Robbins, Lionel

La corrente d’opinione favorevole al Federalismo, favorita dallo sviluppo di Federal union, è bene testimoniata dal crescente interesse con cui il mondo accademico britannico, di solito aristocraticamente incline a non lasciarsi coinvolgere nel dibattito politico, si occupò del tema della federazione. Ne è testimonianza il contributo di R. (Londra 1898-ivi 1984) che, ormai membro del Federal union research institute diretto da William H. Beveridge a Oxford e coordinato da Patrick Ransome, verso la fine di novembre 1939, pubblicava il volume The economic causes of war, indubbiamente un classico del pensiero federalista, che seguiva Economic planning and international order. Entrambi i volumi erano basati su una serie di conferenze tenute su invito di William Rappard all’Institut universitaire de hautes études internationales di Ginevra. Robbins fu docente di economia presso la London school of economics dal 1929 al 1961 e nel corso della guerra (dal 1941 al 1945) fu direttore della sezione economica degli uffici del War cabinet. Successivamente, dal 1954 al 1955, fu presidente della Royal Economic society, e del “Financial Times” dal 1961 al 1970.

In Economic planning and international order, R. aveva per primo capito come il mercato non fosse in grado di funzionare senza le regole che solo lo Stato è in grado di far valere. Nel 1937 sosteneva la necessità del trasferimento, da parte degli Stati nazionali, di una parte della loro sovranità a un’autorità internazionale. Il diritto di dichiarare la guerra e il potere di farla dovevano essere abbandonati. Ciò non avrebbe significato la perdita, da parte degli Stati nazionali, di tutti i poteri che garantivano l’indipendenza dei loro governi, dal momento che anche i poteri dell’autorità internazionale avrebbero dovuto essere limitati. Non si doveva giungere, secondo R., «né a un’alleanza, né a una completa unificazione, ma a una federazione» (v. Robbins, 1937).

In The economic causes of war, R. confutava l’interpretazione marxista‑leninista della guerra, identificando nella sovranità nazionale, e non nella proprietà privata dei mezzi di produzione, la causa fondamentale dei conflitti internazionali. Gli interessi che agivano a favore della guerra, non erano, secondo R., «interessi di classe in senso marxista», ma «interessi settoriali che hanno in comune interessi monopolistici nel mercato». Prendendo in considerazione l’influenza dei proprietari, appariva che non erano «i proprietari come classe» a essere attivi in quel senso, ma «un particolare gruppo di proprietari», coloro che speravano «di accrescere il valore del loro particolare tipo di proprietà attraverso la limitazione dei mercati» (v. Robbins, 1939, pp. 125-26). In settembre la “New Commonewalth quarterly” aveva pubblicato l’articolo Economic conditions of inter-state federalism di Friedrich von Hayek, in cui il celebre economista austriaco, da pochi mesi diventato cittadino britannico, sosteneva la creazione di una federazione europea entro la quale il libero scambio e la libera circolazione dei capitali e di persone avrebbero impedito agli Stati membri di esercitare un controllo esclusivo sulle politiche dei prezzi, delle monete e del fisco. Von Hayek notava, in particolare, che non solo il corretto funzionamento del sistema liberale richiedeva un certo grado di federalismo economico, ma che la federazione avrebbe anche offerto ai liberali un nuovo punto d’appoggio, Il liberalismo del XIX secolo non avrebbe avuto un successo più marcato perché non si era sviluppato nella direzione federalista, ma si era unito prima al federalismo e quindi al socialismo (v. von Hayek, 1939).

Un sistema internazionale di Stati socialisti si sarebbe potuto rivelare ancor più bellicoso di un sistema di Stati capitalisti, venendo a coincidere gli interessi nazionali con quelli della collettività. Varie e contrastanti erano le opinioni sulla guerra. I pacifisti avrebbero detto che si trattava “della mancanza di virtù”, mentre i biologi che si trattasse di “un aspetto dell’inevitabile lotta per l’esistenza”. Dal canto loro, gli psicologi sostenevano che essa fosse “un’espressione dell’istinto di morte” e che ci sarebbero voluti migliaia di anni per imparare a sublimarlo. I marxisti avrebbero sostenuto “che tutto è dovuto al sistema capitalista”, e alcuni storici avrebbero suggerito che si trattava del risultato di subdole forze oscure, delle quali erano i soli a conoscere il mistero: in realtà, concludeva R., si trattava «dell’esistenza di Stati sovrani indipendenti».

Gli architetti della Società delle Nazioni avevano ben intuito la necessità di una “autorità supernazionale”, senza capire peraltro che un suo funzionamento efficace era «incompatibile con la sovranità nazionale indipendente». La verità, sosteneva R., era che se non si sarebbe distrutto lo Stato sovrano, esso avrebbe distrutto la civiltà occidentale. Non era né desiderabile né possibile creare «uno Stato mondiale unitario», utopistico sperare di poter formare nello spazio di una generazione «una federazione di dimensioni mondiali», che doveva secondo R. venir considerata «come l’evento divino, per cui tutto ciò che è buono nell’eredità delle diverse civiltà del mondo ci invita a lottare». Ma non era utopistico lavorare per la costruzione della federazione europea, dal momento che nessuno, «con un benché modesto senso della storia» poteva negare «l’esistenza di un vero problema tedesco in Europa», che si esprimeva in un «senso profondo di insicurezza, […] che a partire dall’ascesa della Prussia», aveva «sempre più rappresentato una minaccia alla pace e alla libertà dell’Europa». I tedeschi, tuttavia, erano «parte della nostra civiltà e l’Europa non potrà mai godere davvero di buona salute» finché anche la Germania non ne avesse goduto. In un modo o nell’altro, gli europei avrebbero dovuto «creare una struttura in cui il Geist tedesco possa offrire il suo meglio, non il peggio, all’Europa». Una pace draconiana non avrebbe portato a nulla. Era possibile estirpare il nazismo, ma non «mantenere i tedeschi sottomessi indefinitamente». Le sofferenze che l’umanità stava conoscendo avrebbero avuto un significato «quale consacrazione» del sangue che si stava versando, solo vincolando «questo grande popolo, purificato dai suoi mali» […] nella cittadinanza libera ed eguale degli Stati Uniti d’Europa» (v. Robbins, 1939, pp. 90-109).

Nella primavera del 1940, anche lo “Spectator”, un settimanale di orientamento liberal‑conservatore, partecipava al dibattito pubblicando una serie di sei articoli, Federal union examined, quattro dei quali del direttore Henry Harris e due di R. Il 29 marzo, all’indomani della “dichiarazione solenne” anglo‑francese, R. sosteneva che, non essendo realizzabile il progetto streitiano e nemmeno il disegno di una federazione mondiale, il problema della federazione era essenzialmente “un problema europeo”. Se al di fuori dell’Europa il mantenimento della pace dipendeva «dalla buona volontà e dalla potenza dello Stato più forte», in Europa si stava attraversando «una di quelle crisi storiche in cui cambiamenti di grande portata sono la sola alternativa al caos». La civiltà europea non poteva sopravvivere nelle condizioni che avevano dominato la vita politica europea «sin dall’ascesa dell’impero bismarckiano». Negli intervalli di pace che l’Europa aveva conosciuto negli ultimi settant’anni, «e spese e gli intralci per prepararsi alla guerra» avevano vanificato i benefici creati dal progresso scientifico e generato periodi di «regresso e decadenza». L’esperienza della Società delle Nazioni insegnava che era erroneo fondare il mantenimento della pace sulla «buona volontà e la saggezza» degli Stati, perché in un sistema di Stati sovrani le considerazioni di ordine strategico – la difesa del territorio nazionale nell’eventualità della guerra – avevano il sopravvento su quelle di ordine morale: «Se potessimo dare per scontate ovunque la buona volontà e la saggezza, non dovremmo preoccuparci delle istituzioni. Ogni istituzione varrebbe le altre». Ma, concludeva R., «il regno della legge non può fondarsi su basi esclusivamente volontaristiche, né all’interno dello Stato né tra gli Stati».

Entrando nel merito degli aspetti economici della questione europea, R. osservava che tutti coloro che avevano esaminato con attenzione il problema, giungevano alla conclusione che «l’esistenza di barriere commerciali e di ostacoli ai flussi migratori è la causa di gravi crisi economiche e di una continua tensione nelle relazioni internazionali». In assenza di un controllo centrale all’interno di un’area nazionale, non v’era «motivo di attendersi che le città e le province non facciano ricorso a politiche economiche anti‑sociali, vale a dire a dazi e a restrizioni locali ai movimenti», come accadeva nel Medioevo. Così pure, nell’assenza «di un’autorità internazionale con poteri di primaria importanza», non v’era alcun motivo «di supporre che gli Stati sovrani non facciano ricorso a misure simili». L’idea che in Europa si potesse «avviare una stabile ricostruzione economica prima di una efficace ricostruzione politica», andava contro non solo «a tutte le supposizioni ragionevoli, ma anche alle lezioni di tutta la recente esperienza». Il problema economico era «essenzialmente politico». La difesa della civiltà europea esigeva che i suoi popoli formassero una «unione più stabile e più avanzata per quanto riguarda i suoi poteri, rispetto al sistema confederale della Società delle Nazioni». Gli Stati europei dovevano rinunciare «al loro diritto di far la guerra e la pace» e anche «al diritto di seguire politiche economiche che mettono in difficoltà e impoveriscono i loro vicini». Condizione fondamentale per creare una federazione europea era «l’attribuzione a un’autorità centrale […] di quei poteri il cui esercizio indipendente è contrario alla stabilità e alla giustizia». Ciò non implicava semplicemente l’esistenza di una cultura comune, ma istituzioni e comportamenti «più o meno simili». La federazione avrebbe dovuto comprendere l’Europa intera – sia pure con l’esclusione dell’Unione Sovietica – poiché «una federazione più piccola, limitata alle potenze occidentali», avrebbe «corso il rischio di creare rivali». Le elezioni del Parlamento federale sarebbero dovute essere dirette. Una tale costruzione non poteva realizzarsi immediatamente e nemmeno nel corso di un’intera generazione, ma si poteva sperare di avviarla se nel dopoguerra si fosse consolidato «a occidente un solido nucleo di stabilità e di potere». Nel breve periodo si potevano in effetti realizzare dove esistevano «le principali condizioni necessarie a una unione federale permanente» tra Regno Unito e Francia.

R. sottolineava che senza «un’unione permanente» anglo-francese, vale a dire «una permanente unione delle risorse militari, economiche e una continua identità nella politica estera», non c’era «alcuna speranza neppure per l’avvio di un durevole riassetto della pace». Era necessario «costruirlo immediatamente, non solo come un rafforzamento del potere di difesa, ma anche come la testata d’angolo degli Stati Uniti d’Europa» che alla fine sarebbero sorti.

Intervenendo, sempre sullo “Spectator”, il 12 aprile, R. mostrava l’infondatezza della tesi del direttore Harris, secondo il quale era possibile conseguire un «disarmo economico […] senza la creazione di una struttura politica». Non era plausibile attendersi, in nome della ragione e dell’esperienza, che Stati indipendenti e vicini potessero vivere in armonia sulla base della saggezza e della buona volontà. La questione di fondo era «la rinuncia alla libertà di far la guerra e alla libertà di limitare le possibilità economiche dei propri vicini». Chi, come Harris, non riconosceva i termini di riferimento della questione e riteneva efficaci le soluzioni intermedie tra «la rinuncia permanente a queste libertà» e «il perpetuarsi del caos attuale», era un illuso (v. Robbins, 1940, pp. 517-18).

Andrea Bosco (2010)




Robert Lemaignen




Robert Marjolin




Robert Menasse




Robert Schuman




Robert Triffin




Roberto Ducci




Roberto Gaja




Rocard, Michel

R. (Courbevoie, Hauts-de-Seine 1930), figlio del grande fisico Yves Rocard, è senz’altro il più “europeo” dei capi storici del Partito socialista. Fin dall’adolescenza l’Europa è la più forte delle sue convinzioni. Mentre frequenta il liceo risponde con entusiasmo all’“appello ai volontari dell’Europa”, lanciato dal professore di diritto Daniel Villey in “Réforme”, il settimanale della Chiesa riformata di Francia, in cui si chiede a cinquanta giovani di talento di dedicare cinque anni della loro vita alla costruzione europea. Rifiutato perché troppo giovane, durante i cinque anni di studio a Scienze politiche R. scopre la politica e, innanzitutto, l’idea europea. «Per me è stata subito una passione, un’evidenza. La battaglia della mia epoca, della mia generazione».

Coinvolto da uno dei suoi amici, Jean-Jacques de Félice, nel 1948 R. partecipa a Strasburgo a un’assemblea dei popoli d’Europa. Diventato segretario nazionale degli Studenti socialisti nel dicembre 1953, nel maggio 1954 partecipa all’Assemblea europea della gioventù politica, promossa a Vienna dall’organizzazione di destra Paix et Liberté. La sua relazione sull’Europa e il mondo, pronunciata per conto dell’Internazionale socialista, denuncia «la dipendenza europea di fronte agli Stati Uniti» e invita a costruire l’Europa «con la partecipazione di tutta la classe operaia europea». Giudicato filocomunista dai giovani democristiani e dallo stesso Guy Mollet, il discorso, in compenso, è accolto positivamente dai membri dell’Unione della gioventù socialista, di cui R. diventa uno dei leader. Entrato all’École nationale d’administration (ENA) nel 1956, milita contro la politica algerina di Mollet. Nel 1958 segue Alain Savary, che crea il Partito socialista autonomista, diventato nell’aprile 1960 il Partito socialista unificato (Parti socialiste unifié, PSU) con il sostegno di Pierre Mendès France, partito di cui R. sarà nominato segretario nazionale nel 1967. Candidato del PSU alle elezioni presidenziali del 1969, ottiene solo il 3,61% dei suffragi espressi, ma ormai si impone come una delle figure di spicco della sinistra non comunista, portavoce della deuxième gauche di ispirazione cristiana, autogestita, favorevole al decentramento ed europea. Un sondaggio dell’epoca lo colloca in testa alle personalità della sinistra.

Consapevole dell’impasse politica in cui si dibatte il PSU, R. sostiene François Mitterrand nella campagna presidenziale del 1974. La sua prima missione è europea, perché deve negoziare con il socialdemocratico Willy Brandt, cancelliere della Repubblica Federale Tedesca, una eventuale rivalutazione del franco nel caso che la sinistra vinca le elezioni in Francia. Ma Mitterrand è battuto da Valéry Giscard d’Estaing e i disaccordi con R. non tardano a emergere, soprattutto sul tema delle nazionalizzazioni. Eletto sindaco di Conflans-Sainte-Honorine nelle elezioni municipali del marzo 1977, R. si mostra molto reticente di fronte all’unione della sinistra con i comunisti. Al congresso di Nantes, nel giugno 1977, si richiama a una cultura di sinistra «decentrata, regionalista», contrapposta all’altra «giacobina, centralizzatrice, statalista», incarnata dal primo segretario del Partito socialista. Dopo le elezioni legislative del marzo 1978, perse dalla sinistra, si serve della televisione per invitare a costruire un «grande progetto». Si deve allontanare dalla vita politica in seguito a un incidente e non è in grado di partecipare alla campagna del giugno 1979 per le prime elezioni europee a suffragio universale. Il 19 ottobre 1980 annuncia la sua candidatura per il Partito socialista nelle successive elezioni presidenziali: il cosiddetto “appello di Conflans” è un’iniziativa di enorme goffaggine politica che gli procurerà l’odio perpetuo di Mitterrand.

Dopo la vittoria di Mitterrand alle presidenziali, il 10 maggio 1981, R. è relegato al ministero subalterno della Pianificazione, delle Infrastrutture per il territorio e del Movimento cooperativo nel governo di Pierre Mauroy (giugno 1981). Una delle sue prime iniziative è una visita in Alsazia, per sostenere la vocazione europea di Strasburgo e della sua regione (3 settembre 1981). Al ministero dell’Agricoltura, che occupa durante il terzo governo Mauroy (23 marzo 1983), poi nel governo Fabius (19 luglio 1984), si fa criticare dai produttori di latte francesi, che ritengono di essere poco tutelati nel Consiglio dei ministri della Comunità europea (marzo 1984). Dopo essersi dimesso clamorosamente, il 4 aprile 1985, per esprimere il suo disaccordo nei confronti del ripristino dello scrutinio proporzionale imposto dal capo dello Stato, R. dichiara la sua intenzione di proporsi nuovamente come candidate alle presidenziali del 1988. Surclassato di nuovo da Mitterrand, rieletto con una larga maggioranza, ciò nonostante è nominato primo ministro il 9 maggio 1988.

R. è a capo di un governo sotto controllo, rigidamente sorvegliato e imbrigliato dal Presidente della Repubblica, soprattutto in politica estera. Nella grande tradizione gollista del «dominio riservato» presidenziale, Mitterrand non lascia quasi nessun margine di manovra a R. in quest’ambito, tanto più che il ministro degli Esteri Roland Dumas e quello degli Affari europei Édith Cresson sono fedelissimi del presidente.

Il primo intervento del nuovo primo ministro sulla questione europea è una sorpresa per molti osservatori: in un’intervista concessa al periodico “L’Expansion” (9 settembre 1988), respinge una diminuzione troppo rapida e forte del tasso dell’IVA, rischiando di provocare una crisi all’interno dell’Europa, dando l’impressione che voglia far prevalere gli interessi del suo paese su quelli del mercato unico previsto per il 1993. Così facendo, assume una posizione meno europea di quella della Lettre à tous les Français inviata da François Mitterrand durante la campagna elettorale. Pur ricordando di essere un europeo convinto, R. dimostra che nella sua posizione di primo ministro si considera innanzitutto il difensore dell’interesse nazionale. Questo non gli impedisce di affermare la sua fede «in un’Europa fondata sulla democrazia pluralista, su un alto livello di sviluppo», quando inaugura il 18 ottobre 1988 una targa commemorativa per celebrare il centenario della nascita di Jean Monnet, che fa il suo ingresso nel Panthéon il 9 novembre 1988. In questa circostanza ricorda che la costruzione europea esige «un alto livello di protezione sociale»; e se pure sostiene Laurent Fabius, capolista dei socialisti alle elezioni europee del giugno 1989, impegnato in una campagna per l’Europa sociale, R. ricorda tuttavia con grande pragmatismo che il suo obiettivo primario consiste nel preparare la Francia alla scadenza del 1993, il che comporta delle concessioni a criteri liberali di convergenza. Ciò nonostante, nel dibattito organizzato all’Assemblea nazionale sulla sua politica europea, in cui l’opposizione propone una mozione di censura, riconferma le sue convinzioni socialiste in materia europea: «Socialisti a Parigi, non sceglieremo di certo il liberalismo a Strasburgo o a Bruxelles!» (16 maggio 1989). E il 14 luglio 1989, nel pieno delle celebrazioni del bicentenario della Rivoluzione francese e del vertice dei 7 paesi più industrializzati, dal quale è stato escluso da Mitterrand, R. interviene ugualmente sull’argomento dichiarando alla catena televisiva britannica ITV che Margaret Thatcher, di cui denuncia la «crudeltà sociale», «frena violentemente» il processo di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

Congedato bruscamente da Matignon da François Mitterrand, il 15 maggio 1991, R. riprende tuttavia nel 1992 una posizione preponderante sia all’interno del Partito socialista che sul piano europeo. Pur avendo sottolineato «gli aspetti molto imperfetti» del Trattato di Maastricht (21 aprile 1992), s’impegna attivamente per la sua ratifica. Su “Le Monde” del 24 aprile 1992 firma un lungo articolo intitolato Après Maastricht, dove insiste ancora una volta sulla dimensione sociale del modello europeo e chiede che l’Europa si comporti «in futuro sempre più come una nazione». In una intervista televisiva del 31 maggio 1992 si pronuncia a favore di un’«Europa più ampia possibile», aperta ai paesi dell’Est, e di un referendum per ratificare il Trattato di Maastricht. Durante la campagna, a partire dal mese di luglio, moltiplica i meeting e le conferenze, esortando i giovani simpatizzanti dei club Forum a essere «patrioti dell’Europa» di fronte a un’Europa dei nazionalisti e dell’odio (5 settembre 1992). La vittoria del “sì” a Maastricht, il 20 settembre 1992, contribuisce alla crescita della sua popolarità, rendendolo di nuovo uno dei candidati potenziali di una futura presidenza.

La disfatta socialista alle elezioni legislative del 22 marzo 1993 permette a R. di impadronirsi finalmente della segreteria del Partito socialista. A questo titolo comincia a «raddrizzare la sinistra», escludendo i mitterrandisti, e apre la lista del Partito socialista in occasione delle elezioni europee, previste il 12 giugno 1994. Durante la campagna elettorale, a Tolosa, difende il progetto di una «nouvelle donne» per l’Europa, cioè un prestito europeo per finanziare una politica di grandi lavori e recuperare le periferie, e anche una Costituzione europea, «breve e chiara, che dica quel che l’Europa fa e non fa» (30 maggio 1994). Anticipando il risultato delle elezioni europee, lancia a Créteil il progetto di una «nuova alleanza» a sinistra, che riunisca tutte le forze progressiste, gli ambienti associativi, compresi i sindacati, nella prospettiva delle future elezioni presidenziali (7 giugno 1994). Ma esce sconfitto dal dibattito televisivo che lo oppone, l’8 giugno, all’ex Presidente della Repubblica Valéry Giscard d’Estaing e, fatto ancora più grave, subisce la concorrenza della lista Energie radicale di Bernard Tapie, segretamente incoraggiata dal Presidente della Repubblica. Il risultato di questa opposizione fratricida è catastrofica per la lista di R., che raccoglie solo il 14,49% dei voti (ossia il 9% in meno di Laurent Fabius alle europee del 1989) e solo 15 eletti, mentre la lista di Tapie lo tallona con il 12,03% e 12 eletti. Una settimana più tardi R. è escluso dal consiglio nazionale del Partito socialista a favore del mitterrandiano Henri Emmanuelli. Da questo momento R. sembra rinunciare alle ambizioni presidenziali per dedicarsi al mandato di deputato europeo. In questo ruolo riesce a far approvare molte risoluzioni di cui è relatore – sulla diminuzione della durata del lavoro, sulla rinegoziazione della convenzione che lega l’Unione europea a circa 24 Stati dell’Africa sub sahariana, Caraibi e Pacifico, sulla creazione di un Centro di prevenzione delle crisi all’interno della Commissione europea, e contro un progetto di direttiva adottato dalla Commissione e dal Consiglio sulla brevettabilità dei software. Partecipa altresì all’elaborazione del rapporto internazionale La Turquie dans l’Europe, plus qu’une promesse?, guida una missione europea per le elezioni presidenziali palestinesi e diventa l’animatore del Collegium international éthique, politique et scientifique.

Secondo R. l’Europa comincia a controbilanciare l’egemonia americana, come ha dimostrato pilotando l’uscita dalla crisi durante la rivoluzione arancione in Ucraina, o con l’aiuto fornito alla sopravvivenza dei palestinesi. A suo avviso «l’Euro svolgerà sempre più un ruolo stabilizzatore importante nel disordine finanziario mondiale». Deplora invece che l’Europa non abbia ancora definito e difeso un ampio sistema di servizi pubblici e di protezione sociale. È questa, ai suoi occhi, «la battaglia centrale dei socialisti in Europa oggi», una battaglia che gli sembra possibile vincere nell’arco di dieci anni.

Jean   Garrigues (2006)




Rochereau, Henri

R. (Chantonnay 1908-Parigi 1999), dopo aver frequentato l’università di giurisprudenza di Parigi e aver ottenuto il dottorato in diritto, tra il 1935 ed il 1939 fu segretario generale della Fédération des matériels de construction. Dopo la guerra intraprese la carriera politica sulle orme del padre, Victor Rochereau, che era stato deputato: R. fu eletto senatore indipendente della Vandea dal 1946 al 1959. Tra il 1955 e il 1958 presiedette la Commissione degli affari economici del Consiglio della Repubblica, carica che mantenne anche nel Senato della V Repubblica (tra il gennaio e il maggio 1959); nel 1958-1959 venne nominato delegato al Parlamento europeo, in seno alla quale fu presidente della Commissione della politica commerciale e della cooperazione economica con paesi terzi.

Il 28 maggio del 1959, conformemente alla nuova Costituzione, R. diede le dimissioni dalla carica di senatore per diventare ministro dell’Agricoltura nel governo di Michel Debré. Il suo ministero fu segnato dalla grande ondata di contestazione che scosse il mondo agricolo, inquieto per le ripercussioni dell’entrata della Francia nella Comunità economica europea (CEE), negli anni 1960-1961. Tra il maggio e il luglio del 1961 il Parlamento votò la legge d’orientation agricole per la riorganizzazione e la modernizzazione del mondo agricolo. Nel giugno di quell’anno, di fronte alle inquietudini crescenti delle organizzazioni contadine per l’approvazione di testi che modificavano le tariffe doganali in esecuzione dei Trattati di Roma, R. rassicurò i deputati affermando che il governo si riservava il diritto di valutare l’opportunità di passare alla seconda tappa del Mercato comune (v. Comunità economica europea).

Nell’agosto del 1961, in occasione di un rimpasto ministeriale, R. fu nominato membro della Commissione europea della CEE in sostituzione del dimissionario Robert Lemaignen, di cui prese il posto nei gruppi Affari sociali, Agricoltura, Trasporti. Era stato proprio Lemaignen a suggerire il nome di R. Questi fu accolto favorevolmente a Bruxelles e in Germania, dove si pensava che l’arrivo di un esperto di questioni agricole avrebbe avuto un’influenza decisiva sull’avanzamento della Politica agricola comune del Mercato comune. Confermato nella nuova Commissione del 1962, R. ottenne la Direzione generale dello Sviluppo dell’Oltremare (DG VIII). In questo ruolo sostenne una politica di valorizzazione dei prezzi dei prodotti di base e una apertura progressiva dei mercati industrializzati ai prodotti primari semifiniti e manifatturieri in provenienza dagli Stati associati del Madagascar e d’Africa (v. Stati africani e malgasci associati), che firmarono le Convenzioni di Yaoundé con la Comunità economica europea nel 1964 e la Convenzione di Yaoundé II nel 1968. R. riteneva che nei rapporti tra i paesi della CEE e i paesi in via di sviluppo non si trattava di cristallizzare situazioni e relazioni economiche esistenti, ma, al contrario, di aiutare l’evoluzione di questi paesi «nel senso di un’indipendenza economica maggiore degli associati e simultaneamente della loro aumentata partecipazione agli scambi internazionali». A questo proposito, a nome della commissione, egli affermava che «l’associazione di Yaoundé merita di essere considerata come modello di cooperazione reale tra stati sovrani di struttura economica diversa» (v. Conférence parlementaire de l’Association. Extraits du discours prononcé par M.R., membre de la Commission, à Dakar, in Bulletin de la Communauté économique européenne, febbraio 1965, n. 2, pp. 68-69).

R. fu nominato nella prima Commissione della Comunità europee, presieduta dal belga Jean Rey, che rimase in carica dal 1° luglio 1967 al 30 giugno 1970. In questa commissione il francese mantenne la DG VIII, rinominata Aiuto allo sviluppo. Nel 1970, in seguito alla riduzione del numero di Commissari, il Presidente della Repubblica Georges Pompidou scelse di mantenere a Bruxelles gli altri due commissari di nomina francese, Jean-François Deniau e Raymond Barre. Il primo riprese la direzione a capo della quale era stato R., nel frattempo nominato alla presidenza dell’Associazione per lo sviluppo dei grandi porti francesi, alla cui testa rimase fino al 1986.

Lucia Bonfreschi (2010)