SICA

Sistema de integración centroamericana (SICA)




SIEPS

Istituto svedese per gli studi politici europei (SIEPS)




Silone, Ignazio

S. nasce a Pescina (L’Aquila), il 1° maggio 1900, da una famiglia di piccoli proprietari terrieri. Rimasto orfano di padre e madre a quindici anni, comincia a frequentare la Lega dei contadini del suo paese, e si avvicina così all’ideologia socialista, che in lui convive con la formazione cattolica ricevuta presso il locale seminario, e poi in un istituto religioso di Reggio Calabria.

Animato da un profondo afflato alla giustizia sociale e all’elevazione degli umili, alimentato dalla sua esperienza del mondo rurale meridionale, S. costruisce fin dagli anni adolescenziali una visione del mondo che unisce l’ideale marxista dell’emancipazione delle classi lavoratrici a quello solidaristico cristiano.

Nel 1918, trasferitosi a Roma, aderisce alla Gioventù socialista, e negli anni del dopoguerra è coinvolto negli scontri con le neonate organizzazioni fasciste. Nel 1921 partecipa alla fondazione del Partito comunista, ed entra a far parte della direzione del partito. Nel 1922 diviene redattore del giornale “Il Lavoratore” di Trieste, e direttore de “L’Avanguardia” di Roma. Nel 1923, dopo l’avvento al potere del fascismo, S. si rifugia in Germania, e quindi in Spagna. All’estero, svolge un’intensa attività militante clandestina, e viene incarcerato in Spagna e in Francia per attività sovversive.

Una documentazione recentemente portata alla luce, seppure molto discussa in sede storiografica, indica che da questo stesso periodo S. comincia un’attività di informatore segreto della polizia fascista. Dal 1927, quando all’interno del Partito comunista dell’Unione Sovietica prevale la linea di Stalin e vengono espulsi dal partito i dissidenti Leon Trockij e Gregorij Evseevič Zinov’ev, S. (che partecipa attivamente a questa fase di dibattito, essendosi in quel periodo trasferito a Mosca) comincia a sentirsi sempre più estraneo alla linea dell’Internazionale comunista, e deluso della subordinazione a essa (nonostante le iniziali critiche di Palmiro Togliatti) da parte del Partito comunista italiano.

Stabilitosi in Svizzera, dove continua a svolgere il ruolo di responsabile dell’Ufficio stampa e propaganda del Partito comunista d’Italia, S. viene a contatto con ambienti politico-culturali di fuoriusciti e con la vivace atmosfera della democrazia federale elvetica, che stimolano in lui un percorso di profonda rielaborazione critica del suo patrimonio ideologico. Nel 1928 il fratello Romolo viene arrestato con l’accusa di aver partecipato all’attentato di Milano al re Vittorio Emanuele III. Sottoposto ripetutamente a torture nelle carceri fasciste, vi morirà nel 1932. In quel periodo S., a quanto pare, intensifica la sua attività di informatore segreto, sperando di poter così favorire la liberazione del fratello. Deluso dal mancato ottenimento di essa, ammalatosi di tubercolosi e preda di profonde crisi depressive, S. nel 1930 interrompe i rapporti con la polizia fascista, e decide contemporaneamente di abbandonare il Partito comunista d’Italia, dal quale viene espulso nel luglio 1931, e l’attività politica.

Da quel momento S. comincia a dedicarsi intensamente alla letteratura, scrivendo il suo primo romanzo, Fontamara (pubblicato nel 1933), che unisce esemplarmente la sua vena artistica ed esistenziale con la raffigurazione dei suoi ideali civili e politici. Sarà l’inizio di una lunga attività di scrittore, in cui la riflessione etico-politica continuerà a giocare una parte importante, e che vedrà successivamente altre prove importanti con romanzi come Pane e vino (1937), Il seme sotto la neve (1941), Il segreto di Luca (1956), La volpe e le camelie (1960), e con i racconti che saranno riuniti, insieme a interventi saggistici, in Uscita di sicurezza (1965).

Tuttavia nei primi anni Trenta, sotto l’influenza tra gli altri di Carlo Rosselli ed Emilio Lussu, oltre che del socialismo gildista di matrice britannica, S. elabora anche con maggiore chiarezza le linee di una accezione libertaria, autonomista e cristiana del socialismo. Questa riflessione, i cui tratti si possono cogliere nelle opere Der Fascismus (1931) e La scuola dei dittatori (1937), e negli articoli che S. comincia a scrivere a partire dal 1932 sulla rivista dei fuorusciti “Information”, lo porterà a manifestare un interesse sempre crescente per le teorie federaliste, a livello sia infranazionale che europeo (v. Federalismo). Teorie che verranno poste per la prima volta al centro della sua riflessione nel saggio Nuovo incontro con Mazzini (1938), e nelle Tesi del terzo fronte, pubblicate nel 1942 sul quindicinale “L’Avvenire dei lavoratori”, nelle quali S. propugna come obiettivo fondamentale del movimento operaio la creazione di una federazione europea che salvaguardi a livello continentale la democrazia, impedendo una volta per sempre la concentrazione del potere statale e l’avvento di regimi autoritari e totalitari.

Nel 1938 S. era tornato intanto alla politica attiva nel Partito socialista, come direttore del Centro estero di quella formazione politica in Svizzera. Durante la guerra e la resistenza svolge attività di supporto ai partigiani e alle truppe alleate. Nel 1944 torna a Roma e aderisce al Partito socialista di unità proletaria, prendendo posizione per la corrente autonomista. Nel 1947, quando il gruppo di Giuseppe Saragat si stacca dal partito e fonda il Partito socialista dei lavoratori italiani, S. non aderisce alla nuova formazione, ma abbandona il PSIUP. Contemporaneamente, fonda la rivista “Europa socialista”, dalle cui colonne si batte per la creazione di un’Europa unita e autonoma dalle due grandi potenze. Il delinearsi della Guerra fredda accentua il suo allontanamento dal comunismo e la sua convinzione che per salvare gli ideali socialisti sia necessario innanzitutto difendere le libertà dell’Occidente contro la minaccia sovietica, combattendo al contempo contro le possibili involuzioni autoritarie dell’anticomunismo.

Nel 1950 partecipa alla fondazione del Congress for cultural freedom (CCF), associazione internazionale di intellettuali che si riunisce intorno all’obiettivo di difendere la libertà di pensiero contro ogni ideologia illiberale, contrapponendosi ai “Partigiani della pace” e ad altre organizzazioni di intellettuali della sinistra occidentale, “compagni di strada” dei comunisti e indulgenti verso il regime sovietico. Entrato a far parte del Comitato esecutivo del CCF, nel 1951 S. fonda, insieme ad altri esponenti dell’area progressista e liberale, l’Associazione italiana per la libertà della cultura (AILC), sezione italiana dell’organizzazione.

Nel 1956, grazie soprattutto al sodalizio con Nicola Chiaromonte, inizia le pubblicazioni di “Tempo presente”, rivista che rappresenterà per un verso la voce degli aderenti italiani al CCF, per un altro un’operazione culturale di ancora maggiore respiro, tesa a costruire un’area di dialogo e confronto a livello europeo tra cultura socialista, liberale e cristiana in nome della congiunzione tra modernità e valori umanistici.

Dopo un periodo di rilevante influenza culturale esercitata dall’AILC e da “Tempo presente” tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, pur tra molte infuocate controversie, l’esplodere delle polemiche a livello internazionale sui finanziamenti della Central intelligence agency (CIA) statunitense al CCF e agli organi a esso collegati provoca una crisi irreversibile dei progetti intrapresi da Silone. Nel 1968 il CCF si scioglie per dar vita a una nuova associazione, l’Association internationale pour la liberté de la culture, dal profilo politicamente molto più neutro, e “Tempo presente” termina le pubblicazioni.

Il crescente senso di delusione per l’esito controverso delle sue ultime iniziative politico-culturali spinge S. a dedicarsi prevalentemente, negli ultimi anni della sua vita, all’attività di scrittore, il cui frutto più importante è il dramma L’avventura di un povero cristiano (1968). S. muore a Ginevra nel 1978.

Eugenio Capozzi  (2010)




Silvio Berlusconi




Silvio Leonardi




Simboli dell’Unione europea

La costituzionalizzazione dei simboli dell’Unione europea

I simboli politici degli Stati (bandiera, emblema, motto, inno, moneta, festa nazionale) hanno segnatamente una funzione identitaria. Essi, anzitutto, cristallizzano l’identità nazionale facendola divenire tangibile; codificano, in altri termini, la natura soggettiva della nazione.

Così come per gli Stati anche per l’Unione europea i simboli politici hanno una funzione identitaria. Sono i segni esteriori di quel patriottismo costituzionale che è capace di indurre i cittadini europei, consapevoli della loro appartenenza, ad agire concretamente al di là delle loro differenze per il bene pubblico comune, intendendo, dunque, l’Unione europea come la propria casa, la propria Heimat.

I simboli politici quali la bandiera, l’inno, il motto, la moneta e la giornata europea possono così contribuire, creando immagini e riti a carattere emotivo, anche con effetti subliminali, alla legittimazione dell’Unione europea agli occhi dei cittadini e alla loro identificazione nel progetto di un comune destino. Detto in altri termini, servono a costruire una identità politica, a considerare vincolanti un insieme di valori che ci identificano come appartenenti a una stessa comunità.

Il Trattato che adotta una Costituzione europea, firmato a Roma il 29 ottobre 2004, ha costituzionalizzato i simboli dell’Unione disciplinandoli in un apposito articolo: l’art. I-8. Questa disposizione sancisce formalmente che i simboli dell’Unione sono: una bandiera, rappresentante un cerchio di dodici stelle dorate su fondo blu; l’inno, tratto dall’Inno alla gioia della Nona sinfonia di Ludwig van Beethoven; un motto, secondo il quale l’Unione è «Unita nella diversità»; come moneta dell’Unione l’Euro, e, infine, la giornata dell’Europa, il 9 maggio, che è celebrata in tutti i paesi dell’Unione, per ricordare la ricorrenza della Dichiarazione Schuman (v. Piano Schuman) del 9 maggio 1950, atto fondativo del processo di integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

Si deve, tuttavia, osservare che dei simboli menzionati nell’art. I-8, la bandiera a dodici stelle dorate su sfondo blu, l’Inno alla gioia della Nona sinfonia di Beethoven (simboli che la Comunità economica europea ha ripreso dal Consiglio d’Europa nel 1986) e il 9 maggio come giornata dell’Europa sono già nella tradizione delle Comunità e dell’Unione, pur senza essere stati mai previsti da disposizioni di diritto primario (v. anche Diritto comunitario); l’euro, poi, è la moneta comune degli Stati membri che partecipano, senza deroghe, alla terza fase dell’Unione economica e monetaria europea.

Pertanto, a prescindere dalla loro costituzionalizzazione, il motto appare l’unico nuovo simbolo dell’Unione europea previsto dal trattato costituzionale.

Analisi dei simboli

Dei simboli dell’Unione, la bandiera con il cerchio di dodici stelle dorate su campo blu adottata dal Consiglio d’Europa l’8 dicembre 1955 e ripresa dalla Comunità nel 1986 è, chiaramente il segno identitario per eccellenza.

L’inno europeo è il preludio dell’Inno alla gioia, quarto movimento della Nona sinfonia di Beethoven. Per Beethoven, com’è noto, la musica non esiste di per sé, ma ha un alto significato e quasi sempre incarna un’idea. Perciò la maggior parte delle sue composizioni, specialmente quelle della maturità e le ultime, non sono soltanto l’espressione di un sentimento indefinito, ma vere e proprie poesie musicali, che rispecchiano i diversi pensieri, le loro fasi, dando vita spesso a un tema. Sono vivificati e sublimati, attraverso l’intreccio tra musica e poesia, gli ideali kantiani, propri della cultura illuministica dell’epoca, cui Beethoven aveva consacrato la propria conoscenza e la propria vita interiore.

Ed è proprio per l’esortazione alla fratellanza e all’amicizia, all’amore e alla pace, di cui l’Inno è simbolo di alta espressione figurativa, che si può spiegare la scelta del Consiglio d’Europa, poi fatta propria dalle Comunità europee e ora dall’Unione europea, di darsi come musica ufficiale un inno di fratellanza, che supera i confini delle nazioni e, persino, le differenze dei popoli, per instaurare qualcosa di più sublime e speciale nella società europea.

Il motto dell’Unione è «Unita nella diversità». Come tutti gli altri simboli, il motto fa chiaramente emergere il senso dell’identità europea di cui beneficia, al di là dell’entità Unione europea, ogni cittadino della stessa. Elementi utili all’interpretazione del significato del motto, iscritto all’art. I-8 del Trattato costituzionale, possono essere tratti dal preambolo del medesimo, ove la locuzione «unita nella diversità» figura al quinto considerando.

Tale locuzione è riferita all’Europa, ai suoi valori e al suo patrimonio culturale, religioso e umanistico. Valori che pongono al centro della vita sociale due protagonisti: da un lato, la persona umana e i suoi diritti (v. anche Diritti dell’uomo), dall’altro, il rispetto del diritto. Il passaggio del preambolo assolutamente illuminante ai fini dell’interpretazione del motto è quello che figura al quarto considerando. Vi si precisa che i popoli d’Europa, pur restando fieri della loro identità e storia nazionale, sono decisi a superare le antiche divisioni e, uniti in modo sempre più stretto, a forgiare il loro comune destino. In questa frase risulta chiaramente esplicitato, infatti, sia l’elemento dell’unità, sia quello della diversità.

I concetti che esprimono l’unità non sono nuovi. Riecheggiano, opportunamente riprendendola, la formula della «unione sempre più stretta» che figura nel preambolo del Trattato istitutivo dell’Unione europea (TUE) (v. Trattato di Maastricht). Il percorso verso relazioni sempre più strette è progressivo, procede – come prefigurato fin dalla dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950 – da realizzazioni concrete che creano solidarietà di fatto.

L’“unità”, tuttavia, non è fine a se stessa. Ha, invece, un obiettivo preciso: quello di forgiare un “comune destino”. Ma anche il concetto della “diversità” vi risulta esplicitato. Lo si ritrova nel richiamo forte alla fierezza dell’identità dei popoli e delle storie nazionali, come al rispetto dei diritti di ciascuno.

L’essenziale è raggiungere un punto di equilibrio tra unità e diversità. Una eccessiva unità, infatti, può comportare rischi di omogeneizzazione e, dunque, di distruzione delle identità nazionali. Una eccessiva diversità può facilmente impedire la convergenza di intenti e, alla lunga, minare dalle fondamenta l’edificio dell’Europa riunificata. Ma i rischi di implosione possono essere anche interni al sistema.

Lo stesso Valéry Giscard d’Estaing, che ha presieduto la Convenzione europea, ha osservato, al riguardo, che la cultura dominante in seno alle istituzioni di Bruxelles (v. anche Istituzioni comunitarie) sistematicamente sottostima le diversità ritenendo che esse costituiscano un ostacolo sulla via della omogeneizzazione dell’Europa. L’omogeneizzazione, d’altra parte, è uno degli obiettivi che tale cultura si prefigge di raggiungere cercando di ridurla dall’alto mediante l’imposizione di norme uniformatrici e facendo pressione sui meccanismi identitari.

Per Giscard d’Estaing, invece, la diversità è nel patrimonio genetico del nostro continente, ove mancano fattori unificanti quali una unica lingua, una religione comune o l’esercizio di un potere centralizzato suscettibile di imporre un modello uniforme europeo. Giscard d’Estaing nota che cinquant’anni di processo di integrazione non sono riusciti a omologare il modo di vita degli europei.

Non potendo, per quanto segnalato, far leva sull’assimilazione che è indotta da una lingua comune (v. anche Lingue) (come negli Stati Uniti, che, tuttavia, stanno divenendo, al pari dell’Europa, un paese plurilingue) o da una popolazione prevalente (come in Cina in cui l’80% è di etnia han) l’Europa deve organizzarsi a partire dalla sua diversità e non contro la sua diversità. Deve, in altri termini, trovare un ragionevole punto di equilibrio tra le esigenze della sua diversità e la necessità di costituire un insieme coerente.

L’art. I-8 menziona, per la prima volta a livello di diritto primario, l’euro come moneta dell’Unione europea. In tal modo la denominazione della moneta unica viene regolarizzata, dato che nelle disposizioni del Trattato istitutivo della Comunità europea (TCE) (v. Trattati di Roma) relative all’unione economica e monetaria figura tuttora il termine ECU (European currency unit) (v. Unità di conto europea).

Il Trattato costituzionale sancisce il 9 maggio come giornata dell’Europa in ricordo della dichiarazione del 9 maggio 1950 del ministro degli esteri francese Robert Schuman, che è convenzionalmente considerata la data di avvio della costruzione europea. La celebrazione del 9 maggio non è solo la ricorrenza dell’atto fondativo del processo di costruzione dell’Europa. È anche il momento per la presa di coscienza di una realtà attuale e presente, che si rinnova quotidianamente: la realtà di vivere in un’Unione europea fondata sui principi dello Stato di diritto, che possiede un ordinamento democratico basato sulla sovranità popolare e su valori ormai indiscussi e condivisi della stragrande maggioranza dei popoli europei. E il senso della festa sta proprio nel non dimenticare il percorso compiuto per giungere all’affermazione di questi principi e valori e, soprattutto, nel non considerare scontate le conquiste realizzate.

La festa del 9 maggio rinnova ogni anno l’occasione di avvicinare l’Europa e le sue istituzioni ai cittadini. È una giornata di informazione, di orientamento e di discussione sulle tematiche dell’Unione europea, soprattutto, ma non solo, nelle scuole e nelle università, con iniziative di particolare contenuto culturale ed educativo. La celebrazione del 9 maggio deve altresì essere l’occasione per riavvicinare i cittadini all’Europa e vincere il senso di distanza, di indifferenza, se non di disaffezione, che essi sentono nei confronti delle istituzioni europee. È il momento in cui devono essere pienamente valorizzati i simboli dell’Unione.

Il ruolo dei simboli nella formazione di una coscienza e di una identità dell’Unione europea come comunità politica è pertanto cruciale. È vero, infatti, che la maggior parte delle categorie fondamentali e dei concetti relativi all’integrazione europea e, in particolare a quelli che danno forma al concetto di appartenenza, sono rappresentati da simboli che rendono reale, tangibile e comprensiva l’idea stessa di cittadinanza.

I simboli, dunque, lungi dallo svolgere una funzione “cosmetica”, di importanza secondaria rispetto a quella delle quattro libertà o delle politiche comunitarie, costituiscono espressione dei valori profondi dell’Unione europea. Essi, di più, hanno la capacità di mobilitare i sentimenti dell’opinione pubblica europea. Non soltanto, infatti, danno rappresentatività al concetto di appartenenza ma contribuiscono pure a sorreggerlo attivamente, nell’ottica del radicamento dell’incipiente demos  europeo.

Carlo Curti Gialdino (2007)




Simitis, Kostantinos (Kostas)

S. nacque il 23 giugno 1936 al Pireo, il porto di Atene nella provincia dell’Attica. I genitori furono attivisti dell’opposizione di sinistra alla dittatura militare del generale Ioannis Metaxas (1936-1940). Il padre, l’avvocato Gheorghios Simitis, docente di diritto all’Università di Atene, durante l’occupazione militare della Grecia da parte delle potenze dell’Asse (1941-1944), entrò nel gruppo dirigente del Fronte di liberazione nazionale (Etnikò Apeleftherotikò Mètopo, EAM) fondato dal partito comunista. Alla vigilia della liberazione del paese, divenne prefetto del Comitato provvisorio di liberazione nazionale (Prosorini Epitropiì etnhikis apeleftherosis, PEEA), il governo nominato dall’EAM in opposizione al governo monarchico in esilio nella regione della Rumelia. Negli stessi anni la madre di S. fu presidente nazionale dell’Unione panellenica delle donne.

Cresciuto durante il secondo conflitto mondiale e la successiva guerra civile (1946-1949), S. si trasferì in Germania per gli studi universitari, dove nel 1959 si laureò in legge all’Università di Marburgo. In seguito si trasferì nel Regno Unito per seguire corsi di specializzazione in economia presso la London school of economics. Tornato in Grecia, intraprese la professione forense e nel 1965 partecipò alla fondazione dell’Associazione di studi Alexandros Papanastasiou.

Dopo il colpo di Stato militare del 1967, S. prese parte al movimento contro la dittatura, trasformando l’Associazione di studi in una struttura politica clandestina, denominata Difesa democratica. Ma nel 1969, costretto all’esilio per sfuggire all’arresto, si stabilì in Germania, dove divenne docente universitario di Diritto civile e mercantile. Il tribunale militare di Atene lo condannò in contumacia per detenzione illecita di esplosivo e associazione sovversiva. All’estero S. partecipò attivamente alla mobilitazione politica degli esuli greci contro la Giunta dei colonnelli e nel 1970 aderì al Movimento panellenico di liberazione (Panellinio Kinima, PAK), fondato nel 1968 da Andreas Papandreu.

Nell’estate 1974, dopo il crollo della dittatura, S. tornò ad Atene, per organizzare assieme a Papandreu la fondazione del Partito socialista greco (Panellinio Sosialistiko Kinima, PASOK). Questo avrebbe dovuto fare da contrappeso alla Nuova democrazia, il partito fondato nelle stesse settimane dal primo ministro Konstantinos Karamanlis, leader storico della destra, richiamato in Grecia dal lungo esilio in Francia per gestire il processo di transizione democratica. Membro del Comitato centrale e del Comitato esecutivo del PASOK, Simitis aderì alla corrente moderata dei cosiddetti “riformisti”. Favorevole all’apertura politica nei confronti delle istituzioni del Patto atlantico e della Comunità economica europea (CEE), S. si mostrò sempre piuttosto refrattario alla retorica della sinistra radicale, tipica del programma politico di Andreas Papandreu, improntato a uno spirito statalista e nazionalista, venato di forti accenti antiturchi, antiamericani e antieuropeisti. Nel 1977 S. ottenne la cattedra di Diritto mercantile presso l’Università Panteion di Scienze politiche ad Atene e assunse la direzione della scuola di formazione per i quadri del partito.

Durante il periodo della metapolitvesi, il cambiamento di regime politico interno, il PASOK subì una costante crescita elettorale, fino alla vittoria dell’ottobre 1981, conseguita sulla base di un programma di riforme radicali, con il 48,1% dei voti. Il primo governo socialista nella storia della Grecia si insediò in coincidenza dell’ingresso definitivo del paese nella CEE, ratificato da Karamanlis prima che egli lasciasse il governo per assumere la presidenza della Repubblica. Insediatosi ai vertici dell’esecutivo, Papandreu assecondò il processo d’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), non dando seguito alla promessa elettorale di sottoporre a un referendum popolare l’ingresso nella CEE. Malgrado le divergenze politiche più volte espresse nei confronti di Papandreu, S. fu nominato ministro dell’Agricoltura, un ruolo chiave nella nuova compagine governativa, data la rilevanza del settore agrario per l’economia greca. Egli condusse a termine con successo le difficili trattative per il riassetto delle colture mediterranee, con l’impegno della Grecia a non superare le quote stabilite dalla CEE per ogni singolo settore della produzione, e i negoziati per i sussidi in favore degli agricoltori greci.

Alle elezioni politiche del 1985 il PASOK uscì riconfermato quale partito di governo. La seconda legislatura socialista dovette misurarsi con le difficoltà derivanti da un deficit pubblico di circa tre milioni di dollari, l’inflazione corrente al tasso del 18% annuo e un consistente indebitamento con l’estero, ma anche con l’urgenza di emanare i primi importanti provvedimenti di politica sociale in assenza di un precedente sistema di welfare. Eletto per la prima volta in parlamento nella circoscrizione del Pireo e riconfermato quale membro del Comitato esecutivo del PASOK, S. fu chiamato ai vertici del ministero dell’Economia nazionale. Egli varò un programma di austerità, che includeva il congelamento dei salari per un periodo di due anni, la svalutazione del 15% della dracma, restrizioni alle importazioni, controlli sui prezzi e l’imposizione di una tassa speciale sulle imprese. La politica di austerità fu accolta con favore dai vertici della CEE che la interpretarono come una svolta liberale del PASOK, esaltando l’introduzione nell’economia greca di elementi di efficienza, di razionalizzazione e di competitività necessari a inserire il paese nel sistema del Mercato unico europeo. In politica interna, invece, il programma di Simitis scatenò il dissenso dei sindacati, del Partito comunista e dei settori di sinistra del PASOK, i quali accusarono il ministro dell’Economia di subalternità ai dettami del FMI.

Nel biennio 1986-1987, nonostante l’aumento della pressione fiscale, l’inflazione continuò ad attestarsi sopra al 15% e il deficit pubblico rimase consistente. S. sostenne, da un lato, la necessità di abbattere le barriere doganali (v. anche Unione doganale), abolire i sussidi in favore dei settori meno produttivi dell’economia nazionale e smantellare le tradizionali strutture protezioniste, al fine di favorire la riduzione dei costi di produzione, l’incremento dei consumi e la crescita del mercato interno; e, dall’altro, l’esigenza di migliorare la produttività, di vincolare strettamente la domanda all’offerta e di modernizzare gli apparati industriali adeguando la Grecia agli standard tecnologici dell’Europa occidentale. Andreas Papandreu e la vecchia guardia del PASOK bocciarono un tale orientamento alla stregua di una deriva liberista. S. fu esautorato di fatto dal governo e il 27 novembre 1988 si dimise dall’esecutivo.

Nelle settimane successive un’ondata di scandali finanziari travolse numerosi deputati e ministri del PASOK, accusati di corruzione, frode e concessione illecita di contratti pubblici. Mentre Papandreu esaltò gli accenti più smaccatamente populisti del discorso pubblico del PASOK, S. chiese l’allontanamento dal partito delle personalità compromesse con gli scandali, pena una drastica contrazione dei consensi elettorali.

Disattese le proposte di moralizzazione interna, alle elezioni politiche del giugno 1989 i socialisti scesero al 39,2% dei voti e furono costretti a cedere il governo del paese alla “Nuova democrazia” di Konstantinos Mitzotakis. Disponendo della maggioranza relativa dei seggi in parlamento, il centrodestra strinse un patto con i comunisti con l’unico scopo di garantire l’approvazione dell’autorizzazione a procedere nei confronti di Andreas Papandreu e dei vertici socialisti. In un clima di crescente incertezza, dopo un’ulteriore tornata elettorale nel mese di novembre, fu varato un governo di unità nazionale, sotto la guida dell’anziano economista, già direttore della Banca centrale di Grecia, Xenofon Zolotas. Nominato ministro dell’Educazione, S. ricoprì l’incarico fino all’aprile del 1990, quando la vittoria elettorale della “Nuova democrazia” consentì la formazione di un governo di centrodestra.

Tornati all’opposizione, i socialisti misero l’accento sulla necessità di riformare il partito. Ma la prospettiva della “rinascita” del PASOK non implicò la messa in discussione della leadership di Andreas Papandreu. Denunciando l’urgenza del cambiamento, S. si candidò implicitamente alla successione. Ma l’assoluzione giudiziaria di Papandreu nel 1992 e la vittoria elettorale dell’anno successivo, con il 46,8% dei voti, allontanarono la prospettiva di un cambio della guardia ai vertici del PASOK.

Il terzo governo Papandreu si insediò in un clima internazionale turbato dalle dure reazioni di Atene nei confronti dei partner dell’Unione europea propensi al riconoscimento ufficiale della neocostituita Repubblica di Macedonia, costituitasi in Stato indipendente nel 1991 dopo la secessione dalla Repubblica federale di Iugoslavia. L’accusa di irredentismo nei confronti del nuovo Stato, e la convinzione che la sua esistenza costituisse di per sé una minaccia per l’integrità nazionale della Grecia, spinsero il governo Papandreu a imporre l’embargo economico, con conseguenze drammatiche per un paese privo di sbocco al mare.

Identificato con il settore proeuropeista e con la corrente più incline a una mutazione tecnocratica del PASOK, S. ricevette l’incarico, relativamente marginale, di ministro dell’Industria, commercio, energia e tecnologia. Il suo progetto di privatizzazione delle imprese pubbliche, con un bilancio in deficit, suscitò accesi contrasti nel gruppo dirigente socialista. Le alterne vicende alle quali andò incontro la privatizzazione delle imprese pubbliche, e il coinvolgimento nel piano di ristrutturazione delle imprese dei settori considerati strategici, quali quello telefonico, petrolifero e elettrico, originariamente esclusi dalla manovra di liquidazione, attirarono veementi polemiche nei confronti di S. Ad aggravare il suo isolamento politico all’interno del governo contribuirono le forti divergenze emerse con i ministri competenti in materia di politiche monetarie. Nel 1995, quando ormai si era tacitamente riaperta la lotta per la successione alla guida del PASOK, S. si dimise sia dal governo sia dal Comitato esecutivo del PASOK, per non compromettere una sua eventuale candidatura alla leadership socialista con la permanenza in un esecutivo sempre più impantanato in polemiche interne.

Dopo il ricovero in ospedale di Andreas Papandreu e le sue dimissioni da primo ministro, il 18 gennaio 1996 S. ottenne il consenso della maggioranza dei deputati socialisti nell’elezione interna al partito per la successione alla segreteria, con una vittoria di 86 a 75 sul rivale Akis Tzohatzopoulos, ministro dell’Interno. Egli fu quindi incaricato dal Presidente della Repubblica di formare il nuovo governo. Il 30 giugno, una settimana dopo la morte di Andreas Papandreu, S. fu eletto ufficialmente presidente del PASOK.

La sua ascesa al potere sancì la vittoria definitiva dell’ala riformista, proeuropeista e liberal del socialismo ellenico. Il nuovo governo, insediatosi dopo le elezioni anticipate del settembre 1996, alle quali il PASOK, con il 41,5% dei voti ottenne la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari, riscosse il favore delle borse europee e degli ambienti finanziari e imprenditoriali greci.

In politica estera, S. inaugurò un processo di distensione nelle relazioni tra la Grecia e i vicini balcanici, favorendo la ripresa di normali relazioni diplomatiche con la Macedonia. Fu siglato il Trattato di amicizia, cooperazione e buon vicinato con l’Albania e nel 1997 la Grecia aderì alla Convenzione del Consiglio d’Europa sulla Protezione delle minoranze etniche, salvo però rinviarne la ratifica definitiva sine die.

S. valorizzò il ruolo della Grecia nell’ambito della cooperazione regionale, soprattutto intensificando i tentativi di mediazione nei confronti della Serbia di Slobodan Milošević. Un contingente militare ellenico partecipò alla missione della Forza multinazionale di protezione (FMP) approvata dal Consiglio di sicurezza dell’ONU per l’assistenza umanitaria alla popolazione civile albanese, colpita dalla catastrofe finanziaria, dalle rivolte e dall’ondata di saccheggi e, poi, all’Operazione Alba del 1997 sotto il mandato dell’Italia. Nello stesso anno fu firmato in Grecia l’accordo per avviare il cosiddetto Processo di cooperazione del Sud-Est europeo.

All’inizio del 1999 la Grecia contribuì con un modesto contingente militare all’invio di una Forza di garanzia (International fellowship of riconciliation, IFOR) per l’applicazione degli accordi di pace di Dayton in Bosnia-Erzegovina e si adoperò per una soluzione non militare della nuova crisi esplosa in Kosovo, dopo la recrudescenza della pulizia etnica perpetrata dalle bande paramilitari serbe nei confronti della popolazione albanese. In seguito, S. decise di mantenere la Grecia in una condizione di partecipazione indiretta all’intervento dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO) contro la Federazione di Iugoslavia, limitandosi a mettere a disposizione basi logistiche e a inviare aiuti umanitari e forze di pace in Albania e Kosovo.

Sempre difficili, invece, rimasero le relazioni diplomatiche con la Turchia. Nel 1996, al termine di una lunga serie di provocazioni reciproche, il rischio di un conflitto per questioni di sovranità territoriale nell’Egeo orientale fu evitato solo grazie alla mobilitazione diplomatica della NATO e della UE. Denunciando la persistenza dell’occupazione militare turca nella parte settentrionale dell’isola di Cipro, nonché il mancato rispetto da parte della Turchia di importanti parametri politici ed economici, la Grecia espresse parere nettamente contrario all’ingresso del paese nella UE. Il veto del governo di Atene cadde solo nel 1999. Quell’anno, tuttavia, le relazioni greco-turche furono turbate dalle vicende, mai completamente chiarite, legate alla cattura a Nairobi di Abdullah Ocalan, il leader del Partito dei lavoratori curdi accusato di terrorismo dal governo di Ankara, e della sua richiesta di asilo politico in Grecia.

S. fu riconfermato per la terza volta alla guida del governo dopo la vittoria elettorale del PASOK alle elezioni politiche dell’aprile 2000 con il 43,8% dei voti. Ma la congiuntura economica negativa, aggravata dal pessimismo degli investitori dopo l’attentato dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti, e fattori congiunturali come l’aumento del prezzo del petrolio, misero in luce i limiti del modello socialdemocratico propugnato dal PASOK. Il governo socialista riuscì a conseguire l’ambito obiettivo di un inserimento della Grecia nell’area dell’Euro, ricorrendo a una politica di austerità e di riforme strutturali.

Il 1° gennaio 2002 l’euro sostituì la dracma. Nel primo semestre 2003, durante il turno di Presidenza dell’Unione europea da parte della Grecia, S., in stretta collaborazione con il dinamico ministro degli Esteri Georghios Papandreu, figlio di Andreas, affrontò il delicato compito di ricomporre le relazioni tra i partner europei, nel quadro delle gravi divergenze emerse in merito alla guerra dichiarata dagli Stati Uniti contro l’Iraq.

Al trattato di Adesione all’UE di dieci nuovi paesi la cui adesione definitiva fu fissata per il 2004, seguì la firma del progetto per la nuova Costituzione europea, in una solenne cerimonia ufficiale svoltasi a Salonicco con i capi di Stato dei paesi membri. Tuttavia, le proteste sindacali, le polemiche suscitate dall’organizzazione della XXVIII edizione dei Giochi olimpici ad Atene e un diffuso malcontento popolare attirarono nei confronti dei socialisti le accuse di burocratizzazione e di una gestione corrotta della cosa pubblica. Il 7 febbraio 2004 S. cedette la direzione del PASOK a Gheorghios Papandreu, l’unico candidato ritenuto in grado di salvare le sorti elettorali del partito. Ma alle elezioni celebrate nel mese di marzo il PASOK registrò una clamorosa sconfitta, scendendo per la prima volta dal 1990 al 40,6% dei voti, cinque punti percentuale, corrispondenti a 48 seggi parlamentari, meno della Nuova democrazia.

Lidia Santarelli (2005)




Simone Veil




Simonet, Henri François

S. (Bruxelles 1931-ivi 1996), uomo politico ed europeista belga, dopo essersi laureato in Scienze economiche e finanziarie all’Université libre di Bruxelles (ULB), trascorre due anni negli Stati Uniti (1955-1956) grazie a una borsa di studio della Belgian american educational foundation (BAEF). Ammesso come graduate fellow alla Columbia University, torna in Belgio per continuare la sua formazione all’Università di Bruxelles, dove nel 1958 ottiene un dottorato in Scienze economiche e finanziarie e in legge.

S. inizia la carriera accademica nel 1956 come assistente universitario (1956) diventando presidente dell’Institut d’études européennes nel 1975. Il suo insegnamento verte soprattutto su finanze pubbliche, strutture finanziarie europee, politica economica nei paesi in via di sviluppo, condotta economica e finanziaria delle imprese. Nel 1968, chiamato alla presidenza del consiglio d’amministrazione, gestisce la creazione di due università distinte, una francofona – l’Université Libre di Bruxelles – l’altra nederlandofona – la Vrije Universiteit Brussel.

Parallelamente alla carriera accademica S. moltiplica le sue attività. Essendo interessato alla questione congolese, nel 1958 entra a far parte come consigliere finanziario dell’Institut national d’études pour le développement du Bas-Congo. Nel 1960 è associato come consigliere politico della delegazione congolese alla Conferenza della Tavola rotonda, poi alla Tavola rotonda economica e finanziaria, che getteranno le basi dell’indipendenza del Congo. Membro del Partito socialista, partecipa ai lavori della commissione di studio del partito e della Fédération générale du travail de Belgique (FGTB). Ma l’esordio vero e proprio di S. nella carriera politica avviene nell’aprile 1961, quando diventa capo gabinetto del socialista fiammingo Antoon Spinoy, ministro degli Affari economici e dell’energia nel governo guidato da Lefèvre e Paul-Henri Charles Spaak. Segue Spinoy quando diventa vice primo ministro in carica del Coordinamento della politica economica nel governo Harmel-Spinoy (luglio 1965) (v. anche Harmel, Pierre). Volendo partecipare più attivamente alla vita politica si presenta alle elezioni comunali dell’ottobre 1964 e a quelle legislative del maggio 1965. In seguito alla scomparsa di Joseph Bracops, nel giugno 1966, è eletto borgomastro di Anderlecht (1966-1984) e membro della Camera dei rappresentanti (1966-1984). A livello locale S. si dedica soprattutto a rinnovare il suo comune, ma alla Camera e sulla stampa denuncia il declino del messaggio socialista. Nel 1970, per riformare il Partito socialista, pubblica La Gauche et la société industrielle, che provoca vivaci polemiche (Somers, 2005, p. 335).

Il 21 gennaio 1972 S. è nominato ministro degli Affari economici nel governo Eyskens-Cools. Durante il suo mandato si dedica soprattutto alla questione petrolifera e ad assicurare una prudente diversificazione dell’approvvigionamento del paese, nonché a ottenere una maggiore trasparenza nella formazione dei prezzi del petrolio (v. Somers, 2005, p. 336). La carriera europea di S. inizia di fatto nel gennaio 1973, quando il governo belga lo sceglie per occupare il seggio spettante al Belgio nella Commissione europea (1973-1977). Nominato vicepresidente della Commissione, presieduta dal francese François-Xavier Ortoli, le competenze di S. riguardano l’energia, da un lato, e l’armonizzazione in materia di fiscalità e di istituzioni finanziarie, dall’altro. In un’opera autobiografica pubblicata nel 1986, Je n’efface rien et je recommence, S. confessa di non essere entrato nella Commissione “con il fervore del crociato”: «La malinconia della giovane di buona famiglia ma priva di dote che prende il velo perché non può aspirare ad un marito era più vicina al mio stato d’animo» (v. Simonet, 1986, p. 96). In seguito al primo “choc petrolifero” dell’ottobre 1973, che vede quadruplicarsi il prezzo dell’oro nero, la questione energetica, fino a quel momento trascurata, si sposta in primo piano. Il 27 marzo 1973 S., vicepresidente della Commissione europea, pronuncia davanti al Vlaams economisch verbond (VEV), sindacato economico fiammingo, un discorso nel quale delinea i tratti di quella che dovrà essere la politica energetica dei Nove: «Qualsiasi politica energetica diretta a garantire un approvvigionamento sicuro e duraturo a costi economicamente sopportabili non potrà essere perseguita in modo isolato. È evidente che gli Stati hanno tutto da perdere tutelando una politica di rilancio nei confronti dei produttori. I negoziati in ordine sparso in cui ciascun paese sostiene i suoi interessi nazionali non potranno che portare al deterioramento delle posizioni esistenti e/o all’aumento dei prezzi. Per questa ragione ritengo importante che i responsabili della politica energetica dei paesi della Comunità discutano della possibilità di trovare una posizione coerente: nei confronti degli altri paesi consumatori (in particolare Stati Uniti e Giappone), nei confronti dei paesi produttori» (v. Simonet, 1973, p. 3). Quindi per iniziativa di S. la Commissione propone al Consiglio dei ministri di costituire degli stock e di assicurare solidalmente la sicurezza dell’approvvigionamento mediante un sistema di assegnazione delle risorse. Ma queste disposizioni che dovevano essere integrate da misure economiche e di utilizzo razionale dell’energia non saranno seguite dagli Stati membri, che tendono a non accettare i meccanismi comunitari di solidarietà a meno che non ne siano i beneficiari. «Nel corso del 1975», osserva S., «si dovette constatare l’incapacità da parte della Comunità di adottare una strategia energetica coerente. In effetti le proposte della Commissione sottoposte al Consiglio nel giugno 1975 [Objectifs 1985 de la politique énergétique et axes essentiels d’une politique de développement des ressources en energie] non furono accolte dal Consiglio» (v. Simonet, 1986, p. 113). Tuttavia S., malgrado l’assenza della Francia, riesce ad associare la Commissione ai lavori dell’Agenzia internazionale per l’energia.

Dopo la conclusione del mandato di Altiero Spinelli nel luglio 1976, S. eredita il dipartimento dell’Industria e a questo titolo viene incaricato di occuparsi del dossier siderurgico. Per fronteggiare la crisi del settore il commissario belga propone alla Commissione una duplice strategia, per riorganizzare la produzione e al tempo stesso definire un sistema di protezione delle industrie più deboli durante il periodo necessario alla ristrutturazione. Sostenuta da Ortoli, la strategia elaborata da S. viene adottata dalla Commissione il 20 dicembre 1976. Questo sistema sarà prolungato prendendo il nome di Rapporto di Davignon (Étienne Davignon, nel gennaio 1976, succede a S. nella Commissione).

Ministro degli Esteri dal 1977 al 18 maggio 1980 – si occupa prioritariamente della questione della pace in Medio Oriente e delle delicate relazioni fra Belgio e Zaire – S. durante il secondo semestre del 1977 assume la presidenza del Consiglio dei ministri delle Comunità europee. A questo titolo è coinvolto nella preparazione delle Elezioni dirette del Parlamento europeo a suffragio universale e nell’attuazione della sesta direttiva relativa alla Tassa sul valore aggiunto (TVA), cardine del meccanismo delle risorse proprie della Comunità. Avendo ricevuto la domanda di adesione della Spagna, S. si mostra favorevole all’allargamento della Comunità europea e chiede una ridistribuzione delle ricchezze a beneficio dei paesi aderenti (v. Somers, 2005, p. 337). Sempre a nome del Consiglio S. denuncia il regime di apartheid in vigore nel Sud Africa (Conferenza mondiale contro l’Apartheid di Lagos nell’agosto 1977; Assemblea generale delle Nazioni Unite, settembre 1977).

In aperto conflitto con le gerarchie socialiste, S. si dimette nel corso del 1984 da tutti i suoi incarichi politici (consigliere comunale, borgomastro, deputato). L’anno seguente torna alla politica con il Parti réformateur libéral (PRL) e siede ancora alla Camera e al Senato, continuando a interessarsi dei problemi di politica estera e di difesa. Dal 1991 gravi problemi di salute lo allontanano dall’arena politica.

Coinvolto negli affari europei più per caso che per scelta, S. sta al gioco, ossia «compie il suo dovere di Europeo» (v. Simonet, 1986, p. 118) per conferire una dimensione politica reale alla Comunità europea.

Jeneviève Duchenne (2010)




Sistema di preferenze generalizzato

Il Sistema di preferenze generalizzato (SPG) è un regime doganale (v. anche Unione doganale) preferenziale accordato ad alcuni paesi in virtù delle loro condizioni di sviluppo arretrato. Nell’ambito di questo tipo di regime, le preferenze commerciali sono garantite unilateralmente sulla base di non reciprocità con l’obiettivo di favorire la crescita delle economie dei paesi meno sviluppati e ridurre il divario sociale ed economico tra questi e le aree industrializzate.

La Comunità economica europea è stata la prima grande potenza economica a introdurre un sistema di questo tipo, a partire dal 1° luglio 1971, a seguito delle raccomandazioni della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo sviluppo (UNCTAD) del 1968. Per la sua introduzione, il Sistema di preferenze generalizzato ha necessitato di una specifica approvazione nell’ambito dell’Accordo generale sulle tariffe e il commercio (GATT), delle cui norme fondamentali rappresenta una violazione.

Il sistema di preferenze generalizzate europeo garantisce ai paesi beneficiari preferenze sotto forma di diritti doganali e tassi ridotti. Adottato unilateralmente prima dalla Comunità e poi dall’Unione europea tramite regolamenti del Consiglio dei ministri, questo sistema è stato generalmente rinnovato su base decennale.

Il primo schema di SPG è quindi rimasto in vigore dal 1971 al 1980. In seguito a questa data, il cambiamento della situazione del commercio internazionale, la generale riduzione della protezione tariffaria e il crescere degli accordi preferenziali stipulati dalla Comunità hanno reso necessaria una riforma significativa per il successivo decennio (1981-1990).

A seguito della riforma il SPG è divenuto uno strumento sempre più importante sia della politica di sviluppo (v. Politica europea di cooperazione allo sviluppo) che della Politica commerciale comune dell’Unione. Il nuovo regime, oltre a favorire lo sviluppo dei paesi beneficiari, ha mirato al completamento della liberalizzazione dei commerci e all’inserimento dei paesi in via di sviluppo nell’economia internazionale e nell’Organizzazione mondiale del commercio.

Per queste ragioni il SPG si è dotato di nuovi strumenti. In primo luogo è stata introdotta una differenziazione delle preferenze garantite a seconda dei prodotti e del diverso livello di sviluppo dei paesi originari. Tra i paesi beneficiari del regime generale, quelli con le condizioni di sviluppo più svantaggiate hanno quindi potuto godere di regimi ulteriormente privilegiati.

Oltre alle condizioni di sviluppo, le preferenze sono state condizionate, in secondo luogo, al rispetto dei fondamentali principi democratici e del libero scambio. Incentivi sono stati garantiti in cambio dell’introduzione di riforme in ambito sociale (soprattutto a favore dei diritti fondamentali dei lavoratori) e ambientale, settori prioritari nella politica di sviluppo dell’Unione.

Il SPG europeo, infine, ha previsto clausole di salvaguardia (v. Clausola di salvaguardia) per consentire la sospensione delle preferenze tariffarie e il ripristino della Tariffa esterna comune nel caso prodotti originari da un paese beneficiario provocassero o rischiassero di provocare gravi difficoltà ai produttori comunitari.

Anche grazie a queste riforme, il Sistema si è fortemente trasformato, permettendo un notevole aumento dei prodotti e dei paesi beneficiari e una maggiore diffusione dell’uso delle preferenze.

La revisione decennale prevista per il 1° gennaio 1991 è stata più volte differita e solamente dal primo gennaio 1995 è entrato in vigore un nuovo regime, periodicamente soggetto a piccoli adattamenti.

Le trasformazioni del Sistema e dell’economia internazionale hanno portato l’Asia a divenire di gran lunga il maggiore beneficiario del Sistema, con una netta prevalenza al suo interno dei prodotti originari dalla Cina, in conseguenza della densità della popolazione di questo paese e della sua industrializzazione. Nonostante gli incentivi introdotti, al contrario, i paesi meno avanzati continuano a mantenere una posizione piuttosto debole.

Flavia Zanon (2009)