Reagan, Ronald Wilson

R. (Tampico, Illinois 1911-Los Angeles 2004) dopo aver conseguito la laurea in economia e sociologia presso l’Eureka college di Dixon, lavorò come annunciatore sportivo presso alcune emittenti radiofoniche e, dal 1937, intraprese la carriera di attore cinematografico. Tra il 1942 e il 1945 prestò servizio, girando alcuni film, per l’esercito degli Stati Uniti. Nel 1947 fu eletto presidente del sindacato che rappresentava gli attori hollywoodiani affiliato all’American federation of labor (Screen actors guild), e negli anni successivi fu riconfermato per cinque volte.

Di fede e “formazione” democratica, R. cominciò a maturare convinzioni conservatrici tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, e nel 1962 si iscrisse al Partito repubblicano. Come esponente del Partito, conquistò un’ampia notorietà presso l’opinione pubblica statunitense nel 1964, quando pronunciò un discorso televisivo a favore del senatore Barry Goldwater, il candidato repubblicano alla presidenza.

Nel 1966 fu nominato candidato del Partito repubblicano per la carica di governatore della California nelle successive elezioni, in cui s’impose sul governatore uscente, il democratico Edmund G. Brown. Riconfermato nel 1970, R. ricoprì la carica di governatore della California per otto anni, assurgendo a figura di spicco del panorama politico nazionale. Durante i due mandati, attuò una politica volta a favorire la riduzione delle imposte a livello locale, che comportò un aumento del deficit statale, e una riforma dello Stato sociale che produsse la drastica riduzione degli interventi pubblici a favore delle classi disagiate.

Nel 1974, R. rinunciò a candidarsi per ottenere un terzo mandato come governatore della California per perseguire l’obiettivo, già sfiorato nel 1968, di ottenere la nomination a rappresentare il Partito repubblicano nelle presidenziali del 1976. Ancora una volta, la Convenzione repubblicana gli negò la nomina, preferendogli il presidente uscente, Gerald Ford. Quattro anni dopo, R. prevalse ampiamente nelle primarie del Partito repubblicano, riducendo il novero dei concorrenti al solo George Bush, e ponendo le condizioni per la conquista della nomination, che gli fu infine riconosciuta dalla Convenzione nazionale tenutasi a Detroit.

Sostenuto da un vasto schieramento comprendente la destra religiosa e quella liberista, che denunciava l’ingerenza dell’esecutivo nell’economia e nella società, R. condusse una campagna elettorale sulle corde del populismo. Illustrò un programma che coniugava una politica economica ispirata ai principi della supply side economics, basata su un drastico taglio delle imposte come strumento per incoraggiare la domanda e gli investimenti, e una politica estera il cui obiettivo primario era il conseguimento della superiorità sull’Unione Sovietica nel campo degli armamenti convenzionali e nucleari, che avrebbe comportato un aumento vertiginoso del budget della difesa: secondo il candidato repubblicano era infatti necessario porre rimedio agli errori delle precedenti amministrazioni, che avevano permesso che la distensione garantisse all’avversario una superiorità strategica non tollerabile.

Le relazioni con l’Europa furono difficili e a tratti addirittura ostili: il ministro degli Esteri francese Claude Cheysson parlò nel luglio 1982 di divorzio tra Stati Uniti ed Europa, e al Congresso fu discussa la proposta di un ritiro parziale delle forze statunitensi dal territorio europeo.

I rapporti con la Comunità economica europea si deteriorarono seriamente a causa delle scelte di politica finanziaria e commerciale operate, soprattutto durante il primo mandato, dall’amministrazione R. La strategia di politica economica di R., volta a favorire la ripresa senza ingenerare cicli inflattivi, e dunque basata su una politica monetaria severa e sul mantenimento di alti tassi di interesse, provocò il rafforzamento del dollaro: di qui l’aumento degli interessi pagati dai governi europei sui debiti contratti e del prezzo del petrolio; inoltre, le banche centrali dei paesi europei erano costrette a elevare i tassi di interesse per evitare che i capitali si concentrassero negli Stati Uniti, e dunque i governi dovevano adottare una politica di austerità. L’amministrazione R. considerava un indubbio successo l’aver indotto gli europei a una politica di contenimento dell’inflazione; i dirigenti europei erano concordi nell’attribuire agli Stati Uniti la responsabilità delle difficoltà che attraversano le economie dei loro paesi e della recessione che nel 1981 colpì le economie occidentali.

Nemmeno gli Stati Uniti erano del resto immuni dalle conseguenze negative della politica economica di R.: l’apprezzamento del dollaro rischiava infatti di rallentare le esportazioni rendendo i prodotti statunitensi meno competitivi. Per neutralizzare questo pericolo, malgrado le professioni di fede liberista nel libero mercato e in netta contraddizione con la politica di deregulation avviata all’interno degli Stati Uniti, R. ricorse ampiamente a pratiche protezionistiche, che sollevarono le proteste della Comunità economica europea. Fin dalla metà degli anni Settanta, di fronte alla crisi economica mondiale e ai crescenti tassi di disoccupazione, e nonostante gli accordi raggiunti in seno all’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT), il protezionismo si era diffusamente affermato, sino a divenire il tratto dominante nelle relazioni commerciali mondiali. L’amministrazione R. si uniformò a questa tendenza, aggravatasi a seguito del secondo shock petrolifero del 1979: è stato calcolato che nel 1983 il 30% dei beni manufatti importati negli Stati Uniti erano sottoposti a misure restrittive. Le recriminazioni sul tema erano comunque reciproche: il governo di Washington accusava la Comunità economica europea di falsare la libera concorrenza sui mercati mondiali dei beni agricoli attraverso la Politica agricola comune (PAC). Solo in parte le rimostranze di R. erano fondate – i prodotti agricoli europei assorbivano una percentuale irrisoria del mercato mondiale – ma è indubbio che caratterizzarono in senso negativo i rapporti con l’Europa nei primi anni della sua presidenza.

Le polemiche, sopite con la ripresa economica che si verificò a partire dal 1983, e smorzate dall’Accordo del Plaza che sanciva l’impegno da parte del governo statunitense e dei principali partner commerciali a interventi congiunti per stabilizzare il valore del dollaro, riemersero dopo la ratifica dell’Atto unico europeo (AUE). L’amministrazione R. aveva seguito con grande scetticismo il rilancio che, dopo la fase dell’eurosclerosi a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, condusse alla convocazione delle Conferenze intergovernative e alla firma dell’AUE. Pur confermando il sostegno degli Stati Uniti all’integrazione, R. e i suoi collaboratori, probabilmente influenzati dalla special relationship con il governo britannico guidato dalla euroscettica Margaret Thatcher, nutrivano notevoli riserve circa la possibilità che il processo desse luogo a un progresso significativo. In seguito alla conclusione delle ratifiche dell’Atto unico, emersero nel governo statunitense timori a proposito del suo contenuto: in particolare si riteneva che il completamento del Mercato unico europeo, con la Libera circolazione dei capitali, la Libera circolazione dei servizi e la Libera circolazione delle persone e l’eliminazione di ogni ostacolo non tariffario al commercio interno, avrebbe indotto la Comunità economica europea a elevare la Tariffa esterna comune. La stampa statunitense riecheggiava la posizione del governo paventando la costruzione di una fortress Europe.

La contrapposizione tra gli statunitensi e gli europei emerse inoltre in merito all’opportunità dell’uso della leva economica come strumento di pressione politica nei confronti dell’Unione Sovietica, e raggiunse il culmine a proposito della questione del gasdotto siberiano. In risposta all’invasione dell’Afghanistan, Jimmy Carter aveva imposto nei confronti dell’Unione Sovietica sanzioni economiche che comprendevano un embargo sulle esportazioni di grano. R. rimosse tale embargo per rispondere alle sollecitazioni provenienti dai produttori agricoli, severamente danneggiati dalla misura, e giustificò la sua decisone adducendo l’irrilevanza “strategica” del bene e sostenendo anzi che la necessità di acquistare grano avrebbe costretto l’Unione Sovietica a distogliere fondi dal budget della difesa. In seguito all’imposizione della legge marziale in Polonia nel dicembre 1981, R. applicò sanzioni economiche il cui scopo principale era quello di impedire all’Unione Sovietica l’accesso alla tecnologia occidentale, ma dovette confrontarsi con il rifiuto degli europei di adottare misure simili. In particolare, gli Stati Uniti intendevano ottenere che gli europei sospendessero la fornitura della tecnologia necessaria per la costruzione di un gasdotto che doveva trasportare il gas siberiano all’Europa occidentale, e affrancare almeno in parte l’economia europea dalla dipendenza dal petrolio mediorientale. Per raggiungere tale scopo, R. estese la legislazione statunitense alle imprese europee, impedendo loro di vendere all’Unione Sovietica materiale di provenienza statunitense. La Comunità economica europea condannò la decisione come una “interferenza inaccettabile”, e le imprese francesi e britanniche onorarono gli impegni sottoscritti.

Naturalmente, la contrapposizione su questo aspetto non derivava solo da contrastanti interessi economici – l’Europa occidentale aveva flussi commerciali molto più intensi con i paesi del blocco comunista – ma era il portato di una differente, se non antitetica, visione del rapporto con l’Unione Sovietica. Anche sul piano politico, le relazioni tra gli Stati Uniti e i loro alleati europei furono percorse, soprattutto durante il primo mandato di R., da laceranti tensioni che si manifestarono anzitutto sul piano della politica di sicurezza. A partire dal 1981 R. avviò un processo di massiccio riarmo che, se da un lato si poneva in linea di continuità rispetto a una direttrice già affermatasi durante gli ultimi anni della presidenza Carter, dall’altro costituiva una notevole accelerazione in quella direzione. La storiografia ha evidenziato come queste scelte abbiano contribuito ad affrettare il processo di sfaldamento dell’Unione Sovietica, facendo esplodere le debolezze strutturali e le contraddizioni del sistema e costringendo la dirigenza sovietica a uno sforzo produttivo che si rivelò insostenibile. I governi europei colsero solo in parte la portata delle conseguenze che la politica reaganiana avrebbe scatenato e si allarmarono di fronte alla prospettiva di una ripresa della corsa agli armamenti. Né furono rassicurati dalla proposta di “opzione zero” o dall’avvio dei negoziati Strategic arms reduction talks (START) e di quelli per la riduzione dei missili a media gittata: la prima si riassumeva nella rinuncia da parte degli Stati Uniti a dislocare i missili Pershing II e Cruise (gli euromissili) in cambio della disponibilità sovietica a rimuovere gli SS-20 e dava il chiaro segnale dell’unilateralismo di R., che non consultò gli alleati prima di assumere l’iniziativa che si sarebbe ripercossa sulla sicurezza europea. I negoziati per il disarmo procedettero assai stancamente e furono infine sospesi. Un effetto nocivo sulle relazioni tra l’Europa e gli Stati Uniti ebbe inoltre il progetto, annunciato da R. nel marzo 1983, della Strategic defense initiative (SDI). Subito ribattezzata Star sars dalla stampa, l’iniziativa prevedeva che gli Stati Uniti si dotassero di un sistema di intercettazione antimissile, che avrebbe garantito l’inviolabilità del loro territorio: ciò indusse negli europei il sospetto che gli Stati Uniti volessero procedere al decoupling, allo “sganciamento” della propria sicurezza dalla difesa dell’Europa.

In questo quadro di rapporti problematici, si inserì inoltre l’ondata di manifestazioni antiamericane contro il dispiegamento dei missili Pershing II e Cruise deciso dall’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) nel dicembre del 1979.

Altri motivi di contrapposizione che segnarono la prima fase dell’amministrazione R. derivavano dalla politica nei confronti dell’America Latina e Centrale. Tale politica era ispirata a un acceso anticomunismo, alla “dottrina Kirkpatrick” che giustificava l’appoggio ai regimi autoritari non comunisti in quanto suscettibili di evolvere verso la democrazia, e alla “dottrina R.” che impegnava gli Stati Uniti a intervenire a sostegno dei freedom fighters. Coerentemente con i principi così enunciati, l’amministrazione statunitense sostenne massicciamente, con mezzi legali e non, il movimento di opposizione al governo sandinista e i governi del Salvador, del Guatemala e dell’Honduras. In Europa si riteneva al contrario che la migliore strategia nella lotta alla diffusione del comunismo fosse il sostegno a elementi moderati e riformisti e pertanto la politica di R. era considerata con accenti molto critici. La contrapposizione raggiunse l’apice nell’ottobre 1983, quando gli Stati Uniti invasero la piccola isola di Grenada allo scopo di deporre il filocomunista generale Hudson Austin.

Più collaborativi furono inizialmente i governi europei nei confronti dell’azione statunitense in Medio Oriente, che vide la partecipazione della Francia, del Regno Unito e dell’Italia alla spedizione in Libano, voluta da R. per porre fine alla crisi innescata dall’invasione israeliana. In seguito, gli europei presero le distanze dalla politica reaganiana nei confronti della Libia, il cui governo fu accusato nel gennaio 1986 di fomentare e appoggiare il terrorismo palestinese, condannarono il bombardamento di Tripoli e furono, almeno agli occhi degli statunitensi, poco solidali e reattivi nella lotta nei confronti del terrorismo che in quegli anni colpì gli Stati Uniti con numerosi attentati. La crisi emerse con grande fragore tra gli Stati Uniti e l’Italia a seguito del sequestro dell’Achille Lauro nell’ottobre 1985: la pretesa di Washington di giudicare i responsabili, costretti a atterrare presso la base militare statunitense di Sigonella, suscitò la ferma opposizione del governo italiano, che fece valere la giurisdizione territoriale e prese in consegna i terroristi.

Lo storico norvegese Geir Lundestad ha evidenziato come la crisi nei rapporti con gli Stati Uniti fosse all’origine della proposta francese, avanzata nell’aprile 1984 e vanificata dalla dura reazione statunitense, di rivitalizzare l’Unione dell’Europa occidentale (v. Lundestad, 1998); altri hanno inoltre posto in relazione i difficili rapporti con gli Stati Uniti e i tentativi, contenuti nell’Atto unico europeo, di rafforzare il sistema della Cooperazione politica europea. Quest’ultimo giudizio sembra trascurare due circostanze: la portata assai limitata delle riforme introdotte dall’Atto unico e il fatto che tra il 1983 e il 1984 maturarono le condizioni per un graduale ma sensibile miglioramento delle relazioni. Nonostante permanessero divergenze circa la politica mediorientale, l’inizio del dispiegamento degli euromissili in Europa, avvenuto a partire dal novembre 1983, contribuì a rassicurare gli europei e a rinsaldare i legami con l’alleato statunitense. La svolta fu ancora più evidente a partire dal 1985, da quando cioè il nuovo corso inaugurato da Michail Gorbačëv in Unione Sovietica consentì un proficuo dialogo tra le superpotenze che, dopo i summit tra R. e Gorbačëv di Ginevra e Reykjavik, sfociò nel dicembre 1987 nella firma dell’accordo per la rimozione dal territorio europeo dei missili a media gittata. Così come la tensione tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica aveva condizionato negativamente le relazioni interne all’alleanza occidentale, la nuova distensione si riverberò anche sui rapporti tra gli Stati Uniti e l’Europa.

Concluso il secondo mandato, nel gennaio del 1989 R. si ritirò a vita privata.

Daniela Vignati (2010)




Reale, Egidio

Giurista, storico, fuoruscito antifascista, militante repubblicano e azionista, R. (Lecce 1888-Locarno 1958) fu nel secondo dopoguerra il primo ambasciatore della Repubblica italiana in Svizzera e presidente della Commissione italiana dell’United Nations educational scientific and cultural oganization (UNESCO).

Proveniente da una famiglia di estrazione borghese e figlio di un imprenditore edile attivo nel settore dei lavori pubblici, a dodici anni promosse la prima organizzazione repubblicana nel Leccese, dando vita alla Lega dei partiti popolari, scioltasi nel 1904. Nel 1906 si trasferì a Roma, ove frequentò la facoltà di giurisprudenza e concluse gli studi sotto la direzione del noto civilista Giuseppe Chiovenda. Negli anni della formazione universitaria seguì con vivo interesse l’attività culturale e scientifica di Arcangelo Ghisleri, approfondendo gli studi sul pensiero repubblicano e promuovendo, a fianco di Giovanni Conti e di Oliviero Zuccarini, il rinnovamento ideale e programmatico del Partito repubblicano italiano (PRI), nella cui direzione venne eletto nel 1914. Interventista e poi ufficiale durante la Prima guerra mondiale, nel dopoguerra venne rieletto nella direzione del PRI, contribuendo all’orientamento del partito in senso antifascista. Negli anni della costruzione del regime la sorveglianza degli organi polizieschi fascisti, l’arresto e la condanna a cinque anni di confino costrinsero R., nel dicembre del 1926, a espatriare clandestinamente e a cercare rifugio in Svizzera.

Durante gli anni dell’esilio a Ginevra, dal 1927 al 1945, R. avviò una duplice battaglia contro il fascismo, sul piano scientifico e su quello prettamente politico-culturale. All’indomani del suo arrivo nel territorio elvetico conseguì un diploma all’Institut de hautes études internationales (HEI) di Ginevra, nel 1929, e avviò un’intensa attività pubblicistica e scientifica, collaborando con giornali svizzeri, spagnoli e americani e pubblicando numerosi saggi e articoli dedicati al diritto, sia internazionale che costituzionale, che gli valsero la nomina a docente presso l’Accademia di diritto internazionale dell’Aia. La sua attività scientifica, pur affrontando tematiche assai diverse tra di loro, dalla Società delle Nazioni all’arbitrato internazionale, dal regime dei passaporti al diritto d’asilo, fino alle istituzioni della II Repubblica spagnola e fasciste, fu caratterizzata dalla critica alla sovranità assoluta degli Stati e dall’adesione ai principi federalisti (v. Federalismo), sia sul piano sovranazionale che su quello infranazionale.

Sul versante specifico della lotta contro il fascismo R. proseguì la militanza nel ricostituito PRI in esilio, collaborando con le altre forze dell’antifascismo democratico, come il movimento Giustizia e libertà, e affiancando Gaetano Salvemini nell’opera di demistificazione del fascismo di fronte all’opinione pubblica internazionale, avviata dallo storico oltreoceano. Durante la Seconda guerra mondiale R. svolse un ruolo significativo nell’opera di assistenza ai numerosi rifugiati italiani, giunti in Svizzera dopo l’armistizio e fu tra i principali promotori del Partito d’azione (Pd’A) nel territorio elvetico durante i mesi della Resistenza. Con Ernesto Rossi condivise la battaglia del Movimento federalista europeo, contribuendo alla stesura della Dichiarazione federalista dei movimenti di Resistenza europei, avvenuta a Ginevra nel maggio del 1944.

Tornato in Italia nell’aprile del 1945, R. si appartò dalla politica attiva, dando le dimissioni dal Pd’A nel luglio del 1946. Dal 1947 al 1955, in qualità di ministro plenipotenziario e poi, dal 1953, di ambasciatore italiano in Svizzera, R. promosse la stipula di importanti accordi bilaterali tra l’Italia e la Confederazione elvetica, nei settori migratorio, commerciale e finanziario, nonché l’incremento degli scambi culturali tra i due paesi. Dal 1955 al 1958 fu presidente della Commissione italiana dell’UNESCO, nonché presidente delle Commissioni per la riforma delle leggi sull’emigrazione e sulla carriera consolare italiana e, nel 1957, della Delegazione italiana per il trattato di commercio italo-sovietico.

Sonia Castro (2010)




Recepimento dell’acquis comunitario

Con l’espressione francese acquis communautaire (o, più sinteticamente, acquis) (v. Acquis comunitario) si intende l’insieme degli obblighi (e conseguenti diritti) che vincolano gli Stati membri dell’Unione europea e della Comunità economica europea nel contesto del processo di integrazione comunitaria e, più ampiamente, europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). L’art. 2, quinto trattino, del Trattato sull’Unione europea (TUE) (v. Trattato di Maastricht) lo ha posto fra gli obiettivi dell’Unione europea, espressamente affermando che fra quest’ultimi v’è quello di «mantenere integralmente l’acquis comunitario e svilupparlo al fine di valutare in quale misura si renda necessario rivedere le politiche e le forme di cooperazione instaurate dal presente trattato allo scopo di garantire l’efficacia dei meccanismi e delle istituzioni comunitarie».

L’insieme dell’acquis è composto dai Trattati istitutivi dell’Unione europea e della Comunità europea, così come stati integrati e modificati nel corso del processo di integrazione europea, dal cosiddetto “diritto derivato”, ossia dagli atti normativi vincolanti gli Stati membri emanati dalle Istituzioni comunitarie in applicazione dei Trattati istitutivi – regolamenti, direttive (v. Direttiva), decisioni (v. Decisione) –, dal patrimonio politico comunitario, costituito dall’insieme delle deliberazioni delle istituzioni comunitarie idonee al consolidamento della Comunità europea e dell’Unione europea, dal patrimonio giurisprudenziale delle sentenze della Corte di giustizia e del Tribunale di primo grado e dagli accordi internazionali con i paesi terzi conclusi dalle Comunità in funzione delle sue competenze (v. Giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee). È importante sottolineare che rientrano nell’acquis anche tutti gli atti adottati nell’ambito dei cosiddetti secondo e terzo pilastro dell’Unione europea (v. Pilastri dell’Unione europea).

Nel corso del Consiglio europeo tenutosi nel 1993 nella capitale danese, i capi di Stato e di governo dell’Europa dei 15 hanno stabilito, in vista del futuro Allargamento dei confini dell’Unione europea, che l’Adesione di un paese associato all’Unione europea (v. Associazione) possa avvenire esclusivamente quando da parte dello stesso vi sia piena capacità di assumere gli obblighi connessi, rispettando le condizioni economiche e politiche richieste. Su tali basi, sono stati successivamente elaborati i cosiddetti “criteri di Copenaghen” (v. Criteri di adesione), un elenco di requisiti cui ogni paese candidato all’adesione deve rispondere. Un primo criterio, di natura politica, fa riferimento alla necessità di istituzioni stabili che garantiscano la democrazia, lo Stato di diritto, il rispetto dei Diritti dell’uomo e la protezione delle minoranze; un secondo criterio, di tipo economico, comporta la creazione di un’economia di mercato funzionante in grado di far fronte alle pressioni della concorrenza e alle forze di mercato all’interno dell’Unione europea; infine, un ultimo criterio è relativo proprio al recepimento dell’acquis, essendo tenuto ogni Stato membro dell’Unione europea non solo ad adottare tutte le norme e i regolamenti in vigore nell’Unione, ma anche a garantire una pubblica amministrazione in grado di applicare e di gestire concretamente la legislazione dell’Unione europea medesima.

Successivamente, al vertice di Copenaghen del 1993, anche il Consiglio europeo di Madrid del 1995 precisava ulteriormente, in tema di recepimento dell’acquis da parte dei paesi candidati, che ciascuno di essi avrebbe dovuto adeguare le proprie strutture amministrative al fine di consentire il corretto recepimento della normativa comunitaria a livello nazionale, nonché una sua corretta attuazione attraverso apposite ed efficienti strutture amministrative e giudiziarie.

L’accettazione integrale dell’acquis da parte dei paesi candidati – e dunque la trasposizione nel proprio ordinamento interno di oltre 80.000 pagine di Diritto comunitario – costituisce quindi una condizione essenziale per il loro ingresso nell’Unione europea, poiché divenire membri di essa presuppone la piena accettazione dei contenuti, dei principi e degli obiettivi politici ed economici sanciti dai Trattati e dai loro allegati, dal diritto comunitario derivato, dalla giurisprudenza degli organi giudiziari comunitari e da tutti gli accordi con i paesi terzi. Per diventare Stato membro dell’Unione non basta la volontà di accettare l’acquis, ma occorre dimostrare la capacità di farlo proprio, in modo tale da poterlo applicare senza alcun tipo di distorsione.

Il recepimento dell’acquis ha rappresentato e rappresenta un momento centrale dell’allargamento dell’Unione europea ai paesi dell’Europa centro orientale già a essa associati. Particolare attenzione è stata dedicata ad analizzare i problemi concernenti le misure da adottare per l’adeguamento di tali paesi all’acquis, ciò costituendo sicuramente uno degli aspetti più complessi dell’adesione di questi paesi all’Unione europea.

Sicché l’esame analitico del grado di conformità all’acquis (cosiddetto screening), rappresenta la fase di preparazione dei negoziati di adesione (v. anche Strategia di preadesione) e viene a costituire un fattore fondamentale, in quanto serve come base per i negoziati bilaterali fra l’Unione europea e ciascuno dei paesi candidati.

Al fine di facilitare i negoziati di adesione con i 10 paesi che hanno fatto il loro ingresso nell’Unione europea il 1° maggio 2004 (Estonia, Lettonia, Lituania, Slovacchia, Repubblica Ceca, Ungheria, Polonia, Slovenia, Malta, Cipro), l’acquis è stato suddiviso in 31 capitoli: Libera circolazione delle merci, Libera circolazione delle persone, Libera circolazione dei capitali; libera prestazione di servizi (v. Libera circolazione dei servizi); diritto societario; Politica europea di concorrenza; Politica agricola comune; Politica comune della pesca; Politica comune dei trasporti della CE; Politica fiscale; Unione economica e monetaria; statistica; Politica sociale e Politiche per l’occupazione; Politica dell’energia; Politica industriale; piccole e medie imprese; Politica della ricerca scientifica e tecnologica; istruzione e formazione (v. Politica dell’istruzione); telecomunicazioni e tecnologie dell’informazione (v. Politica europea delle telecomunicazioni; Politica dell’informazione); cultura e politica audiovisiva (v. Politica culturale europea); politica regionale (v. Politica di coesione); Politica ambientale; Politica dei consumatori e salute; Giustizia e affari interni; Unione doganale; Politica commerciale comune; Politica estera e di sicurezza comune; controllo finanziario; finanze e bilanci; istituzioni; varie.

In linea di principio, per ognuno di questi capitoli avrebbe dovuto svolgersi, con ogni singolo paese candidato, un negoziato distinto. A fronte dei 31 capitoli sopra elencati, peraltro, i negoziati effettivi si sono spesso limitati a quei settori dell’acquis nei quali i paesi candidati avevano maggiori difficoltà e per i quali avevano esplicitamente richiesto un regime transitorio.

È frequente, infatti, soprattutto in alcuni ambiti (come ad esempio la politica ambientale), che il paese candidato non sia in grado di adeguarsi rapidamente alla rigorosa regolamentazione comunitaria, ma necessiti di tempi lunghi per effettuare le necessarie riforme a livello di infrastrutture o di processi industriali. In queste circostanze, l’Unione europea concede al paese un cosiddetto “regime transitorio”, soggetto peraltro a condizioni e tempi molto rigorosi.

Il recepimento dei singoli capitoli è stato ed è tuttora (per i negoziati ancora in corso) oggetto di periodiche revisioni da parte della Commissione europea, sintetizzate in appositi documenti informativi, accessibili al pubblico e consultabili attraverso il portale dell’Unione europea.

L’“Agenda 2000” (documento presentato a Bruxelles il 15 luglio del 1997 avente a oggetto le linee della Strategia di preadesione dei paesi dell’Europa centro orientale) prevedeva che, al fine di preparare in modo adeguato gli Stati associati all’adesione all’Unione europea, occorresse concedere la priorità al recepimento dell’acquis attraverso il rafforzamento della capacità istituzionale e amministrativa dei paesi candidati e l’adeguamento delle imprese alle norme comunitarie. A tale scopo e al fine di accelerare il processo di adesione dei nuovi Stati membri, vennero elaborati gli strumenti del “Partenariato per l’adesione” – disciplinato dal regolamento (CE) n. 622/98 del Consiglio del 16 marzo 1998 – e dei “Programmi nazionali per l’adozione dell’acquis” (NPAA nell’acronimo in lingua inglese dell’espressione National programme for the adoption of acquis communautaire). Il Partenariato per l’adesione costituisce un documento elaborato dalle istituzioni comunitarie nel quale sono individuate le diverse aree in cui si rende necessario operare affinché lo stato candidato all’adesione possa recepire integralmente l’acquis, mentre gli NPPA sono documenti elaborati dagli stessi Stati candidati (e complementari ai partenariati) nei quali essi indicano le misure che intendono adottare e i tempi necessari per la realizzazione di tali misure. Il programma di recepimento dell’acquis è definito dalla Commissione europea in una relazione di partenariato con ciascuno dei paesi candidati.

L’Unione europea, con particolare riferimento ad alcuni settori per i quali il recepimento dell’acquis appare più difficoltoso, prevede un sostegno di tipo finanziario ai paesi candidati all’adesione. A questo proposito, nell’ambito della strategia di preadesione che ha portato gli 8 paesi dell’Europa centrale e orientale, più Cipro e Malta, a fare il loro ingresso nell’Unione europea il 1° maggio 2004, sono stati predisposti specifici strumenti di assistenza finanziaria. Affinché i paesi candidati fossero in grado di conformarsi all’acquis al momento dell’adesione, si sono resi infatti necessari ingenti investimenti nell’adeguamento delle loro norme, in particolare quelle industriali e ambientali.

Gli strumenti finanziari di preadesione sino al 2007 sono stati essenzialmente tre: il Programma di aiuto comunitario ai paesi dell’Europa centrale e orientale (Poland, Hungary aid for the reconstruction of the economy, PHARE), Instrument for structural policies for pre-accession (ISPA) e Special accession program for agriculture and rural development (SAPARD). Il programma PHARE è stato creato nel 1989 per sostenere il processo di riforme e la transizione economica e politica di due particolari paesi, la Polonia e l’Ungheria. Successivamente, è diventato uno dei principali strumenti finanziari della strategia di preadesione; attraverso aiuti non rimborsabili persegue due finalità: aiutare le amministrazioni e le strutture giudiziarie dei paesi candidati a dotarsi delle capacità necessarie per attuare l’acquis (il cosiddetto institutional building) e favorire attraverso investimenti mirati lo sviluppo di industrie e infrastrutture, concentrando gli sforzi soprattutto in settori come l’ambiente, i trasporti, l’industria, la qualità dei prodotti, le condizioni di lavoro, nei quali le norme comunitarie sono particolarmente rigorose. Sino alla sua sostituzione, PHARE è stato la principale fonte di intervento a sostegno dei paesi candidati nel recepimento dell’acquis. Il secondo strumento strutturale di preadesione, l’ISPA, a partire dal 2000 ha riguardato il finanziamento di investimenti per infrastrutture nei settori dell’ambiente e dei trasporti. SAPARD, infine, è stato lo strumento di sostegno alla preadesione nel settore agricolo (anch’esso, come l’ISPA, dal 2000), erogando aiuti economici a favore di settori agricoli fondamentali tra i quali il miglioramento delle strutture di trasformazione, e il controllo della qualità dei prodotti alimentari.

A partire dal periodo 2007-2013 i predetti strumenti finanziari di preadesione sono stati sostituiti da un unico strumento di assistenza alla preadesione, l’Instrument of pre-accession assistance (IPA), istituito dal regolamento (CE) n. 1085/2006 del Consiglio del 17 luglio 2006 – integrato dal regolamento (CE) n. 718/2007 del 12 giugno 2007. L’IPA è costituito da cinque parti: aiuto alla transizione e rafforzamento delle istituzioni, cooperazione transfrontaliera, sviluppo regionale, sviluppo delle risorse umane e sviluppo rurale. Le prime tre parti riguardano i paesi candidati e i candidati potenziali. Invece le ultime tre parti concernono esclusivamente i paesi candidati allo scopo di prepararli ad approvare e a realizzare la Politica di coesione nonché a gestire i fondi strutturali.

Sempre per facilitare il recepimento dell’acquis, a partire dal 1996 è stato istituito il Technical assistance information exchange office (TAIEX). Tale programma di assistenza tecnica e di scambio di informazioni è uno strumento di sostegno alle istituzioni per missioni a breve termine nel settore dell’adozione e dell’attuazione dell’acquis. L’assistenza del programma TAIEX è destinata ai paesi candidati, ai paesi aderenti nel quadro della strategia di preadesione e di screening, ai dieci nuovi Stati membri, nonché ai paesi dei Balcani occidentali. TAIEX riceve le domande di assistenza provenienti tanto dalle autorità pubbliche quanto dal settore privato e facilita la messa in contatto dei richiedenti e degli Stati membri interessati. Il programma si giova dell’apporto di esperti distaccati e organizza peer reviews, visite di studio o di valutazione, seminari, incontri di lavoro e di formazione. Esso fornisce del pari un’assistenza alla traduzione delle legislazioni e delle basi di dati di esperti e fornisce informazioni sul ravvicinamento delle varie normative (v. anche Ravvicinamento delle legislazioni). Da segnalare in tale contesto anche i progetti Twinning e l’iniziativa SIGMA.

Raffaele Torino (2009)




RECHAR

Programma per la riconversione economica di zone carbonifere (RECHAR)




Reginald Maudling




Regioni ultraperiferiche dell’Unione europea

Le regioni ultraperiferiche (RUP) si trovano in una situazione unica in seno all’Unione europea (UE), di cui, contrariamente ai “paesi e territori d’oltremare” (PTOM; art. 299, paragrafo 3 del Trattato istitutivo delle Comunità europee, CE) (v. Trattati di Roma), sono parte integrante. Il loro statuto è disciplinato dall’art. 299, paragrafo 2 CE, articolo inserito in seguito al Trattato di Amsterdam del 1997; le disposizioni di questo articolo sono state riprese nel Trattato di Lisbona del 2007 (attualmente in attesa di ratifica).

Rientrano tra le RUP i quattro dipartimenti francesi d’oltremare (DOM): Guadalupa (arcipelago di otto isole, nelle Piccole Antille), Guyana (regione continentale dell’America meridionale che costituisce una enclave nella foresta amazzonica tra il Suriname, il Brasile e l’Atlantico), Martinica (isola delle Piccole Antille), Riunione (isola dell’Oceano Indiano facente parte dell’arcipelago delle Mascarene); le regioni autonome portoghesi delle Azzorre (arcipelago di nove isole) e di Madera (arcipelago di due isole), che si trovano nell’Oceano Atlantico; la Comunità autonoma spagnola delle isole Canarie (arcipelago di sette isole nell’Oceano Atlantico). L’isola di Mayotte, PTOM francese nell’Oceano Indiano, potrebbe ulteriormente accedere allo statuto di RUP, conformemente alle condizioni previste dal Trattato di Lisbona.

Le attuali RUP contano una popolazione di circa 3,8 milioni di abitanti, poco più dello 0,8% della popolazione dell’UE. La loro superficie è di circa 100.000 km², cioè un po’ più del 2,5% della superficie dell’Unione. Questa cifra si riduce a circa 16.000 km² (0,4%) se si esclude la Guyana.

Il concetto di ultraperiferia è emerso recentemente. Fino alla seconda metà degli anni Ottanta, sarebbe stato difficile spiegarne il senso preciso. Fu nel 1986 che la Commissione europea, allora presieduta da Jacques Delors, identificò la problematica comune di queste regioni, creando una struttura (“gruppo interservizi”) incaricata di promuovere il coordinamento dell’applicazione delle politiche comunitarie nei loro confronti. Le RUP sono infatti caratterizzate da specificità che sono loro comuni e che le differenziano dalle altre regioni dell’Unione: essenzialmente, la loro grande lontananza dal continente europeo, che condiziona tutta la loro vita economica e sociale, insieme ad altri fattori quali l’insularità, il rilievo e il clima tropicale o subtropicale, la dipendenza economica da un piccolo gruppo di prodotti. Ma ci sono altri due elementi comuni. Da un lato, le particolarità di queste regioni sono state storicamente riconosciute a livello nazionale. Dall’altro, le RUP hanno fatto la scelta politica dell’Europa.

Va pure ricordato ciò che queste regioni rappresentano per l’Unione: un ruolo di “teste di ponte” dell’Europa per lo sviluppo delle relazioni con i paesi loro vicini, dei siti privilegiati per alcune attività di alta tecnologia e ricerca (si pensi al ruolo della Guyana per l’attività spaziale), un territorio marittimo estesissimo, prodotti tropicali.

Il Diritto comunitario si applica, beninteso, alle RUP. Ma l’art. 299, paragrafo 2 CE consente l’adozione da parte del Consiglio dei ministri di misure specifiche allo scopo di fissare le condizioni d’applicazione del Trattato (v. anche Trattati) e delle politiche comunitarie in queste regioni. Queste misure possono essere prese a Maggioranza qualificata. I principali campi in cui possono intervenire (le politiche doganale e commerciale, la politica fiscale, l’agricoltura e la pesca, gli aiuti di Stato, ecc.) sono menzionati a titolo non limitativo. L’art. 299, paragrafo 2 CE precisa, inoltre, che queste misure specifiche dovranno, da un lato, prendere in considerazione i vincoli particolari delle regioni ultraperiferiche e, dall’altro, non nuocere all’integrità e alla coerenza del sistema giuridico comunitario. Bisogna quindi trovare un equilibrio tra il riconoscimento delle specificità legittime delle regioni ultraperiferiche e la salvaguardia dell’interesse comune dell’Unione.

L’azione condotta dalla Comunità per queste regioni, dalla seconda metà degli anni Ottanta, quindi già prima del Trattato di Amsterdam, ha, peraltro, sempre rispettato questo equilibrio. Lo si può già constatare dai programmi Specific options programme: overseas departments (POSEIDOM) del 1989, relativo ai domini d’oltremare (DOM) Specific options programme: Madeira (POSEIMA) e Programme of options specific to the remote and insular nature of the Canary Islands (POSEICAN, del 1991), questi ultimi relativi rispettivamente a Madera, alle Azzorre e alle isole Canarie, che hanno a lungo costituito il filo conduttore della politica comunitaria in questo campo (v. anche Programmi comunitari). La Comunità economica europea è intervenuta con due tipi di strumenti. Da un lato, con interventi massicci e mirati dei fondi strutturali, che hanno contribuito sensibilmente a rompere l’isolamento di queste regioni promuovendone le comunicazioni, ma che hanno anche perseguito l’obiettivo di stimolare altre attività, come la cooperazione con i paesi della stessa zona geografica. Dall’altro, con modulazioni nell’applicazione di alcune politiche comuni – agricoltura, pesca, dogane, fisco, controllo degli aiuti di Stato, ma anche nuove tecnologie e ricerca, ecc. – allo scopo di renderle più adeguate alle realtà locali.

Va sottolineato che le iniziative a favore dell’ultraperiferia vengono preparate nel quadro di una partnership tra la Commissione, le RUP e i loro Stati. Il fatto di dare la parola, accanto ai rappresentanti della Commissione e delle autorità centrali, ai rappresentanti di queste regioni, su temi cruciali per il loro avvenire, è particolarmente significativo e innovativo. La Conferenza dei presidenti delle regioni ultraperiferiche si riunisce regolarmente, in presenza dei ministri responsabili dei tre Stati membri interessati e del membro competente della Commissione. Certo, esistono differenze tanto d’ordine istituzionale (diversamente dai dipartimenti d’oltremare francesi, le RUP spagnole e portoghesi godono di una larga autonomia, di un governo locale, di un potere legislativo) quanto di ordine culturale (le RUP di Spagna e Portogallo non sono considerate, in questi Stati, regioni “d’oltremare”, termine quest’ultimo riservato alle ex colonie, in particolare africane). Ma queste differenze non impediscono un senso di appartenenza a una stessa famiglia. Ci si può d’altronde chiedere se esso non abbia contribuito a certe rivendicazioni istituzionali dei DOM nei confronti delle loro autorità nazionali.

Giuseppe Ciavarini Azzi (2010)




Regno Unito

Introduzione

Negli ultimi sessant’anni, la relazione del Regno Unito con i vicini europei è stata fonte di grande controversia politica. In molti hanno contribuito significativamente al vortice di idee e all’evoluzione della politica relativa sia alla direzione futura dell’integrazione europea che al ruolo specifico della Gran Bretagna. Prima dello scoppio della guerra nel 1939, il Federalismo, e in particolare il federalismo europeo, poteva considerarsi una causa popolare. Tra i suoi sostenitori vi furono membri dell’élite politica che nel dopoguerra avrebbero ricoperto cariche importanti. Un esempio calzante è Clement Attlee, primo ministro dal 1945 al 1951. Fu lui nel dicembre del 1939 a scrivere «o l’Europa si unisce in una confederazione o muore». Tuttavia, qui soffermeremo l’attenzione soprattutto sulle posizioni ufficiali, ossia governative, riguardo all’Europa, alla Comunità europea/Unione europea e al concetto di integrazione (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

L’integrazione europea in quanto processo politico continuo è essenzialmente un fenomeno politico del dopoguerra. La posizione britannica a tal riguardo nonché la sua partecipazione all’integrazione, ha subito varie e distinte fasi. Negli anni compresi tra il 1945 e il 1957 il paese fu impegnato in idee, discussioni e progetti riguardanti il futuro del continente, ma rispetto a quanto accadde nei suoi vicini europei più prossimi, la questione rivestì minore importanza. La decisione di non aderire alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) indicò all’epoca un chiaro dissenso. A partire dal 1957, con la nascita della Comunità economica europea e della Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom), apparve evidente che tale dissenso equivaleva a qualcosa di molto più significativo, vale a dire una vera e propria separazione di percorso.

La seconda fase fu in effetti dominata dai tentativi di evitare o per lo meno di colmare quella separazione, che portò infine all’inizio del 1973 all’adesione alle Comunità. In realtà, tale fase non si concluse veramente fino al 1975, ovvero dopo ciò che eufemisticamente venne definita la “rinegoziazione delle condizioni di adesione” e il Regno Unito indisse il primo referendum con il quale venne bocciata la possibilità di un ritiro e confermata quindi l’adesione. La lunga terza fase dal 1975 al 1997 vide il Regno Unito affermarsi come “europeo riluttante”, membro a pieno titolo della Comunità/Unione ma che fin troppo spesso si mostrò contrario, nella teoria come nella pratica, o almeno tale si dichiarò, a un’ulteriore integrazione. L’attuale quarta fase si inaugurò con il crollo del blocco sovietico alla fine degli anni Ottanta e fu segnata sia dall’evoluzione della Comunità europea in Unione europea che da un considerevole aumento del numero di membri. Si può affermare in definitiva che il Regno Unito, con l’elezione di un governo dichiaratamente europeista nella veste di “nuovo” laburismo, abbia normalizzato le sue relazioni con un’Unione europea fortemente allargata.

Sotto ogni profilo, il Regno Unito sarà sempre un importante attore economico e politico negli sviluppi istituzionali europei. Il percorso delle relazioni britanniche con altri Stati membri della Comunità/Unione non è mai stato facile o orientato verso un’unica direzione. Anche durante la lunga terza fase di “riluttanza” sono giunti contributi significativi all’integrazione da vari governi britannici e da singole persone. La configurazione attuale dell’Unione sarebbe stata molto diversa senza il Regno Unito.

Il secondo dopoguerra

Il Regno Unito riemerse dai traumi delle dittature europee e della guerra in modo molto diverso dai suoi vicini. Al suo interno le istituzioni democratiche non erano state seriamente minacciate. Diversamente dalla maggior parte degli altri paesi europei, poteva ritenere che il suo Stato nazione fosse stato difeso molto bene. Non aveva subito sconfitte e/o occupazioni da parte di forze esterne, destino invece di quasi tutti gli altri paesi europei nel periodo tra il 1939 e il 1945. Non era sorta la necessità di movimenti “di resistenza” che avevano caratterizzato molti paesi continentali e all’interno dei quali si erano sviluppate molte idee su come ricostruire l’Europa (v. Resistenza). In quei paesi l’esperienza bellica convertì una generazione di leader politici alla necessità dell’unificazione europea. Proprio perché l’esperienza britannica della guerra fu differente, anche il suo impatto produsse risultati differenti. Il movimento federalista, una forza significativa presente sulla scena politica britannica prima del 1939, si era in gran parte disgregato, ovviamente a livello popolare, con lo scoppio della guerra. Quando Clement Attlee, un federalista del periodo prebellico, divenne primo ministro, la futura organizzazione dell’Europa non era in cima alla lista delle sue priorità. E fu così per molti altri che avevano precedentemente sostenuto il movimento Federal union.

In apparenza, l’economia britannica aveva sofferto molto meno di quella di altri importanti paesi continentali. Sul fronte politico, il Regno Unito era il principale partner d’oltremare degli Stati Uniti. Sebbene fossero già chiari gli squilibri in tale relazione, il ruolo di “glorioso” numero due nell’alleanza transatlantica sembrò per molti più allettante di una stretta integrazione con un continente distrutto economicamente, in cui incombevano molti interrogativi anche sulla stabilità politica di alcuni dei principali paesi. La trasformazione dell’ex Impero britannico nel Commonwealth collegò il Regno Unito a vasti mercati d’oltremare e sembrò anche offrire una strada per conservare un’influenza politica internazionale.

Nel 1945, l’elezione a schiacciante maggioranza di un governo laburista non fu di per sé un fattore che necessariamente deponesse a sfavore di più strette relazioni con il continente. Il Partito laburista si sentiva parte di un movimento internazionale; molti dei suoi leader avevano dato un forte sostegno pubblico alle idee federaliste nel periodo precedente al 1939. Conoscevano altresì le loro controparti degli altri paesi europei, con cui mantenevano buoni rapporti. Tuttavia, vi erano altre e più immediate, se non necessariamente più importanti, priorità pratiche. Uniti per risanare l’economia britannica, compito che sarebbe spettato a qualsiasi governo, i laburisti intrapresero un imponente e ambizioso programma di riforme sociali volto a promuovere l’uguaglianza economica. Rientrava in questo programma anche una importante estensione della proprietà pubblica che si sperava avrebbe anche stimolato la rigenerazione economica. All’esterno, le principali preoccupazioni furono la trasformazione dell’Impero nel Commonwealth e la reazione alle minacce e agli allarmi posti dall’espansionismo sovietico. Il Regno Unito aveva ancora tutti gli orpelli tipici di una grande potenza mondiale con coinvolgimento militare nell’Estremo Oriente e nel Medio Oriente nonché responsabilità coloniali in Africa e in Asia. L’assegnazione di un seggio permanente al Consiglio di sicurezza dell’ONU sembrò scontata all’epoca. Sarebbe poco corretto affermare che il Regno Unito fosse indifferente alle questioni europee in generale. Il Trattato di Bruxelles che associava il Regno Unito alla Francia e al Benelux fu una chiara e storica rottura con la tradizionale politica britannica; indicò infatti un impegno storico e positivo a favore della difesa e della sicurezza europea e lo stesso dicasi dell’adesione all’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO). La Gran Bretagna fu anche il membro fondatore dell’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE), istituita per promuovere la ripresa economica dell’Europa. Dall’altra parte, il ruolo fondamentale che il paese ebbe nel contribuire alla creazione del Consiglio d’Europa richiama l’aforisma di Winston Churchill, secondo cui il Regno Unito stava “con l’Europa”, ma la natura delle istituzioni del Consiglio e il disinteresse britannico verso qualsiasi piano più ambizioso indicava che ciò non equivaleva a far parte “dell’Europa”.

La debolezza fondamentale del Consiglio d’Europa risiedeva nel fatto che malgrado le sue competenze in teoria vastissime, non aveva un potere reale. Come talking shop riuniva allo stesso tavolo gli europei. I federalisti britannici potevano incontrarsi con i loro colleghi degli altri paesi dell’Europa occidentale: la libera circolazione e lo scambio di idee furono di per sé preziosi. Tuttavia, altri paesi vollero spingersi oltre e più rapidamente del Regno Unito. Durante un dibattito teorico, se non in definitiva sterile, sulle “competenze limitate e sui poteri reali” per il Consiglio d’Europa o per un organo sostitutivo, il contributo britannico fu quasi del tutto negativo. Quando Robert Schuman promosse il suo piano, ideato da Jean Monnet, di una Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), non esisteva alcuna reale possibilità che il Regno Unito vi prendesse parte. Il governo laburista di allora rifiutò di impegnarsi in «un’impresa per riunire risorse carbonifere e siderurgiche e per istituire un’autorità, prima della possibilità di valutare pienamente il modo in cui tali vasti e importanti principi avrebbero funzionato in pratica». È interessante riportare i commenti espressi durante il dibattito parlamentare da Harold Macmillan, futuro primo ministro conservatore e promotore della prima candidatura britannica alla Comunità europea, che affermò: «non trasferiremo a nessuna autorità sovranazionale il diritto di chiudere le nostre miniere […] nessun governo potrebbe accettare di farlo».

Due fattori sottolinearono tale rifiuto. In termini di prassi e consuetudini istituzionali, l’attaccamento britannico al pragmatismo implicava un accordo dettagliato quale condizione per l’accettazione di qualsiasi principio o scopo più ampio. Ciò era in netto contrasto con il metodo emergente della Comunità di concordare i principi e gli scopi come strumento per risolvere qualsiasi problema pratico. Più specificamente, il governo laburista aveva nazionalizzato l’industria carbonifera e stava facendo lo stesso anche con l’industria siderurgica. Era semplicemente inaccettabile che tali industrie venissero ora cedute a un’autorità sovranazionale su cui il governo britannico non avrebbe avuto alcun controllo. Per alcuni versi ciò preannunciò alcune delle future controversie riguardo all’impatto dell’integrazione sulla sovranità nazionale britannica. Tuttavia, all’epoca venne invocato raramente il concetto di sovranità nazionale. Forse è importante osservare che il governo britannico non considerava necessariamente il rifiuto di aderire alla CECA come un “chiudere la porta” alla cooperazione o al partenariato. Tre anni dopo la firma del Trattato di Parigi, il Regno Unito aderì al vago accordo di associazione con la CECA.

Occorre sottolineare che Jean Monnet, uno dei padri della Comunità e dell’integrazione europea, fu sempre convinto che la Gran Bretagna potesse e dovesse aderire alla Comunità e che alla fine lo avrebbe fatto anche se non necessariamente da subito. Egli diagnosticò con precisione che i britannici erano più bravi a capire i fatti pratici piuttosto che le idee. I Sei dovevano costruire l’Europa, poi la Gran Bretagna avrebbe capito e vi avrebbe aderito. E i fatti alla fine gli avrebbero dato ragione.

Il groviglio della difesa

Il percorso dell’integrazione europea è sempre stato influenzato, se non plasmato, dagli eventi mondiali. Lo scoppio della guerra di Corea e la richiesta americana di un maggiore contributo europeo alla sua stessa difesa fece puntare i riflettori sulla questione del riarmo tedesco. La risposta fu la proposta di una Comunità europea di difesa (CED) con gli stessi membri di quelli della CECA e con un contributo tedesco alla difesa europea senza un esercito tedesco indipendente. Anche in questa occasione non venne preso in considerazione il coinvolgimento britannico in una struttura sovranazionale. Tuttavia, fu il governo britannico a prendere l’iniziativa diplomatica dopo che l’Assemblea nazionale francese respinse il progetto di trattato. Il Regno Unito si assunse diversi impegni per rassicurare i francesi, garantendo soprattutto che il suo esercito sarebbe rimasto nel continente. L’Unione dell’Europa occidentale assicurò che il riarmo tedesco sarebbe avvenuto a livello puramente nazionale; la fiducia britannica nei vantaggi della cooperazione europea rispetto all’integrazione sembrò ripagata. La realtà fu diversa: le basi per un riavvicinamento franco-tedesco erano state assicurate e i Sei avevano ricevuto chiari indizi che l’integrazione poteva, doveva e sarebbe proseguita senza, per il momento, alcun coinvolgimento del Regno Unito.

La crisi di Suez del 1956 e i tentativi falliti da parte del Regno Unito e della Francia di riaffermare il dominio sul Medio Oriente costituirono un altro fattore chiave nello sviluppo della Comunità europea. Un fattore determinante del fallimento fu l’atteggiamento degli Stati Uniti. La Francia imparò a non fidarsi dell’impegno americano nella difesa degli interessi europei. La risposta fu un chiaro coinvolgimento nell’integrazione e per molti anche una visione federale dell’Europa. Il Regno Unito fece una valutazione piuttosto diversa della crisi di Suez e del suo epilogo. Non avrebbe mai più intrapreso un’azione militare su base unilaterale senza previa approvazione degli Stati Uniti – il fondamento della politica estera britannica sarebbe stato il legame atlantico e non l’integrazione europea.

Il Regno Unito presenziò ai lavori iniziali della Commissione Spaak (v. Spaak, Paul Henri-Charles) che portarono alla Comunità economica (Mercato comune), sebbene la rappresentanza fosse più a livello di funzionari che ministeriale. Rimane ancora poco chiaro se il governo britannico considerasse tale rappresentanza come da partecipante o da osservatore. Il funzionario in questione, Michael Bretherton, era un vecchio sostenitore dell’idea europea e diede un contributo positivo prima di essere richiamato dal governo di Londra. Gli elementi sovranazionali, molto più deboli di quelli presenti nella CECA, erano ancora inaccettabili. L’ostacolo principale fu la proposta di una Tariffa esterna comune, poiché, anche se si sarebbero potute negoziare esenzioni per molti prodotti del Commonwealth, si ritenne che ciò avrebbe influito negativamente sui flussi commerciali. Il principale errore di valutazione da parte britannica fu ancora una volta di fare la stessa supposizione che era stata alla base della politica al momento della creazione della CECA: volenti o nolenti, i Sei non sarebbero mai stati capaci di concordare le basi per un Mercato comune. Il loro successo non solo determinò la separazione delle strade percorse dai Sei e dal Regno Unito, ma indebolì anche le basi della politica britannica riguardo al continente.

La prima reazione britannica fu proporre un’area di libero scambio nell’ambito dell’OECE in cui la CEE fosse in realtà un unico membro. Il libero scambio si sarebbe limitato ai prodotti industriali, non ci sarebbero state nessuna politica agricola e nessuna tariffa esterna comune all’interno dell’intera zona. Fu il governo francese di Charles de Gaulle a dire formalmente “no”, ma è improbabile che tale proposta avrebbe avuto un seguito. Sembrava offrire alla Gran Bretagna e ad altri non membri molti dei vantaggi economici della CEE senza alcun impegno politico. La reazione immediata della Gran Bretagna a questo fallimento fu unirsi alla Svezia nel promuovere un gruppo alternativo composto da sette paesi: la cosiddetta Associazione europea di libero scambio (EFTA) organizzata su linee simili a quelle proposte per l’area di libero scambio. In teoria, ciò avrebbe potuto esercitare pressioni sulla CEE per un accordo su scala OECE simile a quello dell’area di libero scambio. Tuttavia, come manovra tattica non poteva funzionare. Quasi per definizione l’EFTA non aveva una tariffa esterna comune. Oltre alla Gran Bretagna, il mercato più importante tra i sette era la Svezia, un paese dalle tariffe basse. I Sei risposero inevitabilmente rifiutando il negoziato multilaterale proposto.

Questi anni segnarono il punto più basso della politica europea britannica. La CEE era stata istituita contro ogni aspettativa britannica e a breve si sarebbe avviato il Mercato comune. I suoi membri interpretarono entrambe le iniziative britanniche come due variazioni sullo stesso tema: destinate a ottenere vantaggi economici senza assumere impegni politici a favore dell’integrazione e dell’Europa. Il governo britannico si trovava ora di fronte a un vero e proprio dilemma. Non desiderava ancora far parte di una Comunità sovranazionale che mirasse a una qualche forma di unione politica e forse in ultimo a un’Europa federale, ma si rendeva anche conto che un’esclusione da tale unione, qualora si fosse realizzata, avrebbe indebolito sia le sue prospettive economiche che il suo ruolo di protagonista politico in Europa. Difficilmente non si sarebbe incrinata la fondamentale relazione transatlantica avente il Regno Unito come principale alleato degli Stati Uniti se e quando la CEE senza la Gran Bretagna fosse diventata la potenza economica dominante in Europa. L’unica alternativa era perseguire l’adesione alle migliori condizioni possibili.

Adesione alla Comunità

La prima candidatura del Regno Unito alla Comunità venne presentata nel luglio del 1961; il “veto” di de Gaulle mise fine ai lunghi negoziati nel gennaio 1963. Da una parte il Regno Unito non sembrò aver capito le questioni di principio inerenti all’adesione alla Comunità e alla partecipazione al processo di integrazione. L’attenzione invece si concentrò su un insieme di problemi commerciali, in particolare quelli che riguardavano il Commonwealth. In realtà ciò fece sì che quello che avrebbe dovuto essere un negoziato sulla struttura futura dell’Europa si trasformasse in una discussione su un’enorme quantità di questioni commerciali. Ci furono discussioni sugli accordi specifici per il burro neozelandese, per il tè indiano e per una serie di prodotti quali il piombo e lo zinco. Il capo negoziatore britannico, Edward Heath, si dimostrò un maestro del dettaglio, ma il quadro generale in qualche modo latitava: in nessun momento i negoziati si concentrarono sull’importante domanda riguardo al futuro dell’Europa, anche se Heath stesso era fortemente europeista e dieci anni dopo da primo ministro sarebbe stato il responsabile dell’adesione britannica alla Comunità. All’epoca dei primi negoziati il primo ministro era Macmillan. Dieci anni prima si era opposto all’adesione britannica alla Comunità sovranazionale del carbone e dell’acciaio pur capendo allo stesso tempo che l’iniziativa di Schuman era ispirata da considerazioni politiche, «non una concezione dalla sostanza puramente economica o industriale» bensì «un grande progetto per una nuova Europa».

Esistono tuttora spiegazioni contrastanti riguardo alle precise motivazioni che spinsero de Gaulle e il governo francese a mettere fine in modo unilaterale ai negoziati. Per alcuni a Parigi il dado non fu tratto realmente finché il Regno Unito non istituì un accordo con gli Stati Uniti riguardo al cosiddetto deterrente nucleare indipendente. Per altri, la posizione politica di de Gaulle in Francia era troppo debole fino all’estate del 1962 per poter semplicemente dire di “no”. In entrambi i casi, la tattica britannica era fallita ancora una volta. Dall’estate del 1962 si sarebbe potuto chiudere un accordo, ma ciò fu impossibile per le eccessive minuzie dei negoziati e degli accordi predisposti per facilitare l’adesione britannica. A partire dal gennaio del 1963, la posizione politica di de Gaulle si era notevolmente rafforzata. Quali che siano i dettagli di questa analisi la verità è che il presidente francese aveva ambizioni molto simili a quelle di molti membri del governo britannico: essere alla guida della comunità. Ma non c’era abbastanza posto per due aspiranti leader.

Considerato che esattamente dieci anni dopo la Gran Bretagna divenne membro a pieno titolo della Comunità, è alquanto facile liquidare il veto di de Gaulle come una mera battuta d’arresto momentanea, che ritardava l’inevitabile. Tuttavia, ciò determinò altri dieci anni di dubbi, esitazioni e di atteggiamenti politici nel Regno Unito. In quegli stessi anni si assistette a grandi cambiamenti nella CE. Il processo di adattamento britannico sarebbe stato molto più difficile; e ciò avrebbe ulteriormente alimentato discussioni antieuropeiste e a lungo termine avrebbe tramandato un’eredità funesta alla successiva generazione di leader politici.

Nel breve termine, Harold Wilson divenne primo ministro quando i laburisti vinsero le elezioni del 1964. Era stato un vago sostenitore dell’Unione federale prima della guerra ma aveva espresso una posizione antieuropeista durante le controversie interne che avevano tormentato il partito laburista negli anni Cinquanta e all’inizio degli anni Sessanta. L’esperienza pratica portò a un’altra conversione. Wilson come i precedenti leader sperò di basare la politica estera britannica e l’influenza internazionale sull’alleanza transatlantica e sulla forza del Commonwealth. La prima venne indebolita dal crescente coinvolgimento americano in Vietnam e dall’evidente calo d’interesse verso il mondo atlantico. Inoltre gli Stati Uniti spinsero per una fine delle divisioni in Europa occidentale e sostennero ampiamente gli ulteriori tentativi del Regno Unito di aderire alla CE. Nel frattempo le riunioni dei leader del Commonwealth furono per lo più dominate dalle critiche sul fallimento della Gran Bretagna nella risoluzione del problema della Rhodesia.

Wilson non aveva una posizione rigida riguardo ai problemi economici che potevano sorgere con l’adesione. Tuttavia, la motivazione principale della seconda candidatura alla CE fu politica: l’influenza britannica in Europa e l’influenza europea nel mondo. È interessante notare come più di trenta anni dopo e in circostanze internazionali molto diverse, un altro primo ministro laburista, Tony Blair, avrebbe espresso le stesse identiche considerazioni per consolidare la politica britannica all’interno di ciò che era diventata l’Unione europea. Negli anni Sessanta, sebbene alcuni membri del governo Wilson sostenessero idee federali, l’evoluzione futura della CE venne scarsamente dibattuta. Da parte loro, le critiche, ben presenti nel governo, si concentrarono sugli svantaggi economici; ancora non si parlava molto di questioni legate alla sovranità nazionale. Grazie all’ampio sostegno del Partito conservatore e di quello liberale all’iniziativa di Wilson, un raro momento di armonia sulle questioni europee, il voto in Parlamento fu nettamente a favore. Il problema principale fu che non esistevano prove che de Gaulle avesse cambiato idea sull’adesione britannica; si assistette infatti al secondo veto posto con la stessa durezza del primo.

Discussioni sul modo possibile per eludere l’opposizione francese, compresa un’iniziativa britannica, diretta da George Brown che era stato segretario agli Affari esteri, per una Comunità politica europea (v. Cooperazione politica europea), fu interrotta improvvisamente dalle dimissioni di de Gaulle nel 1969. L’ampio accordo tra i principali partiti politici britannici, o a ogni modo tra i loro leader, fu di particolare importanza in quella fase. I funzionari prepararono delle direttive per l’apertura di un nuovo round di negoziati con la CE: nel 1970 il passaggio da un governo laburista a uno conservatore non fece alcuna differenza. Toccò a Edward Heath, fervido europeista ma disinteressato al federalismo, “portare la Gran Bretagna in Europa”.

La sostanza dei negoziati per l’adesione britannica differì per due aspetti principali da quelli condotti nel decennio precedente. Questi furono ampiamente incentrati su un esiguo numero di prodotti, in particolare sullo zucchero, sul burro, sul pesce e sui regolamenti finanziari CE. Per molti versi l’ultima questione rappresentò lo sviluppo interno più importante per la Comunità negli anni precedenti all’adesione britannica. Non sorprende affatto che nell’elaborazione delle regole di bilancio, i Sei non avessero affatto considerato il loro probabile impatto sul Regno Unito, che all’epoca non era ancora membro. In effetti, il negoziato di adesione non risolse le possibili difficoltà britanniche né tanto meno gli altri problemi specifici. La seconda importante differenza tra i due round di negoziati è che Heath adottò il “metodo comunitario” di concordare l’obiettivo, ovvero una CE allargata, e relegare la soluzione dei problemi a “cose fatte”. È interessante fare un confronto tra questi negoziati e quelli di dieci anni prima. Allora accadde che furono i negoziatori britannici a essere colti di sorpresa dall’intervento di de Gaulle e dal suo veto. Nel 1972 la delegazione francese tergiversò e apparve ugualmente sorpresa da ciò che in effetti fu una direttiva del presidente Georges Pompidou di raggiungere l’accordo. Si giunse a questo grazie all’intesa tra Heath e Pompidou, che assicurò l’ingresso britannico, ma non contribuì a risolvere nessuno dei problemi concreti.

E i problemi emersero ben presto, sebbene la soluzione iniziale fosse abbastanza strana. Il Regno Unito aderì alla CE il 1° gennaio 1973 e poco più di un anno dopo ci fu un ulteriore cambio di governo con i laburisti di nuovo al potere. Durante gli anni intercorsi all’opposizione, all’interno del Partito laburista erano riemerse profonde divisioni sulla questione europea. Un considerevole gruppo di parlamentari laburisti votò con il governo conservatore per assicurare l’approvazione in parlamento del progetto di legge che consentiva l’ingresso britannico. Tuttavia, il baricentro all’interno del partito si era spostato verso gli antieuropeisti. Da sempre sommo stratega, Wilson, adottò due tattiche, nessuna delle quali di sua ideazione. La prima fu concentrarsi sulle condizioni piuttosto che sul principio dell’adesione. Il nuovo governo laburista perseguì una rinegoziazione di tali condizioni; il risultato sarebbe stato sottoposto a referendum. Come procedura puramente politica, funzionò. In pratica la “rinegoziazione” non cambiò nulla e le “condizioni di adesione” rimasero sostanzialmente le stesse, e così pure i problemi potenziali. Indire un referendum dopo l’adesione, invece che prima, significò che coloro che vi si opponevano avrebbero cercato di cambiare lo status quo e quindi di sfidare l’innato conservatorismo degli elettori. Inoltre, tutti i principali leader politici erano dalla stessa parte. Non sorprende che il referendum fosse vinto con facilità e la partecipazione britannica alla Comunità venne confermata a livello popolare, sebbene in qualche misura con una sorta di gioco di destrezza.

L’europeo riluttante

Con il senno di poi, il modo in cui il Regno Unito aderì alla Comunità e la tempistica avrebbero creato problemi per il futuro. Diversamente dai sei membri originari, nel Regno Unito non ci fu mai una grande adesione popolare all’unificazione europea come un obiettivo auspicabile in sé, un modo per assicurare la stabilità e la prosperità dell’intero continente, per garantire una maggiore influenza dell’Europa negli affari internazionali e per contribuire con l’esempio a creare un assetto mondiale migliore. Sebbene alcuni leader politici britannici apprezzassero tali considerazioni e fossero disposti ad abbracciare idee federali, si trattava di una minoranza. Non venne fatto alcuno sforzo consapevole per “vendere” l’Europa su tale base. L’adesione venne presentata come una necessità e non anche qualcosa di assolutamente auspicabile. Avrebbe creato più problemi rimanere fuori dalla Comunità, quindi “meglio dentro che fuori”. A partire dal momento in cui il Regno Unito aderì all’inizio del 1973 fino alla vittoria del “nuovo” laburismo nel 1997, l’unico primo ministro che mostrò un trasporto verso la causa europea fu Edward Heath, che rimase in carica soltanto per un anno. Harold Wilson attraversò una conversione intellettuale e confermò l’operato di Heath garantendo il proseguimento dell’adesione attraverso il referendum. Tuttavia, a un anno dal referendum, si ritirò dalla carica di primo ministro. Il successore, James Callaghan non fu mai un sostenitore della “causa europea”, ma rese comunque un importante, seppur indiretto e forse involontario, contributo.

Le divisioni nel Partito laburista in merito alla questione europea c’erano sempre state; dopo il 1976, l’equilibrio di potere si era spostato gradualmente verso gli antieuropeisti. È probabile che il motivo principale che spinse Callaghan a inviare a Bruxelles l’eminente europeista Roy Jenkins come uno dei due commissari britannici, fosse di rafforzare l’unità del partito in patria. Presidente della Commissione europea dal 1977 al 1981, Jenkins aveva il vantaggio di essere il politico nazionale di maggior peso ad aver mai rivestito quella carica e in quanto tale poteva ambire a trattare quasi alla pari con il presidente francese Valéry Giscard d’Estaing, e con il cancelliere tedesco Helmut Schmidt. Il suo principale successo fu introdurre il concetto di Unione economica e monetaria e nello specifico istituire il Sistema monetario europeo. Lo SME, concepito soprattutto come strumento per proteggere le economie europee dalle fluttuazioni dei tassi di cambio, rappresentò chiaramente un rafforzamento dell’integrazione senza essere necessariamente definito come tale. Venne richiesta l’adesione di tutti gli Stati membri, sebbene la partecipazione al meccanismo di cambio a esso associata fosse facoltativa.

Due mesi dopo l’entrata in vigore dello SME, Margaret Thatcher divenne primo ministro, carica che avrebbe rivestito fino quasi alla fine del 1990. C’erano stati momenti negli anni Sessanta in cui il clima antagonistico della politica britannica si era disteso al punto da consentire a entrambi i maggiori partiti, o in ogni caso alle loro leadership, di sostenere un ruolo positivo del paese in Europa. Per gran parte degli anni Ottanta si assistette a un netto contrasto tra i due partiti maggiori, quello conservatore in carica e quello laburista all’opposizione, che apparvero in competizione riguardo all’avventura europea. Fu durante il mandato della Thatcher che si diffuse il termine “euroscettico” per definire in modo piuttosto fuorviante coloro che volevano far regredire la corrente dell’integrazione europea cercando di rinazionalizzare i poteri conferiti alle istituzioni comuni (v. Euroscetticismo). Alcuni dei cosiddetti “euroscettici” immaginavano che la Gran Bretagna ritirasse la sua adesione e negoziasse qualcosa di simile all’area di libero scambio proposta in precedenza alla fine degli anni Cinquanta e rifiutata dalla Comunità.

Il concetto di sovranità nazionale iniziò a essere invocato in molti dibattiti sull’Europa. Va ricordato in questo contesto che la Gran Bretagna è forse l’unico paese nel mondo democratico a non avere una costituzione scritta promulgata. La costituzione non scritta è un insieme di norme e consuetudini, ovvero statuti, interpretazioni e prassi consolidate. La sovranità risiede nel Parlamento, non appartiene al “popolo”. Nessun parlamento può vincolare i successori. Le implicazioni derivanti dall’associare tale sistema costituzionale e politico all’adesione alla CE non scatenarono grandi dibattiti negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta, quando il Regno Unito stava contemplando l’idea di aderire. Un decennio dopo, gli anti integrazionisti riportarono alla ribalta la questione utilizzandola come argomento contro gli ulteriori nuovi sviluppi europei.

Il thatcherismo affronta l’Europa

Nei primi anni di premierato della Thatcher, la percezione di iniquità del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) rappresentò la questione principale. La portata del problema era stata riconosciuta sia nel corso dei negoziati di adesione che nella cosiddetta rinegoziazione. Tuttavia, non si fece nulla al riguardo di definitivo. Nei primi cinque anni di premierato, la questione rimase una ferita aperta. La Thatcher sollevò la questione nei successivi vertici senza apparentemente ottenere alcun risultato se non quello di compiere passi avanti in merito ad altre questioni praticamente impossibili. Alla fine, il problema fu risolto al Consiglio di Fontainebleau nel giugno del 1984 in puro stile comunitario (v. Accordi di Fontainebleau). Le risorse finanziarie a disposizione della Comunità non erano più adeguate ed era necessaria l’unanimità per aumentarle. Il Regno Unito in realtà “barattò” l’aumento delle risorse e, quindi, l’estensione dell’integrazione con accordi semipermanenti per uno sconto secondo una formula stabilita dalla Commissione europea.

È fin troppo facile dimenticare che l’Accordo di Fontainebleau in realtà inaugurò un clima di relativa calma nelle relazioni britanniche con la CE nei suoi anni di “europea riluttante”. Nei tre anni successivi, il Regno Unito svolse un ruolo importante nello sviluppo del processo e del progresso dell’integrazione. Era stato affrontato il problema del bilancio e la Thatcher, grata per il sostegno europeo ai tempi della crisi delle Falkland, era relativamente a favore di un’estensione della Cooperazione politica europea. Jacques Delors presentò al primo ministro l’equivalente di una “lista della spesa” contenente nuovi sviluppi potenziali, tra cui la necessità di completare il mercato interno comunitario. Dalla prospettiva della Thatcher ciò equivaleva a una liberalizzazione del commercio. Spettò a Lord Cockfield, il nuovo commissario britannico, il compito di preparare un piano per un Mercato unico europeo. Fu in questo contesto che al Consiglio di Milano nel giugno del 1985 la Thatcher venne in realtà fuorviata. Le questioni erano tra loro collegate; la maggioranza votò per l’istituzione di una Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) che avrebbe portato all’Atto unico europeo. La Thatcher si oppose alla procedura ma acconsentì. L’Atto unico europeo le concedeva quanto da lei richiesto in merito al mercato unico, ma prevedeva considerevoli implicazioni per una serie di altre questioni europee.

Dal suo punto di vista, il ruolo costruttivo della Gran Bretagna in questi sviluppi fu quasi casuale. Il suo istintivo antieuropeismo rimaneva e la portò a scontrarsi con membri di spicco del suo gabinetto, in particolare con il ministro degli Esteri Geoffrey Howe e il cancelliere dello Scacchiere Nigel Lawson. Ci fu una crescente dissonanza tra le opinioni personali della Thatcher espresse spesso con grande veemenza e i comportamenti di fatto della Gran Bretagna. Alla fine del 1988, la Thatcher pronunciò un discorso al Collegio d’Europa di Bruges che incluse la famosa frase: «Non abbiamo smantellato lo statalismo in Gran Bretagna solo per vedercelo imporre nuovamente […] da un super-Stato europeo che esercita un nuovo dominio». Tuttavia, nel giro di un anno rispose alle pressioni interne del governo con l’impegno che il Regno Unito avrebbe aderito a tempo debito al meccanismo di cambio. Questa sorta di “solfa” diventò sempre più stridente con la Thatcher e Delors in rotta di collisione. Allo stesso tempo la Thatcher in qualche modo non si rese conto del significato pieno del rovesciamento del sistema sovietico nell’Europa dell’Est, come dimostrò il suo atteggiamento riluttante verso la Riunificazione tedesca. Tutto ciò fu il preludio alla destituzione di un primo ministro che aveva vinto tre elezioni. Tale rimozione fu in gran parte architettata dagli europeisti che, in parte come conseguenza della loro azione, sarebbero diventati a breve una specie in via d’estinzione nel loro stesso partito.

Il lascito europeo della Thatcher è stranamente paradossale. Fu una firmataria del trattato di maggiore portata nella storia della CE: l’Atto unico europeo che aprì la strada a Maastricht e alla sua evoluzione in Unione europea. Sotto il profilo intellettuale, esso conteneva l’ispirazione per tutti gli sviluppi del successivo decennio. Non si può dubitare che la Thatcher avesse letto il documento e avesse capito che cosa stava firmando. Si possono fare diverse supposizioni sul fatto che qualora fosse rimasta in carica, avrebbe cercato di dare un indirizzo diverso all’Unione europea. In realtà, nel suo intimo, la Thatcher era sempre più convinta che un maggiore coinvolgimento in Europa, fosse la direzione sbagliata per la Gran Bretagna e anche dopo le sue dimissioni forzate non smise di ribadirlo. In questo contesto, l’altra parte del suo lascito europeo riguardò specificamente il Partito conservatore, che si orientò sempre più verso un’accanita posizione antieuropeista.

Il nuovo primo ministro, John Major, venne immediatamente trascinato da questa corrente contraria. L’Atto unico europeo portò inesorabilmente al Trattato di Maastricht. Il Regno Unito svolse un ruolo costruttivo nell’elaborazione del nuovo trattato, pur restando fuori dal Capitolo sociale e dalla fase finale dell’Unione economica e monetaria (v. anche Politica sociale). Questi opt-out e l’inclusione di una nuova clausola sulla sussidiarietà (v. Principio di sussidiarietà) permisero a Major di sostenere, in modo alquanto incoerente, che il nuovo trattato stesse in qualche modo invertendo il processo di integrazione in corso. Tale affermazione inverosimile contribuì a inasprire il crescente sentimento antieuropeista all’interno del Partito conservatore, che venne ulteriormente rafforzato dal fiasco dell’adesione britannica al Meccanismo di cambio. Le condizioni e la tempistica dell’ingresso britannico furono quasi certamente mal calcolate, soprattutto perché la sterlina venne valutata a un livello troppo alto. Il Regno Unito fu costretto a ritirarsi dopo il famoso “mercoledì nero” nei mercati finanziari mondiali. Da qui, gli antieuropeisti del Partito conservatore presero sempre più il sopravvento. L’effetto complessivo del “mercoledì nero” e le spaccature e le divisioni sulla questione europea, oltre a questioni politiche prettamente interne, avrebbero contribuito nel 1997 ad assicurare la schiacciante vittoria elettorale del “nuovo” laburismo.

L’impatto del new labour

L’Europa ha avuto un notevole impatto sull’evoluzione della politica britannica. Esistono valide prove che indicano che sebbene la Comunità/Unione europea non abbia mai goduto di grande consenso popolare nel paese, l’elettorato ha spesso mostrato un realismo maggiore di quello di alcuni dei suoi leader politici. Negli anni Ottanta, l’opposizione quasi unanime del Partito laburista a praticamente tutti gli aspetti del coinvolgimento nella CE fu uno dei fattori che contribuì a renderlo praticamente ineleggibile al governo nazionale così come le speculari buffonate dell’ala antieuropeista del Partito conservatore contribuirono alla loro sconfitta alle elezioni del 1997. La crescente opposizione ideologica all’intero concetto dell’Unione e dell’integrazione produsse successivamente un effetto simile sul sostegno ai conservatori nelle elezioni del 2001 e del 2005, come successe anche alle chances elettorali dei laburisti negli anni Ottanta.

All’interno di ogni partito esiste una tensione naturale tra coloro che affermano un principio o esprimono delle opinioni a prescindere dal risultato e coloro la cui preoccupazione principale è guadagnare potere. La dicotomia è particolarmente marcata nel Regno Unito, dove il sistema elettorale promuove ciò che può definirsi una politica majoritaire a livello nazionale: due grossi partiti che competono sul modello “chi vince prende tutto”. La politica di coalizione che consente ai partiti di promuovere la loro purezza ideologica senza perdere di vista la possibilità di partecipare al governo, ha pochi precedenti a livello nazionale. Durante gli anni Ottanta il Partito laburista si emarginò a livello nazionale grazie a una politica dogmatica di sinistra. Ci fu un momento in cui in termini di sostegno popolare venne superato dal Partito liberal-democratico di centro. Fu un processo graduale quello attraverso cui il laburismo riscoprì la politica pragmatica e la sete di vittoria elettorale. A quel tempo, le posizioni in merito all’Europa dei due maggiori partiti stavano andando in direzioni opposte. È interessante notare che, nonostante la natura fortemente centralizzata del tradizionale Stato britannico, il governo locale svolse un ruolo significativo nello sviluppo del pensiero laburista. Estromessi da Westminster e da Whitehall, i laburisti poterono ripiegare sulle proprie forze in tutte le forme di governo locale. Le autorità locali e in particolare i loro leader laburisti “riscoprirono” la Comunità. In un momento in cui il governo centrale stava ponendo un limite a tutte le spese locali, le autorità locali trovarono una fonte alternativa nei fondi comunitari regionali e sociali (v. anche Fondo di coesione). Seguì quindi una sorta di allineamento naturale tra il governo locale, controllato per la maggior parte dai laburisti, e la Commissione.

A incarnare il pragmatismo sulle questioni europee fu forse Tony Blair, che divenne primo ministro nel 1997. Né il suo voto a favore nel referendum del 1975 sulla permanenza nella CE né la sua adesione al successivo umore antieuropeista del Partito laburista significarono molto in termini di principi. La sua elezione a primo ministro segnò un cambio generazionale rispetto ai precedenti governi: per Blair, l’Europa era una realtà di fatto e non un argomento astratto di discussione di principio. I governi ereditano un lascito politico, che in precedenza per gran parte era stato l’Impero/Commonwealth. Per Blair l’Europa era una parte fondamentale della sua eredità politica.

Il manifesto laburista del 1997 fu il più “europeista” nella storia del partito impegnandosi a svolgere un ruolo attivo in Europa e specificamente a firmare il Capitolo sociale e a introdurre per le elezioni al Parlamento europeo una rappresentanza proporzionale. In questo quadro generale positivo, anche la promessa di appellarsi alla sussidiarietà laddove opportuno, e la proposta di un referendum sull’adesione all’Euro potevano essere intese come passi positivi. Si presentò subito l’occasione per il governo entrante per dimostrare le proprie credenziali europee con un ruolo attivo e positivo da assumere nei negoziati in corso per il Trattato di Amsterdam, unito all’adempimento della promessa di firmare il Capitolo sociale. Per gli altri Stati membri, si trattò di una svolta. I concetti di new labour e di middle way suscitarono notevole interesse. Per la prima volta, il Regno Unito sembrò un membro a pieno titolo e paritario nello sforzo europeo e non più “l’europeo riluttante”.

Il bilancio di un decennio

La definizione di “membro a pieno titolo e alla pari” del Regno Unito, nel decennio dal 1997 al 2007, è corretta ma parziale. La politica è pur sempre l’arte del possibile e i politici affrontano pressioni contrastanti. Si può affermare che né Blair né l’intero governo avessero ciò che talvolta viene definita una “tattica” in merito all’Europa da utilizzare come spiegazione per qualche delusione futura. Dal lato positivo, l’Unione è stata consolidata con il Trattato di Amsterdam e con il Trattato di Nizza; sono stati portati avanti con successo negoziati per allargare l’UE ai paesi dell’Europa centrale e orientale (v. Allargamento), che era un obiettivo specifico della politica estera britannica; il Regno Unito ormai partecipa attivamente alla Cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale e ha assunto un ruolo leader nel tentativo di attuare l’agenda di Lisbona (v. Strategia di Lisbona). Tutto ciò rappresenta un notevole cambiamento rispetto alla posizione pre 1997. Dall’altro lato di questo bilancio, dopo dieci anni il Regno Unito sembra più lontano che mai dall’aderire all’euro e all’Unione monetaria europea; si sono verificati molti contrasti tra gli Stati membri in materia di affari esteri e più specificamente sulla guerra in Iraq; e il ruolo britannico nei tentativi compiuti finora per concordare e attuare una costituzione per l’UE non viene generalmente considerato positivo (v. Costituzione europea).

Molti commentatori dello scenario politico britannico hanno richiamato l’attenzione sulle differenze tra Tony Blair e Gordon Brown in merito alla questione dell’integrazione monetaria e dell’adesione all’euro. Un tentativo di questo genere di personalizzare un’importante questione politica può risultare fuorviante. La maggior parte dei consulenti più importanti di Blair sono sempre stati in linea di massima fortemente europeisti. Il dibattito al Tesoro tende a essere presentato in modo piuttosto diverso, e specificamente a essere associato al ciclo economico. Negli anni del nuovo laburismo, ci sono state marcate differenze tra il ciclo economico britannico e quello dei paesi appartenenti alla zona dell’euro. Sin dal ritiro della Gran Bretagna dal meccanismo di cambio, il paese ha sempre goduto di tassi di crescita economica più alti e tassi di disoccupazione inferiori a quelli dei suoi vicini europei. Gli anni al governo dei laburisti sono stati contrassegnati da una prosperità in apparenza costante accompagnata da dichiarazioni che sostenevano come il ciclo economico fosse stato sufficientemente domato ponendo fine alla precedente oscillazione tra “espansione e contrazione”. In tale contesto, gli argomenti sulla sovranità nazionale e sulla necessità implicita di mantenere la sterlina sono stati potentissimi.

Alla fine del 1997, Gordon Brown mise a punto cinque criteri o condizioni per misurare i vantaggi e gli svantaggi dell’adesione britannica all’euro. I primi quattro furono espressi con termini altamente complessi e al tempo stesso con una certa vaghezza di linguaggio; non è affatto certo che gli economisti avrebbero potuto o voluto essere d’accordo su un qualsiasi sistema di misurazione. Nello specifico questi criteri avrebbero valutato: la compatibilità del ciclo economico e delle strutture economiche (in modo da assicurare che non ci sarebbero stati problemi nell’accettare i tassi di interesse dell’euro; la flessibilità nelle procedure per affrontare qualsiasi problema; l’impatto sul decision-making da parte di imprese che stavano prendendo in considerazione investimenti a lungo termine nel Regno Unito, e infine l’impatto sulla posizione competitiva dell’industria dei servizi finanziari.

La valutazione di questi quattro criteri mirava a fornire una risposta al quinto, ultimo e fondamentale criterio, ossia se l’adesione avrebbe favorito una maggiore crescita, stabilità e un aumento costante dell’occupazione.

Nel giugno del 2003, il Tesoro produsse un Libro bianco (v. Libri bianchi) dove esponeva in dettaglio la sua valutazione dei risultati di tali test. Sebbene l’economia britannica convergesse per molti aspetti con quella dei paesi dell’area dell’euro, fu tratta la conclusione che le argomentazioni a favore dell’adesione all’euro non avevano superato i test. In effetti, ciò pose fine all’argomento per l’immediato futuro. La decisione può essere interpretata come prettamente politica, ovvero non mettere a rischio la stabilità economica per la solidarietà europea.

Questioni esterne: dal Kosovo all’Iraq

Sin dall’inizio, il governo laburista ha mostrato una chiara propensione verso la necessità di elaborare una vera politica estera e di sicurezza europea. Il comportamento dell’UE durante il lungo processo di dissoluzione di ciò che un tempo era stata la Iugoslavia era stato alquanto deludente. Il Kosovo offrì l’ultima occasione per dimostrare che l’UE e i suoi Stati membri potevano intraprendere un’azione congiunta ed efficace su una questione così fondamentalmente europea, sebbene in collaborazione con gli Stati Uniti. In questo scenario, la Dichiarazione anglo-francese di Saint-Malo, a cui si giunse nel dicembre del 1998, sembrò segnare un’importante svolta e può forse essere considerata il risultato più brillante della presidenza britannica nella seconda metà del 1998. La Dichiarazione affermava la necessità che l’UE svolgesse appieno un ruolo autonomo sulla scena internazionale. La capacità di condurre azioni esterne avrebbe dovuto «poter contare su forze militari credibili, sui mezzi per decidere di usarle e sulla disponibilità a farlo, al fine di rispondere alle crisi internazionali (e) agendo in accordo con la NATO». Ciò sollevò diversi problemi concernenti l’esatta natura delle future relazioni tra l’UE e la NATO e in particolare le implicazioni per i paesi europei non membri di quest’ultima. Tuttavia, rappresentò una nuova e importante iniziativa che implicava un legame tra la Gran Bretagna e la Francia in un settore storicamente così sensibile. Sembrò altresì presagire uno storico riequilibrio della doppia posizione britannica verso l’Europa e verso gli Stati Uniti come confermato indirettamente dalla reazione americana piuttosto sbigottita.

Tuttavia, tale proposta di una forza di reazione rapida conteneva una debolezza concettuale, nel senso che tacitamente presupponeva che si sarebbe potuto ottenere e che si sarebbe facilmente ottenuto il consenso europeo di fronte alle crisi esterne. A partire dal 1998 è forse ciò che accadde esattamente con i problemi riguardanti l’ex Iugoslavia; ma non fu così altrove. Parte dell’eredità di Blair e del nuovo laburismo fu un senso di normalità riguardo all’UE e all’adesione britannica ma comprese anche un valore centrale tradizionale della politica estera britannica: l’allineamento con gli Stati Uniti. Il suo impatto sull’operato complessivo dei laburisti e inter alia sulle sue politiche europee, è un esempio lampante di come le politiche siano in balia degli eventi.

Quando George Bush successe a Bill Clinton, si ebbe la sensazione o addirittura la paura che gli Stati Uniti avrebbero potuto essere coinvolti in minor misura negli affari internazionali. Non esiste realmente un modo per poter valutare la fondatezza o meno di questa aspettativa: gli eventi dell’11 settembre hanno modificato tutto. L’UE espresse sostegno agli Stati Uniti, ma non necessariamente all’azione militare in Afghanistan. L’attività diplomatica di Tony Blair rispecchiò la sua visione di un Regno Unito che poteva e doveva fungere da ponte naturale tra l’Europa e gli Stati Uniti, ma ciò non venne sempre recepito nell’UE, men che meno dal presidente Jacques Chirac, suo partner a Saint-Malo. Come dimostrarono i fatti, le differenze nel rilievo dato all’intervento in Afghanistan furono solo il preludio di divisioni molto più nette quando gli Stati Uniti con il supporto di Gran Bretagna, Italia e Spagna intrapresero un’azione militare in Iraq. Tale decisione influirà in modo profondo e duraturo sulle relazioni del Regno Unito con l’UE. Sarebbe azzardato suggerire che il governo britannico abbia in qualche modo distrutto la politica estera comune europea. Quindici anni dopo la firma dell’Atto unico europeo e malgrado i progressi ottenuti nella costruzione della forza di reazione rapida, all’UE mancano ancora alcuni meccanismi e modalità per questo tipo di politica. L’Alto rappresentante responsabile della Politica estera e di sicurezza comune ha sicuramente una certa influenza in materia di difesa (v. anche Politica europea di sicurezza e difesa), ma il sostegno da parte dei governi nazionali è ancora incerto. Occorre una politica estera concordata, e non solo i mezzi per conseguirne una, per raggiungere il doppio obiettivo ambizioso del governo laburista di rendere il paese più influente in Europa e l’Europa più influente nel mondo. La risposta britannica alla politica americana sull’Iraq ha dimostrato che tali obiettivi erano meno importanti della solidarietà nord atlantica. Qualunque sia il ruolo futuro della forza di reazione rapida, la strategia britannica di sostegno e di partecipazione all’invasione guidata dagli americani dell’Iraq ha in pratica e in larga misura annullato il successo politico di Saint-Malo.

La Costituzione

In quegli stessi anni, la principale questione interna per l’UE fu la proposta di una Costituzione, che emerse dalla Convenzione e dalla successiva Conferenza intergovernativa. Il ruolo britannico in tale processo non si discosta da quello di cui abbiamo discusso in precedenza in relazione alla politica estera. Ha avuto un ruolo attivo in tutti i processi che hanno portato alla formulazione della Costituzione, ma non l’ha ratificata. Prima delle elezioni del 2005, il governo, messo sotto pressione dall’opposizione dei conservatori nonché dalla stampa, annunciò che avrebbe indetto un referendum prima di procedere a qualsiasi ratifica. Successivamente è stato suggerito che ciò non lasciò a Chirac altra scelta se non quella di indire anche in Francia un referendum. In questo contesto occorre ricordare che in Francia si svolse un referendum per sostenere il Trattato di Maastricht sull’Unione europea e che prevalsero i “sì” solo con una maggioranza molto ristretta. È difficile credere che una decisione politica britannica di indire un referendum sulla Costituzione sia stata decisiva per la Francia. Gli Stati membri hanno adottato diverse procedure di ratifica, ma è strano che si possa sostenere inappropriato sottoporre all’approvazione popolare un documento che si definisce come una Costituzione. Appare poco probabile che la Costituzione in sé fosse mai stata in cima alle priorità del governo britannico. L’incapacità dell’UE di ratificare la propria Costituzione a breve termine e/o di stabilire nuovi accordi adeguati per l’allargamento dell’adesione è un fallimento europeo e non può essere semplicemente imputato al governo britannico. Nel frattempo, gli esiti negativi dei referendum in Francia e nei Paesi Bassi hanno momentaneamente sospeso il progetto di Costituzione rendendo l’adozione nella sua forma originale improbabile.

Una valutazione generale

Fino alla firma dei Trattati di Roma, l’idea che il Regno Unito dovesse essere “con l’Europa ma non parte dell’Europa” si radicò profondamente nel pensiero del governo ufficiale. All’interno di tutti i partiti politici, vi furono voci europeiste, persino federaliste, ma nessuna divisione reale negli atteggiamenti fondamentali dei partiti. Il Regno Unito non era interessato ad aderire a nessuna Comunità potenzialmente a carattere sovranazionale, e non partecipò al processo di integrazione che avrebbe portato a una Europa unita o federale. Il Regno Unito, partendo dal presupposto che nessuna Comunità sarebbe stata istituita senza la sua partecipazione, poté guardare di tanto in tanto ai vari negoziati con benevolo interesse e altre volte con generale disinteresse. A livello operativo, avrebbe cercato di mantenere buone relazioni di collaborazione con i suoi vicini europei attraverso le varie organizzazioni intergovernative e questo sarebbe stato sufficiente. La firma del Trattato di Parigi che istituiva la Comunità europea del carbone e dell’acciaio non generò un vero riesame politico. Fu la firma dei Trattati di Roma e soprattutto la creazione della Comunità economica incentrata sul Mercato comune che dimostrò che le supposizioni di fondo del governo riguardo alle intenzioni e alle capacità europee erano fondamentalmente errate e che la politica operativa era stata in realtà fallimentare. L’eredità negativa di questi anni fu che la Comunità venne istituita senza la partecipazione britannica. Le regole che furono allora stabilite tennero conto delle necessità dei sei membri fondatori e per ovvi motivi non considerarono in alcun modo gli interessi britannici.

Negli anni che seguirono, i successivi governi britannici si impegnarono per cercare di attenuare i risultati del precedente fallimento. Sebbene in quel periodo non vi fosse alcuna differenza pratica tra i partiti al potere, divenne sempre più normale per i partiti all’opposizione di qualsiasi colore attaccare il governo del momento appellandosi a tradizioni storiche reali o inventate, che avrebbero potuto impedire il coinvolgimento britannico nella Comunità. Questa fase delle relazioni con la CE e con l’integrazione europea ebbe un risultato positivo: la Gran Bretagna ne divenne membro e l’adesione venne ratificata con un referendum. Inevitabilmente ciò che all’epoca venne definito come le “condizioni di adesione” significò in effetti accettare l’Acquis comunitario elaborato nell’arco di venti anni, compresi i regolamenti finanziari di recente elaborazione. Un altro esito negativo avrebbe generato col tempo ciò che potrebbe definirsi un “lascito avvelenato”: i partiti dell’opposizione sembrarono non riuscire a rinunciare al vantaggio temporaneo di invocare il latente sentimento antieuropeista.

La figura autoritaria di Margaret Thatcher dominò la terza fase. È ragionevole definire il Regno Unito come l’europeo riluttante, ma ciò non esaurisce il quadro. La rinegoziazione del modo in cui i regolamenti finanziari e il bilancio avrebbero inciso sul Regno Unito eliminò parte di ciò che ho prima definito il “lascito avvelenato”. Gli antieuropeisti presenti in entrambi i maggiori partiti, sostenuti e spalleggiati da gran parte della stampa popolare, aumentarono la misura in cui la CE/UE poté diventare un match politico tra governo e opposizione. Alla fine del lungo periodo di governo conservatore, i partiti politici avevano più o meno modificato le loro posizioni rispetto all’Europa e all’integrazione. Tuttavia, nel frattempo, il Regno Unito aveva reso un fondamentale contributo all’importante avanzamento rappresentato dall’Atto unico europeo a cui seguì un valido contributo ai lavori che portarono al Trattato sull’Unione europea. Potrebbe darsi che alla fine del suo lungo periodo in carica, la Thatcher stessa fosse un po’ spaventata dal modo in cui il paese era stato risucchiato nel processo di integrazione. John Major “raccolse tempesta, in mezzo a venti contrapposti e pressoché inconciliabili. In un certo senso c’era stata una normalizzazione delle relazioni britanniche con la CE/UE. Tuttavia, una corrente sempre più numerosa all’interno del Partito Conservatore addossò la colpa all’Europa per la destituzione della Thatcher dal suo incarico.

Nell’attuale fase finale, il processo di normalizzazione è stato in effetti completato. Vi è oggi un’identificazione più positiva del Regno Unito con l’UE, di cui è membro. L’automatica supposizione che i britannici avrebbero potuto sempre intralciare qualsiasi nuova proposta è scomparsa. Il ruolo britannico nella negoziazione dei Trattati di Nizza e di Amsterdam e nel processo di allargamento è stato molto positivo. Una serie di opt-out precedentemente negoziati, quali il capitolo sociale, la cooperazione giudiziaria e gli affari interni, sono in parte o del tutto decaduti (v. Giustizia e affari interni). Talvolta il Regno Unito è stato apparentemente in primo piano tra quegli Stati membri che volevano promuovere una politica estera europea. I dinieghi hanno influenzato il livello del progresso di integrazione senza però intaccare il funzionamento effettivo delle istituzioni. È piuttosto facile incolpare il governo britannico dei fallimenti, soprattutto per quanto concerne le nuove politiche. Tuttavia occorre ammettere che in un certo senso l’Unione europea è un’arena dentro cui i governi nazionali cercano di massimizzare gli interessi individuali. Più potente è il paese e maggiore sarà l’impatto. Il Regno Unito è, e continuerà a esserlo, uno degli Stati membri più grandi e più potenti insieme a Francia e Germania. Un importante obiettivo dei fondatori della CE/UE era trovare un modo migliore per gestire le relazioni tra questi grandi Stati europei. Il processo è iniziato con il Trattato di Parigi ma ci sono voluti venticinque anni perché il Regno Unito aderisse e confermasse la sua adesione e un tempo equivalente perché diventasse norma politica considerarlo un membro generalmente positivo.

In conclusione potrebbe essere sensato ritornare all’inizio di questa vicenda. Dopo il 1945, i governi in quei paesi destinati a diventare i membri fondatori della Comunità presero la decisione consapevole di lanciare il processo di integrazione. Quasi tutti i partiti politici democratici in quei sei paesi furono favorevoli e ci fu un ampio sostegno politico popolare. L’integrazione europea fu equiparata all’interesse nazionale. Quasi mezzo secolo più tardi sarebbe accaduta pressoché la stessa cosa ai paesi dell’Europa centrale e orientale in fuga dalle catene dell’ex Impero sovietico. Non c’è mai stato un simile processo nel Regno Unito. L’adesione si è basata su fattori più prettamente economici e politici. È un importante risultato degli ultimi anni che l’adesione dell’Unione europea sia data per scontata anche se un sostegno pubblico ampio e positivo rimane qualcosa di irraggiungibile.

Stanley Henig (2007)




Regolamento

Secondo l’art. 189 del TUE i regolamenti sono atti tipici, emanati dalle Istituzioni comunitarie, giuridicamente vincolanti per gli Stati membri. Gli elementi fondamentali che caratterizzano un regolamento sono: la portata generale, l’obbligatorietà e la diretta applicabilità.

In primo luogo, i regolamenti hanno valore erga omnes: sono indirizzati a tutti i soggetti giuridici comunitari, Stati membri e persone fisiche e giuridiche degli Stati stessi. Questo pur non rivolgendosi a destinatari indicati espressamente o comunque individuabili a priori, ma a categorie di soggetti determinate in astratto e nel loro insieme.

Inoltre, i regolamenti sono obbligatori in tutti i loro elementi. Ciò significa, in particolare, che essi costituiscono un insieme di elementi coerenti tra loro, che non possono essere arbitrariamente separati. Quindi, non ne è consentita un’applicazione solo parziale, incompleta o selettiva e il vincolo per tutti i destinatari non riguarda solo il fine ma anche le procedure (v. Diritto comunitario, applicazione del). Tale caratteristica, comunque, non sta a indicare necessariamente la completezza del regolamento, anzi, spesso accade che, al fine di renderne possibile la concreta esecuzione, il testo debba essere integrato con misure di esecuzione che non alterano in nessun modo il suo carattere vincolante e che possono essere adottate sia dalla stessa istituzione che ha emanato il regolamento, sia da un’altra istituzione comunitaria, sia dalle autorità nazionali.

Infine, i regolamenti sono direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri: in base al principio della diretta applicabilità le disposizioni contenute in un regolamento non soltanto si integrano nei sistemi giuridici statali ma producono effetti immediati nei confronti di tutti i soggetti di diritto interno. Di conseguenza essi creano diritti e obblighi in favore dei privati, i quali sono legittimati a esigere, davanti alle giurisdizioni nazionali, la stessa tutela riconosciuta per i diritti di cui sono titolari in base alle norme dettate dall’ordinamento interno. I regolamenti comunitari, quindi, costituiscono tipiche norme self-executing, cioè operanti senza atti di ricezione, attuazione o adattamento da parte degli ordinamenti statali, e hanno una forza superiore a quella di una legge interna. Uno stesso atto, perciò, introduce la stessa norma in tutti gli Stati membri, che devono applicarla in modo uniforme e integrale. La Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) ha contribuito, con giurisprudenza costante, a delineare il significato della diretta applicabilità dei regolamenti, sottolineando l’illiceità di misure nazionali di trasformazione (v. Corte di giustizia delle Comunità europee, giurisprudenza della). L’unica eccezione è costituita dalla circostanza in cui lo stesso regolamento lasci agli Stati membri il compito esplicito di adottare provvedimenti necessari affinché le sue disposizioni possano essere effettivamente applicate, o nel caso in cui alcune misure nazionali si rivelino indispensabili per colmare eventuali lacune o superare difficoltà di interpretazione. Nessuna delle suddette misure però dovrà modificare la portata o la sostanza del regolamento in questione.

Il processo di formazione dei regolamenti, in realtà, è abbastanza complesso; essi in genere sono emanati dal Consiglio dei ministri su proposta della Commissione europea. Al processo di formazione di tali atti viene associato anche il Parlamento europeo, attraverso una delle procedure previste dal Trattato (Procedura di consultazione, Procedura di cooperazione, Procedura di codecisione). Laddove è previsto, devono essere richiesti anche i pareri di altre istituzioni come il Consiglio economico e sociale ed il Comitato delle regioni. Si è soliti distinguere tra regolamenti di base, adottati dal Consiglio secondo le disposizioni del Trattato, e regolamenti di esecuzione, emanati per l’attuazione dei primi, di solito adottati dalla Commissione nell’esercizio del suo potere di esecuzione. I regolamenti di esecuzione devono risultare conformi al regolamento di base e devono essere adottati secondo la procedura espressamente richiesta, pena la loro invalidità.

I regolamenti rivestono un’importanza primaria nella Gerarchia delle fonti di diritto derivato e costituiscono quindi la più tipica espressione dell’esercizio del potere normativo della Comunità, attraverso cui essa tende a sostituire la disciplina comunitaria alle varie discipline nazionali (v. anche Diritto comunitario). Dal momento che mediante i regolamenti si tende a dettare una disciplina uniforme in una data materia per l’insieme della Comunità, lo strumento regolamentare viene soprattutto utilizzato per operare in settori di competenza esclusiva.

Il principale requisito formale previsto dai Trattati per i regolamenti è la motivazione; in mancanza di tale requisito, l’atto sarebbe viziato e potrebbe essere dichiarato nullo. La motivazione deve indicare la base giuridica dell’atto, cioè le norme comunitarie che ne consentono l’emanazione: in questo modo si facilita l’individuazione di eventuali vizi di legittimità, e si permette alla Corte di giustizia di esercitare il suo sindacato. La stessa Corte ha valutato con una certa larghezza questo requisito, nel senso che ha negato la necessità di una motivazione espressa e ha sancito l’ammissibilità della motivazione implicita che può risultare non soltanto dal suo testo, ma altresì dall’insieme delle norme giuridiche che disciplinano la materia in questione.

I regolamenti sono pubblicati sulla “Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea” ed entrano in vigore a partire dal ventunesimo giorno successivo alla pubblicazione, a meno che una data diversa non sia stata indicata nel regolamento stesso. L’entrata in vigore immediata, cioè il giorno stesso della pubblicazione, può essere ammessa solo per motivi di urgenza inerenti alla misura presa, in particolare per evitare un vuoto giuridico o per prevenire speculazioni. L’efficacia retroattiva di un regolamento è normalmente esclusa, salvo che lo richieda il fine perseguito e purché sia rispettato il legittimo affidamento degli interessati.

Santaniello Roberto (2009)




Renato Giordano




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