Slovacchia

L’adesione della Slovacchia all’UE non avvenne in modo così semplice come per molti altri Stati della regione. La Slovacchia fu ignorata al Consiglio europeo di Lussemburgo del 1997 per non aver soddisfatto i criteri politici stabiliti a Copenaghen quattro anni prima (v. Criteri di adesione), ma in seguito alle elezioni parlamentari del 1998 e allo scioglimento del governo guidato da Vladimir Mečiar, fu invitata ad avviare le trattative per l’adesione durante il Consiglio europeo di Lussemburgo del 1999. Il paese fece grandi passi avanti nei tre anni successivi, che culminarono nell’invito a candidarsi all’UE nel summit di Copenaghen del 2002.

Malgrado la Cecoslovacchia avesse firmato un Accordo europeo (v. Accordi europei) con la Comunità economica europea (CEE), la divisione dello Stato federale rese necessario un nuovo accordo, che fu firmato il 4 ottobre 1993 e debitamente ratificato dal parlamento slovacco due mesi dopo. A questo punto si supponeva che la Slovacchia sarebbe entrata nell’Unione europea (UE) insieme alla Repubblica Ceca; i funzionari UE ritenevano che la sua economia e la capacità di governare fossero all’altezza del compito. Di fatto, le riforme economiche attuate in Cecoslovacchia, tra il 1990 e il 1992, avevano creato una solida base per una soddisfacente economia di mercato.

Tra il 1993 e il 1997 la Slovacchia mancò l’occasione, soprattutto a causa della politica interna. Malgrado il fatto che Mečiar avesse presentato personalmente la candidatura della Slovacchia all’UE e che il suo governo avesse dichiarato la propria ambizione di unirsi alle strutture euro-atlantiche – UE, Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (NATO), Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) – il governo di coalizione di Mečiar perseguì una politica non conforme alle regole euro-occidentali e generò riprovazione a livello internazionale. Quando la Commissione europea, il 16 luglio 1997, si pronunciò sulle candidature degli Stati dell’Europa centrale e orientale, la Slovacchia emerse chiaramente come un caso anomalo (v. anche Paesi candidati all’adesione). Infatti, fu l’unico paese a essere escluso dal primo gruppo invitato a iniziare le trattative per l’adesione al Consiglio europeo di Lussemburgo, per non aver soddisfatto i criteri politici stabiliti a Copenaghen nel 1993 (v. Henderson, 1999). La Commissione stabilì che il paese non aveva ottemperato ai criteri politici sotto molti aspetti, riferendosi in particolare all’instabilità delle istituzioni slovacche, all’insufficiente radicamento nella vita politica e agli scarsi risultati nel funzionamento della sua democrazia. Inoltre, in materia di principio di legalità, diritti umani e tutela delle minoranze (v. anche Diritti dell’uomo), il governo guidato da Mečiar fu criticato per il divario fra le norme contenute nei testi costituzionali e giuridici, e la loro applicazione politica.

La bocciatura della Slovacchia nel 1997 fu il culmine di una serie di messaggi sempre più critici provenienti da Bruxelles, dopo le elezioni del 1994. Il 23 novembre 1994, prima della formazione del terzo governo guidato da Mečiar, l’UE presentò una démarche che esprimeva preoccupazione nei riguardi delle attività del governo entrante, specialmente in riferimento all’iniziale concentrazione di potere verificatasi fin dalla prima seduta parlamentare del 3-4 novembre. Una seconda démarche venne presentata il 25 ottobre 1995 ed esprimeva critiche per la campagna condotta dal governo contro il presidente e un monito alla Slovacchia affinché facesse fronte agli obblighi sottoscritti nell’Accordo associativo. Il governo, tuttavia, ignorò ampiamente la démarche e preferì, al contrario, considerarla come un comunicato o un promemoria. Le preoccupazioni dell’UE divennero ancora più esplicite in una Risoluzione del Parlamento europeo, approvata il 16 novembre 1995, nella quale si faceva riferimento in particolare alle oscure vicende intorno al rapimento del figlio del presidente Michal Kováč, ai tentativi di Mečiar di fare espellere dal Parlamento membri dell’Unione democratica (che avevano lasciato il partito del primo ministro) e all’esclusione di rappresentanti dell’opposizione dai principali comitati parlamentari (v. Henderson, 1999, p. 232).

La bocciatura della Slovacchia a Lussemburgo, nel 1997, unita alle irregolarità appurate nel referendum sull’ingresso nella NATO, servì a convincere le varie forze d’opposizione a collaborare più strettamente. Di conseguenza fu formata la Coalizione democratica slovacca (Slovenská demokratická koalícia, SDK) che univa cristiano-democratici, liberali,verdi e socialdemocratici. Inoltre, altri partiti come il successore di quello comunista, il Partito della sinistra democratica (Strana demokratickej lavice, SDL), dichiararono apertamente il proprio desiderio di restituire alla Slovacchia il suo status di normale paese europeo. Nell’autunno del 1998, alle elezioni parlamentari, i partiti d’opposizione ottennero buoni risultati. Subito dopo le elezioni venne formata una coalizione composta da quattro partiti – SDK, SDL, Partito della comprensione civica (Strana obcianskeho porozumenia, SOP) di recente istituzione e Partito della coalizione ungherese (Madarská koalícia, MK). L’inclusione del partito etnico ungherese fu molto importante per l’immagine del governo e del paese, considerate le critiche rivolte alle politiche sulle minoranze durante il governo Mečiar, contenute nell’“Agenda 2000” della Commissione europea.

Inizialmente, il nuovo governo slovacco sperava che il paese sarebbe stato invitato a iniziare le trattative per l’adesione durante il Consiglio europeo di Vienna nel dicembre 1998. In realtà, dopo le elezioni del 1998, i segnali provenienti da Bruxelles erano molto positivi, ma non lasciavano intendere che la Slovacchia sarebbe stata automaticamente promossa nel primo gruppo di paesi candidati. Tuttavia, il nuovo governo slovacco si impegnò per dimostrare la volontà del paese di aderire all’UE con una frenetica attività diplomatica. Il nuovo primo ministro Mikuláš Dzurinda effettuò personalmente 35 visite bilaterali all’estero, presso i paesi dell’UE, durante i primi dodici mesi del proprio incarico (v. Bilčík, 2001, p. 9).

Nel tentativo di riguadagnare terreno nel processo di preparazione per l’adesione, la Slovacchia cooperò attivamente con la Commissione europea. Basandosi sull’opinione favorevole dell’UE rispetto al nuovo governo slovacco, la Commissione creò uno strumento istituzionale unico: il Gruppo di lavoro di alto livello tra la Commissione europea e la Slovacchia, sotto la guida del viceministro degli Esteri Ján Figeľ e del vicedirettore degli Affari esteri CE, François Lamoureux; il Gruppo si riunì cinque volte tra il novembre 1998 e il settembre 1999 (v. Bilčík, 2001, p. 9). La valutazione finale delle attività del Gruppo di lavoro mise in evidenza i cambiamenti politici avvenuti in Slovacchia. Il sistema politico della Slovacchia, in seguito alle elezioni parlamentari, comunali e presidenziali, raggiunse una rinnovata stabilità. L’approvazione della legge sull’uso delle Lingue delle minoranze nazionali, nel luglio 1999, rappresentò una svolta fondamentale nello scenario politico interno, così come il funzionamento piuttosto stabile della nuova e allargata coalizione. Il Gruppo di lavoro concluse che la velocità dell’integrazione slovacca nell’UE sarebbe dipesa in larga misura dalla tempistica e dalla portata delle riforme interne e dalla trasposizione dell’Acquis comunitario nella legislazione slovacca (v. Bilčík et al., 2001, p.243).

Il Gruppo di lavoro e altre Istituzioni comunitarie misero in luce questioni che sarebbero state rilevanti durante l’intero processo di adesione, specialmente la riforma giudiziaria, la situazione della minoranza rom, l’applicazione di leggi volte a rafforzare il mercato interno e aumentare la trasparenza nella privatizzazione, la richiesta al governo slovacco di elaborare progetti mirati alla chiusura del reattore del blocco V1 e l’aumento della sicurezza del blocco V2 della centrale nucleare di Jaslovsé Bohunice.

Furono raggiunti diversi obiettivi nell’arco di tempo tra la formazione del nuovo governo e il summit di Helsinki del dicembre 1999, non da meno quello di rilanciare l’immagine della Slovacchia negli ambienti europei. Furono anche attuate importanti trasformazioni di carattere pratico. Malgrado il precedente governo avesse presentato la prima versione del Programma nazionale per l’adozione dell’acquis nel marzo 1998, il governo di Dzurinda si preparò a rivedere i piani in risposta alle critiche mosse dalla Commissione. Il punto più importante era l’introduzione di un migliore coordinamento dei gruppi di lavoro facenti capo al vice primo ministro per l’Integrazione, Pavol Hamžík. Nel febbraio 1999 venne approvato un nuovo piano d’azione (v. Marušiak et al., 1999, pp. 181-182).

In seguito alla raccomandazione della Commissione del 13 ottobre 1999 affinché si avviassero le trattative con la Slovacchia (insieme alla Romania, Bulgaria, Lettonia, Lituania e Malta), nel dicembre 1999 il Consiglio europeo di Helsinki acconsentì ad avviare le trattative per l’adesione agli inizi del 2000. Nel febbraio 2000, quando la Slovacchia presentò la sua posizione generale sull’ingresso nell’UE ebbero inizio. Il governo dichiarò che non avrebbe richiesto deroghe rispetto all’acquis e che avrebbe fatto istanza di periodi di transizione soltanto per un numero limitato di aree e affermò coraggiosamente il proprio ambizioso obiettivo di armonizzare la legislazione slovacca con la legislazione UE (v. Armonizzazione) entro la fine del 2002 e fissò il 1° gennaio 2004 come data di ingresso (v. Bilčík et al., 2001, p. 244).

La Slovacchia iniziò a trattare otto dei 31 capitoli (statistiche, piccole e medie imprese, scienza e ricerca, istruzione e formazione, relazioni esterne e politica estera e di sicurezza comune, cultura e politica dell’audiovisivo e concorrenza), e la conclusione preliminare dei primi sei venne confermata nella riunione dei ministri degli Esteri a Lussemburgo nel giugno 2000. Il mese successivo, la Slovacchia aprì altri otto capitoli (politica industriale, tutela dei consumatori, pesca, Libera circolazione dei servizi, Libera circolazione dei capitali, trasporti, telecomunicazioni e tecnologia dell’informazione e Unione doganale), i primi tre dei quali vennero chiusi nell’ottobre 2000, mentre quello relativo alla cultura e Politica degli audiovisivi fu chiuso il mese successivo. Malgrado i progressi compiuti, gli analisti espressero perplessità riguardo alla capacità della Slovacchia di rispettare l’ambiziosa data d’ingresso (v. Bilčík et al., 2001). Restavano ancora molti capitoli, ritenuti tra i più difficili, da chiudere e si erano raggiunti scarsi progressi in settori particolari come il diritto commerciale e le capacità istituzionali della Slovacchia di stare al passo con i vicini.

La Slovacchia, sostenuta in parte dal Consiglio europeo di Nizza del dicembre 2000 (che approvò una road map per completare le trattative e auspicò che nuovi Stati membri partecipassero al turno successivo per eleggere il Parlamento europeo nel giugno 2004), compì “notevoli progressi” nelle trattative per l’adesione durante il 2001 e riuscì a tenere il passo dei più importanti paesi candidati, almeno per quanto riguardava la chiusura dei capitoli dell’acquis (v. Bilčík, 2002, p. 286).

Sebbene l’UE avesse inizialmente deciso di aprire le trattative con la Slovacchia per l’adesione su tutti i rimanenti capitoli – eccetto quello relativo al controllo finanziario – i diplomatici slovacchi riuscirono a persuadere i funzionari UE a includerlo. Durante la presidenza svedese nella prima metà del 2001 (v. Presidenza dell’Unione europea), la Slovacchia riuscì a chiudere altre nove capitoli (Libera circolazione delle merci, libera circolazione dei servizi, diritto societario, Politica sociale e occupazione (v. Politiche per l’occupazione), telecomunicazioni e tecnologia dell’informazione (v. Politica europea delle telecomunicazioni), Libera circolazione delle persone, libera circolazione dei capitali, unione doganale e Unione economica e monetaria). I progressi realizzati in questo periodo si rivelarono significativi al punto che il Consiglio europeo di Göteborg nel giugno 2001 prese la decisione di concludere le trattative con i paesi candidati meglio preparati, entro la fine del 2002. Grazie alle trattative relativamente rapide, la Slovacchia era riuscita a tenere il passo con i vicini del primo gruppo. Al termine della presidenza svedese, la Slovacchia aveva chiuso 20 capitoli, un risultato simile a Polonia (17), Ungheria (22) e Repubblica Ceca (19; v. Bilčík, 2002, p. 288).

Tuttavia, durante la seconda metà del 2001, i progressi rallentarono. Malgrado Figeľ avesse espresso il desiderio di arrivare a chiudere i capitoli relativi a energia, tassazione e trasporti, raggiungendo allo stesso tempo progressi considerevoli nel controllo finanziario, ambiente, concorrenza, giustizia e affari interni, questi obiettivi non furono raggiunti. Soltanto altri due capitoli (energia e ambiente) si conclusero prima della fine del 2001. Per entrambi i capitoli la Slovacchia negoziò accordi transitori. Nel caso del capitolo sull’Energia, l’UE riconobbe che sarebbero stati necessari ulteriori e significativi investimenti e una dilazione di tempo affinché la Slovacchia soddisfacesse i requisiti UE e portasse le riserve strategiche di petrolio fino a un livello corrispondente a 90 giorni di consumo, per cui accordò alla Slovacchia una proroga di cinque anni. La Slovacchia inoltre negoziò sette periodi di transizione per i capitoli sull’ambiente (v. anche Politica ambientale).

I preparativi per l’adesione all’UE, non furono certamente favoriti da uno scandalo scoppiato nella primavera del 2001. I funzionari del governo slovacco vennero sospettati di essersi appropriati indebitamente di fondi UE. Lo scandalo condusse alle dimissioni di Hamžík, che venne sostituito, come vice primo ministro per l’integrazione europea, da Maria Kadlečíková. Inoltre, l’UE rispose con il temporaneo congelamento di ulteriori fondi per la Slovacchia. Per quanto le indagini sullo scandalo non svelarono attività criminali, la vicenda mise in evidenza una mancanza di trasparenza e una impreparazione generale delle istituzioni slovacche a recepire gli strumenti di assistenza dell’UE nella fase di preadesione (v. Bilčík, 2002, p. 290).

Tuttavia, nel 2001 si osservarono progressi considerevoli nella riforma giudiziaria e nella pubblica amministrazione. Nel novembre 2000, la Commissione europea nella sua relazione periodica criticò la Slovacchia per l’insufficiente indipendenza del sistema giudiziario, gli scarsi risultati nella lotta alla corruzione, il livello generalmente scarso di preparazione istituzionale e di capacità amministrativa complessiva. In risposta, il 23 febbraio 2001, il parlamento slovacco «adottò il più ampio emendamento alla Costituzione slovacca» sin dall’indipendenza (v. Bilčík, 2002, p. 289). L’emendamento spianò la strada alla riforma del sistema giudiziario, chiarì lo status dei trattati internazionali, ridefinì i poteri della Corte Costituzionale, provvide alla creazione di un mediatore (Ombudsman) nel campo della tutela dei diritti civili e favorì la riforma della pubblica amministrazione.

Durante la presidenza spagnola, nella prima metà del 2002, la Slovacchia chiuse altri quattro capitoli (tassazione, trasporti, giustizia e affari interni e istituzioni). Per quanto concerne il primo di questi, i negoziatori slovacchi si dimostrarono vincenti, esigenti e abili nell’ottenere vari periodi di transizione e deroghe mirati ad attutire l’impatto dell’adesione all’UE sull’imposta sul valore aggiunto e sui diritti di accisa (v. Bilčík, 2003, p. 331).

La fase finale delle trattative slovacche fu completata durante la presidenza danese, nella seconda metà del 2002. La fase più spinosa si rivelò quella relativa alla concorrenza, che non venne chiusa fino all’ottobre 2002. I negoziati si concentrarono sull’assistenza statale fornita alle aziende private, specialmente le agevolazioni fiscali e gli incentivi concessi a due tra i più importanti investitori stranieri, Volkswagen e US Steel (v. Bilčíc, 2003, p. 333). Sebbene l’UE rifiutasse generalmente di accordare periodi di transizione e deroghe in questa materia, si arrivò infine a un accordo. Per quanto riguarda la Volkswagen, fu concesso alla Slovacchia di continuare a fornire gli aiuti di Stato in base agli accordi stabiliti tra la casa automobilistica e il governo slovacco fino al 2008. L’accordo riguardante la US Steel fu complesso, ma in modo analogo il governo slovacco poté continuare a fornire sgravi fiscali, alle stesse condizioni dell’accordo iniziale. Nella raffica finale di trattative, che culminarono nel Consiglio europeo di Copenaghen del dicembre 2002, prevalsero le questioni relative al bilancio e all’agricoltura (analogamente agli altri Stati candidati). La Slovacchia si dimostrò relativamente flessibile nelle trattative rispetto ad altri paesi candidati come la Polonia.

Grazie a un largo consenso politico sulla necessità di unirsi all’UE e all’assenza di richieste forti durante le trattative per l’adesione, il processo di adesione della Slovacchia fu molto più facile rispetto a quello di altri Stati candidati. La strategia slovacca nei negoziati di adesione all’UE guidati da Ján Figeľ (v. anche Strategia di preadesione), fu diretta e si basò molto sulla fiducia tra le parti interessate. Le richieste slovacche di periodi di transizione furono limitate a poche questioni di vitale interesse nazionale e non ci furono richieste di deroghe sull’applicazione dell’acquis. Le trattative più difficili furono quelle riguardanti i problemi del mercato interno (le “quattro libertà”), ambiente, energia, imposte, agricoltura e concorrenza (v. Figeľ, Adamiš, 2003). Fu grazie a questa strategia negoziale e alla determinazione nel tenere il passo che la Slovacchia riuscì a concludere i negoziati in meno di tre anni.

Dopo la chiusura delle trattative e la firma del Trattato di adesione ad Atene nell’aprile 2003, iniziò la ratifica del trattato (che costituisce il passo conclusivo indispensabile per l’adesione). Tuttavia, la Slovacchia aveva cominciato i propri preparativi prima che il trattato venisse firmato. In risposta a una risoluzione approvata dal Parlamento, il presidente Rudolf Schuster indisse un referendum per il 16-17 maggio 2003. Sebbene non fosse necessario sul piano legale un referendum, i leader politici ritennero che, data l’importanza dell’evento storico, fosse indispensabile. Fu una mossa rischiosa, in particolare a causa del requisito legale del 50% di elettori per convalidare il risultato. Dato l’ampio consenso interno, con solo poche voci marginali che esprimevano seri dubbi sull’impatto dell’adesione, si suppose che il “sì” avrebbe facilmente vinto; tuttavia, la sfida rimaneva quella di assicurare un numero sufficiente di elettori. Dopo una debole campagna a favore del “sì” condotta dal vice primo ministro Pál Csáky, nei più illustri ambienti politici si temette che l’affluenza alle urne sarebbe rimasta sotto la soglia del 50%. Di conseguenza, molti politici di alto profilo, tra i quali il portavoce del Parlamento, Pavol Hrušovký, esortarono i cittadini a recarsi alle urne. Probabilmente gli appelli dell’ultima ora furono decisivi, poiché la partecipazione al voto riuscì a raggiungere la soglia del quorum, con il 52,2% di votanti. Come previsto, una schiacciante maggioranza (92,5%) si pronunciò a favore dell’adesione. Dopo il referendum e il suo significato più simbolico che legale, il parlamento slovacco dovette ratificare formalmente il trattato nel giugno 2003, aprendo la strada all’adesione del 1° maggio 2004.

Sorprendentemente, i deputati del Partito comunista slovacco votarono contro il trattato durante la ratifica parlamentare, anche se la leadership del partito aveva sostenuto il “sì” nel referendum. La stessa leadership non voleva essere considerata come la causa del fallimento dell’adesione all’UE, ma usò la ratifica del voto parlamentare come un’opportunità per sottolineare il proprio dissenso nei confronti delle condizioni accordate per l’adesione (v. Haughton, Rybář, 2004). Infatti, concluso il processo di ratifica, cominciò a emergere un dibattito molto più incisivo su quale fosse il modello di UE al quale il paese voleva aderire. In precedenza, soltanto il dibattito parlamentare sugli emendamenti costituzionali aveva prodotto un risultato significativo e ciò avvenne quando i deputati dell’opposizione accusarono il governo di tradimento.

Durante il processo di adesione era mancata una sostanziale discussione, a tutti i livelli sociali, non soltanto a livello politico ma anche nell’ambito delle organizzazioni non governative e in quello economico, su quale fosse il modello di UE al quale il paese desiderasse aderire. Era stato fatto un tentativo per facilitare questo dibattito nell’ambito della Convenzione nazionale sul futuro della Slovacchia in Europa, ma tale iniziativa si dimostrò inefficace a causa della mancanza d’interesse dei partecipanti.

Durante il periodo 1998-2002, il principale obiettivo nazionale della Slovacchia fu chiaramente quello di ottenere l’adesione all’UE. Talvolta la Slovacchia appariva come «un cane ubbidiente che segue devotamente gli ordini del suo padrone» (v. Málova, Haughton, 2005). Alla luce della bocciatura di Lussemburgo e del desiderio della Slovacchia di non “perdere il treno”, quella posizione era comprensibile. Ciò che stupisce è il fatto che l’obiettivo dell’adesione ostacolasse l’emergere di un dibattito interno sul modello preferito di Unione europea al quale aderire. In ogni caso, l’adesione costrinse la Slovacchia a definire le proprie priorità nazionali. Pressioni per una chiara diffusione di tali interessi nazionali emersero nel corso della Conferenza intergovernativa (v. Conferenze intergovernative) di Roma nel dicembre 2003. In quanto nuovo Stato membro senza una tradizione di politica estera indipendente, con programmi in molti settori della politica fortemente condizionati nel decennio precedente dall’adesione all’UE e alla NATO, e con attori politici slovacchi così diversamente orientati, forse non era sorprendente che il paese lottasse per definire la propria posizione. Infatti, la posizione ufficiale del paese, che spinse l’opposizione al governo verso un’ulteriore integrazione in un certo numero di settori – in particolare il desiderio di mantenere una strategia di decision-making unanime su tassazione, politica sociale e difesa – fu chiarita solo due giorni prima del summit di Roma.

Dopo quell’avvio infausto, la Slovacchia cominciò a definire più chiaramente la propria posizione. Al contrario delle questioni fiscali, nell’ambito della politica estera, la direzione della strategia governativa fu a favore dell’integrazione. Alla vigilia dell’adesione slovacca all’UE, il primo ministro Dzurinda stabilì come priorità assolute della politica estera slovacca sia i Balcani Occidentali che l’Ucraina. Dopo il suo discorso, il ministero degli Esteri redasse i documenti che delineavano le priorità politiche, basate sul processo di stabilizzazione e di associazione all’UE, sulla politica europea di buon vicinato e sul perseguimento di un’UE sempre più allargata. La Slovacchia dimostrò il proprio impegno verso i Balcani occidentali, facendosi portavoce dell’avvio di negoziati per l’adesione della Croazia, aprendo una propria ambasciata in Bosnia-Herzegovina e inviando un diplomatico di grande esperienza alla guida della missione del paese a Sarajevo. Mentre la Slovacchia aveva espresso il proprio sostegno a iniziative europee quali la Strategia europea per la sicurezza, il governo espresse alcune riserve riguardo a un’ulteriore integrazione in questo settore, in particolare sul fatto che nuove strutture avrebbero potuto gravare sui rapporti tra la NATO e l’UE. In generale, la Slovacchia manifestò il proprio desiderio di garantire buone relazioni tra l’UE e gli USA.

Sembrerebbe che la posizione slovacca rispetto a un’ulteriore integrazione durante il primo anno di adesione fosse riconducibile alle preoccupazioni ideologiche del governo. Dopo aver ottenuto l’adesione, partiti quali l’Unione democratica cristiana slovacca del primo ministro Dzurinda (Slovenská Demokratická a Kresťanská Únia, SDKÚ), che avevano incentrato la campagna elettorale del 2002 sull’adesione all’UE, spostarono la propria attenzione verso preoccupazioni di natura più ideologica. Al centro dei programmi dei ministri nominati della SDKÚ, in particolare quelli del ministro delle Finanze, Ivan Mikloš, vi erano politiche neoliberiste ispirate e incoraggiate da organismi finanziari internazionali come la Banca mondiale. Il governo Dzurinda, ad esempio, introdusse la tanto decantata tassa del 19% di aliquota unica, tagliò i benefici previdenziali e intraprese riforme radicali delle pensioni e della sanità. Queste riforme furono sostenute dalla fiducia nella superiorità del mercato rispetto agli interventi dello Stato e implicarono la sostituzione degli stessi con soluzioni ampiamente basate sul mercato. Mentre la situazione interna, specialmente la debole opposizione, aveva facilitato il perseguimento di tali politiche, la dimensione europea poneva una minaccia. Rinunciare al proprio diritto di veto sulle imposte, per esempio, avrebbe portato all’armonizzazione fiscale e avrebbe messo in pericolo il programma neoliberista (v. Málova, Haughton, 2005).

Box 1 → Banca Nazionale Slovacca

Box 2 → Convenzione Nazionale sul futuro europeo della Slovacchia

Box 3 → Fondazione Friedrich Ebert

Box 4 → Istituto per gli Affari pubblici

Tim Haughton, Jana Shepperd (2007)




Slovenia

La strada per l’indipendenza

I primi segnali della disintegrazione del secondo Stato iugoslavo si erano già manifestati decenni prima della sua effettiva caduta. È tuttavia la morte del carismatico presidente di Stato e del Partito comunista, Josip Broz Tito, il 4 maggio 1980, che viene considerata il punto di svolta di questo processo. Dalla morte di Tito fino alla seconda metà degli anni Ottanta, la politica slovena rispetto alla Iugoslavia può definirsi difensiva e orientata al mantenimento della posizione acquisita. Soltanto alla fine di quel decennio la situazione muta drasticamente. Fino alla seconda metà degli anni Ottanta non vi erano stati né valutazioni politiche né un programma nazionale da parte slovena che non sostenessero la società socialista, e neppure serie prese di posizione a favore di una piena indipendenza nazionale. L’unica eccezione fu, negli anni Sessanta, quella di alcuni programmi di emigrati politici sloveni in sostegno di una Iugoslavia multipartitica e confederativa, che in parte si ricollegavano al programma del gruppo “liberale” interno alla Lega dei comunisti sloveni al governo.

Sulle questioni economiche, le valutazioni politiche slovene evidenziavano chiaramente la posizione di una repubblica sviluppata: opposizione alle richieste di socializzare il debito, di contribuire al fondo di mutua solidarietà utilizzato soprattutto per coprire il deficit delle repubbliche sottosviluppate, e ad altre misure amministrative per la distribuzione delle merci simili a quelle adottate alla fine della Seconda guerra mondiale. Riguardo al funzionamento dello Stato federativo, l’opposizione della Slovenia era orientata contro gli sforzi per modificare l’ordine costituzionale contro i tentativi di uniformare alcuni importanti ambiti sociali, quali il settore dell’istruzione, quello scientifico e i sistemi delle macro infrastrutture. Nell’ambito della politica estera, la Slovenia si impegnò per avere contatti diretti con paesi stranieri e una rappresentanza paritaria nella diplomazia iugoslava. Nel settore degli affari interni, tuttavia, tra le questioni più accese figuravano lo status paritario della lingua slovena e il mantenimento della cultura slovena.

La credibilità dei politici comunisti sloveni fu compromessa dalla loro incapacità di risolvere i problemi fondamentali dell’economia e della democrazia (pluralismo politico) e in primo luogo dalla loro incapacità di proteggere dalle pressioni di Belgrado lo status normativo raggiunto.

La vecchia generazione di politici, consapevole della propria incapacità di far fronte alle nuove sfide, acconsentì con riluttanza al riformismo personificato da Milan Kučan, leader del partito comunista sloveno. La posizione in merito allo Stato federativo prese progressivamente forma attraverso il graduale mutamento dei rapporti tra il governo e l’opposizione emergente. Una spinta al dibattito sul futuro status della nazione/Stato sloveno provenne nel 1987 dal ben noto numero 57 di “Nova revija” (Nuova rivista), la rivista portavoce dell’opposizione slovena. Studi e saggi filosofici e sociologici si concentrarono sul problema se il popolo sloveno dovesse diventare una nazione, ossia ottenere una propria entità statale con una reale sovranità, indipendente dal controllo e dal dominio iugoslavo, e sulla necessità di introdurre un nuovo ordine, che favorisse l’espressione democratica dei cittadini sloveni, vale a dire il pluralismo politico. Con l’allargamento dello spazio democratico, era aumentata notevolmente l’influenza della società civile e dell’opposizione.

Due documenti del 1989, la Dichiarazione di maggio e la Carta fondamentale della Slovenia, riflettono chiaramente le differenti posizioni assunte dall’opposizione e dall’autorità riguardo alla Iugoslavia e all’integrazione europea. Nella Dichiarazione di maggio erano espresse le seguenti rivendicazioni:

«1) Vogliamo vivere in uno Stato sovrano della nazione slovena. 2) In quanto Stato sovrano decideremo autonomamente sulle relazioni con gli slavi meridionali e le altre nazioni all’interno di un’Europa moderna. 3) Le uniche basi possibili dello Stato sloveno sono: il rispetto dei diritti umani e delle libertà, la democrazia basata sul pluralismo politico, un ordine sociale che garantisca benessere economico e spirituale in accordo con le risorse naturali e le capacità umane dei cittadini sloveni».

La Carta fondamentale della Slovenia era meno radicale e cercava soluzioni all’interno della federazione iugoslava, continuando a sostenere l’autogestione, sebbene in forma riveduta. La competizione tra i sostenitori delle due parti si espresse con le firme apposte su ciascun documento, ma abbastanza significativamente molti firmarono entrambi. Fu il documento più radicale, la Dichiarazione di maggio, a reggere alla prova della storia.

Nell’ultimo periodo, il governo del croato Ante Marković si impegnò a salvare la Iugoslavia applicando il concetto di “socialismo moderno”. Marković, eletto presidente nel 1989, avviò una serie di riforme economiche che avrebbero dovuto aiutare a mantenere la Iugoslavia unita. Fu tuttavia incapace di confrontarsi con la nomenklatura politica ideologicamente rigida, legata a un socialismo di tipo “monopartitico” che continuò a esercitare un’influenza decisiva sull’economia rifiutando qualsiasi riforma. Inoltre, il conflitto tra le nazioni della Iugoslavia era già diventato così teso che solo in politica estera questa funzionava come nazione unita. In Slovenia, a ogni livello, furono sollevate molte obiezioni al programma di Marković, soprattutto riguardo alla concentrazione di autorità nel consiglio esecutivo federale/governo e nella Banca nazionale di Iugoslavia. Tuttavia, malgrado le critiche, venne approvato dall’Assemblea della Repubblica di Slovenia.

Nonostante alcuni passi verso la democratizzazione e l’apertura dello spazio politico, non si avvertì alcun cambiamento sostanziale nella struttura politica della Iugoslavia e nella posizione slovena nei suoi confronti. Fu solo alcune settimane prima del conseguimento dell’indipendenza che si avviò una discussione su basi paritarie con gli organi federali e soprattutto con Marković, mentre fu solo con gli Accordi di Brioni del luglio 1991 che iniziarono gli effettivi negoziati. All’inizio del 1991, la Slovenia avviò le discussioni con i rappresentanti di tutte le repubbliche iugoslave, offrendo la possibilità di un’unione di Stati indipendenti, autonomi e sovrani (una confederazione) o di una comunità economica. Il 20 febbraio 1991, dopo il fallimento dei negoziati, l’Assemblea slovena di comune accordo adottò la risoluzione sulla sua indipendenza.

Quando alla fine di giugno del 1991 in Iugoslavia scoppiò la guerra, per evitare ulteriori conflitti l’Unione europea inviò un gruppo di osservatori in Slovenia. Il 28 giugno una delegazione speciale incaricata dei negoziati composta da tre mediatori UE (Gianni De Michelis, Jacques Poos, Hans Van den Broek) giunse a Zagabria (passando per Belgrado) per incontrare il presidente croato Franjo Tudjman, il presidente sloveno Milan Kučan e il presidente del governo federale Ante Marković. Si raggiunse un accordo sulla sospensione delle ostilità, sulla ripresa dell’attività della presidenza della Repubblica sociale federalista di Iugoslavia (RSFI, che cessò di funzionare poiché la parte serba rifiutò di riconoscere il croato Stipe Mesić come presidente) e sul rinvio della Carta costituzionale riguardante l’autonomia e l’indipendenza della Slovenia. Ciò nonostante, gli scontri si protrassero fino al 4 luglio, quando l’esercito iugoslavo si ritirò nelle caserme.

Il 7 luglio a Brioni furono avviati i negoziati presieduti dagli allora mediatori UE tra la federazione e la Croazia, la Slovenia e la Serbia, che portarono agli Accordi di Brioni. Tra le decisioni, la più discutibile fu la richiesta che Slovenia e Croazia rimandassero di tre mesi il conseguimento dell’indipendenza. Gli osservatori dell’Unione europea (UE) vigilarono sull’armistizio e sulla moratoria della procedura per l’indipendenza. In Slovenia gli Accordi di Brioni suscitarono varie reazioni, molti membri del Parlamento, soprattutto quelli appartenenti ai partiti nazionalistici, li intesero come un diktat. Il 12 luglio, tuttavia, l’Assemblea slovena li ratificò con una maggioranza di due terzi.

Il 18 luglio, la presidenza della RSFI annunciò inaspettatamente il ritiro dell’esercito iugoslavo dalla Slovenia in tre mesi, compiutosi poi il 25 ottobre. L’esercito iugoslavo, interamente sotto il controllo serbo, depositò alcuni armamenti ed equipaggiamenti in Croazia (dove gli scontri ebbero inizio nell’autunno 1991) e la parte più consistente in Bosnia-Erzegovina, dove presto scoppiò il conflitto più sanguinoso in territorio jugoslavo.

Quando decadde la moratoria, la Slovenia assunse il controllo dei suoi confini e adottò la propria moneta, il tallero. Il 23 dicembre 1991 fu adottata una nuova Costituzione in accordo con i principi generalmente riconosciuti di una democrazia moderna: il sistema parlamentare, la divisione dei poteri, l’uguaglianza di fronte alla legge e altre libertà politiche e socio-economiche quali la protezione dei diritti delle comunità nazionali autoctone italiane e ungheresi.

Nel settembre 1991, quando erano già scoppiati scontri accesi in Croazia, si sarebbe dovuta adottare una decisione sul destino della Iugoslavia durante una conferenza internazionale all’Aia. Una commissione speciale, la commissione di arbitrato Badinter, concluse che in Iugoslavia era in corso un processo di dissoluzione e sottolineò che la questione non riguardava soltanto la secessione delle due repubbliche, Slovenia e Croazia. La Commissione propose che tutte le repubbliche fossero successori paritari della RSFI, che i precedenti confini divenissero frontiere protette dal diritto internazionale e che i problemi dell’eredità statuale derivante dalla cessazione della RSFI dovessero essere risolti di comune accordo tra i vari Stati successori. Tuttavia, la conferenza sulla Iugoslavia, che proseguì a Bruxelles e Londra, non fu molto efficace. Alla fine fallì a causa del rifiuto da parte di Miloševič di tutte le proposte per il mantenimento della Iugoslavia, comprese quelle che prospettavano dei legami fortemente allentati. Con l’appoggio di alcuni Stati, in particolare della Germania, la Slovenia investì tutti i suoi sforzi per ottenere il riconoscimento internazionale. A dicembre, l’UE decise che il 15 gennaio 1992 avrebbe riconosciuto tutte le repubbliche iugoslave che ne avessero fatto richiesta. La Slovenia fu riconosciuta dalla Germania già nel dicembre 1991 (con validità dal 15 gennaio 1992), seguita dall’Islanda (19 dicembre 1991), dal Vaticano (13 gennaio 1992) e dalla maggioranza degli Stati membri dell’UE (15 gennaio 1992). Insieme a Croazia e Bosnia-Erzegovina, la Slovenia venne ammessa nell’ONU il 22 maggio 1992 come 176° membro.

Adesione all’UE

Nei suoi documenti strategici e al più alto livello politico, la Slovenia sottolineò costantemente la volontà e l’obiettivo di diventare membro a pieno titolo dell’UE. Fu dichiarato nei documenti programmatici che lo sviluppo ottimale a lungo termine della Slovenia era inevitabilmente legato all’adesione a pieno titolo all’UE. Sin dalla proclamazione dell’indipendenza – con l’adozione il 25 giugno 1991 in Parlamento della Carta costituzionale fondamentale sulla sovranità e sull’indipendenza della Repubblica di Slovenia nonché con l’assemblea popolare tenutasi il 26 giugno 1991 di fronte al Parlamento – il governo della Repubblica di Slovenia sottolineò costantemente che in cima alla lista delle priorità vi era l’adesione all’UE.

Un anno dopo, nel 1992, la Slovenia presentò la domanda di adesione all’Accordo europeo e richiese aiuti per la ricostruzione e il consolidamento della sua economia. Dopo l’Accordo di cooperazione tra UE e Slovenia del 1993, il governo sloveno chiese di avviare i negoziati di adesione all’UE. Nel 1993 la Slovenia diventò membro del Fondo monetario internazionale.

Il 10 giugno 1996, Slovenia e UE firmarono l’Accordo di Associazione e il governo della Repubblica di Slovenia presentò ufficialmente domanda di adesione all’UE. L’11 novembre 1996 fu firmato l’Accordo interinale sul commercio tra UE e Slovenia (in vigore dal 1° gennaio 1997), con cui venne implementata la parte commerciale dell’Accordo di associazione e rafforzata un’area di libero scambio tra UE e Slovenia. Nel maggio 1997, la Slovenia adottò i Criteri di adesione, confermando la sua volontà di diventare membro a pieno titolo dell’UE.

Il 16 luglio 1997 fu presentato nell’ambito di “Agenda 2000” il Parere della Commissione europea sui paesi candidati. Dopo la relazione favorevole, nel dicembre 1997, la Slovenia si attestò nel primo gruppo di candidati per i negoziati, che iniziarono ufficialmente il 31 marzo 1998. Il 1° maggio 2004, divenne membro a pieno titolo dell’Unione europea. Un anno prima, nel plebiscito del 23 marzo 2003, l’89,64% degli elettori sloveni si pronunciò a favore dell’adesione all’UE. L’adesione fu sostenuta da tutti i partiti politici, tranne il Partito nazionalista sloveno che espresse le sue riserve e il suo Euroscetticismo.

In qualità di membro dell’UE, la Slovenia ha i suoi rappresentanti in tutte le Istituzioni comunitarie, gli organi e gli enti e partecipa attivamente al processo di decision-making. Ha sette eurodeputati al Parlamento europeo e un commissario alla Commissione europea e, come tutti gli altri membri, ha diritto a un voto nel Consiglio dei ministri.

Nel periodo tra il 2004 e il 2006, la Slovenia fu un beneficiario netto dei fondi del bilancio comunitario (v. Bilancio dell’Unione europea). Si calcola che abbia ricevuto circa 392,7 milioni di euro più di quanto vi abbia contribuito. Il totale dei fondi di cui ha beneficiato tra il 2004 e il 2006 ammonta a 1,23 miliardi di euro. Quasi un terzo è stato destinato all’agricoltura, un quinto alle politiche strutturali (dai Fondi strutturali finalizzati a ridurre i ritardi di sviluppo tra le diverse regione dell’UE e dai Fondi di coesione per progetti relativi all’ambiente e alle infrastrutture dei trasporti), un buon sesto alla politica interna (per istituire la frontiera Schengen e nei settori quali ricerca e sviluppo, istruzione, cultura, occupazione, ambiente, sanità, ecc.), un quarto per abbattimenti forfettari (per rafforzare la liquidità e per la compensazione di bilancio) e un sesto come aiuti di preadesione.

Nell’anno finanziario 2007 si stima che la Slovenia abbia ricevuto 582,1 milioni di euro dal bilancio generale UE, mentre il suo contributo è stato di 317,1 milioni di euro.

Oltre agli aiuti finanziari e allo sviluppo derivanti dall’adesione all’UE, hanno conosciuto un incremento anche le opportunità di lavoro per i cittadini sloveni in altri Stati membri dell’UE, soprattutto da quando nel 2007 la Slovenia entra nello spazio Schengen. Il 1° gennaio 2007 il paese consolida i suoi legami con altri membri UE in qualità di 13° Stato che ha adottato come moneta l’euro. Tuttavia, è stata la Presidenza dell’Unione europea a costituire la sfida più importante per il giovane paese. Come primo dei nuovi membri, la Slovenia ha assunto la presidenza dal 1° gennaio fino al 30 giugno 2008.

Presidenza slovena del Consiglio UE e i suoi risultati

Il programma della presidenza slovena è stato in larga misura già definito nel programma tripartito di 18 mesi di presidenza (Germania, Portogallo e Slovenia) e si è basato sull’agenda ereditata dal Consiglio UE. La stessa Slovenia ha definito i seguenti cinque settori di azione prioritari:

Il futuro dell’Unione e l’entrata in vigore in tempi rapidi del Trattato di Lisbona. Dopo la firma del Trattato di Lisbona il 13 dicembre 2007, tutti gli Stati membri si sono concentrati sul completamento delle procedure di ratifica. Il 29 gennaio 2008 la Slovenia è stato il secondo Stato membro UE a ratificare il Trattato ed entro la metà di maggio 13 paesi l’avevano ratificato. Sebbene l’esito negativo del plebiscito irlandese sia stato demoralizzante, la Slovenia ha fatto del suo meglio per trovare insieme all’Irlanda una soluzione adeguata per tutti i membri UE.

Il lancio positivo del nuovo ciclo della strategia di Lisbona. Per consentire al nuovo Trattato di entrare in vigore il 1° gennaio 2009, la presidenza slovena ha anche gestito le attività preparatorie per l’attuazione del Trattato di Lisbona. Basandosi su consultazioni informali su varie tematiche, la presidenza ha anche elaborato un rapporto per documentare il suo operato. Al Consiglio europeo di primavera è stato lanciato con successo il secondo ciclo triennale della Strategia di Lisbona rinnovata. È stato deciso che non occorrevano cambiamenti radicali delle priorità o dei processi e che bisognava concentrarsi sull’attuazione dei programmi di riforma. Tra i risultati della presidenza slovena merita di essere menzionato l’accordo di compromesso degli Stati membri UE di continuare a lavorare nei settori prioritari definiti nel 2006 anche dopo il 2010.

Questione clima-energia. Una dei dossier prioritari della presidenza slovena è stato il pacchetto energia e cambiamenti climatici pubblicato dalla Commissione europea alla fine di gennaio 2008. Il Consiglio europeo di primavera ha preso decisioni politiche strategiche per giungere a una conclusione positiva e tempestiva dell’accordo: l’impegno di giungere a un accordo tra gli Stati membri prima della fine del 2008 e una distribuzione degli sforzi tra gli Stati membri. Era di fondamentale importanza adottare un pacchetto legislativo prima del 2009, per permettere all’UE di svolgere un ruolo fondamentale nel nuovo negoziato internazionale sul clima a Copenaghen a dicembre 2009. Dopo ampi e intensi dibattiti, si è giunti a un accordo politico tra gli Stati membri. Un obiettivo comune a cui hanno contribuito riunioni informali con il Parlamento europeo. Uno dei successi della presidenza slovena riguarda i passi avanti compiuti circa il terzo pacchetto del mercato interno per l’energia, che riguarda la liberalizzazione del mercato nazionale del gas e dell’elettricità. Presentando una proposta di compromesso, la Slovenia è riuscita ad allineare la posizione dei 27 Stati e a raggiungere un ampio consenso d’opinione su parti cruciali di tutte e cinque le proposte di legge, riguardanti sia l’elettricità che il gas.

Rafforzamento della prospettiva europea per i Balcani occidentali. Durante la presidenza slovena è stata avviata una rete di Accordi di stabilizzazione-associazione con i paesi dei Balcani occidentali. Sono stati firmati accordi con la Serbia e la Bosnia-Erzegovina. Tale rete promuove i processi di integrazione dei Balcani occidentali, contribuendo pertanto alla stabilità e alla prosperità generale della regione. Iniziative nei singoli settori della cooperazione regionale e dello sviluppo economico risultano di particolare importanza, quali: il dialogo sulla liberalizzazione dei visti avviato con tutti gli Stati dei Balcani occidentali, il conferimento alla Commissione europea del mandato per avviare negoziati per un accordo sul trasporto, l’accordo sulla creazione di un meccanismo d’investimenti per i Balcani occidentali, il rafforzamento della cooperazione tra la regione e l’UE nel settore della protezione civile, l’avvio di un’iniziativa per trasferire la metodologia UE e preparare una relazione della South Eastern Europe organised crime threat assessment (SEE OCTA, Valutazione della minaccia della criminalità organizzata nell’Europa sud-orientale) e per trasferire le raccomandazioni sulla Lotta contro il terrorismo ai paesi dei Balcani occidentali.

Dopo la dichiarazione d’indipendenza del Kosovo, la Slovenia si è impegnata per la stabilità nella regione sostenendo la presenza dell’UE in Kosovo con la missione EULEX e i suoi rappresentanti speciali (v. anche Politica europea di sicurezza e difesa). Grazie a questi sforzi è stato possibile mantenere l’unità dell’UE in tutte le questioni più importanti ed evitare la destabilizzazione della regione. I negoziati di adesione con la Croazia e la Turchia sono proseguiti. Con il primo paese, la Slovenia ha aperto quattro capitoli e con il secondo due. Alla fine del 2008, tuttavia, la Slovenia ha revocato il suo sostegno a ulteriori negoziati di adesione con la Croazia poiché questa nei suoi documenti per l’adesione ha adottato una linea di confine tra i due paesi sulla quale non si era ancora raggiunto un accordo.

Promozione del dialogo tra culture, credenze e tradizioni nell’ambito dell’Anno europeo del dialogo interculturale. Simbolicamente e di fatto la presidenza slovena è iniziata con l’inaugurazione a Lubiana dell’Anno europeo del dialogo interculturale, seguita da numerose conferenze, dibattiti e altri eventi. Sono state lanciate svariate iniziative finalizzate a rafforzare e a diffondere il dialogo interculturale tra tutta l’opinione pubblica europea. Sono state intraprese diverse azioni per favorire l’integrazione sul piano culturale relative alle relazioni esterne dell’UE, alla gioventù, all’educazione, al multilinguismo e alla cultura. In particolare, la presidenza si è impegnata a promuovere il dialogo interculturale con i paesi del Mediterraneo, dei Balcani occidentali e di altre regioni. Uno speciale contributo sloveno a questo riguardo è stata la creazione nel giugno 2008 dell’Università euro-mediterranea con sede a Pirano.

Riunioni al vertice, risposte della Presidenza a eventi imprevisti e alcuni dati statistici. Durante la presidenza si sono svolti quattro vertici tra UE e paesi terzi: UE-Giappone, UE-LAC (paesi dell’America Latina), UE-USA e UE-Federazione russa, tutti con l’obiettivo di rafforzare la dimensione strategica delle relazioni e dei partenariati tra l’UE e i paesi terzi e di fornire al contempo l’opportunità per discutere le questioni attuali globali, regionali, economiche, di sicurezza e altre, compresi i cambiamenti climatici e l’energia.

Un altro importante risultato è stata la conferma del mandato per aprire negoziati su un nuovo accordo tra l’UE e la Russia, che sostituirà l’accordo di partenariato e di cooperazione.

È insito nei compiti della presidenza anche l’obbligo di fronteggiare eventi che non possono essere previsti, e per i quali quindi è impossibile essere preparati in anticipo. La presidenza slovena ha reagito a tutti gli eventi inaspettati con tempestività e in modo molto apprezzato. Il Consiglio europeo di marzo ha affrontato le turbolenze dei mercati finanziari. Sono state aggiornate tre ampie e dettagliate tabelle di marcia in diverse aree relative alla regolamentazione e alla vigilanza dei mercati finanziari. È stato firmato ed è entrato in vigore un memorandum d’intesa sulla cooperazione transfrontaliera in materia di stabilità finanziaria.

La presidenza ha dovuto fronteggiare gli eventi in Kenia e nel Ciad, le sommosse nel Tibet, il terremoto in Cina e il ciclone nel Myanmar (Birmania).

Conclusioni

In breve tempo e senza grandi scompigli e problemi, la Slovenia si è integrata nell’UE. L’adesione europea ha consentito al paese di conseguire valori e interessi nazionali fondamentali, apprezzati da tutti i paesi, ovvero sicurezza, benessere e sviluppo. Prima dell’adesione, la Slovenia era considerata il nuovo membro più preparato, oggi è il nuovo membro più integrato. Il fatto che tra tutti i nuovi membri la Slovenia partisse da un’ottima base politica ed economica ha contribuito per molti versi a farle guadagnare questa posizione. Va comunque sottolineato che la Slovenia non era tra gli Stati appartenenti al cosiddetto “socialismo reale”.

Box 1 → Banca di Slovenia

Box 2 → Democrazia liberale della Slovenia

Box 3 → Ufficio governativo per gli Affari europei della Slovenia

Dušan Nečak (2010)