SE

Partito della sinistra europea (SE)




Seán Francis Lemass




Sedi istituzionali

I Trattati istitutivi delle Comunità europee (Comunità europea del carbone e dell’acciaio, CECA; Comunità europea dell’energia atomica, CEEA; Trattato costituivo della Comunità europea, TCE) (v. Trattato di Parigi; Trattati di Roma) non stabiliscono espressamente la sede delle Istituzioni comunitarie, ma demandano ai governi degli Stati membri il compito di fissare di comune accordo i luoghi di lavoro delle istituzioni (cfr. articoli 77 CECA, 189 CEEA e 289 TCE). Tuttavia, per molto tempo gli Stati membri non hanno adottato una decisione definitiva per fissare le sedi delle istituzioni, limitandosi a stabilire disposizioni provvisorie. Questa situazione ha soprattutto penalizzato il Parlamento europeo.

In occasione dell’entrata in vigore del Trattato istitutivo della CECA, la conferenza dei ministri degli Affari esteri degli Stati membri del 25 luglio 1952 ha emanato una Decisione con la quale ha scelto il Lussemburgo come sede provvisoria dell’Alta autorità, del Consiglio dei ministri e della Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea). Per quanto riguarda l’allora Assemblea parlamentare, la decisione ha previsto che si sarebbe riunita a Strasburgo, mentre il segretariato generale e i relativi servizi si sarebbero insediati in Lussemburgo.

Con l’entrata in vigore dei Trattati istitutivi della Comunità economica europea CEE e della CEEA (o Euratom) (v. Trattati di Roma), i ministri degli Affari esteri, riuniti il 7 gennaio 1958, hanno adottato una dichiarazione con la quale, dopo aver convenuto di riunire nella stessa località tutte le organizzazioni europee appena fosse possibile procedere effettivamente a questa concentrazione, hanno invitato la Commissione europea a riunirsi a Bruxelles o a Lussemburgo, il Consiglio a riunirsi su richiesta dei loro presidenti e l’Assemblea a riunirsi a Strasburgo. In seguito, i Consigli e le Commissioni contemplati da questi trattati si sono insediati a Bruxelles, e conseguentemente, le commissioni e i gruppi politici del Parlamento europeo hanno instaurato la prassi di tenere gran parte delle loro riunioni in questa città.

Successivamente, il trattato dell’8 aprile 1965 che istituisce un Consiglio unico e una Commissione unica delle Comunità europee, entrato in vigore il 1° luglio 1967, ha implicato il raggruppamento degli uffici di queste istituzioni e quindi il trasferimento a Bruxelles del personale dell’Alta autorità della CECA. In base all’articolo 37 di questo trattato, che affidava a un accordo tra Stati membri il compito di risolvere la particolare situazione del Lussemburgo conseguente alla fusione degli esecutivi, i rappresentanti dei governi degli Stati membri adottarono, al momento della firma del Trattato precitato, una decisione relativa all’insediamento provvisorio di talune istituzioni e di taluni uffici delle Comunità, decisione entrata in vigore contemporaneamente al trattato dell’8 aprile 1965. L’articolo 1 di questa decisione stabiliva che Lussemburgo, Bruxelles e Strasburgo rimanevano le sedi provvisorie di lavoro delle istituzioni delle Comunità.

In particolare, secondo la decisione del 1965, la Corte di giustizia, la Banca europea per gli investimenti (BEI) e alcuni uffici della Commissione dovevano restare nel Lussemburgo. La capitale del Gran Ducato del Lussemburgo veniva anche scelta come luogo dove insediare in futuro altri organismi e servizi comunitari, particolarmente nel settore finanziario. Inoltre, sempre a Lussemburgo, nei mesi di aprile, giugno e ottobre si dovevano svolgere le sessioni del Consiglio. Nel silenzio della norma, per la parte residua dell’anno esso si sarebbe riunito a Bruxelles. Infine, per quanto riguardava l’Assemblea, la decisione prevedeva Strasburgo come sede delle sue riunioni, mentre il segretariato generale ed altri uffici rimanevano nel Lussemburgo.

In seguito alla firma dell’atto relativo all’elezione dei membri dell’Assemblea a suffragio universale diretto (v. Elezioni dirette del Parlamento europeo), il presidente del Parlamento comunicava al presidente del Consiglio (v. Presidenza dell’Unione europea), con lettera del 6 luglio 1977, i problemi di funzionamento che l’esistenza di tre sedi di lavoro creava per il Parlamento, data la sua elezione a suffragio universale e l’aumento del numero dei suoi membri. A tal fine il Parlamento europeo, in assenza di una decisione definitiva degli Stati membri e in forza dei poteri di organizzazione interna attribuitigli dall’articolo 199 del Trattato CE (e dalle corrispondenti norme dei Trattati CECA ed Euratom), decise di tenere tutte le sedute plenarie a Strasburgo e di convocare a Bruxelles le riunioni delle commissioni e dei partiti politici (v. Partiti politici europei), nonché di riesaminare l’organizzazione della segreteria generale e degli uffici in modo da assicurare l’infrastruttura indispensabile per garantire l’espletamento, in tutti questi luoghi, dei compiti affidatigli dai Trattati. Il Parlamento decise altresì autonomamente di costruire una nuova sala di riunione a Bruxelles. Di conseguenza, il delicato equilibrio tra il potere di autorganizzazione e la competenza dei governi degli Stati membri di determinare la sede delle istituzioni diede luogo a una serie di controversie tra alcuni Stati membri e il Parlamento.

Finalmente, il 12 dicembre 1992, in occasione del Consiglio europeo di Edimburgo, i rappresentanti dei governi degli Stati membri adottarono il primo vero accordo comune in attuazione dell’articolo 289 TCE. Limitandosi a codificare e a consolidare la prassi anteriore, la decisione continuò ad attribuire al Parlamento un’unica sede (Strasburgo), seppure articolata in più luoghi di lavoro (Strasburgo, Bruxelles, Lussemburgo) e fissò, inoltre, il numero e la cadenza delle tornate plenarie da tenersi a Strasburgo (dodici tornate mensili), nonché l’oggetto di una di queste (la tornata di bilancio).

La questione delle sedi delle istituzioni comunitarie è stata poi definitivamente regolata da un protocollo allegato al Trattato di Amsterdam. Il protocollo ha confermato che il Parlamento europeo ha sede a Strasburgo, ove si tengono in linea di massima dodici tornate plenarie mensili, compresa la tornata del bilancio (v. Bilancio dell’Unione europea). Inoltre, è stato stabilito che le commissioni del Parlamento si riuniscono a Bruxelles e il segretariato generale e i suoi servizi restano a Lussemburgo. Il medesimo protocollo conferma anche lo status quo relativo alla sede del Consiglio, della Commissione e della Corte di giustizia. Stabilisce, inoltre, la sede del Tribunale di primo grado, della Corte dei conti (la cui sede provvisoria era stata fissata con una decisione del 5 aprile 1977) e della Banca europea per gli investimenti (Lussemburgo); dell’Istituto monetario europeo e della Banca centrale europea (Francoforte); del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni (Bruxelles). Infine, il protocollo stabilisce la sede di vari organismi comunitari.

Luigi Marchegiani (2009)




SEE

Spazio economico europeo (SEE)




Segni, Antonio

S. (Sassari 1891-Roma 1972) è stato uno dei protagonisti della politica italiana tra il 1948 e il 1964 ricoprendo gli incarichi di ministro dell’Agricoltura, dell’Istruzione, degli Esteri e della Difesa. Presidente del Consiglio dal 1955 al 1957 e dal 1959 al 1960, nel maggio del 1962 fu eletto Presidente della Repubblica, carica dalla quale si dimise nel dicembre del 1964 perché colpito da grave infermità.

Dirigente del Partito popolare italiano e tra i fondatori in Sardegna della Democrazia cristiana (DC), S. maturò la sensibilità nel valore dell’unità ideale, culturale, politica ed economica dell’Europa, ispirandosi al pensiero e alle proposte di don Luigi Sturzo, riprese e arricchite nei documenti fondativi della DC da Alcide De Gasperi.

I tratti distintivi dell’europeismo di S. furono lo sforzo di collegare le ragioni ideali, giuridiche, religiose e storiche che imponevano all’Italia di favorire l’unità economica e politica dei paesi liberi del continente, con la consapevolezza che sarebbe stata anche un fattore decisivo per la difesa della libertà nell’Occidente e per lo sviluppo civile e sociale del paese. I documenti che li evidenziano sono tanti. Ne ricorderemo alcuni dei più significativi, tratti dai suoi interventi in Parlamento, in congressi e consigli nazionali della DC (importanti per il peso che in quegli anni esercitavano gli indirizzi del partito di maggioranza relativa sui governi “monocolori” DC e su quelli di coalizione) e in altre circostanze di spicco.

Sono tratti evidenti nel discorso programmatico di presentazione del suo primo governo in Parlamento il 13 luglio 1955, come risulta dagli Atti parlamentari della Camera di quella data.

«Il rilancio europeistico – dice il presidente del Consiglio designato – che attraverso le Conferenze di Messina e di Bruxelles ha assunto un aspetto più concreto, testimonia che l’ideale di una Europa unita non è tramontato. […] Gli attuali tentativi per la creazione di un mercato comune costituiscono un passo decisivo su questa via. Ma siamo sempre convinti, oggi come ieri, che la unificazione politica, oltre quella economica dell’Europa rimane una imperiosa necessità […]. Se l’Europa occidentale vuole riacquistare l’influenza che tradizionalmente e moralmente ebbe, ed essere in grado di dare un contributo alla politica mondiale pari alla sua importanza storica ed a questa sua grandiosa tradizione, essa deve unirsi perché soltanto attraverso l’unificazione riacquisterà una effettiva forza e quella indipendenza economica che ne è la necessaria premessa».

Il 19 agosto 1955 – parlando a Trento nel primo anniversario della morte di Alcide De Gasperi – S. pone l’accento sul valore che avrebbe anche per la difesa della pace nel continente e nel mondo la realizzazione di quella Comunità europea di difesa (CED) per la quale, con appassionata determinazione ma senza successo, lo statista trentino si era battuto negli ultimi anni. Dopo aver detto – citiamo dal testo del discorso pubblicato il 20 agosto dal quotidiano della DC “Il Popolo” – che già la costituzione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) realizza una organizzazione che rafforza la pace nel continente, S. afferma: «Accanto ad essa abbiamo avuto la CED in cui si è visto un nuovo avvenire per l’Europa. Essa non è riuscita ad affermarsi, e non per volontà nostra, ma successivi sviluppi internazionali ci portano a ritenere indispensabile la solidarietà internazionale per la difesa della civiltà attraverso una serie di ordinamenti semplici […]. Con questa nuova organizzazione internazionale che fu la passione del nostro maestro in tutta la sua vita, e che lo accompagnò sino all’ultimo, potrà finalmente realizzarsi quella tranquillità alla quale aspirano i popoli».

Al Consiglio nazionale della DC del 4-5 febbraio 1957, nella veste di presidente del Consiglio, S. prende la parola e pone l’accento sul valore che l’imminente firma dei trattati istitutivi del Mercato comune europeo (MEC) (v. Comunità economica europea) avrà per lo sviluppo economico e sociale del continente, per il rafforzamento della comunità atlantica e per i vantaggi che apporterà alle zone depresse del Mezzogiorno d’Italia.

Con ciò – precisa – «non si vuol dire che si debba assumere una posizione di terza forza, tutt’altro. Anzi l’unità europea deve essere concepita come un rafforzamento della NATO [North Atlantic treaty organization, v. Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico]. Il problema dello sviluppo economico è decisivo anche per le sorti delle guerre che si vincono per la superiorità delle attrezzature industriali, rafforzando l’Europa si porta un contributo validissimo al trattato del Nord Atlantico, al quale non si intende assolutamente rinunziare. Da parte di taluno è stato detto che trattandosi di una Unione esclusivamente economica, scarso ne sarebbe il valore; si dimentica così che non esistono problemi politici distinti da quelli economici. Ed è evidente che un passo così ardito come il Mercato comune non può non essere che un grande atto politico inquadrantesi nella politica seguita da dieci anni a questa parte. Iniziando dal porre delle basi economiche, e quindi sociali e politiche, noi intendiamo stringere ancora più i vincoli con gli altri paesi atlantici». Ricordato infine che vi è chi afferma che l’impegno del MEC oltremare potrebbe nuocere a quello dello Stato nel Mezzogiorno, S. replica: «Non vedo l’esistenza di un simile pericolo, tanto più che è stato istituito un apposito fondo europeo destinato esclusivamente alle zone depresse dei sei Paesi contraenti, zone che si trovano prevalentemente in Italia».

Il tono e i contenuti della dichiarazione fatta dal presidente del Consiglio il 25 marzo 1957 dopo la firma dei Trattati di Roma (integralmente riportata da “Il Popolo” del 26 marzo 1957) sono adeguati al valore dell’avvenimento.

S. esordisce affermando: «Non è senza un significato profondo che i trattati che segnano il primo passo verso una nuova unità dell’Europa sono firmati in Roma, in Campidoglio». Dopo aver ricordato che venti secoli prima Roma era diventata la capitale politica del mondo «per la forza del suo ordinamento statale e giuridico più che per quella delle armi»; che «millenovecento anni or sono questa civiltà, per disegno provvidenziale divenne universale: lo spirito cristiano permeò e fece sua la civiltà romana»; che quella civiltà mantenne per secoli «l’ispirazione e l’idea dell’unità europea» da Augusto a Carlo Magno e a Dante, S. osserva: «Questa unità parve infranta per sempre per le lotte fra popoli. […] Ma oggi si è ripresa coscienza della fondamentale unità e dei comuni destini. La strada che oggi si inizia con i trattati firmati, non è solo quella di una espansione di scambi commerciali, di un progresso economico, di una cooperazione, di mezzi e di tecnici, per la ricerca delle nuove fonti di energia. […] I cittadini dei sei Stati saranno i cittadini dell’Europa. Il sistema si costruirà e si perfezionerà giorno per giorno: oggi si è iniziata una strada che richiede coraggio e fiducia».

Incaricato di formare il suo secondo governo dopo le dimissioni di quello presieduto da Amintore Fanfani, S. dedica incisivi passi nel discorso programmatico in Parlamento al valore politico ed economico generale e agli effetti positivi per l’Italia del processo di integrazione europea iniziato coi Trattati di Roma. «In politica estera – dice – non possiamo che continuare nella strada che l’Italia ha scelto liberamente dieci anni or sono. […] Con questa pregiudiziale la nostra attività si rivolgerà in primo luogo all’Europa», al rafforzamento e alla estensione della sua unità, perché «noi riteniamo che questo sia il modo più idoneo per rafforzare, nel più vasto quadro delle Nazioni Unite, la solidarietà occidentale: sotto il duplice aspetto dell’Alleanza atlantica e dell’integrazione europea, sulle quali poggia ormai solidamente da anni tutta la nostra politica estera». Dopo aver affermato che il governo si sarebbe impegnato a realizzare tutte le riforme di struttura, gli ammodernamenti e gli adattamenti legislativi e fiscali necessari a favorire i maggiori successi possibili per l’economia e per il lavoro italiano nell’ambito del MEC, il presidente del Consiglio concludeva affermando che, oltre al rafforzamento della Comunità a sei, il governo era favorevole alla realizzazione in Europa «di una associazione multilaterale tra la Comunità a Sei e gli altri undici paesi dell’OECE [Organizzazione europea per la cooperazione economica]» e a far sì che il MEC, «lungi dal rappresentare un ostacolo, costituisca un valido strumento per la intensificazione degli scambi con i restanti paesi del mondo».

Replicando alla Camera ai deputati intervenuti nel dibattito sulla fiducia al governo, S. contestava la tesi dei comunisti e dei socialisti che il MEC avrebbe ostacolato lo sviluppo economico e sociale dell’Italia. «L’attuazione del Mercato comune è stata presentata da parte social-comunista come la causa di una certa recessione e di disagio nel settore dell’agricoltura e dell’industria. Questo non è vero. Il Mercato comune entrato in vigore con una piccolissima riduzione delle tariffe doganali non ha potuto produrre alcun effetto dannoso per l’economia italiana. La verità è un’altra: che la opposizione social-comunista è una opposizione di natura politica e ideologica. Essi non vogliono che le potenze occidentali e cristiane si uniscano per resistere al comunismo. Perciò difendere il Mercato comune vuol dire anche difendere la civiltà occidentale».

Parlando da ministro degli Esteri al Congresso Nazionale della DC nel gennaio del 1962 (le cui conclusioni rappresentarono una svolta storica per la politica italiana, perché crearono le condizioni del ritorno dei socialisti al governo dal quale erano stati esclusi nella primavera del 1947) S. dedicò la parte centrale del suo intervento – pubblicato in Atti dell’VIII Congresso nazionale della Democrazia cristiana a cura della SPES (Servizio propaganda e stampa) – a un realistico, e positivo, bilancio del progredire dell’integrazione economica dei paesi del MEC, e alle eccezionali prospettive, a livello mondiale, aperte dal processo (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della). «Quali sono stati e quali saranno i capisaldi della politica estera italiana? – si chiedeva S., che rispondeva – Lo sviluppo delle due Comunità, la Comunità atlantica e quella europea, […] il consiglio della quale ha approvato una serie di decisioni e di regolamenti di natura economica, sociale e politica, decidendo il passaggio alla seconda tappa della Comunità economica […] che è già un passo gigantesco nella storia del progresso dei popoli europei, ma un passo ancora secondario in confronto alla importanza politica della decisione di mettere in movimento quell’organizzazione sovranazionale funzionante a maggioranza che costituisce l’essenza stessa dei Trattati di Roma. […] I sei paesi della Comunità hanno realizzato infatti, nei primi quattro anni della sua esistenza, uno sviluppo industriale superiore a qualunque altro raggruppamento mondiale: i Sei, con l’Inghilterra ad esempio, superano per la produzione siderurgica sia l’Unione Sovietica che gli Stati Uniti d’America, e in molti altri settori si avvicinano già notevolmente alla produzione di queste due potenze economiche. […] E questa Comunità – concludeva S. – si rivolge ora ai paesi nuovi. Ben sedici paesi credono in questa forma di progresso derivante da libere associazioni di popoli; altri Stati chiedono di essere associati a questa espansione della Comunità economica, di cui l’Italia è parte essenziale».

L’appassionata fiducia nell’unità economica e politica dell’Europa di S., e la sua tenace e intelligente azione per favorirla, svolta nelle vesti di ministro degli Esteri e di presidente del Consiglio, ispirarono passi essenziali del messaggio rivolto alla nazione nella veste di capo dello Stato, dopo il solenne giuramento di fedeltà alla Costituzione fatto davanti al Parlamento l’11 maggio 1962. «L’Italia – affermava S. – ha dato, e a mio avviso continuerà a dare la sua opera efficace al proseguimento di una unità europea effettiva, sviluppando i germi essenziali di una comunità politica che sono contenuti nei Trattati di Roma […]. È in questa direzione che si svolge la storia e progredisce l’umanità: i nuovi legami che si stanno per contrarre in Europa significheranno il superamento definitivo di antichi, sterili antagonismi, e un concreto efficace contributo alla pace, aspirazione suprema di tutti i popoli e alla loro libertà. […] L’unità dell’Europa ha infatti una sua vigorosa capacità di espansione proprio perché animata da una volontà sempre più accentuata di superare le divisioni ed i contrasti attraverso i sistemi della libera discussione, prima, e dei liberi accordi poi. Questa Comunità – concludeva il capo dello Stato – potrà anche più efficacemente adempiere ad un altro dovere del nostro tempo che impegna particolarmente le nazioni più progredite: portare il necessario aiuto alle nuove nazioni che assurgono a libertà, e ciò al solo scopo di consolidarne insieme con l’indipendenza, il progresso materiale e spirituale».

Le enunciazioni, gli auspici, i giudizi e i bilanci di S. relativi al processo di sviluppo dell’unità economica e politica dell’Europa, hanno avuto un rigoroso riscontro pratico in sede nazionale e in tutte le sedi internazionali, comunitarie in particolare, nelle quali fu chiamato a operare nelle vesti di ministro degli Esteri, di presidente del Consiglio e di capo dello Stato. Per S., infatti, l’unità politica ed economica dell’Europa non fu solo un elemento, come tanti altri, derivante dalle situazioni interne e internazionali che condizionavano la vita dell’Italia nei primi anni del dopoguerra. Fu soprattutto il portato di valori ideali, culturali, giuridici, religiosi e politici che avevano radice profonda nella tradizione del cattolicesimo liberale, democratico e sociale del nostro paese; e che la DC si impegnò a tradurre in decisioni politiche di governo e parlamentari.

Nicola Guiso (2010)




Selwyn Lloyd




Semplificazione dei Trattati

L’ottica della semplificazione dei Trattati adottata con Nizza

Il problema della semplificazione dei Trattati è una questione abbastanza complessa. Lo dimostrano i dibattiti tra gli studiosi che oramai, su questo tema, si protraggono da decenni. A oggi, infatti, fanno parte del Diritto comunitario primario: il Trattato istitutivo della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), i Trattati costitutivi della Comunità economica europea (CEE) e la Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom), il Trattato costitutivo dell’Unione europea (UE), diversi Trattati che modificano sia il Trattato CE sia il Trattato UE, come il Trattato di Amsterdam e il Trattato di Nizza, diversi Trattati che modificano solo il Trattato CE, come il Trattato sulla fusione degli esecutivi, quello sulle disposizioni finanziarie e di bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea) e l’Atto unico europeo, un numero oramai rilevante di Trattati di adesione, che modificano sempre il Trattato comunitario originario e, ancora, una serie di atti o decisioni (v. Decisione) adottati con la procedura semplificata, che comunque completano il diritto comunitario primario (come, ad esempio, le decisioni relative alla fissazione delle sedi delle Istituzioni comunitarie o l’atto concernente le Elezioni dirette del Parlamento europeo), per non parlare dei protocolli allegati ai Trattati, che sono all’incirca una quarantina, alcuni dei quali di significativa rilevanza, come il protocollo sulla sussidiarietà allegato al Trattato di Amsterdam (v. anche Principio di sussidiarietà) e quello sull’Allargamento allegato al Trattato di Nizza.

Di fronte a questo panorama discorrere di semplificazione sembrerebbe necessario: per alcuni, basterebbe fare un unico Trattato che “fonda” in sé tutto il diritto primario attualmente in vigore tanto per la Comunità quanto per l’Unione.

Da un certo punto di vista, questa era l’ottica di fondo della Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) di Nizza: all’atto finale adottato il 14 febbraio 2000, infatti, sono state allegate diverse dichiarazioni, una delle quali, la numero 23, intitolata “Dichiarazione relativa al futuro dell’Unione”, prevedeva che, prima del Consiglio europeo di Laeken, che si sarebbe tenuto nel dicembre 2001, il dibattito sul futuro dell’Unione si sarebbe dovuto concentrare, tra le altre, proprio sulla questione della semplificazione dei Trattati «al fine di renderli più chiari e meglio comprensibili senza modificarne la sostanza».

Con la Dichiarazione adottata a Nizza si partiva dal presupposto che fosse possibile mettere ordine nel diritto primario senza modificarne la sostanza, anzi, la volontà espressa chiaramente era proprio quella di non modificare in alcun modo la sostanza dei Trattati. Sarebbe stato sufficiente fondere tutto il diritto primario in un unico Trattato o al massimo in due, uno per la Comunità e uno per l’Unione, mettendo fine all’intreccio degli atti di diritto primario in vigore, di modo che il cittadino potesse comprendere meglio finalità, competenze e funzionamento delle Istituzioni europee (v. Istituzioni comunitarie).

Con Nizza si voleva semplificare il diritto primario per renderlo più chiaro, più comprensibile, senza che questa operazione comportasse modifiche nella sostanza.

Era un obbiettivo raggiungibile? Si poteva immaginare di mettere mano al diritto primario soltanto facendo un’operazione, pur necessaria, di semplificazione, senza andare a toccare in nessun modo la sostanza delle disposizioni?

Secondo alcuni sarebbe stato possibile, da un punto di vista teorico, semplificare senza modificare il contenuto della normativa, in attesa di sviluppi ulteriori del processo di integrazione (v. Integrazione, metodo della).

L’ottica della semplificazione dei Trattati adottata con Laeken

Se, in effetti, semplificare può anche significare intervenire senza modificare la sostanza, da un punto di vista politico la questione si mostrava più complessa: nel momento in cui ha fatto la comparsa, nel contesto comunitario, in modo dirompente e, comunque sia, in modo sicuramente più incisivo rispetto al passato, il problema della “Costituzione europea” è sembrato impossibile intervenire senza modificare la sostanza.

L’approccio adottato a Laeken e lo sviluppo della c.d. “Costituzione europea”, approvata dalla Convenzione europea, il cui processo di ratifica fu bruscamente interrotto a seguito dei referendum contrari nei Paesi Bassi e in Francia, hanno sicuramente modificato la linea “politica” decisa a Nizza.

Nel rileggere il passo specifico dedicato alla semplificazione nella Dichiarazione di Laeken si comprende il mutamento di prospettiva rispetto a Nizza: «Attualmente l’Unione europea conta quattro trattati. Gli obiettivi, le Competenze e gli strumenti politici dell’Unione sono sparsi in questi trattati. In un’ottica di maggiore trasparenza, una semplificazione è imprescindibile. Si possono quindi formulare quattro serie di domande. La prima riguarda la semplificazione degli attuali trattati senza modificarne il contenuto. Deve essere riveduta la distinzione fra Unione e Comunità? E la suddivisione in tre Pilastri dell’Unione europea? Seguono poi le domande relative ad un possibile riordino dei trattati. È necessario operare una distinzione fra un trattato di base e le altre disposizioni del trattato? Occorre procedere a questa separazione? Ne può derivare una distinzione fra le procedure di modifica e quelle di ratifica del trattato di base e le altre disposizioni del trattato? Occorre inoltre riflettere sull’opportunità di inserire la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nel trattato di base e porre il quesito dell’adesione della Comunità europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Infine, si pone il quesito se questa semplificazione e questo riordino non debbano portare, a termine, all’adozione nell’Unione di un testo costituzionale. Quali dovrebbero essere gli elementi di base di tale legge fondamentale? I valori che l’Unione coltiva, i diritti e i doveri fondamentali del cittadino, i rapporti fra gli Stati membri all’interno dell’Unione?».

È chiaro che la Dichiarazione di Laeken punta ad una modifica anche sostanziale dei Trattati: sebbene utilizzi due termini diversi, “semplificare” e “riordinare”, l’ottica è chiaramente a favore della modifica formale e sostanziale dei Trattati, introducendo nel dibattito istituzionale il concetto di costituzione.

L’ottica della semplificazione dei Trattati adottata con Lisbona

Nizza e Laeken, due modi diversi di intendere la semplificazione dei Trattati: puramente formale, il primo, anche sostanziale, il secondo. E la differenza è data dall’erompere del concetto di costituzione in ambito comunitario ed europeo.

Con Nizza l’ottica era quella della “codificazione”, ossia della raccolta in un unico testo di tutto il diritto primario formalmente in vigore, senza modificare in alcun modo il contenuto e la sostanza. Si sarebbe potuto operare anche solo una “consolidazione”, per utilizzare un gergo comunitario riguardante il diritto derivato, ossia, si sarebbe potuto integrare in un unico atto Trattato e modifiche, anche se ciò sarebbe potuto apparire eccessivamente riduttivo, visto che un testo consolidato in sé non ha valore giuridico, in quanto tutti i testi anteriori restano in vigore. La scelta della “codificazione”, invece, avrebbe per lo meno avuto il pregio di abrogare i Trattati e le modifiche precedenti, poiché dopo la codificazione l’unico atto formalmente in vigore sarebbe stato appunto il nuovo Trattato frutto della codificazione. Al massimo, si sarebbe potuto accostare alla codifica anche la rifusione, ossia, la possibilità di piccole, lievi e certamente non significative modifiche. Va comunque considerato che la codificazione voluta da Nizza sarebbe stata pur sempre assoggettata alla ratifica degli Stati membri: abrogando i vecchi Trattati e le vecchie modifiche, il risultato sarebbe stato un nuovo Trattato che, per entrare in vigore, avrebbe ovviamente dovuto essere sottoposto al processo di ratifica degli Stati membri.

Con Laeken, invece, si è adottata un’altra ottica: per fare una “Costituzione europea” non si poteva prescindere dalla riforma della sostanza dei Trattati. Ma il processo di ratifica della “Costituzione europea”, bruscamente arrestatosi, ha avuto come effetto, tra gli altri, quello di “eliminare” dal gergo europeo proprio il vocabolo che aveva contribuito a cambiare direzione da Nizza a Laeken, ossia, il termine “costituzione”.

Che sia stato il termine “costituzione” il motivo del rigetto del nuovo testo non è dato sapere, ma gli sviluppi successivi sembrano voler imputare proprio a questo il fallimento del processo di ratifica.

Basta leggere le conclusioni della presidenza del Consiglio europeo del 21-22 giugno 2007 e il progetto di mandato della CIG (allegato I), alla cui conclusione è stato approvato il Trattato di Lisbona, per rendersene conto. In più passaggi si sottolinea la necessità di abbandonare l’idea di “Costituzione europea”, si dice espressamente che il Trattato UE e il Trattato CE, quest’ultimo destinato a diventare Trattato sul funzionamento dell’Unione, non avranno carattere costituzionale, e si afferma categoricamente che il termine “costituzione” non sarà utilizzato, fino alla volontà di escludere dai nuovi Trattati modificati qualsiasi riferimento ai Simboli dell’Unione europea, come la bandiera, l’inno e il motto, proprio perché questi avrebbero potuto significare un mantenimento dell’idea di costituzione.

A oggi, pertanto, si potrebbe dire che si è giunti a un compromesso sul tema della semplificazione dei Trattati: non si sono fatte modifiche solo formali ma anche sostanziali, quindi, si è andati oltre Nizza, ma, allo stesso tempo, non si è giunti ad avere un unico testo costituzionale europeo, come indicato dal Consiglio di Laeken. Che poi il Trattato di Lisbona realizzi, di fatto, una Costituzione “innominata”, è questione che necessiterebbe di ulteriore approfondimento.

Davide Galliani (2012)




Semplificazione Legislativa

Obiettivo della semplificazione legislativa è quello di alleggerire le disposizioni legislative grazie all’applicazione dei principi di necessità e di proporzionalità (v. Principio di proporzionalità). La semplificazione è realizzata in via principale tramite la rifusione (v. Rifusione dei testi normativi), la codificazione (v. Codificazione dei testi normativi) e il Consolidamento dei testi legislativi.

Nel 1992 il Consiglio europeo di Edimburgo ha attribuito grande rilievo al concetto di semplificazione, data la produzione particolarmente abbondante di testi legislativi europei, talché è divenuta prioritaria l’opera di semplificazione legislativa volta a garantire la necessaria efficienza delle azioni comunitarie. Si tratta di intensificare l’impegno per rifondere e codificare il Diritto comunitario e per migliorare la redazione dei testi legislativi sotto il profilo della chiarezza del linguaggio e della coerenza con la legislazione già in vigore.

Nel maggio del 1996 è stato attuato il programma pilota Simpler legislation for the internal market (SLIM). Nel 1997, all’atto finale della Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) è stata allegata una dichiarazione relativa alla qualità redazionale della legislazione comunitaria. In essa si raccomanda al Parlamento europeo, al Consiglio dei ministri e alla Commissione europea di formulare linee direttrici al fine di migliorare la forma della legislazione.

Sul tema in esame assumono ora rilievo due recenti studi, quasi contemporanei: la relazione finale del Gruppo IX “Semplificazione” della Convenzione Europea (CONV 424/02 – WG IX 13 del 29 novembre 2002), e la comunicazione della Commissione europea in tema di architettura istituzionale (comunicazione 728, def., del 4 dicembre 2002).

I lavori del Gruppo IX sono partiti da una constatazione: non vi è nulla di più complesso della semplificazione. In effetti, la semplificazione degli strumenti e delle procedure dell’Unione europea è un’operazione con implicazioni considerevoli, direttamente connessa con il livello di democrazia delle Istituzioni comunitarie.

Attualmente l’Unione dispone di 15 differenti strumenti giuridici. Taluni di questi, anche se hanno nomi diversi, producono effetti simili: andrebbe quindi ridotto il loro numero, allo scopo di rafforzare i fondamenti democratici dell’ordinamento giuridico dell’Unione grazie a una migliore intelligibilità del sistema. Il Gruppo ha perciò avanzato una proposta che la Convenzione ha accolto e che ora è contenuta nell’art. 32 della parte I del progetto di Trattato costituzionale (v. Costituzione europea). Gli strumenti giuridici di cui sopra verrebbero distinti in obbligatori e non obbligatori. I primi sarebbero: la legge europea (ex “regolamento”), atto di portata generale, direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri; la legge quadro europea (ex “Direttiva”), atto che vincola gli Stati membri per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla scelta della forma e dei mezzi; la Decisione europea, atto non legislativo obbligatorio in tutti i suoi elementi; se designa dei destinatari, è obbligatoria soltanto nei confronti di questi. Gli strumenti giuridici non obbligatori, e quindi privi di effetto vincolante, sarebbero, come nell’attuale sistema (art. 249), le raccomandazioni (v. Raccomandazione) e i pareri (v. Parere) adottati dalle istituzioni.

Oggetto di attenzione è costituito altresì dalla categoria dei c.d. «atti atipici», ossia gli atti utilizzati dalle istituzioni, ma non previsti dal Trattato (v. anche Trattati) e privi in linea di massima di valore giuridico vincolante (Risoluzioni, conclusioni, dichiarazioni, ecc.). Il Gruppo IX ha ritenuto che la semplificazione di tali atti debba essere effettuata con cautela, al fine di preservare la flessibilità necessaria nella loro utilizzazione, pur sottolineando che il legislatore (Parlamento/Consiglio) dovrebbe astenersi dall’adottare atti atipici in una materia quando gli siano state presentate proposte o iniziative legislative riguardanti la stessa materia. Infatti, l’utilizzazione degli atti atipici nei settori legislativi potrebbe suscitare l’impressione che l’Unione legiferasse attraverso l’adozione di strumenti atipici.

Oltre agli atti, la semplificazione riguarda le procedure. Il numero elevato di procedure diverse figuranti nel trattato, si spiega con la varietà delle consultazioni di varie istituzioni o organi (Comitato economico e sociale, Comitato delle regioni, Banca centrale europea, ecc.) e con le due modalità principali di voto al Consiglio (Voto all’unanimità o Maggioranza qualificata; v. anche Maggioranza ponderata). Se, restringendo il campo d’indagine, si prendono in considerazione solo i ruoli rispettivi del Parlamento europeo e del Consiglio, le procedure di decisione (v. Processo decisionale) sono limitate essenzialmente a cinque, ossia la Procedura di codecisione (Codecisione), la Procedura di cooperazione, la Procedura di consultazione e la Procedura di parere conforme del Parlamento e la presa di decisione da parte del Consiglio.

Dal canto suo la Commissione, nella comunicazione citata, osserva che la specificità della costruzione europea è all’origine della complessità del sistema attuale, ma ritiene che sia possibile semplificare le modalità con cui l’Unione esercita le sue principali funzioni.

Circa la funzione legislativa, al fine di rafforzare la legittimità democratica delle decisioni dell’Unione, viene ritenuto opportuno applicare la procedura di codecisione all’adozione di tutte le leggi europee, nonché generalizzare il voto a maggioranza qualificata in sede di Consiglio, onde assicurare che l’Unione allargata (v. Allargamento) conservi la capacità di decidere. In determinati casi sensibili, il legislatore dovrebbe poter ricorrere a maggioranze rafforzate, ipotesi questa che agevolerebbe il progressivo abbandono del principio dell’unanimità.

In vista della semplificazione, potrà essere opportuno adottare testi attuativi a livello dell’Unione, tenendo presenti le competenze da essa esercitate: competenze legislative e competenze non legislative. Esemplificando, si situano tra queste ultime le misure di coordinamento delle strategie nazionali in materia di politica economica e/o di occupazione, dell’organizzazione della cooperazione amministrativa, o ancora della Politica estera e di sicurezza comune. È bene comunque che le competenze vengano presentate in modo tale da mettere in luce i vari livelli di intensità dell’azione dell’Unione e la portata delle sue responsabilità, senza tuttavia introdurre elementi di rigidità intrinseci a una catalogazione delle competenze.

Nell’esercizio delle varie attività, poiché una graduale evoluzione istituzionale è suscettibile di favorire la semplificazione, potrebbe risultare utile ricorrere ad agenzie europee di regolamentazione là dove si tratti di fornire assistenza tecnica alle istituzioni, elaborare pareri e raccomandazioni e adottare decisioni individuali nel quadro di una determinata Legislazione. Gli attuali trattati non contengono una specifica base giuridica sulla quale fondare il ricorso a cosiffatte agenzie, e sarebbe perciò opportuno provvedere al riguardo.

In tema di bilanci, gli obiettivi della semplificazione sono l’equità, l’equilibrio tra entrate e spese, la semplicità, l’ampliamento della capacità dell’Unione di definire le modalità del suo finanziamento, la razionalizzazione delle procedure per l’adozione della decisione sulle Risorse proprie e per l’adozione del Bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea).

L’equilibrio tra le istituzioni e la condivisione dei poteri sono entrambi caratteristici della costruzione europea. Tra Cooperazione intergovernativa e strutture federali (v. Federalismo), il metodo comunitario (v. anche Funzionalismo) ha saputo aprire una strada che concilia l’efficacia e il rispetto delle identità nazionali. È auspicabile che qualsiasi operazione di semplificazione rispetti tale equilibrio ed eviti la creazione di nuove istituzioni che renderebbero meno comprensibili ed efficienti i meccanismi decisionali.

Giorgio Bosco (2007)




Serpente monetario

Antefatti storici: primi tentativi di regolamentazione dei rapporti in campo monetario

Fin dalla fine della Seconda guerra mondiale si pose agli Stati dell’Europa occidentale il problema di regolare i loro rapporti in campo monetario in modo da evitare da un lato un ritorno alle pratiche di svalutazione competitiva e di restrizioni agli scambi prevalenti negli anni della grande crisi, d’altro lato di attutire gli effetti della liberalizzazione del commercio e dei pagamenti internazionali voluta dagli Stati Uniti. Come è noto, attraverso gli accordi sottoscritti tra 44 paesi a Bretton Woods nel luglio 1944, l’amministrazione di Franklin Delano Roosevelt mirava a creare per il dopoguerra un sistema di scambi multilaterale, che dal punto di vista monetario avrebbe dovuto poggiare su un sistema di cambi fissi ma aggiustabili centrato sul dollaro, convertibile in oro ad un tasso fisso di 35 dollari per oncia.

Le realtà dei fatti, e in particolar modo la crisi che colpì la sterlina inglese al momento del ritorno alla convertibilità nell’estate 1947, rese ben presto evidente l’incompatibilità del sistema di Bretton Woods col perseguimento da parte degli Stati europei occidentali di una politica che dava priorità alla crescita del benessere dei cittadini in vista di una restaurazione del consenso interno, gravemente incrinato dalla grande crisi e dalla guerra.

Per evitare che il mantenimento dell’inconvertibilità delle valute provocasse un blocco degli scambi, gli Stati aderenti all’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE), applicando su scala regionale il progetto di clearing union presentato da John Maynard Keynes durante gli anni di guerra, diedero vita nel settembre 1950 all’Unione europea dei pagamenti (UEP); in pratica, una sorta di camera di compensazione valutaria, che consentiva ai paesi partecipanti di bilanciare i propri deficit e surplus con un uso limitato delle riserve e mantenendo le proprie monete inconvertibili.

L’UEP creò le condizioni favorevoli alla ripresa e all’espansione sostenuta degli scambi intereuropei. Essa operò fino alla fine del 1958, quando, in virtù del miglioramento delle loro situazioni finanziarie, i paesi europei decisero che era giunto il momento di aderire al sistema di Bretton Woods.

Sembrava che il sistema dei cambi, che faceva perno sulla supremazia economica, politica e militare statunitense, rappresentasse una garanzia incrollabile di sviluppo ordinato. Non per caso il Trattato di Roma (v. Trattati di Roma) del 1957 non prevedeva nessuna misura di integrazione in campo monetario. Esso si limitava a fissare i principi generali cui dovevano attenersi gli Stati membri nelle loro politiche monetarie e a regolare il ricorso alle misure necessarie a superare difficoltà nella bilancia dei pagamenti (articoli 104-109).

L’Europa comunitaria di fronte alla crisi del sistema di Bretton Woods

Ma già alla fine degli anni Cinquanta, quando il sistema di Bretton Woods raggiunse il suo apogeo, erano in atto quei processi che nel giro di una decina di anni avrebbero portato al collasso del sistema dei cambi fissi. Non è qui la sede per ricostruire in dettaglio le tappe di questa crisi. Ci limitiamo a ricordarne in estrema sintesi le cause determinanti. Esse facevano capo al determinarsi, fin dalla fine degli anni Cinquanta, di un deficit nella bilancia dei pagamenti statunitense dovuto ai forti esborsi all’estero per gli aiuti agli alleati, per il mantenimento delle basi militari e, in misura crescente, per gli investimenti diretti di imprese e banche. Il costante deflusso di dollari che tale squilibrio implicava, un deflusso che si andò aggravando col rafforzarsi dei centri di potere economico alternativi agli Stati Uniti, rendeva sempre meno credibile l’impegno di convertibilità della valuta americana in oro. D’altra parte la liquidità necessaria a sostenere un sistema di scambi in forte espansione era garantita proprio dal deficit statunitense. Così il disavanzo della bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti lasciava presagire il futuro collasso del sistema, ma d’altro lato era proprio tale disavanzo che ne garantiva il funzionamento.

Era naturalmente una situazione insostenibile, la cui precarietà fu evidenziata dalla crescente instabilità che si manifestò nella seconda metà degli anni Sessanta, a partire dalla svalutazione della sterlina del novembre 1967. Alla crisi della sterlina seguì quella del franco francese, innescata dai movimenti sociali del 1968. Alla fine, nell’agosto 1969, il governo francese, dopo aver impegnato circa 5 miliardi di dollari delle riserve nella difesa del franco, dovette accettare una svalutazione dell’11,1%. In modo speculare, le tensioni sui mercati finanziari costrinsero la Germania federale a rivalutare la propria valuta, nell’ottobre 1969, del 9,29%. Questi movimenti valutari avevano un impatto preoccupante sul neonato mercato comune, marcando la fine del clima di stabilità che ne aveva caratterizzato i primi dieci anni di vita, durante i quali i rapporti di cambio si erano mantenuti (a eccezione della rivalutazione del marco del 1961) entro i limiti di oscillazione (±0,75%) previsti dall’Accordo monetario europeo del 1955. In particolare, venivano messi a rischio i meccanismi di fissazione dei prezzi comuni alla base della Politica agricola comune (PAC).

La PAC, come era venuta definendosi dal 1962, si fondava su un sistema di prezzi comuni espressi in un’Unità di conto europea (ECU) che aveva un valore in pratica equivalente a quello del dollaro. Ogni variazione delle parità di cambio avrebbe dovuto comportare, al fine di mantenere l’uniformità dei prezzi all’interno del Mercato comune europeo (MEC) (v. Comunità economica europea), che a una svalutazione corrispondesse un istantaneo aumento dei prezzi dei prodotti agricoli nel paese in questione e a una svalutazione una caduta dei prezzi. Si trattava di misure inaccettabili per i costi sociali ed economici che avrebbero comportato. Per ovviare agli scompensi introdotti dall’instabilità valutaria, si decise quindi di ricorrere a misure di compensazione, tasse sulle esportazioni di chi svalutava e sgravi sulle importazioni di chi rivalutava, denominati “importi compensativi monetari” (ICM), misure che avrebbero dovuto essere temporanee, ma che, col persistere dell’instabilità finanziaria internazionale, si tradussero in un complesso sistema di controlli, prelievi e compensazioni sugli scambi agricoli. Un regime evidentemente scarsamente compatibile con l’idea di mercato comune.

Vi erano poi altre ragioni più generali per cui i cambiamenti delle parità non risultavano graditi ai governi degli Stati membri. Per coloro che erano costretti a svalutare, il deprezzamento della propria moneta era considerato un indebolimento sul piano politico; in più, e in misura sempre maggiore con l’avvio della fase della stagflazione nella seconda metà dei Settanta, comportava il pericolo concreto di un aumento dell’inflazione. D’altro lato, chi era costretto a rivalutare lo faceva malvolentieri, perché ciò implicava una perdita di competitività dei suoi prodotti sui mercati mondiali. Vi erano quindi forti ragioni che militavano a favore della creazione di un sistema che isolasse l’economia europea dai rovinosi movimenti valutari determinati dalla crisi del sistema di Bretton Woods.

Il Piano Werner e le prime prospettive di un’unione economico e monetaria

Non a caso alla fine degli anni Sessanta cominciò un proliferare di piani per l’integrazione monetaria dei Sei. Si venne prospettando così un accordo sulla prospettiva di realizzazione di un’unione monetaria in tempi e modi graduali, mentre si delineò un contrasto tra due punti di vista diversi riguardo alle modalità di instaurazione dell’unione monetaria. Da un lato vi erano i cosiddetti “monetaristi”, capeggiati dalla Francia, che propugnavano un percorso caratterizzato fin dalle prime fasi dalla fissazione di margini di oscillazione ristretti e dalla creazione di istituzioni monetarie comuni in grado di fornire assistenza ai paesi in difficoltà. D’altra parte vi era la posizione degli “economisti”, sostenuta in primis dalla Germania, che considerava necessario procedere in primo luogo all’armonizzazione delle politiche economiche e alla riduzione dei differenziali nelle variabili macroeconomiche, in primo luogo l’inflazione, prima di passare all’instaurazione di tassi di cambio fissi. Alla base della posizione sostenuta dalla Francia vi era l’esigenza di un paese a valuta debole di ottenere in tempi brevi un sostegno da parte dei partner insieme alla volontà di mettere al riparo la PAC dalle conseguenze dell’instabilità monetaria. Da parte tedesca, invece, vi era una ovvia reticenza a sopportare l’onere del sostegno delle valute di paesi ad alta inflazione. Ma vi erano anche solide ragioni che spingevano la Germania verso una posizione favorevole all’integrazione monetaria. La stella polare della politica economica tedesca era infatti il mantenimento di un largo avanzo commerciale, grazie sia alla qualità di suoi manufatti sia a una politica monetaria volta a mantenere un tasso di cambio reale favorevole. La prospettiva di un continuo apprezzamento del marco era perciò quanto mai sgradita ai tedeschi, i quali, ostili anche al mantenimento del sistema dei cambi fissi che li costringeva a comportamenti inflazionistici, vedevano nell’instaurazione di un meccanismo europeo di fluttuazione congiunta un modo per limitare i danni.

I due punti di vista, espressi all’inizio del 1970 nel secondo Piano Barre e nel Piano Schiller, trovarono un punto di conciliazione nel piano elaborato da un Comitato presieduto dal primo ministro del Lussemburgo Pierre Werner sulla base del mandato ricevuto dalla Conferenza dell’Aia del dicembre 1969. Presentato nel giugno 1970 al Consiglio dei ministri, il piano prevedeva l’instaurazione di un’Unione economica e monetaria entro dieci anni, attraverso un percorso in tre tappe in cui si sarebbero conciliate le opposte visioni dei monetaristi e degli economisti, rispettando uno stretto parallelismo tra la realizzazione della convergenza macroeconomica e l’intensificazione della cooperazione monetaria. In due riunioni tra il febbraio e il marzo 1971 il Consiglio adottò le indicazioni contenute nel Rapporto Werner: nel giro di dieci anni i paesi della Comunità economica europea (CEE) avrebbero dovuto istituire tra loro un’unione economica e monetaria. In questa ottica, come primo passo concreto, nella risoluzione finale della riunione del 22 marzo si invitarono le Banche centrali degli Stati membri a limitare i margini di oscillazione fra le monete europee. In aprile, i governatori delle Banche centrali si accordarono per ridurre detti margini al ±0,6%.

Tali progetti furono travolti dall’aggravarsi della crisi del sistema finanziario internazionale. Pochi mesi dopo le decisioni del Consiglio, nell’agosto 1971, la decisione unilateralmente presa dall’amministrazione Nixon di sospendere la convertibilità del dollaro in oro segnò l’avvio dell’agonia finale del sistema di Bretton Woods. Gli accordi raggiunti allo Smithsonian institute di Washington il 18 dicembre 1971 consentirono una temporanea e parziale ripresa del sistema dei cambi fissi. Ma il nuovo margine di oscillazione rispetto al dollaro, fissato al ±2,25% (dal ±1% stabilito nel 1944) non era sostenibile per i paesi europei: in tal modo le loro monete avrebbero potuto fluttuare tra loro del ±4,5% e, nel caso del movimento nel tempo di due valute tra i due estremi della banda, la fluttuazione poteva raggiungere il 9%, una situazione che metteva a rischio la sopravvivenza stessa del MEC e in palese contraddizione con i progetti di unione monetaria. Così nel febbraio 1972 la Commissione europea presentò una serie di proposte miranti alla costituzione di un sistema che permettesse la riduzione dei margini di oscillazione valutaria e l’istituzione di un Fondo monetario di cooperazione. Nello stesso senso si mossero i governatori delle Banche centrali che incaricarono un gruppo di esperti, sotto la presidenza di Marcel Théron della Banca di Francia, di esaminare gli aspetti tecnici di un regime di fluttuazione ristretta. Sulla base di questi lavori, il Consiglio si riunì il 21 marzo 1972. Nella risoluzione finale si richiese alle Banche centrali di ridurre il margine di fluttuazione tra le monete comunitarie al ±2,25% (cioè di dimezzare l’oscillazione permessa dagli Smithsonian agreements).

Dal “Serpente monetario” al Sistema monetario europeo (SME)

Dopo che le Banche centrali ebbero definito le modalità operative del nuovo sistema (accordo di Basilea del 10 aprile 1972), il 24 aprile il sistema diventò operativo. Nasceva così il “Serpente monetario”, un regime di fluttuazione congiunta delle valute comunitarie che si muoveva all’interno del “tunnel” rappresentato dai margini di oscillazione rispetto al dollaro. La posizione del Serpente all’interno del tunnel era determinata dalla situazione della bilancia dei pagamenti della CEE verso i paesi terzi: quando questa era in surplus il Serpente “strisciava” verso l’estremità superiore del tunnel e viceversa in caso di deficit. I rapporti valutari intracomunitari determinavano la larghezza del “corpo” del Serpente, esso comunque non poteva superare i limiti del ±1,125% attorno alla parità centrale col dollaro. Dopo la fine definitiva del sistema dei cambi fissi, sancita dalla crisi del febbraio-marzo 1973, il tunnel scomparve e il Serpente si trasformò in un meccanismo di fluttuazione congiunta. L’accordo di Basilea prevedeva che l’onere del sostegno alle valute in difficoltà fosse ripartito tra i paesi a valuta debole e quelli a valuta forte, contemplando l’intervento di questi ultimi in difesa di una moneta in difficoltà e istituendo un sistema di finanziamenti a brevissimo termine tra Banche centrali. Nella pratica però il sistema fu lontano dal funzionare in maniera simmetrica e la maggior parte del peso della difesa delle valute ricadde sui paesi a valuta debole.

Al Serpente monetario aderirono, oltre ai Sei, anche i paesi candidati all’adesione, Regno Unito, Danimarca, Irlanda, e Norvegia che si associò poco dopo. L’adesione al Serpente monetario fu oggetto di una lunga serie di variazioni, a partire dall’uscita di Regno Unito e Irlanda appena due mesi dopo l’avvio del sistema. La causa di questo travagliato andirivieni va imputata alle diverse condizioni economiche degli Stati partecipanti e, soprattutto, alle divergenti politiche economiche seguite da ciascun governo in risposta alla crisi economica scoppiata in tutta la sua virulenza dopo lo shock petrolifero della fine del 1973. Mentre un gruppo di paesi, con la Germania in testa, rispose alla crisi con politiche di restrizione monetaria e controllo dell’inflazione interna, altri adottarono politiche di sostegno della domanda che, causando un aumento dell’inflazione, generavano sul tasso di cambio tensioni che impedivano la permanenza nelle bande ristrette. Così il Serpente monetario si andò gradualmente trasformando in una sorta di “zona del marco”, essendovi rimasti agganciati i paesi più dipendenti dalle esportazioni sul mercato tedesco. Tale sviluppo divenne evidente dopo la definitiva uscita della Francia dal sistema nel marzo 1976, in seguito all’adozione da parte del governo guidato da Jacques Chirac, di una politica economica espansiva. A questo punto tre dei maggiori paesi della Comunità, Regno Unito, Italia e Francia, si trovavano fuori dal regime di fluttuazione congiunta, con monete soggette a una continua svalutazione, mentre del Serpente monetario facevano parte Stati non membri della CEE. Come osservava sconsolatamente Robert Marjolin in un rapporto presentato alla Commissione nel marzo 1975: «L’Europa non è più vicina all’Unione economica e monetaria di quanto lo fosse nel 1969. In effetti, se vi è stato un qualche movimento esso è stato all’indietro. L’Europa degli anni Sessanta rappresentava un’entità economica e monetaria relativamente armoniosa che è stata smantellata nel corso degli ultimi anni; le politiche economiche e monetarie nazionali non sono state in 25 anni più discordanti, più divergenti di quanto lo siano oggi» (v. Ungerer, 1997, p. 131).

In retrospettiva, oggi si può dire che l’esperienza del Serpente monetario, pur fallendo negli obiettivi immediati per cui il sistema era stato costituito, rappresentò comunque un momento importante nella costruzione di un’identità monetaria europea. Fu un esperimento che permise ai paesi coinvolti di sperimentare meccanismi inediti di cooperazione monetaria in un mondo che abbandonava i cambi fissi ed entrava nei territori, sconosciuti nel secondo dopoguerra, dei cambi fluttuanti. L’esperienza risultò utile al momento di istituire il Sistema monetario europeo.

Tabella I. Cronologia del Serpente monetario: 1972-1979.

1972
24 aprile L’accordo sui margini ristretti (±1,125%) di fluttuazione entra in vigore fra Benelux, Francia, Germania e Italia. Tra i paesi del Benelux vige una banda più ristretta del ±0,75% (c.d. “Verme”)
1° maggio Adesione di Regno Unito, Irlanda e Danimarca.
23 maggio La Norvegia si associa.
23 giugno Escono Regno Unito e Irlanda.
27 giugno Esce la Danimarca.
10 ottobre La Danimarca rientra.
1973
13 febbraio L’Italia esce dal Serpente monetario.
19 marzo Inizia la fluttuazione congiunta, scompare il tunnel rispetto al dollaro.

Il marco tedesco si rivaluta del 3%.

Si associa la Svezia.

29 giugno Il marco tedesco si rivaluta del 5,5%.
17 settembre Il fiorino olandese si rivaluta del 5%.
16 novembre La corona norvegese si rivaluta del 5%.
1974
19 gennaio La Francia esce.
1975
10 luglio La Francia rientra.
1976
15 marzo La Francia esce per la seconda volta.
16 marzo Scompare la banda di oscillazione più ristretta (il “Verme”) tra i paesi del Benelux.
17 ottobre Il marco tedesco si rivaluta del 2%.

La corona danese si svaluta del 4%.

La corona norvegese si svaluta dell’1%.

La corona svedese si svaluta dell’1%.

1977
1° aprile La corona svedese si svaluta del 6%.

La corona danese si svaluta del 3%.

La corona norvegese si svaluta del 3%.

28 agosto Esce la Svezia.

La corona danese si svaluta del 5%.

1978
13 febbraio La corona norvegese si svaluta dell’8%
17 ottobre Il marco tedesco si rivaluta del 4%.

Il fiorino olandese si rivaluta del 2%.

Il franco belga-lussemburghese si rivaluta del 2%.

12 dicembre Esce la Norvegia
1979
13 marzo Entra in vigore lo SME

Fonte: Ungerer, 1997, p. 129; Fauri, 2001, p. 159.

Francesco Petrini (2010)




Serra i Moret, Manuel

S. (Vich 1884-Perpignan 1963) figlio dell’archivista, avvocato e dottore in lettere Joseph Serra, che, oltre a dare impulso alla vita culturale spagnola (fu amico di Verdaguer, Güell, Gaudí, ecc.), fu consigliere comunale, si trasferì a quindici anni a Barcellona, dove entrò a far parte della Lliga de Catalunya e frequentò l’università. I suoi primi passi in campo politico furono ispirati dal repubblicanesimo catalanista e per questo motivo fu arrestato diverse volte. Nel 1901, dopo la morte del padre, decise di approfondire i suoi studi negli Stati Uniti, dove si iscrisse all’Università di Chicago. Si dedicò in particolare all’economia e alla sociologia, imbevendosi della cultura anglosassone. Nel 1903 si trasferì in Messico, dove lavorò come amministratore in una fabbrica tessile a Culiacán. Poco tempo dopo rientrò a Chicago e, infine, a New York per proseguire gli studi nella Columbia University. Tornò in Spagna nel 1906 e nel maggio del 1907 si stabilì in Inghilterra per continuare i suoi studi nell’Università di Cambridge. A causa di una malattia della fidanzata si spostò di nuovo in Argentina, rientrando in Spagna alla fine del 1911.

Nel 1912 fu eletto consigliere comunale a Pineda per l’Unión Catalanista, ma l’elezione fu annullata per mancanza del tempo minimo di residenza. Divenne sindaco in seguito a nuove elezioni municipali nel 1913. L’inizio della dittatura di Primo de Rivera comportò la destituzione dei municipi, per cui S. dovette attendere fino al febbraio del 1930 per riottenere la sua carica di sindaco. Nel 1932 fu eletto deputato alle Cortes repubblicane.

Dal 1915 si orientò verso un socialismo di impronta laburista che cercò di combinare con le sue convinzioni nazionaliste. Nel 1916 aderì al Partido socialista obrero español (PSOE), che poco più tardi accettò la proposta della federazione catalana che concepiva la Spagna come una confederazione repubblicana di nazionalità iberiche. A prescindere dalla drasticità della dichiarazione, alla quale S. aveva partecipato in veste di relatore, non si riconosceva alle nazionalità un diritto immanente di autonomia in senso federale ma la si intendeva come una concessione graduale da parte dello Stato. Nel 1918, 1919 e 1923 si presentò come deputato per il PSOE nella circoscrizione di Mataró, ma senza successo. Le tensioni interne al PSOE per la questione nazionale indussero una parte dei socialisti catalani a fondare la Unión socialista de Cataluña (USC), separandosi dal partito nel 1923. S. fu eletto vice presidente della nuova formazione catalanista. Sostenitore del cammino democratico in direzione del socialismo, S. si oppose alla dittatura militare di Primo de Rivera e la USC fu soppressa nel 1926.

Nell’agosto del 1925 S. decise di andare in esilio e trascorse periodi in Argentina, Francia e Regno Unito, dove fece amicizia con Herbert Wells, George Bernad Shaw, Nehru e Tomáš Masaryk. I suoi contatti con personalità del socialismo europeo come Blum o Vandervelde lo spingeranno verso un convinto europeismo.

Nel 1930 scrisse la prefazione all’edizione catalana del Manifesto comunista, pur non essendo simpatizzante dell’URSS a causa delle sue nette convinzioni democratiche.

Fu nominato consigliere per l’Economia e il lavoro della Generalitat nel 1931, assumendo più tardi la direzione della minoranza socialista nel Parlamento catalano. Fu eletto nuovamente deputato a Madrid nelle elezioni del 1933. Partecipò alla proclamazione dello Stato catalano durante la rivoluzione dell’ottobre 1934, ma in seguito prenderà le distanze dalla USC e dalla formazione del Partido socialista unificado de Cataluña (PSUC) nel 1936.

Nel gennaio 1937 fu nominato sottosegretario ai Lavori pubblici nel governo della Generalitat e, alcuni mesi più tardi, presidente del Consejo de Economia. Nell’ottobre del 1938 ottenne la vice presidenza delle Cortes catalane.

La caduta di Barcellona lo spinse ad andare in esilio in Francia, da dove si trasferì in Argentina nel luglio del 1939. Da Buenos Aires riprese la sua attività intellettuale, tenendo conferenze e pubblicando diversi saggi, fra cui: La reconstrucción económica de España (1942), La Carta del Atlántico (1944), Reflexions sobre el futur de Catalunya (1951) e Ciudadanía catalana (1957).

Dopo la bolscevizzazione del PSUC e il patto tedesco-sovietico, lasciò il partito partecipando nel 1941 al Movimiento social de emancipación Catalana, che portò alla creazione del Partit socialista catalá nel luglio 1942 e, insieme a settori del POUM, al Movimiento socialista de Cataluña (MSC) nel 1945.

Nel dicembre 1946 S. rientrò in Europa ed entrò nella direzione del Movimiento e nel governo della Generalitat in esilio. Nel dicembre 1947 si dimise dal governo catalano per incompatibilità con i comunisti, circostanza che provocò il suo scioglimento. Nel febbraio 1949 aderì al governo repubblicano in esilio presieduto da Álvaro Albornoz. Nel marzo 1950 divenne presidente del Parlamento catalano in esilio nonostante l’opposizione dell’ERC.

Il MSC nel 1951 approvò una risoluzione che sosteneva la cooperazione in qualsiasi iniziativa federativa che riconoscesse i diritti nazionali della Catalogna e la partecipazione ai movimenti favorevoli agli Stati Uniti socialisti d’Europa.

In questo momento S., molto vicino al laburismo, manifestava la sua sfiducia nei confronti dello Stato come potere in grado di liberare le persone e le nazioni. Il suo ideale di libertà lo avvicinava piuttosto al progetto degli Stati Uniti d’Europa. L’Unione europea avrebbe potuto offrire la libertà alla Catalogna, la cittadinanza e la dignità della persona come individuo sociale all’interno della democrazia e del socialismo. Nel 1957 pubblicò Crida a la joventut catalana, insistendo sulle libertà in rapporto con l’unione europea come ideale di civiltà.

La sconfitta del Frente popular nella guerra civile determinò un’evoluzione nel pensiero di S., inducendolo ad abbandonare l’idea dello Stato come fattore di liberazione nazionale. L’idea di Europa, invece, rappresentava il cammino per realizzare la cittadinanza e la liberazione delle nazioni. L’unione europea sarebbe stata una terza forza fra i blocchi, che avrebbe dovuto costituirsi come un organismo sovranazionale rispettoso di tutte le caratteristiche vitali delle nazionalità. La confederazione europea poteva rappresentare per i cittadini catalani l’opportunità per vivere nella democrazia e nel socialismo.

Nel 1947 pubblicò il saggio Los Estados Unidos de Europa. La Unión Latina nella “Revista de Catalunya” a Parigi. A suo giudizio, per attuare l’unione europea era necessario creare un sentimento di cittadinanza europea come elemento di selezione piuttosto che di lotta. Unicamente le soluzioni collettive avrebbero potuto creare un clima propizio per la formazione degli Stati Uniti d’Europa superando i meschini interessi localistici. Un programma federalista europeo (v. Federalismo) avrebbe permesso la separazione della Catalogna dalla Spagna e una «comunicazione più diretta fra le comunità naturali e le nazioni, in un universo di fraternità, di sicurezza, di diritto e di giustizia».

Abdón Mateos López (2010)