stato previsto per quanto riguarda le competenze interne. Da notare, in ogni caso, che l’art. III-315 del progetto di Costituzione europea, semplificando l’attuale disciplina contenuta nell’art. 133, inserisce direttamente nell’elenco dei settori rientranti nella politica commerciale, gli accordi commerciali e tariffari in materia di servizi, gli aspetti commerciali della proprietà intellettuale e gli investimenti esteri diretti.

Misure a carattere commerciale possono essere inoltre adottate sulla base di altre norme del Trattato, quali l’art. 310, relativo agli accordi di Associazione con paesi terzi, l’art. 177, sulla Politica europea di cooperazione allo sviluppo e, infine, l’art. 301 riguardante le misure commerciali in materia di politica estera.

La qualificazione di una misura come rientrante nella politica commerciale (e dunque principalmente nel campo di applicazione dell’art. 133) non è stata (e non è tuttora) sempre agevole. La questione riveste un certo rilievo sotto il profilo della delimitazione delle competenza della Comunità in materia commerciale sia rispetto alle competenze degli Stati membri, sia riguardo ad altre politiche comunitarie. Due diverse concezioni si sono contrapposte: quella del Consiglio, secondo cui deve essere dato rilievo allo scopo principale perseguito dall’atto; e quella della Commissione europea, la quale sostiene, viceversa, che la finalità sottesa all’adozione dell’atto, di natura commerciale o politica, è irrilevante, mentre a qualificare uno strumento come rientrante nell’ambito della politica commerciale è invece la sua natura obiettivamente intesa. Quanto alla particolare questione che si è posta in relazione alla competenza sulle misure commerciali per finalità di politica estera (in particolare sanzioni economiche nei confronti di Stati terzi), il problema sembra essere stato in parte superato a seguito dell’introduzione, con il Trattato di Maastricht, della nuova base giuridica dell’art. 301. Riguardo a tale ultima disposizione potrebbe tuttavia anche sostenersi che, poiché per l’esercizio di tale competenza è necessaria una previa deliberazione ad hoc da parte degli Stati membri in ambito di Politica estera di sicurezza comune (PESC), la norma dell’art. 301, anziché estendere la competenza comunitaria, l’abbia invece limitata a favore di quella degli Stati membri (v. Cannizzaro, 2004, p. 759).

La Corte, pur avendo sempre affermato che gli elementi oggettivi da tenere in considerazione per la scelta del fondamento normativo di un atto sono sia lo scopo che il contenuto dell’atto, sembra ultimamente dare maggiore rilievo alla sua finalità (Corte di giustizia, causa 347/0312, maggio 2005), sostenendo che una misura rientra nella politica commerciale «solo se verte specificamente sugli scambi internazionali in quanto sostanzialmente destinato a promuovere, facilitare, disciplinare gli scambi commerciali ed abbia effetti diretti ed immediati sul commercio o gli scambi dei prodotti interessati» (Corte di giustizia, 12 maggio 2005, C-347/03; 12 dicembre 2002, C-281/01).

Qualora un provvedimento persegua contemporaneamente più obiettivi (ad esempio sia commerciale che ambientale), occorre determinare quale dei due prevalga; nel qual caso il detto atto dovrebbe avere un unico fondamento normativo, oppure se gli scopi perseguiti siano tra loro inseparabili, l’atto dovrebbe basarsi su una duplice base giuridica. Provvedimenti erroneamente adottati sulla (o sulla sola) base giuridica dell’art. 133 possono essere suscettibili di annullamento da parte del giudice comunitario (Corte di giustizia, 12 dicembre 2002, C-281/01; 7 marzo 1996, C-360/93; 26 marzo 1987, 45/86).

La natura della competenza della Comunità in materia di politica commerciale

A partire dal parere 1/75, la Corte ha ripetutamente affermato che la competenza comunitaria in materia di politica commerciale è di natura esclusiva. Comportamenti unilaterali degli Stati membri potrebbero, infatti, compromettere il raggiungimento di obiettivi comuni. Circostanze gravi ed eccezionali possono giustificare l’adozione di provvedimenti nazionali, i quali devono tuttavia essere espressamente autorizzati dalle Istituzioni comunitarie (Corte di giustizia, 15 dicembre 1976, parere 41/76; 18 febbraio 1986, parere 174/84). Tale deroga troverebbe fondamento giuridico nell’art. 134. La titolarità della competenza esclusiva ha consentito alla Comunità di sostituirsi in via di fatto, agli Stati membri, nella gestione dell’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT, 1947) nei rapporti con Stati terzi (Corte di giustizia, 12 dicembre 1972, parere 21-24/72; 14 luglio 1994, C-379/92).

La delimitazione della competenza esclusiva della Comunità in materia di politica commerciale e la individuazione di eventuali competenze residuali degli Stati membri è stata oggetto di numerosi interventi giurisprudenziali, specie nel campo delle relazioni esterne dove la prassi ha visto crescere la conclusione di accordi in maniera congiunta da parte della Comunità e degli Stati membri (cosiddetti accordi misti). Secondo i principi giurisprudenziali, la natura esclusiva della competenza comunitaria in materia non è condizionata dal previo esercizio della competenza sul piano interno, potendo le istituzioni direttamente adottare un atto interno anche in occasione della conclusione di accordi internazionali (sempre parere 1/75). In linea generale, non elide il carattere di esclusività neppure il porre a carico del bilancio degli Stati, e non della Comunità, un eventuale finanziamento dell’accordo (parere 1/75 e parere 1/94), anche se eccezionalmente, la necessità di una copertura finanziaria da parte degli Stati membri potrebbe giustificare una loro partecipazione all’accordo accanto alla Comunità (parere 1/78). La rivendicazione della competenza da parte degli Stati membri si è particolarmente sentita in occasione dei negoziati dell’Uruguay Round, sfociato con la conclusione degli accordi multilaterali General agreement on trade and service (GATS) e Trade-related aspects of intellectual property rights (TRIPS), allegati all’Accordo dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), il contenuto dei quali, come si è già detto, non era limitato allo scambio di merci ma investiva altri settori quali i servizi e la proprietà intellettuale. La questione è stata risolta nel noto parere 1/94 (v. anche Corte di giustizia, 7 marzo 1996, C-360-93; 24 marzo 1995, parere 2/92), il quale ha definito la competenza a concludere tali accordi come “congiunta” o “ripartita” tra la Comunità e gli Stati membri (sulle problematiche derivanti dall’affermazione di una competenza “ripartita”, v. Nizzo, 1998, p. 288 e ss.) e da esercitarsi previo coordinamento delle rispettive posizioni in sede OMC.

Di natura sicuramente concorrente è la competenza prevista dall’art. 133, paragrafo 5, riguardante gli accordi sugli scambi di servizi e sugli aspetti commerciali della proprietà intellettuale se non già ricompresi nei paragrafi precedenti. Nella nuova formulazione del Trattato di Nizza, la norma non attrae automaticamente i due settori nella sfera della politica commerciale – se così fosse stato la competenza comunitaria sarebbe stata certamente esclusiva – bensì si limita a rendere applicabili anche a questi due settori le disposizioni dell’art. 133, paragrafi 1-4. Occorrerà dunque dimostrare, volta per volta, se eventuali misure contenute in accordi internazionali rientrino per attrazione nella nozione di politica commerciale, così come definita anche nel parere 1/94, o se invece appartengono ai settori nuovi introdotti dal Trattato di Nizza. L’operazione non è di poco conto, dato che riguardo ai settori rientranti nel paragrafo 5 la competenza è, come già detto, di natura concorrente (tale conclusione, che si trae agevolmente dal quarto comma potrebbe implicitamente trarsi anche dai commi secondo e terzo). In tali settori gli Stati membri possono, infatti, mantenere o concludere accordi internazionali con Stati terzi e organizzazioni internazionali, e l’unico limite alla loro azione sarebbe quello di assicurare la conformità con il Diritto comunitario e con altri accordi internazionali pertinenti. Tale precisazione, per certi versi superflua, potrebbe invece assumere il significato di estendere le competenze degli Stati membri al di là di quanto consentito dalla sentenza Aets (Corte di giustizia 31 marzo 1971, parere 22/70). Infatti, secondo i principi affermati in tale sentenza, il previo esercizio della competenza interna da parte della Comunità comporterebbe la preclusione totale per gli Stati membri di concludere unilateralmente accordi internazionali con Stati terzi pur nel caso essi siano compatibili con il diritto comunitario.

Il paragrafo 6 dell’art. 133 definisce infine come “ripartita” la competenza in materia di accordi nei settori dei servizi culturali e audiovisivi, di servizi didattici nonché di servizi sociali e relativi alla salute umana. Tuttavia, poiché per la conclusione di tali accordi è sempre indispensabile la partecipazione sia della Comunità che degli Stati membri, si dovrebbe parlare più precisamente di una competenza “congiunta” (v. Cannizzaro, 2004, p. 762). E d’altra parte è la norma stessa a precisare che gli accordi debbano essere conclusi «congiuntamente dalla Comunità e dagli Stati membri».

La Comunità non è invece competente a concludere accordi contenenti disposizioni che esulino dalla sua competenza interna, e che in particolare comportino un’Armonizzazione in settori in cui il Trattato espressamente la escluda.

Le procedure per l’adozione delle misure rientranti nella politica commerciale

I provvedimenti interni per l’attuazione della politica commerciale, di norma regolamenti, sono adottati secondo uno schema procedurale molto semplice che vede la Commissione formulare una proposta e il Consiglio deliberare a Maggioranza qualificata. La disposizione è rimasta invariata anche con il Trattato di Nizza ed è dunque ancora esclusa la partecipazione del Parlamento europeo (su tale problematica v. Krajewski, 2005, p. 91 e ss.).

Per la stipulazione degli accordi internazionali rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 133 sono previste procedure speciali, in deroga alla norma generale dell’art. 300, e distinte a seconda della tipologia dei settori interessati. Per tutto quanto non espressamente disciplinato, continuano ad applicarsi le disposizioni contenute nell’art. 300.

Riguardo alle misure rientranti nella competenza esclusiva della Comunità, è stabilito che il Consiglio, dopo aver ricevuto raccomandazioni (v. Raccomandazione) dalla Commissione, autorizzi quest’ultima ad aprire i negoziati. È la Commissione a condurre i negoziati in consultazione con un comitato speciale, designato dal Consiglio e composto dai rappresentanti degli Stati membri. La decisione di conclusione dell’accordo è affidata al Consiglio che delibera a maggioranza qualificata. La norma, nella sua nuova formulazione introdotta dal Trattato di Nizza, richiede inoltre, sia al Consiglio che alla Commissione, di «adoperarsi affinché gli accordi negoziati siano compatibili con le politiche e norme interne della Comunità». Tale inciso, che potrebbe costituire solo un’indicazione programmatica per l’attività delle istituzioni (v. Biagioni, 2006, p. 4307) potrebbe anche avere l’effetto di subordinare le azioni esterne in materia di politica commerciale alle altre politiche inserendo così nel Trattato un criterio gerarchico tra le varie politiche.

Analogamente a quanto accade per l’adozione di atti interni, il Parlamento non viene coinvolto nella procedura (v. anche Processo decisionale). L’assenza di una funzione consultiva di tale organo è d’altra parte espressamente confermata nell’art. 300, par. 3 in virtù del richiamo operato all’art. 133, par. 3. (v. anche Procedura di consultazione)

Come già riferito in precedenza, la procedura descritta si estende anche agli accordi nei settori degli scambi di servizi e degli aspetti commerciali della proprietà intellettuale, nella misura in cui i paragrafi 1-4 non si applichino già autonomamente. Tuttavia, in deroga a quanto disposto in via generale, la Decisione del Consiglio non sempre viene deliberata a maggioranza qualificata. L’unanimità è infatti prevista in tre casi: l’accordo contenga disposizioni per le quali sul piano interno è richiesta l’unanimità; la Comunità non abbia ancora esercitato la sua competenza sul piano interno; l’accordo sia di natura orizzontale, e cioè interessi più materie.

Più complessa è la procedura prevista nei settori appartenenti alla competenza ripartita. In questi casi, infatti, oltre a dover sussistere un comune accordo degli Stati membri, si applica la procedura dell’art. 300. In virtù del richiamo operato dal paragrafo 5, terzo comma, la decisione del Consiglio è sicuramente assunta all’unanimità nel caso in cui l’accordo sia di natura orizzontale.

Cristina Schepisi (2007)




Politica comune dei trasporti

La politica comune dei trasporti è strettamente collegata con altre politiche comunitarie, rendendo necessaria la determinazione dei rapporti tra le diverse discipline. Sono direttamente applicabili nel settore in esame le norme comunitarie in materia di concorrenza e di Libertà di stabilimento. Viceversa, l’art. 51 esclude la diretta applicabilità delle disposizioni sulla Libera circolazione dei servizi in questo ambito, rendendo, dunque, necessaria l’adozione di atti di diritto derivato per la liberalizzazione dei servizi di trasporto (v. anche Diritto comunitario).

Per quanto riguarda la disciplina degli aiuti di Stato, nel settore dei trasporti trovano applicazione gli artt. 87-89, così come integrati dagli artt. 73 e 76. In particolare, l’art. 73 prevede due eccezioni speciali, nel caso in cui gli aiuti siano necessari per il coordinamento dei trasporti o per il rimborso del costo degli obblighi di servizio pubblico, fermo restando, il rispetto delle condizioni di compatibilità derivanti dalla disciplina generale (CGCE 24/0 7/2003, C-280/00, Altmark, ivi, p. I-7747). L’art. 76 consente, invece, di derogare al divieto di prezzi o condizioni che comportino un elemento di sostegno per le imprese, qualora la Commissione europea ritenga tale deroga necessaria per lo sviluppo di alcune regioni. Sempre più rilevanti sono, inoltre, i rapporti tra il settore in esame e quello della Politica ambientale, essendo ormai numerose le misure comunitarie adottate per ridurre l’impatto sull’ambiente delle diverse modalità di trasporto.

Gli atti di diritto derivato adottati dalla CE in materia di trasporti su strada, ferrovia o vie navigabili o di trasporti combinati trovano la propria base giuridica nell’art. 71. Ai sensi del paragrafo 1, la procedura standard è quella di codecisione (v. Procedura di codecisione) (art. 251), la quale prevede l’adozione congiunta dell’atto da parte di Parlamento europeo e Consiglio, previa consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni. Il paragrafo successivo stabilisce che il Consiglio possa adottare l’atto con Voto all’unanimità, su proposta della Commissione e previa consultazione del Comitato economico e sociale, qualora le disposizioni riguardanti i principi del regime dei trasporti possano «gravemente pregiudicare il tenore di vita e l’occupazione in talune Regioni, come pure l’uso di talune attrezzature relative ai trasporti».

La norma in esame lascia alle istituzioni comunitarie ampia facoltà nella scelta della tipologia di atti da utilizzare. Le uniche indicazioni in questo senso riguardano il rapporto tra l’intensità dell’intervento comunitario e l’ambito sostanziale oggetto di regolazione. La lettera a) dell’art. 71.1 prevede che, per quanto riguarda i trasporti aventi carattere internazionale, vale a dire i movimenti di cose o persone che implicano l’attraversamento di una frontiera e che riguardano almeno uno Stato membro, la CE possa stabilire “norme comuni”. Nel caso dei traffici di cabotaggio, quelli, cioè, che si svolgono all’interno di un unico Stato, la lettera b) riconosce in capo alla CE solo la possibilità di stabilire le “condizioni” per l’ammissione di vettori stranieri non residenti in quello Stato. La lettera c), infine, prevede che la CE possa adottare “misure” per il miglioramento della sicurezza dei trasporti.

L’evoluzione della politica dei trasporti ha comportato l’ampliamento dell’obiettivo originario dell’integrazione dei mercati nazionali, coinvolgendo aspetti ulteriori, quali la sicurezza e la tutela ambientale. Tale sviluppo ha segnato il superamento di un approccio fondato esclusivamente sugli strumenti di liberalizzazione e Armonizzazione, imponendo l’adozione di azioni positive nei diversi settori che compongono l’ambito in esame.

Il settore ferroviario si è tradizionalmente distinto per la coincidenza tra proprietario delle infrastrutture e fornitore del servizio, entrambi generalmente aventi natura pubblica. Al fine di creare uno spazio ferroviario europeo integrato, la CE ha adottato una serie di provvedimenti in riferimento al trasporto di merci. Una spinta decisiva in questo senso si è avuta nel 2001 con l’adozione del “primo pacchetto ferroviario”. Le tre direttive che lo compongono mirano a consolidare la separazione tra gestore dell’infrastruttura e prestatore del servizio di trasporto (dir. 2001/12/CE del Parlamento e del Consiglio del 26/02/2001, “Gazzetta ufficiale” L 75, 1), con la fissazione dei principi per la disciplina dei rapporti tra i due soggetti (dir. 2001/14/CE del Parlamento e del Consiglio del 2602/2001, GU L 75, p. 29), e a disciplinare l’accesso all’infrastruttura, specificando i requisiti necessari per richiedere una licenza in un paese membro (dir. 2001/13/CE del Parlamento e del Consiglio del 26/02/2001, GU L 75, p. 26) e prevedendo condizioni di favore per le associazioni internazionali di imprese ferroviarie (dir. 2001/14/CE, cit.). Il “secondo pacchetto” di direttive tenta di elaborare un approccio comune in materia di sicurezza (dir. 2004/49/CE del Parlamento e del Consiglio del 30/04/2004, GU L 220, p. 16) e di migliorare l’interoperabilità del sistema ferroviario transeuropeo ad alta velocità e di quello convenzionale (dir. 2004/50/CE del Parlamento e del Consiglio del 29/04/2004, GU L 220, p. 40). Nel 2004, inoltre, è stata istituita l’Agenzia ferroviaria europea, un organismo dotato di poteri consultivi (reg. CE n. 881/2004 del Parlamento e del Consiglio del 29/04/2004, GU L 220, p. 4). È attualmente in fase di adozione il “terzo pacchetto ferroviario”, il quale riguarda la certificazione dei macchinisti, l’ulteriore apertura del mercato per il trasporto di passeggeri e la tutela dei diritti di questi ultimi nel trasporto ferroviario internazionale – COM(2004) 140 def.

Un’evoluzione simile è ravvisabile anche per quanto riguarda la disciplina del trasporto su strada di merci e passeggeri. L’azione comunitaria ha inteso, prima di tutto, disciplinare la questione dell’accesso al mercato, per quanto riguarda sia i traffici internazionali sia quelli di cabotaggio. Parallelamente, sono state intraprese azioni per il miglioramento della sicurezza stradale, attraverso misure che riguardano questioni relative ai veicoli (dir. 203/20/CE del Parlamento e del Consiglio dell’8/04/2003, per il Ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri delle disposizioni relative all’uso obbligatorio delle cinture di sicurezza, GU L 115, p. 63), ai conducenti (dir. 91/439/CEE del Consiglio del 29/07/1991, concernente la patente di guida, GU L 237, p. 1) e alle infrastrutture (dir. 2004/54/CE del Parlamento e del Consiglio del 29/04/2004, relativa ai requisiti minimi di sicurezza per le gallerie della Rete stradale transeuropea, GU L 167, p. 39) e della protezione ambientale.

Sebbene i trasporti marittimi e aerei risultino esclusi dall’ambito applicativo del titolo V, l’intervento normativo in tali ambiti è caratterizzato da dinamiche analoghe a quelle degli altri settori.

La politica comune in materia di trasporto marittimo a carattere internazionale si sviluppa a partire dalla metà degli anni Ottanta, attraverso l’adozione di quattro regolamenti che riguardano l’applicazione del principio della libera prestazione dei servizi e delle regole di concorrenza in tale ambito (reg. CEE n. 4055/86 del Consiglio del 22/12/1986, GU L 378, p. 1, modificato dal reg. CEE n. 3573/90 del Consiglio del 4/12/1990, GU L 353, p. 16; reg. CEE 2056/86 del Consiglio del 22/12/1986, GU L 378, p. 4; reg. CEE 2057/86 del Consiglio del 22/12/1986, GU L 378, p. 14; reg. CEE 4058/86 del 22/12/1986, GU L 378, p. 21). Per quanto riguarda il cabotaggio, invece, il processo di liberalizzazione ha preso il via solo all’inizio degli anni Novanta (reg. CEE n. 3577/92 del Consiglio del 7/12/1992, GU L 364, p. 7). L’azione normativa della CE ha riguardato, inoltre, la sicurezza della navigazione e la tutela dell’ambiente marino, ambito nel quale si è avuto lo sviluppo di un’ampia disciplina che non ha carattere meramente strumentale alla liberalizzazione del settore.

La liberalizzazione del trasporto aereo è stata per lungo tempo ostacolata dalla forte presenza statale in questo settore, prendendo il via solo nella seconda metà degli anni Ottanta e articolandosi in tre fasi successive. La prima ha riguardato la tariffazione aerea e l’accesso dei vettori alle rotte di linea (dir. n. 87/601 del Consiglio del 31/12/1987, GU L 374, p. 12; dec. 87/602/CEE del Consiglio del 14/12/1987, GU L 374, p. 19); la seconda alle rotte intracomunitarie e la ripartizione delle capacità passeggeri tra i vettori (reg. 2342/90 del Consiglio del 24/07/1990, GU L 217, p. 1; reg. CEE 2343/90 del Consiglio del 24/07/1990, GU L 217, p. 8); la terza la fissazione dei requisiti per le licenze d’esercizio da parte degli Stati, l’imposizione di oneri di servizio pubblico riguardo ai servizi di linea verso un aeroporto di una regione periferica o a una rotta a bassa intensità di traffico verso un aeroporto regionale e la liberalizzazione delle tariffe passeggeri e merci (reg. CEE n. 2407/92 del Consiglio del 23/07/1992, GU L 240, p. 1; reg. CEE n. 2408/92 del Consiglio del 23/07/1992, GU L 240, p. 8; reg. CEE n. 2409/92 del Consiglio del 23/07/1992, GU L 240, p. 15). La CE è intervenuta, inoltre, in materia di sicurezza dei traffici aerei, per quanto attiene sia la costruzione e l’equipaggiamento degli aeromobili (reg. CE n. 1899/2006 del Parlamento e del Consiglio del 12/12/2006, GU L 377, p. 1), sia la regolamentazione delle conseguenze degli incidenti (dir. 94/56/CE del Consiglio del 21/11/1994, GU L 319, p. 14). Nel 2002 è stata creata l’Agenzia europea per la sicurezza aerea (reg. CE n. 1592/2002 del Parlamento e del Consiglio del 15/07/2003, GU L 240, p. 1), la quale è incaricata di assistere la Commissione nello sviluppo e nell’applicazione di standard tecnici uniformi in materia. Un ambito sempre più rilevante della politica comunitaria dei trasporti aerei è quello della tutela ambientale, e, in particolare, dell’abbattimento dell’inquinamento acustico (dir. 2002/30/CE del Parlamento e del Consiglio del 26/03/2002, GU L 85, p. 40), della tutela della qualità dell’aria e della riduzione dell’impatto dei traffici aerei sul cambiamento climatico – COM (2005)459 def. Da ultimo, la CE è anche intervenuta in materia di tutela dei diritti dei passeggeri, fissando norme comuni in materia di compensazione ed assistenza dei passeggeri vittime del c.d. overbooking (reg. CE n. 261/2004 del Parlamento e del Consiglio dell’11/02/2004, GU L 46, p. 1).

L’azione comunitaria in materia di trasporti si caratterizza per la sua tendenza espansiva, sia nella realizzazione dei principi del Trattato sia nella regolazione di aspetti a essi collegati. Questo tipo di evoluzione costituisce la necessaria risposta alle esigenze di un settore che, oltre a essere fondamentale per il rafforzamento del mercato interno, ha importanti ricadute sul processo di integrazione anche in termini sociali ed ambientali.

Francesco Costamagna (2009)




Politica comune della pesca

La pesca, insieme all’agricoltura, è uno dei settori più tradizionali di attività dell’uomo e per la sua importanza sin dagli inizi oggetto di regolamentazione da parte della Comunità economica europea. Del resto, ciò non sorprende se si considera che la Comunità europea è il più grande mercato internazionale dei prodotti ittici e la terza potenza mondiale nel settore della pesca marittima, dopo il Giappone e la Cina.

Peraltro, in ambito comunitario la necessità di adottare una Politica comune della pesca (PCP) non è stata avvertita immediatamente per motivi diversi, non ultimo dei quali il forte spirito di indipendenza che caratterizza i pescatori, abituati da tempi remoti a pescare dovunque fosse maggiore la concentrazione di pesci e a inseguire i banchi di pesci senza tener conto di confini, di aree di competenza o altro. A questa difficoltà se ne sono aggiunte altre dovute alla diversità delle zone marine sottoposte alla competenza comunitaria. Infatti, le acque marine europee si dividono oggi in tre macroregioni: l’Atlantico nordoccidentale e il Mediterraneo, cui più di recente si è aggiunto il Mar Baltico.

Per una molteplicità di motivi la Politica comune della pesca si è andata sviluppando lentamente sulla base dell’art. 32 del Trattato istitutivo della Comunità europea (CE) (v. Trattati di Roma) e dei primi regolamenti emanati in materia. Un’accelerazione si è avuta solo dopo gli anni Settanta, in conseguenza dell’estensione della competenza esclusiva degli Stati costieri in spazi di mare sempre più ampi (Zone economiche esclusive) e della connessa riduzione delle possibilità di pesca in alto mare per la flotta comunitaria.

In effetti, la PCP prende concretamente l’avvio nel 1983, allorché per la prima volta venne introdotto un sistema comunitario di conservazione e gestione delle risorse alieutiche presenti nelle acque degli Stati membri. Vennero altresì previste misure volte a proteggere le specie ittiche da uno sfruttamento eccessivo dovuto all’applicazione delle moderne tecnologie all’attività della pesca, furono garantiti strumenti di sostentamento ai pescatori e fu assicurato all’industria della trasformazione e ai consumatori un approvvigionamento di prodotti a prezzi ragionevoli.

Il sistema messo in atto nel 1983 venne modificato nel 1992, poiché nel corso degli anni era emersa una situazione di sovraccapacità della flotta comunitaria, che aveva prodotto un eccessivo sfruttamento degli stock di pesce e un accaparramento talvolta indiscriminato delle risorse disponibili da parte dei pescatori dei diversi Stati membri. Con la riforma del 1992 si tentò di porre i principi da seguire nel decennio successivo per l’attuazione di una PCP volta ad uno sfruttamento razionale e sostenibile dei vari stock, un equilibrio tra lo sforzo di pesca e le risorse disponibili, l’introduzione di controlli più rigorosi e una ripartizione delle responsabilità nella gestione della PCP tra tutte le parti interessate.

La disciplina comunitaria della pesca è stata poi oggetto di riforma il 20 dicembre 2002 con il regolamento CE n. 2371/2002 del Consiglio (in “Gazzetta ufficiale delle Comunità europee” L 358 del 31/12/2002, pp. 59-80), con il quale si è inteso garantire la sostenibilità a lungo termine del settore della pesca attraverso un articolato sistema di cooperazione. Si è pertanto organizzata una attenta pianificazione pluriennale attraverso piani di ricostituzione degli stock di pesce più minacciati (art. 5) o piani di gestione per gli stock che siano entro i limiti biologici di sicurezza (art. 6). In entrambi i casi per il raggiungimento degli obiettivi prefissati sono state introdotte misure volte a garantire l’esercizio sostenibile delle attività di pesca, quali i limiti massimi dei quantitativi di pesce che possono essere catturati ogni anno, la fissazione del numero di pescherecci autorizzati alla pesca, la definizione di zone e periodi temporali di attività, insieme ad altre misure che permettano di controllare lo sforzo di pesca, inteso come la capacità di un’imbarcazione calcolata per stazza e potenza motrice moltiplicata per l’attività espressa in tempo di permanenza in mare.

Sempre allo scopo di evitare nelle acque comunitarie il sovrasfruttamento delle risorse alieutiche si è tentato di adeguare la capacità di pesca, imponendo agli Stati membri di mantenere la propria flotta peschereccia entro livelli di riferimento di tonnellaggio e di potenza motrice fissati dalla Commissione europea, in modo da permettere un equilibrio stabile e duraturo fra capacità di pesca e risorse disponibili (art. 11). In considerazione della situazione di sovrasfruttamento constatato delle risorse ittiche europee, la capacità totale della flotta comunitaria è stata “bloccata” al 31 dicembre 2002 e l’iscrizione nei registri comunitari di un nuovo peschereccio può avvenire soltanto se un’altra nave della medesima stazza e potenza viene cancellata.

Inoltre, in caso di minaccia grave per l’ecosistema marino o per la conservazione delle risorse la Commissione europea e gli Stati membri possono adottare misure di emergenza, che per gli Stati riguarderanno unicamente le acque sulle quali essi esercitano la propria competenza. In proposito occorre mettere in luce una particolarità che contraddistingue la PCP da altre politiche comunitarie, ad esempio dalla Politica agricola comune (PAC). Infatti, gli Stati membri inizialmente hanno riconosciuto alla Comunità una competenza esclusiva in materia di pesca e, agli inizi, come era avvenuto in altri settori di attività originariamente appartenenti agli Stati membri, anche tale regime era stato impostato sul Principio di non discriminazione e quindi sull’uguaglianza delle condizioni di accesso e di sfruttamento delle acque sottoposte alla sovranità degli Stati membri per tutti le navi battenti bandiera di uno Stato comunitario, secondo quanto disposto in generale dall’art. 12 del Trattato CE.

Il regime comunitario avrebbe dunque dovuto pienamente sostituirsi a quello nazionale nelle acque sottoposte alla sovranità degli Stati. Tuttavia, a causa del rifiuto manifestato in modi più o meno netto dalle comunità locali a condividere gli spazi di mare territoriale con altri pescatori comunitari, l’applicazione del principio di non discriminazione divenne oggetto di numerose deroghe, tanto che si giunse da parte della Comunità con il regolamento 3760/92 del 20/12/1992 (GUCE L 389 del 31/12/1992) ad accettare la situazione di fatto. Si autorizzarono quindi gli Stati membri a mantenere la propria competenza nelle rispettive zone di mare territoriale, limitando in esse l’accesso alle navi da pesca degli altri Stati comunitari. Tale disciplina è stata ulteriormente riconfermata nel regolamento n. 2371/2002 del 20/12/2002, che, abrogando il precedente, mantiene fino al 31/12/2012 il limite all’accesso alle risorse biologiche esistenti nella zona di 12 miglia nautiche degli Stati membri, riservando il loro sfruttamento alle imbarcazioni che pescano tradizionalmente in tali acque e provengono da porti situati sulla costa adiacente.

L’intera PCP si regge altresì su un sistema di sorveglianza e di controllo, che rimane in linea di massima di competenza degli Stati membri. Essi infatti hanno la facoltà di controllare i propri pescherecci, oltre che nelle acque nazionali, anche in tutti gli spazi marini comunitari, salvo entro le dodici miglia di un altro Stato membro. Possono anche, a determinate condizioni, controllare i pescherecci di altri Stati comunitari presenti in acque comunitarie. Ciascuno Stato membro è inoltre autorizzato a ispezionare in alto mare navi da pesca appartenenti ad un altro Stato membro.

Allo scopo di coordinare le attività di controllo e di ispezione degli Stati membri, nonché di coordinare le operazioni di lotta contro la pesca illegale, il Consiglio dei ministri con il regolamento n. 768/2005 del 26/4/2005 (GUCE L 128 del 21/5/2005) ha di recente istituito l’Agenzia comunitaria di controllo della pesca, organo dotato di personalità giuridica, con sede a Vigo.

Angela Del Vecchio (2007)




Politica culturale europea

Dagli esordi al Trattato di Maastricht

È a partire dal dopoguerra che le politiche culturali – intese come intervento pubblico a sostegno del patrimonio artistico e storico, delle biblioteche e degli archivi, della creazione artistica, dello spettacolo dal vivo, del cinema e della radiotelevisione, dell’editoria – sono venute gradualmente costituendosi come una nuovo terreno di azione nell’ambito di un moderno “Stato sociale”. Risalgono infatti a quegli anni i primi apparati amministrativi di intervento nell’organizzazione della cultura costituiti da parte dello Stato, sotto forma sia di agenzie culturali pubbliche ma relativamente autonome (e in quest’ambito è stato l’Arts council of Great Britain di John Maynard Keynes, fin dal lontano 1946, a segnare la strada), sia di veri e propri ministeri ad hoc (come il ministero francese della Cultura, creato sotto la presidenza di Charles de Gaulle nel 1959, e affidato ad André Malraux).

Gradualmente – nel corso degli anni Sessanta e Settanta – quasi tutti i paesi europei si conformavano ora all’uno ora all’altro di quei modelli, anche grazie all’azione di impulso e di stimolo svolte dall’United Nations educational, scientific and cultural organization (UNESCO) e dal Consiglio d’Europa, che hanno contribuito a una sempre più estesa presa di coscienza del ruolo che uno Stato moderno è tenuto a svolgere per garantire ai suoi cittadini – fra i diritti fondamentali – anche il diritto alla cultura. Va anche detto che – pur nella varietà di accenti e nelle differenze tra i modelli istituzionali e organizzativi addottati dai vari paesi – tutte le politiche culturali poste in essere partivano da un nucleo di obbiettivi sostanzialmente comuni: la conservazione del patrimonio ereditato dal passato; il sostegno alla creazione e all’innovazione artistica; una migliore diffusione della cultura, tale da assicurare una più ampia partecipazione di tutti i cittadini.

In quegli anni, tuttavia, a brillare per la sua assenza dal palcoscenico della cultura, è stata, fra gli organismi supernazionali, proprio la Comunità economica europea: l’unica, pertanto, almeno potenzialmente in grado di dotarsi di strumenti di intervento per attuare delle politiche. Questa prudente cautela, questa riluttanza, sono tuttavia comprensibili, e vanno attribuiti principalmente a una mancata legittimazione, per la Comunità, a intervenire nel campo culturale: settore per il quale i Trattati di Roma non le attribuivano nessuna competenza. Ma a partire dagli anni Settanta, nonostante questo vuoto istituzionale, qualcosa si è messo lentamente in movimento anche in ambito comunitario.

Sul piano formale, i primi passi venivano compiuti dal Parlamento europeo, a cui va riconosciuto di aver svolto da sempre un ruolo precursore in materia di cultura, con l’approvazione, nel 1974 e nel 1976, di due Risoluzioni (v. Risoluzione) concernenti, rispettivamente, la salvaguardia del patrimonio artistico europeo e la creazione della Orchestra dei giovani della Comunità. Quanto alla Commissione europea, per progressi decisivi bisognerà attendere il 1985, con l’attribuzione a un Commissario per l’educazione e l’informazione – Carlo Ripa di Meana – di esplicite competenze anche in campo culturale, e con la successiva istituzionalizzazione dei Consigli dei ministri (v. Consiglio dei ministri) per la cultura degli stati membri, da tenersi a cadenza periodica.

Tra le comunicazioni approvate dal Consiglio dei ministri in quegli anni, va ricordata anzitutto quella sul Rilancio dell’azione culturale nella Comunità europea del 1987 (Commissione Europea, 1987): un tentativo ante litteram di organico Programma quadro per gli anni 1988-1992, che contava fra i suoi punti più qualificanti: la creazione di uno spazio culturale europeo, nel cui ambito assicurare, tra l’altro, la libera circolazione dei lavoratori culturali, maggiori opportunità di lavoro nel settore, il miglioramento della condizione degli artisti: spazio culturale da conoscere e analizzare anche tramite adeguate indagini e statistiche; la promozione dell’industria culturale europea, in vista della protezione del costituendo Mercato unico europeo dall’invasione delle industrie extraeuropee, anche mediante una nuova Direttiva concernente le attività radiotelevisive, e tramite un potenziamento del Programma media (vedi oltre); la formazione culturale, in particolare nei campi del management culturale, del restauro del patrimonio, dei giornalisti e delle attività audiovisive; l’accesso alle risorse culturali, incentivando anche finanziariamente la conservazione del patrimonio artistico e storico europeo, nonché una serie di manifestazioni culturali: a questo proposito veniva raccomandato in particolare, per il suo valore altamente emblematico, il rafforzamento del programma Capitali europee della cultura.

È un fatto, tuttavia, che a questo alquanto lungimirante sforzo propositivo della Commissione non hanno corrisposto, da parte di molti Stati membri, comportamenti adeguati, tanto che il programma ha potuto essere attuato solo in parte, anche per l’esiguità delle risorse finanziarie messe a disposizione. Inoltre gli interventi in campo culturale di maggiore impatto concreto hanno dovuto necessariamente puntare su alcune forzature economicistiche, dettate dalla allora ineludibile esigenza di passare per le strette maglie del Trattato (v. anche Trattati). Il che è avvenuto agganciandosi alle politiche comunitarie già avviate in campo sociale (mobilità dei lavoratori culturali, miglioramento delle loro condizioni di vita e di lavoro) (v. Politica sociale), o economico (misure di regolamentazione del diritto d’autore e diritti affini, ecc.).

Va poi messa in rilievo l’esistenza di un comparto della cultura in cui l’intervento della Commissione è risultato da sempre più agevole: il comparto dei mezzi di comunicazione di massa, considerati – proprio per la loro rilevanza industriale e per il loro notevole impatto economico e di mercato – allo stesso titolo degli altri beni e servizi economici. Nel loro ambito particolare attenzione è stata ovviamente riservata al mezzo economicamente più rilevante: la televisione, oggetto, fin dal 1987, di un esauriente Libro verde (v. Libri verdi). Su di esso si è successivamente basata, nel 1989, l’importante direttiva Televisioni senza frontiere, prevista dalla Comunicazione, che imponeva agli Stati membri di modificare parti delle loro legislazioni nazionali, onde consentire la libera circolazione dei programmi televisivi e dei connessi messaggi pubblicitari, nonché di attenersi a un nucleo minimo di regole condivise (come quelle attinenti alle cosiddette “quote” obbligatorie di prodotto televisivo europeo: quote peraltro, come è noto, ampiamente disattese) (v. anche Politica europea delle telecomunicazioni). L’azione comunitaria nel campo dei mezzi di comunicazione di massa trovava poi la sua espressione più matura nell’approvazione del Programma Media 1 riferito agli anni 1991-1995 (seguito poi da altri due programmi quinquennali) che è, per l’appunto, il primo e unico programma organico di sostegno approvato in materia culturale prima della formalizzazione istituzionale delle competenze. Esso prevede l’erogazione di contributi ad azioni tendenti sia a favorire la diffusione e la circolazione transnazionale di opere audiovisive europee all’interno e all’esterno dell’Unione europea, sia la produzione di opere indipendenti, e il sostegno all’innovazione tecnologica.

Tornando al piano formale, va infine messo in rilievo che alla vigilia dell’adozione del Trattato di Maastricht, nel 1992, la Commissione approvava una ulteriore, molto articolata Comunicazione: “Nuove prospettive per l’azione comunitaria in campo culturale” (Commissione europea, 1992). L’intento era quello di cogliere quell’importante opportunità istituzionale per porre le basi di un nuovo e più avanzato quadro di riferimento per le politiche culturali comunitarie. Non è infatti un caso se molte delle proposte contenute nella Comunicazione del 1992 – che costituivano a loro volta un affinamento e una ulteriore specificazione di quelle già avanzate nella Comunicazione del 1987 – verranno trasfuse nel nuovo Trattato. Da notare che, tra tali proposte, figura anche quella di «tener conto degli aspetti culturali sin dal momento della definizione delle nuove politiche comunitarie», poi tradotta nel famoso comma 4 dell’art. 128: un comma generalmente considerato fra le novità più rilevanti in materia di cultura introdotte dal Trattato (vedi oltre).

L’istituzionalizzazione dell’intervento comunitario in campo culturale

All’inizio degli anni Novanta i tempi erano ormai maturi per un salto di qualità che riconoscesse anche formalmente alle politiche culturali europee il ruolo che esse erano venute man mano assumendo. Alla luce della crescente consapevolezza, nei paesi europei, del nesso sempre più stretto che lega cultura e sviluppo socio-economico nelle società industriali avanzate, la mancata legittimazione della Comunità a intervenire organicamente in questo campo veniva configurandosi infatti come una vera e propria impasse di natura politica, un ostacolo, tra l’altro, nel cogliere le nuove opportunità della “società dell’informazione”. L’occasione veniva offerta, nel 1993, dalla revisione del Trattato (v. Revisione dei Trattati): con l’inserimento, nel Trattato di Maastricht, di uno specifico articolo ad hoc – l’art. 128 – l’intervento comunitario in campo culturale acquisiva pertanto, finalmente, una sua piena legittimità.

Alla base dell’art. 128 vi è l’idea di una cultura europea fondata sull’“unità nella diversità”, ossia sul riconoscimento, da un lato, che il pluralismo delle culture nazionali vada preservato, in quanto costituisce l’essenza stessa della civiltà europea e della sua ricca articolazione, dall’altro, che tutte queste culture convergono su valori comuni, in uno spazio comune. Il sostegno comunitario allo sviluppo di questo fertile pluralismo culturale, «evidenziandone il retaggio comune», può quindi esplicarsi principalmente incoraggiando la «cooperazione fra gli Stati membri», nonché ma solo in via sussidiaria (v. anche Principio di sussidiarietà), integrando l’azione di questi ultimi nei seguenti campi: conoscenza e diffusione della cultura; conservazione del patrimonio europeo; scambi culturali, purché non commerciali; creazione artistica.

Al di là di questa alquanto generica elencazione di possibili ambiti di intervento, seguita da un comma che auspica una maggiore estensione della cooperazione al livello internazionale, in particolare con il Consiglio d’Europa, numerosi sono gli osservatori che scorgono in realtà nel comma successivo – il già citato comma 4 dell’art. 128 – l’enunciazione, almeno virtualmente, di maggiore portata: in esso la Comunità viene sollecitata «a tener conto degli aspetti culturali nell’azione che svolge a norma delle altre disposizioni del Trattato». Questa sollecitazione – a cui peraltro la Commissione non ha certo dato finora molto seguito – potrebbe infatti prefigurare una sorta di vera e propria “valutazione di impatto culturale” (analoga alle valutazioni di impatto ambientale) per tutte le misure prese dalla Comunità, offrendo al Consiglio «la possibilità di intervenire ogniqualvolta determinate direttive o regolamenti presentino il rischio di minacciare gli interessi culturali» (v. Fisher, 1995).

Le forti resistenze opposte da alcuni paesi dell’Europa settentrionale a una formalizzazione dell’intervento comunitario in campo culturale si riflettono invece nella formulazione del comma 5, che prevede, per l’adozione di ogni decisione in materia di cultura, il Voto all’unanimità tra il Consiglio dei ministri e il Parlamento europeo, nonché il Parere del Comitato delle regioni. L’effetto dilatorio e paralizzante di una simile farraginosa procedura – che non è stata prevista, si badi bene, per nessun altro settore di intervento – è infatti di per sé evidente

Poiché, d’altra parte, nella stessa ottica riduttiva, il comma 5 preclude alla Comunità la possibilità di intervenire mediante «qualsiasi armonizzazione delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri», è evidente che gli strumenti di cui essa dispone per incoraggiare i paesi a collaborare più strettamente tra loro in campo culturale consistono principalmente, se non esclusivamente, nella messa in opera di programmi di sostegno finanziario (v. Varese, 2000).

Nel nuovo Trattato di Amsterdam, entrato in vigore nel 1999, l’art. 128 diventa art. 151, senza subire tuttavia sostanziali modifiche, salvo l’aggiunta, al comma 4, dell’inciso «al fine di rispettare e promuovere la diversità delle sue culture», che pone ulteriormente l’accento sulla diversità – piuttosto che sull’unità – delle culture europee. Infatti – come osserva Viviane Reding (v., 2000), e come puntualmente documentato nel Rapporto Ruffolo (2001) – i 15 Stati membri hanno politiche culturali amministrative molto diverse tra loro dal punto di vista sia amministrativo che dei contenuti, e ciò spiega in parte la loro perplessità e riluttanza nei confronti di eventuali possibili interferenze di carattere sopranazionale in un settore che attiene così strettamente alle loro peculiari identità.

Nei limiti del quadro giuridico sopra descritto, analizziamo qui di seguito più da vicino i programmi avviati dalla Comunità a seguito della formale legittimazione delle sue competenze in campo culturale, integrati da alcuni cenni concernenti altri programmi approvati «a norma di altre disposizioni del Trattato», in parte anch’essi attinenti alla cultura, sia pure indirettamente.

 I programmi comunitari di sostegno alla cultura

L’elaborazione e la messa in opera dei programmi comunitari direttamente concernenti la cultura (a prescindere dagli audiovisivi, che già in precedenza fruivano del Programma media, di cui si è detto), avviene sostanzialmente in due tappe.

La prima tappa – che copre gli anni 1996-1999 – presenta caratteristiche più sperimentali. Sulla base delle priorità indicate dal Consiglio, venivano addottati tre programmi: “Caleidoscopio” (sostegno a iniziative artistiche e culturali di dimensione europea); “Arianna” (sostegno al libro, alla lettura, alla traduzione letteraria); “Raffaello” (l’ultimo programma approvato, concernente il sostegno alla valorizzazione del patrimonio culturale europeo).

La seconda tappa – Cultura 2000, attinente al quinquennio 2000-2005 – si configura come l’ingresso in una fase più matura, anche perché si è potuta giovare di una valutazione dei risultati alterni conseguiti dalle svariate centinaia di programmi approvati nel quadriennio precedente. Anche tenendo conto di alcuni degli inconvenienti riscontrati, i programmi comunitari vengono pertanto riorganizzati in un unico quadro organico e unitario, con l’obbiettivo di rafforzare la cooperazione transnazionale tra gli operatori culturali in Europa. Proprio a tal fine le due tipologie di programmi previsti – di durata annuale o triennale a seconda delle loro caratteristiche e della loro a loro rilevanza – prevedono un coinvolgimento minimo di tre o cinque stati rispettivamente.

Il contributo dato dalle centinaia di programmi cofinanziati dalla Commissione a un fertile scambio di esperienze tra i paesi membri, e al rafforzamento dei loro rapporti culturali, è fuori discussione. Tuttavia, pur presentandosi come «il primo tentativo organico di sperimentare una politica europea di incentivazione alla cultura» (Rapporto Ruffolo, 2001), Cultura 2000 – così come i tre programmi che l’avevano preceduta – ha incontrato il suo limite invalicabile nella estrema esiguità delle risorse finanziarie a disposizione: 31,5 milioni di euro per il 2001, contro 70 milioni destinati nello stesso anno a Media 3. Complessivamente, i due programmi formalmente culturali, incidono solo per lo 0,1% sull’intero bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea).

A fronte di questo ammontare incredibilmente sottodimensionato dei finanziamenti espressamente destinati alla cultura, stanno invece i miliardi di euro che a essa affluiscono indirettamente, sulla base di programmi non specificamente culturali. Si tratta di un ammontare difficilmente valutabile, in mancanza di studi specifici: basti pensare tuttavia che in base all’ultima ricerca attendibile (v. Bates, Wacker), purtroppo assai datata, nel 1993 i fondi formalmente destinati alla cultura dalla Commissione ammontavano solo al 7,7% dei finanziamenti comunitari complessivi più o meno direttamente assegnati al settore culturale.

Come esaurientemente documentato dall’unico Rapporto elaborato dalla Commissione tendente a individuare le azioni in campo culturale svolte «a norma delle altre disposizioni del Trattato» (Commissione delle Comunità europee, 1996), altri sono infatti i programmi, da cui la maggior parte degli interventi culturali traggono alimento: si tratta anzitutto dei tre Fondi strutturali – ossia prevalentemente degli investimenti a salvaguardia e sostegno dei beni e delle attività culturali nelle aree meno sviluppate a carico del Fondo sociale europeo, del Fondo europeo di sviluppo regionale, del Fondo per le aree agricole in crisi (v. anche Fondo europeo agricolo di orientamento e garanzia) –, e in secondo luogo dei programmi avviati, con molto maggior dispendio di mezzi, a sostegno di altri settori comunitari di intervento quali la ricerca, l’educazione, l’innovazione tecnologica, il turismo, l’ambiente, ecc. Gli impatti sulla cultura delle azioni comunitarie che ad altro titolo la riguardano, così come le loro dimensioni finanziarie, non sono peraltro conosciuti. Questa grave lacuna conoscitiva rende quindi impossibile qualunque tipo di coordinamento fra queste azioni e le politiche direttamente e deliberatamente finalizzate alla promozione della cultura.

Il grande obbiettivo finora mancato al livello comunitario è stato dunque «l’avvio di una strategia di insieme dello sviluppo culturale» (v. Fisher, 2000).

Le prospettive.

A fronte della insoddisfazione generalizzata nei confronti di una interpretazione costantemente riduttiva e minimalista delle competenze comunitarie in campo culturale – e alla vigilia della scadenza della maggior parte dei programmi di sostegno e in presenza delle nuove sfide poste dall’Allargamento dell’Unione da 15 a 25 paesi – nel 2001 il Parlamento europeo interveniva ancora una volta nel campo della cultura con una Risoluzione sulla cooperazione culturale nell’Unione europea (PSE Parlamento europeo, 2001). La Risoluzione – conosciuta sotto il nome di “Rapporto Ruffolo” –, partendo da una analisi delle politiche culturali portate avanti sia dalla Comunità, sia da tutti i paesi membri, affrontava il tema del rapporti tra l’Unione e la cultura in modo molto organico e trasversale. Dopo aver sottolineato l’esiguità dell’impegno finanziario dell’Unione nel campo culturale in senso stretto «essendo la parte preponderante delle risorse erogata soprattutto attraverso i fondi strutturali», e l’assenza di sistematicità nella cooperazione culturale tra l’Unione e gli stati membri, auspicava «il rafforzamento della cooperazione culturale tanto a livello politico che a livello di bilancio» e chiedeva alla Commissione di elaborare, insieme agli stati membri, un Piano triennale di cooperazione culturale. Nell’ambito di quel piano, particolare enfasi veniva posta sull’esigenza di creare un Osservatorio sulla cooperazione culturale, onde rimediare alle perduranti gravi carenze informative in un settore potenzialmente tra i più trainanti in una economia sempre più basata sulla produzione di beni immateriali.

Alle speranze suscitate dalla Risoluzione negli ambienti degli operatori culturali si contrapponeva peraltro la resistenza passiva di una Commissione che appare tuttora riluttante a impegnarsi con determinazione nel porre su basi più razionali e sistematiche il suo intervento nel campo culturale. Non solo, infatti, la proposta dell’Osservatorio veniva ben presto accantonata: perfino il Gruppo di lavoro sulle statistiche culturali, creato nel 2000 in seno all’Ufficio statistico delle Comunità europee (EUROSTAT) dopo una fase sperimentale, a partire dal 2004 non veniva mai più convocato. Una sorta di gioco dell’oca comunitario nel settore della cultura sembra alternare, ad alcuni deboli passi avanti, altri, più consistenti passi indietro.

È molto difficile fare previsioni sulle prospettive future dell’azione comunitaria in campo culturale, e sulle ripercussioni sul settore della grave impasse determinata dalla bocciatura da parte della Francia e dei Paesi Bassi del progetto di Trattato costituzionale dell’Unione Europea (v. Costituzione europea). Va detto peraltro che in realtà la formulazione dell’articolo costituzionale relativo alla cultura era risultata alquanto deludente e di corto respiro, essendo i progressi limitati a pochi, sia pure opportuni, «passi avanti di natura procedurale» (v. Barzanti, 2005): nella fattispecie, l’eliminazione della remora dell’attuale Procedura di codecisione Consiglio-Parlamento, grazie al passaggio alla procedura decisionale ordinaria (v. anche Processo decisionale). Da questo punto di vista, per quanto riguarda in senso stretto la cultura, il danno determinato dall’accantonamento del progetto costituzionale potrebbe non esser poi così grave, ove la farraginosità delle decisioni potesse essere compensata da un eventuale soprassalto di volontà politica. Ma è proprio sull’esistenza di una simile volontà politica che, sulla base delle esperienze passate, sembra lecito invocare il beneficio del dubbio.

Carla Bodo  (2007)




Politica degli audiovisivi

Nonostante la crescente importanza rivestita dagli audiovisivi nella società contemporanea sotto il profilo economico, sociale e culturale la Comunità economica europea ha iniziato relativamente tardi a interessarsi di questo settore nel quale lavorano oltre un milione di persone. Risale infatti al 3 ottobre 1989 la direttiva del Consiglio europeo “Televisione senza frontiere” (89/552/CEE), che ha affrontato per la prima volta in maniera organica tale materia. Questa direttiva si prefiggeva in primo luogo il compito di garantire la libera circolazione dei servizi televisivi nell’ambito del mercato comune, quindi si riproponeva di promuovere la distribuzione e la produzione dei programmi televisivi europei riservando loro una quota maggioritaria nel quadro dei programmi delle reti televisive, e infine stabiliva alcuni obiettivi d’interesse pubblico, cercando di garantire nel contempo la diversità culturale, il diritto di rettifica, la tutela dei consumatori (v. Politica dei consumatori) e la protezione dei minori.

Entrando maggiormente nel dettaglio la direttiva stabiliva che gli Stati membri avrebbero dovuto assicurare la libertà di ricezione per i programmi televisivi provenienti da altri paesi della Comunità europea, e quindi non ostacolarne la trasmissione sul loro territorio. Inoltre, per incoraggiare la distribuzione e la produzione dei programmi televisivi europei, gli Stati membri avrebbero dovuto fare in modo che, ogniqualvolta fosse stato possibile, le emittenti televisive riservassero a opere europee una quota maggioritaria del loro tempo di trasmissione, escluso il tempo dedicato all’informazione, alle manifestazioni sportive, ai giochi, alla pubblicità o ai servizi di televideo e alle televendite. Il compito di vigilanza sulla corretta applicazione della direttiva “Televisione senza frontiere” spettava alla Commissione europea, che ogni due anni riceveva in proposito una relazione e una statistica da parte degli Stati membri.

Un’attenzione particolare era riservata alla pubblicità e alle sponsorizzazioni. Per quanto concerne la pubblicità la direttiva stabiliva le modalità di interruzione dei programmi, vietava gli spot relativi al tabacco e ai medicinali acquistabili dietro prescrizione medica, fissava un tetto quotidiano del 15% e orario del 20% per i cosiddetti “consigli per gli acquisti” e poneva ulteriori divieti sulla base di considerazione di carattere etico. In merito alle sponsorizzazioni, la direttiva si limitava invece ad affermare che esse non avrebbero dovuto compromettere l’indipendenza editoriale dell’emittente, e sottolineava, in particolare, che non potessero essere sponsorizzati i telegiornali e le trasmissioni di informazione politica. Le trasmissioni sponsorizzate, infine, non avrebbero dovuto sollecitare l’acquisto dei prodotti o dei servizi dello sponsor stesso.

L’obiettivo della protezione dei minori si estrinsecava principalmente attraverso il divieto di trasmettere programmi aventi carattere pornografico o di estrema violenza, tranne nel caso in cui la trasmissione fosse inserita in un’opportuna fascia oraria o fosse oggetto di misure tecniche di protezione. Il diritto di rettifica veniva invece concesso a tutte le persone i cui diritti legittimi erano stati lesi a seguito di un’affermazione non veritiera contenuta in un programma televisivo diffuso da qualsiasi emittente soggetta alla giurisdizione di uno Stato membro.

Tale direttiva è stata poi modificata nel 1997 dal Consiglio dei ministri e dal Parlamento europeo, che ne hanno approvato una nuova versione (97/36/CE) tesa a modernizzare le disposizioni iniziali senza tuttavia alterarne lo spirito. In particolare, l’opera di revisione ha rafforzato la tutela dei minori, imponendo agli Stati membri di controllare che tutti i programmi vietati loro, trasmessi in chiaro, fossero preceduti da un idoneo segnale acustico o identificati da un simbolo visibile.

La nuova Direttiva si soffermava inoltre sul principio di giurisdizione, definendo la competenza degli Stati per quanto concerne le reti televisive in funzione del luogo in cui si trova la sede sociale effettiva e del luogo in cui vengono prese le decisioni editoriali in merito al palinsesto. Una particolare attenzione era quindi riservata agli eventi giudicati di grande interesse per la società, in merito ai quali si stabilivano le condizioni per consentire al pubblico di accedere a esse liberamente, in chiaro, anche qualora le reti a pagamento ne avessero acquistato i diritti di esclusiva. Norme più restrittive regolamentavano infine le finestre di programmazione destinate alle televendite.

Nel 2001 iniziava un nuovo processo di revisione a partire dalla verifica dell’effettiva applicazione della direttiva da parte degli Stati membri. Nonostante i primi risultati emersi fossero positivi, nel 2003 è stata comunque avviata una consultazione pubblica, sia nell’ambito dei paesi appartenenti all’Unione europea sia tra quelli candidati, per raccogliere un’ampia gamma di opinioni su alcuni temi specifici, che spaziavano dalla promozione della diversità culturale alla competitività dell’industria europea audiovisiva, sino alle norme relative alla pubblicità e alla protezione dei minori. Anche in questo caso la Commissione ha raccolto pareri per lo più favorevoli, pur non mancando suggerimenti tesi a migliorarne le modalità d’intervento e a garantire maggiormente, all’interno dei singoli Stati, la tutela dei minori nell’ambito on line.

Le conclusioni dell’indagine sono state pubblicate nel dicembre 2003 in una comunicazione intitolata Il futuro della politica europea in materia di regolamentazione audiovisiva. Tale comunicazione conteneva da un lato un’interpretazione delle disposizioni della direttiva “Televisione senza frontiere” e dall’altro avviava un approfondimento da parte dei cosiddetti “Gruppi di riflessione”, formati da esperti del settore, su alcune delle questioni più controverse, concernenti principalmente il campo di applicazione della futura regolamentazione dei contenuti audiovisivi, la determinazione della competenza giuridica, la regolamentazione della pubblicità, il diritto all’informazione e la promozione dei contenuti europei. Parallelamente venivano condotti una serie di studi sull’impatto dello sviluppo delle nuove tecniche pubblicitarie e sulle misure concernenti la promozione della distribuzione e della produzione dei programmi televisivi, erano analizzati gli strumenti di coregolamentazione nel settore dei media e si verificava il trattamento della televisione interattiva sul piano normativo.

Nell’agosto 2006 la Commissione, sulla base delle relazioni presentate dagli Stati membri, comunicava che, tra il 2003 e il 2004, si era registrata una leggera flessione nella programmazione delle opere europee a livello comunitario, che erano passate dal 65% al 63%, flessione che risultava più forte se confrontata però con il 67% conseguito nel 2001, pur rimanendo nettamente al di sopra dell’obiettivo del 50% fissato dalla direttiva. Le ragioni di questo fatto erano individuate non in una tendenza “strutturale”, bensì in due fattori “eccezionali”: l’ingresso nella UE di dieci nuovi paesi che non avevano alcuna esperienza nell’applicazione della direttiva sulle televisioni senza frontiere e l’inserimento nel computo finale di nuovi dati relativi alle piccole emittenti. Da un’analisi più approfondita dei dati emergeva inoltre la positiva crescita delle opere europee realizzate da produttori indipendenti.

Nel dicembre 2007 la Commissione infine presentava una revisione della direttiva sulle televisioni (direttiva 2007/65/CE “Servizi di media audiovisivi senza frontiere”) al fine di modernizzare le norme esistenti, tenendo conto delle evoluzioni tecnologiche e commerciali del settore audiovisivo europeo. Tra gli obiettivi prioritari devono essere sottolineati lo snellimento e la semplificazione delle normative precedenti, con particolare riferimento al settore pubblicitario, nonché la necessità di operare una distinzione tra i servizi “lineari” (televisione tradizionale, internet, telefonia mobile) e “non lineari” (televisione e informazioni su richiesta). La direttiva rendeva inoltre più flessibili le norme per l’inserimento della pubblicità – prendendo in considerazione anche quella virtuale, interattiva e a schermo diviso –, forniva un quadro giuridico chiaro in merito all’“inserimento di prodotti” all’interno di film, notiziari e trasmissioni, promuoveva il pluralismo dei media e ribadiva il principio della diversità culturale.

Guido Levi (2008)




Politica dei Consumatori

I Trattati

La versione originale del Trattato istitutivo della CEE non prevedeva alcuna disposizione espressamente dedicata ai consumatori e ai loro diritti (v. anche Trattati di Roma; Comunità economica europea). Solo alcune norme vi facevano vago riferimento, come l’art. 39, par. 1, lett. e) (attuale art. 33) in materia di politica agricola; l’art. 85 (attuale art. 81), par. 3 che consente l’esenzione dalle norme in materia di concorrenza nel caso in cui le intese «contribuiscano a migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a promuovere il progresso tecnico, pur riservando agli utilizzatori una congrua parte dell’utile che ne deriva […]»; l’art. 86 (ora art. 82) che in materia di abuso di posizione dominante considera pratica abusiva la limitazione degli sbocchi, della produzione o dello sviluppo tecnico a danno dei consumatori. Tuttavia anche in assenza di una vera e propria norma a tutela del consumo, durante gli anni Settanta del XX secolo, furono emesse numerose direttive a tutela della salute e della sicurezza dei consumatori sulla base dell’art. 100 (ora art. 94), in materia di Ravvicinamento delle legislazioni nazionali per la istituzione e il funzionamento del mercato comune e sulla base dell’art. 235 (attuale 308) che consente alle Istituzioni comunitarie di assumere determinati provvedimenti «quando un’azione della Comunità risulti necessaria per raggiungere, nel funzionamento del mercato comune, uno degli scopi della Comunità, senza che il presente Trattato abbia previsto i poteri d’azione a tal uopo richiesti».

Una prima norma che menziona direttamente i consumatori è stata introdotta nel 1987 con l’Atto unico europeo, che ha inserito nel Trattato l’art. 100A (ora art. 95). Tale articolo consente l’adozione di misure volte al ravvicinamento delle legislazioni nazionali, finalizzate all’instaurazione e funzionamento del mercato interno e prevede in materia di tutela dei consumatori che le stesse si basino su di un “livello di protezione elevato”.

Solo con il Trattato di Maastricht (1992) si ha un vero e proprio riconoscimento della politica dei consumatori. La tutela del consumo diviene uno degli obiettivi dell’azione comunitaria (art. 3 lett. s, ora lett. t) e viene introdotta una sezione, composta dal solo art. 129°, completamente dedicata a questa materia. L’articolo in questione, modificato con il Trattato di Amsterdam (1997) che, sistematizzando le norme dei Trattati lo ha rinumerato assegnandogli il numero 153, si prefigge due diversi obiettivi: la promozione degli interessi dei consumatori e l’adozione di un livello elevato di protezione dei medesimi da attuare mediante «misure adottate a norma dell’articolo 95 nel quadro della realizzazione del mercato interno» e «misure di sostegno, di integrazione e di controllo della politica svolta dagli Stati membri». L’art. 129A individua specifici diritti (informazione, educazione e organizzazione per la salvaguardia dei propri interessi) e interessi (salute, sicurezza e interessi economici) dei consumatori (v. Stuyck, 2000, p. 384). Il medesimo articolo specifica che le esigenze inerenti alla protezione dei consumatori devono essere prese in considerazione dalla Comunità anche durante la fase di elaborazione di altre politiche comunitarie. Infine l’art. 153, par. 5 introduce una clausola di salvaguardia prevedendo che i singoli Stati membri possano mantenere o introdurre “misure di protezione più rigorose”. L’art. 153 attribuisce alla Comunità una competenza condivisa con quella degli Stati membri e conseguentemente il suo intervento è soggetto ai vincoli discendenti dal rispetto del Principio di sussidiarietà ex art. 5, II comma TCE.

Evoluzione storica

Pur in assenza nel Trattato di basi giuridiche che espressamente prevedessero una competenza della Comunità in materia di consumatori (v. anche Competenze) molte furono le direttive (v. anche Direttiva) emesse già a partire dagli anni Settanta del XX secolo quando, grazie allo sviluppo economico di quegli anni, nacque un diffuso movimento a tutela dei diritti dei consumatori (v. Stuyck, 2000, p. 368 e ss.). Molti degli Stati europei svilupparono una propria politica dei consumatori con l’adozione di numerose leggi nazionali. Tale situazione influenzò la Comunità e la spinse a intervenire per uniformare le diverse politiche dei consumatori degli Stati membri che, attribuendo diritti e doveri diversi da Stato a Stato, rischiavano di tradursi in ostacoli alla creazione del mercato comune.

La prima iniziativa comunitaria fu la Dichiarazione dei capi di Stato e governo resa a conclusione del Vertice di Parigi del 19-20 ottobre 1972 (v. anche Vertici), che conferì incarico alla Commissione europea di stendere un programma a tutela dei consumatori, puntualmente pubblicato nel 1975 (Programma preliminare della CEE per una politica di protezione e di informazione del consumatore, “Gazzetta ufficiale della Comunità europea” C92, pp. 2-16). Tale documento conteneva un primo elenco di diritti: salute e sicurezza, protezione di interessi economici, risarcimento dei danni, informazione ed educazione e il diritto di rappresentanza o a essere ascoltato. Le indicazioni contenute nel primo programma furono ribadite nel secondo Programma d’azione del 1981 (GUCE C133, p. 1) e nella Risoluzione del Consiglio del 23/6/1986 concernente il futuro orientamento della Comunità in materia di tutela del consumo (GUCE C167, p. 1).

Tra 1975 e il 1986 furono emesse molte direttive ispirate ai Programmi comunitari e basate sugli artt. 100 e 235 TCEE (Trattato CEE). L’Atto unico europeo del 1987 introdusse l’art. 100A (attuale art. 95) sulla base del quale fu (e continua a essere) emanata la grande maggioranza delle direttive a tutela dei consumatori. In base all’art. 153 introdotto dal Trattato di Maastricht risulta emessa, invece, una sola direttiva (n. 98/6 relativa alla protezione dei consumatori in materia di indicazione dei prezzi dei prodotti offerti ai consumatori, GUCE L80, pp. 27–31). La prevalenza dell’art. 95 (ex 100A) quale base giuridica della normativa comunitaria in materia di tutela del consumo testimonia chiaramente che il principale fine perseguito dalla Comunità non è quello di tutelare i diritti e gli interessi dei consumatori, bensì quello di creare e integrare, anche tramite l’uniformazione dei diritti e degli interessi degli utenti, il Mercato unico europeo. Le azioni comunitarie a tutela dei consumatori sono ancillari e complementari alla politica di creazione del mercato interno, in quanto dirette a eliminare cosiddetti fallimenti del mercato. Infatti, in caso di frammentazione del mercato, di abusi di posizione dominante o intese, i consumatori risultano svantaggiati, perdono fiducia e i loro acquisti restano limitati al c.d. commercio di vicinato a discapito di quello intracomunitario, motore e conseguenza dell’integrazione del mercato unico. Le norme a tutela dei consumatori, come quelle sulla concorrenza (v. anche Politica europea di concorrenza), permettono di correggere il mercato, istituendo una tutela uniforme in tutti gli Stati membri a sostegno della fiducia dei consumatori, con conseguente incremento dei consumi anche transfrontalieri e maggiore integrazione mercato unico (v. Unberath, Johnston, 2007, p. 1242 e ss). Ciò non significa che la tutela dei consumatori non sia comunque ben presente tra le finalità delle azioni comunitarie: da un lato, infatti, l’art. 153 è spesso richiamato nei considerando insieme agli specifici diritti che la direttiva intende tutelare; dall’altro la tutela dei diritti dei consumatori è obiettivo perseguito anche trasversalmente nell’elaborazione di diverse politiche comunitarie, come raccomandato anche dalla recente “Strategia per la politica dei consumatori dell’UE 2007-2013” – COM(2007)99 def. del 13/3/2007, p. 9. Per esempio in materia di servizi generali la Commissione ha evidenziato nel relativo Libro bianco – COM(2004)374 def. – la necessità di garantire non solo un effettivo accesso ai servizi generali, ma anche di dare maggiore tutela ai consumatori e utenti offrendo loro alta qualità e prezzi ragionevoli (v. Maresca, 2005, p. 466 e ss). Infine, la preminenza dell’obiettivo del mercato comune non ha impedito lo svilupparsi di una vera e propria nuova branca del diritto, quella del consumo, che in paesi come l’Italia è di quasi totale derivazione comunitaria a partire dall’inserimento degli artt. 1469 bis-sexies nel codice civile in attuazione della dir. 93/13 concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori (GUCE L95, pp. 29-34) sino ad arrivare al d.lgs. 206/2005, conosciuto come codice del consumo.

La normativa derivat

È qui riportata, con riferimento ai provvedimenti più importanti, la normativa di Armonizzazione, la quale ha sviluppato i diritti del consumatore individuati con i primi programmi d’azione comunitari. È necessario promettere che il Trattato non fornisce alcuna definizione di consumatore che viene, invece, di volta in volta delineata dalle direttive che si occupano di specifici settori pertinenti alla tutela dei diritti di questa categoria di soggetti. Ad ogni modo si può in via generale identificare il consumatore con la persona fisica che agisce per fini extraimprenditoriali o extraprofessionali (v. Mansi, 2004, pp. 819 e ss).

1) A tutela della salute e sicurezza dei consumatori sono state emanate importanti direttive quali la n. 88/375 concernente la sicurezza dei giocattoli (GUCE L187, pp. 1-13), la n. 2001/95 sulla sicurezza generale dei prodotti (GUCE L11, pp. 4-17), entrambe finalizzate al duplice scopo di garantire la circolazione di prodotti standardizzati e sicuri su tutto il territorio comunitario e di favorire l’integrazione del mercato unico. Per rendere effettivo il diritto alla salute e sicurezza (v. anche Politica della salute pubblica) sono state emanate misure volte a garantire anche gli interessi economici del consumatore, quale la direttiva in materia di diritto al risarcimento dei danni, nel caso di prodotti difettosi (dir. 85/374, GUCE L141, pp. 20-21).

2) L’obiettivo di informazione ed educazione dei consumatori è perseguito pressoché da tutte le direttive in materia di tutela del consumo, là dove stabiliscono l’obbligo per gli Stati di garantire un livello minimo di informazione ai consumatori che concludono determinati contratti o acquistano prodotti o servizi. Perseguono espressamente questo obiettivo le direttive in materia di etichettatura e imballaggio dei prodotti alimentari (per esempio la n. 79/112, GUCE L33, pp. 1–14), o quelle relative alla circolazione dei prodotti e liquidi pericolosi (n. 76/769, GUCE L262, pp. 201–203) o la direttiva concernente l’indicazione dei prezzi dei prodotti alimentari (n. 98/6, GUCE L80, pp. 27-31).

3) In materia di diritto di rappresentanza è stata adottata la decisione n. 2000/323 al fine di consentire alle associazioni dei consumatori di partecipare alla fase di elaborazione delle normative di armonizzazione. In attuazione di tale direttiva, le associazioni sono state consultate nello stadio antecedente l’adozione della dir. 2007/64 relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno (GUUE L319, pp. 1-36) e sono interpellate per tutte le iniziative relative a contratti e mercati finanziari.

4) Molte sono le direttive poste a tutela degli interessi economici dei consumatori, mediante l’armonizzazione delle fasi di informazione (pubblicitaria e precontrattuale), di negoziazione e conclusione dei contratti. Relativamente alla fase prenegoziale è stata emanata la dir. 84/450 in materia di pubblicità ingannevole (GUCE L250, pp. 17-20) o quella citata relativa all’indicazione dei prezzi dei prodotti alimentari. Rispetto alla fase negoziale è stata emanata dir. 93/13 in materia di clausole abusive, con espressa elencazione di quelle che devono essere separatamente sottoscritte dal consumatore e quelle che devono considerarsi in ogni caso nulle. Le condizioni in base alle quali il contratto è concluso sono oggetto di importanti direttive quali la n. 85/577 in caso di contratti negoziati fuori dai locali commerciali (GUCE L372, pp. 31-33); la n. 90/314 (GUCE L158, p. 59–64) concernente i viaggi, le vacanze e i circuiti tutto compreso; la dir. 94/47 (GUCE L280, pp. 83–87) relativa alla c.d. multiproprietà; la dir. 97/7 (GUCE L144, pp. 19-27), inerente alla protezione dei consumatori in materia di contratti a distanza; la n. 2008/48 in materia di credito al consumo (GUUE L133, pp. 66-92); la dir. 97/5 (GUCE L43, pp. 25–30) sui bonifici transfrontalieri; la dir. 98/27 (GUCE L166, pp. 51–55) relativa ai provvedimenti inibitori a tutela degli interessi dei consumatori; la dir. 99/44 (GUCE L171, pp. 12–16) su taluni aspetti della vendita e delle garanzie di consumo. Tra le direttive appartenenti a questa categoria, vi sono anche quelle che, tutelando diritti e interessi economici dei consumatori e utenti, perseguono l’integrazione del mercato comune finanziario. Tali direttive si preoccupano di stabilire i diritti minimi dei consumatori nella fase sia precontrattuale che negoziale. Tra i diversi provvedimenti devono essere ricordati la dir. n. 97/5, cit., sui bonifici transfrontalieri, il regolamento 2560/2001 (GUCE L344, pp. 13-16) sui trasferimenti transfrontalieri in Euro, la dir. 2002/47 (GUCE L168, pp. 43-50) relativa ai contratti di garanzia finanziaria, la dir. 2002/65 concernente la commercializzazione a distanza dei servizi finanziari ai consumatori (GUCE L271, pp. 16-24), la dir. 2007/64, cit., relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno.

5) Centrale nella politica comunitaria è il problema relativo all’accesso alla giustizia da parte dei consumatori, oggetto di specifiche direttive quali le citate 93/13 (clausole abusive) e 98/27 e successive modifiche, relativa ai provvedimenti inibitori. Di particolare rilievo sono anche le iniziative che, inserendosi nel contesto dei lavori per la creazione di uno Spazio di libertà, sicurezza e giustizia, sono volte a elaborare un quadro giuridico comune per i metodi alternativi di risoluzione delle controversie (Alternative dispute resolution, ADR). In particolare sono a disposizione dei consumatori due reti: la European extrajudicial network (EEJ-Net), creata con la risoluzione del Consiglio dei ministri del 25/5/2000 (GUCE C115, p. 1), la quale mira ad aiutare i consumatori a risolvere le vertenze transfrontaliere con imprese che forniscono beni e servizi, fornendo loro informazioni ed assistenza affinché possano risolvere la propria controversia in via amichevole, tramite un sistema adeguato di risoluzione alternativa delle controversie; in secondo luogo opera la Financial services complaints network (FIN-Net), istituita nel 2001 su iniziativa della Commissione, consistente in un sistema comunitario all’interno del quale le parti collaborano per agevolare la risoluzione extragiudiziale delle controversie tra consumatori e fornitori di servizi finanziari. La FIN-Net predispone gli strumenti per un’efficace cooperazione tra gli organi responsabili a livello nazionale per la soluzione extragiudiziale delle controversie in materia finanziaria e garantisce, ai consumatori di servizi finanziari on line o off line, un effettivo accesso alla giustizia.

Diritto contrattuale europeo

Ultimo elemento da prendere in considerazione è l’iniziativa comunitaria – Parlamento europeo, ris. A2-157/89, GUCE C158, p. 400 e ris. A3-0329/94, GUCE C205, p. 518; v. anche la Comunicazione della Commissione al Consiglio e al Parlamento europei sul diritto contrattuale europeo, COM(2001)398 def. – di codificazione del diritto contrattuale europeo (v. Chinè, 2006, p. 754 e ss). Tale iniziativa nasce dall’esigenza di sistematizzare le direttive emesse in materia di contratti con i consumatori, le quali si caratterizzano per disorganicità, lacune e sovrapposizione dei contenuti. L’opera di revisione è attualmente oggetto di analisi da parte della Commissione la quale ha già pubblicato diversi documenti quali la comunicazione Diritto contrattuale europeo e revisione dell’acquis, prospettive per il futuro – COM(2004)651 def. –, il Libro verde del febbraio 2007 Revisione dell’acquis relativo ai consumatori – COM(2006)744 def. – (v. anche Libri verdi) e la Seconda relazione sullo stato d’avanzamento relativo al quadro comune di riferimento – (COM(2007)447 def.

Pieranna Buizza (2009)