Sforza, Carlo

S. (Montagnoso, Massa Carrara 1872-Roma 1952), originario di una famiglia della piccola nobiltà locale, entrò in diplomazia nel 1896 e nel corso delle fasi iniziali della sua carriera ebbe modo di compiere esperienze diverse quanto significative: da Londra alla Cina, passando attraverso la partecipazione alla conferenza di Algeciras. La carriera di S. subì una svolta nel corso della Prima guerra mondiale, quando fu nominato rappresentante d’Italia presso il governo serbo in esilio a Corfù. In quell’occasione egli espresse alcune considerazioni in merito alla posizione che l’Italia avrebbe dovuto assumere alla fine del conflitto nel contesto adriatico e dell’emergente realtà iugoslava, ponendosi in alcuni casi in contrapposizione alla politica perseguita da Sidney Sonnino. Alla fine della Grande guerra S. venne inviato a Costantinopoli quale alto commissario italiano, e in seguito fu sottosegretario agli Esteri; ulteriore momento di svolta nella vita politica del conte fu la sua nomina a ministro degli Affari esteri nell’ultimo governo guidato da Giovanni Giolitti tra il 1920 e il 1921. In tale ambito S. ebbe modo di sviluppare una politica estera tesa a compiere una svolta rispetto alle scelte di Vittorio Emanuele Orlando e Sonnino. S. ritenne in primo luogo fondamentale ristabilire buoni rapporti con la Francia e il Regno Unito; inoltre, rifiutando le tentazioni “revisioniste” e il mito della “vittoria mutilata”, cercò di proporre l’Italia come elemento di stabilità nell’area danubiano-balcanica, mirando a creare relazioni proficue con nazioni quali la Cecoslovacchia. Quanto ai rapporti con la Iugoslavia, egli puntò a risolvere in via bilaterale con Belgrado il contenzioso relativo al confine orientale e, pur non trascurando la difesa degli interessi italiani, anche dal punto di vista territoriale, cercò di sviluppare forme di collaborazione con il nuovo Stato iugoslavo, ritenendo che una politica pacifica avrebbe meglio assicurato l’influenza italiana nell’Adriatico. Questa strategia trovò piena espressione nel Trattato di Rapallo del novembre 1920, che assicurava all’Italia un confine strategicamente sicuro, nonché una serie di vantaggi territoriali anche in Dalmazia. Per il risultato conseguito, S. venne insignito del collare dell’Annunziata, la massima onorificenza del Regno, che lo rendeva “cugino” del sovrano.

Caduto il governo Giolitti, S. tornò alla carriera diplomatica, assumendo la carica di ambasciatore a Parigi, ruolo da cui si dimise, però, subito dopo l’avvento al potere di Benito Mussolini, non condividendo gli obiettivi di politica estera proposti dal fascismo. Subito dopo il 1922, S. si avvicinò agli esponenti dell’opposizione antifascista, prendendo parte ai fatti dell’Aventino. Alla fine del 1926, con il rafforzamento del regime, il conte decise di abbandonare il paese, una scelta che trovò espressione nel 1927 con un viaggio in Estremo Oriente motivato in apparenza da un’attività giornalistica per alcuni importanti quotidiani stranieri. Dopo questa missione egli decise di stabilirsi in Belgio, nazione di origine della moglie, una residenza intervallata da lunghi soggiorni in Francia, dove aveva una piccola proprietà. In Francia S. si legò all’emigrazione antifascista e, vicino a Giustizia e libertà, operò contro il regime soprattutto sfruttando le proprie competenze e conoscenze in campo internazionale: da un lato attraverso un’intensa attività pubblicistica, dall’altro mantenendo stretti rapporti con gli ambienti politici e diplomatici degli Stati democratici europei e sottolineando la minaccia alla pace che proveniva dopo la metà degli anni Trenta dall’aumento dell’aggressività della politica estera italiana, nonché di quella della Germania di Adolf Hitler. Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, S. da un lato tentò di avviare rapporti con la leadership politica francese, dall’altro cercò, sfruttando alcuni contatti con gli ambienti italiani vicini alla Corona, di impedire l’ingresso in guerra dell’Italia. Nella primavera del 1940, con la caduta della Francia, S. e la famiglia riuscirono in maniera fortunosa a lasciare il continente e a rifugiarsi in Gran Bretagna; da qui passò successivamente negli Stati Uniti, ove avrebbe vissuto per circa tre anni.

Il soggiorno in Nord America aprì una fase nuova nella esperienza politica di S. che divenne, per una serie di combinazioni fortuite, l’esponente di spicco dell’antifascismo emigrato negli Stati Uniti. Il conte si convinse che il conflitto gli avrebbe dato l’opportunità di porsi alla guida dell’opposizione a Mussolini, offrendogli l’occasione di proporsi quale leader di un’Italia antifascista. S. era convinto che il regime non sarebbe crollato dall’interno, ma solo grazie alla sconfitta militare e all’azione congiunta delle potenze vincitrici; dunque, pensava che chiunque fosse stato in grado di presentarsi ai vincitori come rappresentante di un’alternativa democratica al fascismo avrebbe avuto l’opportunità di guidare l’Italia del dopoguerra. Nella strategia di S. vi erano certo ambizioni personali, ma anche la convinzione che questa scelta fosse il modo migliore per impedire al paese di subire le dure conseguenze di una disfatta militare. S. ambiva in altri termini a divenire il Charles de Gaulle italiano; la decisione di recarsi negli Stati Uniti non fu dunque casuale; egli sapeva che in questo paese ancora neutrale avrebbe potuto agire ed esprimersi liberamente; inoltre, sperava di trovare un consenso presso gli italo-americani e gli italiani residenti nel Nord America e nel Sud America nella prospettiva di istituire una sorta di governo in esilio e, possibilmente, un’unità di volontari che si affiancasse agli eserciti delle nazioni in lotta contro l’Asse. A tal fine S. cercò, in una prima fase con qualche successo, di stabilire buoni rapporti con l’amministrazione di Franklin Delano Roosevelt. Quindi tentò di trasformare un’associazione antifascista, creata da alcuni intellettuali italiani di idee democratiche esuli negli Stati Uniti – la “Mazzini Society” – in una vera e propria organizzazione politica; in ciò fu coadiuvato da alcuni esponenti di Giustizia e libertà che avevano trovato rifugio in America, tra cui Alberto Cianca e Alberto Tarchiani.

Energie e tempo furono dedicati da S. e dai suoi collaboratori al tentativo di influenzare la comunità italo-americana, tendenzialmente filofascista, ma vicina al Partito democratico, in senso antifascista, nella speranza non solo di costruire la base di consenso necessaria al progetto di governo in esilio, ma di offrire all’amministrazione Roosevelt un elemento tale da spingere il governo di Washington a considerare S. l’interlocutore privilegiato degli Stati Uniti per l’Italia del dopoguerra. La politica del conte si scontrò però con una serie di ostacoli: le lotte di potere all’interno della comunità italo-americana, lo scarso interesse di Roosevelt verso l’Italia, gli scontri fra i vari esponenti dell’emigrazione antifascista, la crescente antipatia del Foreign office britannico verso un uomo considerato non solo poco rappresentativo, ma anche pronto a difendere gli interessi del proprio paese, una prospettiva che si poneva in aperta contrapposizione con le intenzioni del governo britannico che voleva, piuttosto, imporre all’Italia una “pace punitiva”.

Sebbene, dunque, la “legione” di volontari e il “Comitato Nazionale Italiano” non videro mai la luce, S. guadagnò comunque, presso gli ambienti della politica americana, una certa credibilità, spingendo alcuni settori dell’amministrazione statunitense a ritenere che fosse possibile realizzare una politica americana nei confronti dell’Italia. Non fu un caso che dopo il 25 luglio e l’armistizio il governo di Washington accettasse la richiesta di S. di un rapido rientro nell’Italia meridionale, appena liberata. Le autorità inglesi, sospettose delle intenzioni del conte, dapprima pretesero che S. si impegnasse a sostenere il governo Badoglio, quindi costrinsero S. a sostare a Londra, dove ebbe un tempestoso colloquio con Winston Churchill. Durante l’incontro il conte confermò il suo impegno verso il maresciallo, ma non nei confronti del re e della monarchia, che egli aveva preso a criticare apertamente fin dal 1940, ponendosi su posizioni vagamente repubblicane. Giunto nel Regno del Sud e venuto a conoscenza della posizione ostile a Vittorio Emanuele III assunta dal Comitato di liberazione nazionale di Napoli, S. ritenne di non poter sostenere Badoglio e si allineò alle scelte dei partiti antifascisti, in particolare collocandosi nell’area del Partito d’azione. Ciò accrebbe l’ostilità di Londra nei suoi confronti, ma lasciò agli americani la sensazione che potesse divenire in futuro un utile interlocutore. Al di là delle posizioni politiche contingenti, nella prima fase della guerra S. aveva riflettuto sulla realtà internazionale che si sarebbe presentata alla fine delle ostilità. In tale contesto egli aveva compreso il ruolo centrale che sarebbe stato esercitato dagli Stati Uniti e la crisi della centralità europea nelle relazioni internazionali; d’altro canto auspicava la nascita di strette forme di collaborazione multilaterale fra gli Stati europei e riteneva che l’Italia, anche per difendere i propri interessi nazionali, dovesse svolgere un ruolo centrale in tali nuove forme di cooperazione.

Dopo la “svolta di Salerno” S. entrò a far parte del governo Badoglio e, con la liberazione di Roma, gli fu affidata la responsabilità dell’Alto commissariato per l’epurazione. Nell’autunno del 1944, con la crisi del governo Bonomi, il Comitato di liberazione di Roma avanzò la candidatura di S. alla guida del governo o del ministero degli Esteri, ma il gabinetto britannico, che non si fidava del conte, pose il veto nei confronti della sua persona, nonostante il diverso parere espresso dalle autorità di Washington. In realtà la carriera di S. sembrava attraversare una fase difficile, in quanto egli appariva a molti come un esponente del periodo prefascista, lontano dalla nuova realtà del paese, e non poteva contare su un ampio consenso. Il futuro dell’Italia appariva ormai nelle mani dei partiti di massa e dei loro leader – la Democrazia cristiana (DC) di Alcide De Gasperi, il Partito socialista italiano (PSI) di Pietro Nenni e il Partito comunista italiano (PCI) di Palmiro Togliatti. Su S. pesava l’ostilità inglese e, quanto agli Stati Uniti, giungevano a Washington indicazioni – anche dal Vaticano – secondo cui egli non avrebbe potuto assumere una funzione di guida nell’Italia del dopoguerra. S. svolse dunque un ruolo minore tra il 1945 e il 1946, pur essendo considerato una personalità di prestigio.

La nuova svolta nella carriera di S., che nel frattempo si era avvicinato al Partito repubblicano, si ebbe nel febbraio del 1947, quando Alcide De Gasperi, a seguito della scissione socialista di Palazzo Barberini e delle dimissioni di Nenni dalla carica di ministro degli Esteri, decise, nel quadro di un rimpasto ministeriale, di chiamare S. alla guida della politica estera italiana. Negli ambienti della politica italiana e internazionale questa decisione venne interpretata come una scelta transitoria che avrebbe permesso di scaricare su S., ormai anziano, l’onere della firma di un trattato di pace fortemente impopolare. Si apriva al contrario una fase di stretta collaborazione tra il leader democristiano e il vecchio esponente liberale, fase che avrebbe reso per quattro anni i due uomini politici protagonisti delle principali scelte internazionali compiute dall’Italia repubblicana: dal coinvolgimento nel sistema occidentale, alla partecipazione alla costruzione europea, alla gestione della pesante eredità del trattato di pace.

Una volta firmato il trattato di pace, con la speranza comunque di procedere a una rapida revisione dello stesso, S. si dovette confrontare con la prima importante scelta dell’Italia, derivante dalla presentazione nel giugno del 1947, da parte dell’amministrazione americana, del Piano Marshall. Il conte, d’altronde in piena sintonia con De Gasperi, si mostrò immediatamente favorevole al coinvolgimento dell’Italia nel progetto statunitense per la ricostruzione dell’economia europea occidentale. S. comprese comunque rapidamente che questa decisione si legava all’opportunità di sostenere l’ipotesi di Washington a favore di strette forme di cooperazione, se non di integrazione, fra le nazioni dell’Europa occidentale. Il responsabile di Palazzo Chigi – a quel tempo sede del ministero degli Esteri – si mostrò infatti pienamente favorevole al progetto per la creazione di un’unione doganale italo-francese, nella prospettiva che questa potesse essere poi estesa ad altre nazioni europee occidentali. Il sostegno alle prime fasi della costruzione europea non significa che S. trascurasse la difesa degli interessi nazionali. L’Unione doganale rispondeva alla esigenza di rinsaldare i rapporti con una nazione come la Francia, che si presentava come uno dei vincitori della Seconda guerra mondiale; sin dal giugno del 1947 S. sottolineò come all’interno del Piano Marshall ogni paese dovesse trovarsi su un piano di parità rispetto agli altri. In effetti in quello stesso periodo il conte fu costretto in più occasioni a concentrare l’attenzione su alcune questioni legate al trattato di pace. Quanto al problema coloniale, egli non era fra i sostenitori del destino “imperiale” dell’Italia, ma riteneva, partendo dal presupposto che le altre maggiori nazioni europee restavano potenze coloniali, che fosse opportuno, per una questione di rango, che Roma puntasse al cosiddetto “ritorno in Africa”, per quanto tale aspirazione finisse con il creare serie difficoltà nelle relazioni con Londra, come nel caso delle aspre polemiche seguite all’eccidio di Mogadiscio del gennaio 1948.

Analoga attenzione fu dedicata da S. alla questione giuliana, in particolare alla sorte di Trieste e in questo ambito la diplomazia italiana parve conseguire un significativo successo con la dichiarazione anglo-franco-americana del marzo 1948 sul futuro del Territorio libero di Trieste. Il ministro degli Esteri non poté infine trascurare il rapporto bilaterale con gli Stati Uniti, in particolare nel periodo precedente le elezioni del 18 aprile del 1948. Egli godeva a Washington di stima e considerazione, posizione rafforzata dalla presenza nella capitale americana fin dal 1945, dell’ambasciatore Alberto Tarchiani, già stretto collaboratore di S. durante l’esilio americano. Sul piano politico interno fu comunque il fermo sostegno di De Gasperi, il quale nutriva per il conte un profondo rispetto, a permettere al vecchio liberale di proseguire nella sua azione; egli infatti non riscuoteva le simpatie di alcuni esponenti della DC, che lo consideravano un uomo del passato e non amavano la tradizione liberale e anticlericale da lui impersonata. Questa ostilità fu all’origine della bocciatura della sua candidatura a Presidente della Repubblica nel 1948. Ciò permise comunque a S. di restare alla guida di Palazzo Chigi e di gestire, insieme a De Gasperi, il difficile ingresso dell’Italia nel Patto atlantico (v. Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico). Il conte era conscio dei forti ostacoli esistenti nel paese e si mosse con prudenza, tanto è vero che tra l’estate e l’autunno del 1948 non escluse altre ipotesi rispetto a quella del pieno coinvolgimento dell’Italia nell’alleanza occidentale. In tale ambito, oltre al vago progetto di “neutralità armata”, S. parve concentrare la propria attenzione sull’opzione europea; nel luglio del 1948 tenne un importante discorso all’università per stranieri di Perugia, ventilando l’ipotesi che l’Organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE), da poco istituita, potesse trasformarsi da strumento di cooperazione economica in mezzo per attuare una forma di integrazione politica, concetti, questi, che S. riprese in un memorandum inviato al governo francese e in un secondo documento indirizzato a tutte le nazioni partecipanti all’OECE. Quando però comprese che queste iniziative non avrebbero dato alcun risultato, concentrò l’attenzione sul negoziato per la costituzione del Patto atlantico e dopo aver ottenuto l’assicurazione del sostegno francese da parte del collega Robert Schuman, S. fu con De Gasperi l’artefice della decisione presa ai primi di gennaio del 1949 per la richiesta italiana di adesione all’alleanza occidentale, partendo dal presupposto che solo questa scelta avrebbe consentito al paese di far parte a pieno titolo del sistema occidentale.

L’ingresso dell’Italia nel Patto atlantico, a dispetto delle difficoltà e della ostilità britannica, rafforzò implicitamente la posizione italiana, consentendo alla neorepubblica di entrare a far parte, nel maggio del 1949, del Consiglio d’Europa, un primo tentativo di Cooperazione politica europea. È significativo come, nonostante la convinta adesione al sistema occidentale, S. rifuggisse dai toni più aspri della Guerra fredda, presentando il Patto atlantico come un’alleanza difensiva e il Consiglio d’Europa quale dimostrazione della volontà di pace delle autorità italiane. Nel corso del 1949 S. andò comunque incontro ad alcuni insuccessi, quali ad esempio lo stallo sulla questione di Trieste e il fallimento del cosiddetto compromesso Bevin-Sforza (vd. anche Ernest Bevin) sulla sorte delle ex colonie italiane che prevedeva, dietro decisione dell’ONU, l’affido all’Italia della Somalia, sotto amministrazione fiduciaria. L’anno successivo, però, S. ebbe modo di confermare il suo impegno e il suo interesse nei riguardi della costruzione europea, sostenendo l’immediato coinvolgimento dell’Italia nel Piano Schuman per la creazione di una Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA). Sebbene il conte non si occupasse direttamente del negoziato, si mostrò favorevole alla piena partecipazione dell’Italia anche agli aspetti economici del progetto. S., inizialmente scettico di fronte al Piano Pleven, si dimostrò maggiormente interessato a favorire il riarmo della Germania occidentale nel quadro dell’Alleanza atlantica, seguendo la linea americana. Ciò non implicava un mero allineamento del conte a ogni iniziativa della politica statunitense. Palazzo Chigi, inoltre, si fece prudente di fronte alle sollecitazioni di Tarchiani nell’estate del 1950, affinché l’Italia esprimesse un preciso impegno nel contesto della guerra di Corea. Fra le ultime scelte importanti di S. vi fu nella primavera-estate del 1951 il sostegno dato alla candidatura della Grecia e, soprattutto, della Turchia al Patto atlantico, partendo dall’assunto che la stabilizzazione del Mediterraneo orientale nel contesto occidentale avrebbe esercitato un effetto benefico sul Medio Oriente e che ciò fosse nell’interesse dell’Italia.

Nell’estate del 1951 a causa di problemi di salute, ma anche della crescente ostilità in alcuni partiti della maggioranza, in occasione della formazione di un nuovo governo, De Gasperi fu costretto a porre S. da parte, assumendo l’interim degli Esteri. Al conte venne affidato il dicastero senza portafoglio della politica verso l’Europa. Ormai stanco e minato da una seria malattia, S. moriva nel 1952; compianto soprattutto da De Gasperi che nell’anziano leader liberale aveva trovato, non solo un “tecnico” abile, ma anche un leale collaboratore. S. era convinto, alla stregua del presidente del Consiglio, della necessità per l’Italia, non solo di compiere una scelta occidentale, ma di puntare anche sull’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), vista quale obiettivo irrinunciabile e solo mezzo in grado di consentire alla giovane democrazia italiana di superare pienamente la pesante ipoteca del fascismo e della guerra.

Antonio Varsori (2010)