Soames, Arthur Christopher John

S. (Penn, Buckingamshire 1920-Odiham 1987), politico britannico, membro del Parlamento per il distretto di Bedford (1950-1956), segretario di Stato per la guerra (1958-1960) durante il governo del primo Ministro Harold Macmillan. Fu ministro dell’Agricoltura, della pesca e dell’alimentazione (1960-1964), ambasciatore britannico in Francia (1968-1972) e vicepresidente della Commissione europea (1973-1977) durante il mandato di François-Xavier Ortoli.

Le prime due candidature del Regno Unito per aderire alla Comunità economica europea (CEE) (nel 1961 e nel 1967) non riuscirono a ottenere il consenso unanime dei sei membri originari. Nel 1970, quando il primo ministro Edward Heath si insediò al governo, l’adesione alla CEE divenne una priorità della politica estera. Fu necessario dimostrare non solo un forte impegno a favore del processo di integrazione, ma anche vincere l’opposizione del Commonwealth e dello stesso Parlamento britannico.

Risiedendo a quel tempo a Parigi, S. svolse un ruolo importante nell’informare le autorità governative sull’opinione francese riguardo all’adesione britannica. La sua esperienza sia come militare (durante la Seconda guerra mondiale aveva prestato servizio in Italia, in Francia e nel Medio Oriente) che come diplomatico, oltre alla sua competenza nella politica agricola, lo resero un personaggio importante durante il primo Allargamento della CE.

Le relazioni indirizzate dall’ambasciatore al ministro degli Esteri Alec Douglas-Home sottolineavano il disappunto dei francesi per la mancanza di uno sforzo britannico per suscitare tra i cittadini un reale entusiasmo nei confronti dell’Europa, nonché verso un governo manifestamente ossessionato da “visioni ristrette e di parte”.

Dal gennaio 1973 al gennaio 1977 S. occupò la carica di vicepresidente della Commissione europea, con la responsabilità per le Relazioni esterne. Tuttavia, l’opposizione nazionale non si attenuò. All’epoca il paese stava affrontando rilevanti problemi politici ed economici, quali alta inflazione, scioperi e attacchi dell’IRA. L’attenzione del governo era rivolta più ai problemi nazionale che agli affari esteri. Per risolvere la questione, fu indetto un referendum per decidere sulla permanenza britannica nella CEE.

Quando iniziò la campagna, i sostenitori del “no” erano una vasta maggioranza. S. riteneva importante contare sulle Istituzioni comunitarie e sul sostegno che queste potevano fornire piuttosto che chiudersi in se stessi. Alla fine, uno spostamento del 20% verso il partito del “sì” e un’affluenza finale del 64,5% confermarono la permanenza del Regno Unito nel processo di integrazione, posizione sostenuta sia dal partito laburista sia dal partito conservatore, dalla stampa e dalle associazioni industriali (v. anche Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

Il ruolo immaginato da S. per la CEE non può essere disgiunto dalla sua visione del sistema internazionale. Considerato il consolidamento degli Stati Uniti e dell’URSS come superpotenze, la Comunità rappresentava la possibilità per l’Europa di evitare un ulteriore declino e di preservare la sua libertà all’interno dell’assetto mondiale bipolare, apportando quindi pace e stabilità in caso di mutamenti nella distribuzione del potere mondiale. All’epoca, S. aveva già previsto l’emergere di attori di importanza globale quali Cina, Giappone e i “popoli islamici del Medio Oriente”.

Nel 1979, dopo la fine del suo mandato alla Commissione europea, S. fu nominato governatore provvisorio della Rhodesia (l’attuale Zimbabwe), che era stata una colonia britannica a partire dal 1923. Rimase in carica quattro mesi per monitorare il processo di indipendenza, che fu proclamata formalmente il 18 aprile 1980.

Dopo aver lasciato Bruxelles, S. non smise di difendere l’efficacia del metodo comunitario sia nella sfera politica che in quella economica. Sebbene fosse a favore di un mercato comune più vasto e si dichiarasse un fervente europeista, era preoccupato circa la capacità della CEE di assorbire Stati meno sviluppati e di recente democrazia (Portogallo, Spagna, Grecia), di promuovere lo sviluppo locale e di assistere politicamente ed economicamente queste regioni. Riteneva che il Parlamento europeo eletto dovesse avere maggiori poteri e che l’Europa dovesse ricoprire un ruolo più importante e indipendente nella politica mondiale.

Vincitore del premio Robert Schuman nel 1976, S. scrisse diversi articoli e brevi saggi, tra cui Three views of Europe (1973) e Europe and the wider world (1980).

Tatiana Martins Pedro do Coutto (2012)




Soares, Mario

S. (Lisbona 1924), figlio di João Soares, noto uomo politico della Prima repubblica (1910-1926) e uno dei maggiori oppositori della dittatura di Antonio Salazar. È sposato e padre di un figlio. Il contesto familiare è stata la principale fonte della sua educazione politica negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza. Uno dei suoi insegnanti nella scuola del padre, il Colégio moderno, fu Alvaro Cunhal, che in seguito divenne segretario generale del Partito comunista portoghese.

Mario S. è stato fin da giovane un politico militante. Fino alla “rivoluzione dei garofani” del 25 aprile 1974, era noto come uno dei più importanti oppositori della dittatura di Salazar e, in seguito, di Caetano. Divenne membro dei Giovani comunisti all’età di diciott’anni, mentre studiava alla facoltà di Lettere dell’Università di Lisbona. Nel 1943 aderì al Movimento de Unidade Nacional Anti-Fascista (MUNAF), entrando a far parte un anno dopo del Partito comunista. Avrebbe, tuttavia, lasciato il PC qualche tempo dopo.

Nel 1946 si unì al Movimento de Unitade Democratica (MUD) guidato dai comunisti e sostenne il candidato dell’opposizione Norton de Matos alle elezioni presidenziali del 1949. Nel 1951 si laureò in storia e nel 1957 conseguì anche una laurea in giurisprudenza. Nel 1958 fu un sostenitore della candidatura presidenziale del generale Humberto Delgado nelle elezioni che si ritennero manipolate dal governo.

Divenne insegnante nella scuola del padre e, al tempo stesso, avvocato difensore dei prigionieri politici. Negli anni Sessanta fu un importante leader del movimento socialista portoghese. Fu uno dei cofondatori della Acção socialista portuguesa (ASP), predecessore del Partido socialista (PS), nel 1964. Riuscì a inserire i socialisti portoghesi nei circuiti europei e internazionali e rese pubblica la difficile situazione dell’opposizione in Portogallo. Uno dei risultati più importanti fu quello di far conoscere all’Internazionale socialista l’ASP, poi PS. Partecipò alle elezioni legislative del 1965 e 1969, chiaramente controllate dal regime autoritario. A causa della sua militanza politica, fu arrestato dalla polizia segreta portoghese nel 1968 e deportato nell’arcipelago di di São Tomé e Principe, allora colonia portoghese. Nonostante i numerosi avvertimenti della polizia segreta, S. proseguì nell’impegno di difendere, in quanto avvocato, gli oppositori politici nell’arcipelago. A causa della sua incessante attività, il regime autoritario lo costrinse all’esilio in Francia. Qui, fra il 1970 e il 1974, fu docente universitario in diverse sedi. Fu chargé de cours a Vincennes (Paris III) e alla Sorbona (Paris IV) e altresì professore associato all’Università di Rennes in Bretagna. In questo periodo S. contattò numerosi membri portoghesi dell’ASP al fine di rafforzare l’opposizione. Riuscì a ottenere il sostegno dei socialisti francesi, dei socialdemocratici tedeschi, del Partito dei lavoratori svedese e di altri partiti dell’Internazionale socialista. L’obiettivo principale dell’azione politica era di denunciare il regime autoritario e far conoscere meglio l’opposizione democratica al pubblico europeo. S. ebbe un ruolo decisivo, con l’aiuto dei socialisti italiani, nella creazione del giornale “Portugal socialista”, che ancora oggi continua a essere la principale iniziativa editoriale del Partito socialista. Nel 1972, l’ASP fu riconosciuta dall’Internazionale socialista. Il culmine di questi sforzi fu la fondazione del Partito socialista portoghese il 19 aprile 1973 a Bad Münstereiffel con il sostegno della Fondazione Friedrich Ebert legata ai socialdemocratici tedeschi. Nonostante il partito comprendesse poche centinaia di persone disseminate per l’Europa, la sua valenza simbolica non può essere trascurata. Il sostegno dell’Internazionale socialista fornì a S. l’aiuto necessario a denunciare la violazione dei Diritti dell’uomo perpetrata dal regime autoritario nelle colonie africane e in Portogallo in una conferenza stampa nel luglio 1973 nella sede del partito laburista, durante la visita del dittatore Marcello Caetano nel Regno Unito.

L’impegno di S. fu sostenuto da figure di spicco del partito laburista britannico e del Trade Union Congress (TUC). Fra il 1969 e il 1973 S. intraprese una politica meno collaborativa nei confronti del Partito comunista, che nel paese era il partito antifascista dominante. Nelle elezioni legislative del 1969, l’ASP concorse con la propria lista, mentre nelle elezioni del 1973 si ritirò all’ultimo momento.

Quando scoppiò la “rivoluzione dei garofani”, il 25 aprile 1974, S. si trovava in Germania. Rientrò il 28 aprile dello stesso anno sul cosiddetto “treno della libertà” da Parigi e fu accolto alla stazione centrale di Santa Apolónia da diverse centinaia di membri del movimento socialista.

Durante il periodo rivoluzionario, che durò fino al 25 novembre 1975, S. ebbe un ruolo importante nel processo di democratizzazione del paese. Sotto la sua leadership, il Partito socialista riuscì ad affermarsi come il più importante partito liberaldemocratico.

Fin dal principio S. fece parte della nuova leadership rivoluzionaria. Divenne ministro degli Esteri nel terzo governo provvisorio fino al marzo del 1975. In questa funzione riuscì a ottenere un grande sostegno internazionale al processo di democratizzazione in Portogallo. S. cominciò le trattative con i movimenti di liberazione nelle ex colonie e avviò il processo di decolonizzazione, che sarebbe giunto a termine fra la fine del 1975 e gli inizi del 1977. S. rappresentò l’élite civile moderata. L’atteggiamento di eccessiva sicurezza mostrata dai colonnelli, che avevano organizzato il colpo di Stato contro il regime autoritario, portò a una crescente radicalizzazione del processo rivoluzionario. Inizialmente, S. ritenne il Partito comunista un attore importante nel processo di democratizzazione. Convinse il presidente provvisorio Antonio de Spinola a includere ministri comunisti nel governo. Nel corso di un congresso del partito, nel dicembre 1974, S. fu confermato segretario generale del Partito socialista. In quella occasione mise esplicitamente in guardia contro i pericoli di un’ulteriore radicalizzazione del movimento delle forze armate e dell’infiltrazione del partito comunista nelle principali istituzioni. Nel gennaio 1975 era in prima linea assieme a Francisco Salgano Zenha nella protesta contro la tendenza a unificare il movimento sindacale sostenuta dal Partito comunista, battendosi invece per salvaguardare la diversità organizzativa al suo interno. Nonostante le proteste, il partito di S. non riuscì a impedire la promulgazione di una legge, che autorizzava la confederazione sindacale comunista, l’Intersindical, a monopolizzare il movimento sindacale. Fra febbraio e gli inizi di settembre, il Movimento das forças armadas (MFA) divenne ancor più radicale, ma anche estremamente frammentato. S. cercò di rafforzare le forze civili moderate. Questo fu piuttosto importante durante le elezioni per la costituente del 25 aprile 1974, nelle quali il partito socialista ottenne il 34,75% dei voti, seguito dal Partito democratico popolare con il 24,25%. Per S. fu un grande successo personale che il Partito comunista ottenesse soltanto l’11,44% dei voti per quanto avesse un miglior livello di organizzazione.

Le elezioni per l’Assemblea costituente avrebbero costituito un punto di svolta per S. e le altre forze moderate che volevano avviare il Portogallo verso un processo di democrazia liberale. La legittimità ottenuta con le elezioni permise a S. di ottenere un più consistente sostegno morale e finanziario da parte dell’Internazionale socialista, che contribuì a rafforzare la sua posizione nei confronti dei militari. Alcuni importanti leader socialisti europei come Willy Brandt, Olof Palme e Bruno Kreisky organizzarono il Comitato di solidarietà per la democrazia e la libertà in Portogallo al fine di sostenere il partito socialista alla guida del paese verso la democrazia. S. poteva senz’altro contare sul sostegno della Comunità europea, preoccupata per la crescente radicalizzazione del paese, una situazione ritenuta non favorevole all’ingresso nell’Unione europea.

La frammentazione dell’MFA nell’estate del 1975 avrebbe dato l’opportunità a S. di far convergere i gruppi più moderati facenti capo a Melo Antunes, Vitor Alves e Vasco Laurenzo verso un modello liberale democratico. Il collasso della base di potere dei gruppi più radicali e l’ascesa delle componenti moderate portò all’istituzione del sesto governo provvisorio, al quale presero parte diversi socialisti. Fra l’inizio di settembre e il 25 novembre 1975 il partito di S. dovette fronteggiare una situazione di grande instabilità, con un Portogallo governato da diversi centri di potere. Questa situazione ebbe fine il 25 novembre del 1975, quando il colonnello Antonio Ramalho Eanes impedì un tentativo di colpo di Stato da parte dei partiti della sinistra radicale. Dopo quell’episodio, S. assieme ad altre personalità democratiche riuscì a portare con successo il Portogallo verso la democrazia.

Approvata il 2 aprile 1976 la Costituzione, la leadership del partito socialista fu confermata dalle elezioni del 25 aprile 1976. S. ricoprì la carica di primo ministro nel primo e secondo governo costituzionale. La disastrosa situazione economica portò all’introduzione di misure di austerità. Nel secondo mandato, S. dovette ricorrere alla coalizione con il partito conservatore cristiano-democratico, il Centro democrático social (CDS).

I suoi due mandati furono giudicati negativamente, per il fatto che i ministri erano alquanto inesperti e i problemi da affrontare straordinariamente difficili. Dopo il fallimento della coalizione con il CDS, il presidente Antonio Ramalho Eanes decise di destituire S. dalla carica di primo ministro e di nominare invece il proprio candidato. Fra il 1978 e il 1979, tre brevi governi nominati dal presidente scavalcarono i partiti parlamentari. Questo atteggiamento del presidente indusse S. a opporsi alla rielezione di Eanes nel 1980. La posizione di S. era contraria a quella del suo stesso partito che decise di sostenere Eanes. La crescente opposizione della leadership a S. portò alle sue dimissioni da segretario generale. Tuttavia, S. sarebbe tornato ai vertici nell’aprile del 1981. Nonostante l’opposizione, fu capace di neutralizzare i suoi critici e di ottenere il sostegno di nuovi gruppi alla sua leadership. S. fu una figura chiave nel traghettare l’ideologia del partito dal socialismo radicale alla corrente socialdemocratica nel corso degli anni Ottanta.

Sotto la guida di S. il partito socialista vinse le elezioni del 25 aprile 1983. A causa della disastrosa situazione economica, S. divenne il primo ministro di una coalizione di governo con il Partido social democrata (PSD). L’obiettivo principale della coalizione di centro era di risanare le finanze del paese attraverso un pacchetto di misure di austerità concordate con il Fondo monetario internazionale (FMI). Il governo S. fu decisivo nel concludere le trattative e nella firma del trattato di Adesione alla Comunità economica europea (CEE) il 12 giugno 1985. Contemporaneamente, S. sfruttò la carica di primo ministro per preparare la sua candidatura per le elezioni presidenziali del 1985. Nonostante l’opposizione del Partito comunista a sinistra e di un forte avversario a destra, Diogo Freitas do Amaral, Mario S. fu eletto al secondo turno.

Non si sottolineerà mai abbastanza l’importanza dell’elezione di S. a Presidente della Repubblica, che rappresentò il compimento della transizione da un sistema politico di stampo militare a un sistema di tipo civile. Questa trasformazione diede un contributo fondamentale per una serena integrazione del Portogallo nella Comunità europea (v. anche Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

Fra il gennaio 1986 e il dicembre 1995 S. fu Presidente della Repubblica, essendo stato rieletto nel 1991. In questa veste divenne presto una figura nazionale rappresentativa e di grande popolarità.

Introdusse le cosiddette “presidenze aperte” (presidencias abertas), in cui risiedeva per un certo periodo in una regione del Portogallo. Queste presidenze aperte erano molto apprezzate dalla popolazione. Nel suo primo mandato, S. fornì un certo sostegno al governo del primo ministro di destra, Anibal Cavaco Silva, che godeva della maggioranza assoluta, tanto che si potrebbe parlare di coabitazione fra primo ministro e presidente. Questa situazione cambiò nel secondo mandato dopo il 1991, per il fatto che il primo ministro Cavaco Silva e il suo partito avevano riottenuto la maggioranza assoluta. Non potendo essere rieletto per una terza volta, S. si fece più critico nei confronti di varie proposte di legge del governo. Si avvalse delle sue prerogative per inviare molte proposte di legge alla Corte costituzionale per verificarne la costituzionalità. L’approccio semipresidenziale di S. nel suo secondo mandato era legato al fatto che i governi di maggioranza assoluta del primo ministro Anibal Cavaco Silva ignoravano le funzioni di controllo del Parlamento, della Corte costituzionale e della Corte dei conti. S. ritenne di dover agire come contrappeso moderato al potere del governo.

Al termine dei suoi due mandati presidenziali, S. tornò a essere un privato cittadino, partecipando regolarmente alla politica nazionale. Dopo la vittoria del Partito socialista sotto la guida del modernizzatore Antonio Guterres alle elezioni legislative dell’ottobre 1995, S. continuò a svolgere un ruolo attivo nella politica del partito. Il punto culminante della sua opposizione nei confronti della politica di Antonio Guterres fu durante il dibattito sulla regionalizzazione, fra il 1996 e il 1998. S. divenne uno dei maggiori oppositori all’introduzione delle regioni amministrative elettive nel Portogallo continentale. Una delle sue tesi principali era che la regionalizzazione avrebbe portato a un indebolimento del Portogallo nei confronti dell’Unione europea. S. faceva parte di una coalizione interpartitica, costituita da personalità come Anibal Cavaco Silva e Marcelo Reselo de Sousa. Il governo socialista perse il referendum sulla regionalizzazione, sebbene il risultato non fosse vincolante a causa di una debole partecipazione poco al di sotto del 50%.

Un altro momento importante nella vita di S. fu la creazione della Fondazione Mario S. dedicata allo studio del movimento operaio, ispirata alle fondazioni partitiche tedesche, in particolare alla socialdemocratica Fondazione Friedrich Ebert, che svolse un ruolo importante nell’organizzazione del Partito socialista in Portogallo. Dalla sua istituzione, avvenuta il 12 settembre 1991, la Fondazione è stata un importante centro dinamico della società civile portoghese, organizzando eventi fissi e conferenze su questioni nazionali e internazionali. La Fondazione ospita un’eccellente biblioteca e un archivio sulla classe lavoratrice e sul movimento socialista in Portogallo. L’archivio Mario S. è, inoltre, situato nell’edificio centrale della fondazione, che si trova di fronte all’Assemblea della Repubblica.

Nel 1999 S. divenne capolista del Partito socialista alle elezioni del Parlamento europeo. Il Partito socialista organizzò una campagna incentrata sul tema che, se eletto, i socialisti europei avrebbero scelto S. come candidato alla presidenza del Parlamento europeo. In ambito nazionale, il Partito socialista sotto la guida di S. riuscì a vincere le elezioni con una forte maggioranza; tuttavia, la candidatura di S. alla presidenza del Parlamento europeo fu avversata dal più grande gruppo parlamentare, il Partito popolare europeo (PPE), che decise di condividere la presidenza durante il quinquennio con il Partito europeo dei liberali, democratici e riformatori (ELDR) (v. anche Liberaldemocratici europei). Nonostante l’età, S. è ancora un’importante figura della politica portoghese e interviene regolarmente nei dibattiti politici di rilevanza nazionale e internazionale.

José M. Magone (2009)




Società civile organizzata

La locuzione “società civile organizzata” indica l’insieme delle organizzazioni, delle associazioni e degli organismi attraverso i quali i cittadini perseguono obiettivi di interesse generale di carattere civico, economico o sociale. Nel settembre 1999 un parere del Comitato economico e sociale (intitolato Ruolo e contributo della società civile organizzata nella costruzione europea, pubblicato nella “Gazzetta ufficiale della Comunità europea” n. C329/10 del 1999) ha individuato con precisione le categorie di organizzazioni che rientrano nella definizione: le “Parti sociali” (sindacati dei lavoratori e associazioni imprenditoriali); le organizzazioni che, pur rappresentando attori sociali ed economici, non sono riconducibili alle “parti sociali” in senso stretto; tutte le organizzazioni non governative (ONG) nelle quali le persone si uniscono per un fine comune (organizzazioni ambientaliste, di consumatori, per i Diritti dell’uomo, associazioni educative o di carità, ecc.); le organizzazioni a base territoriale che perseguono scopi direttamente legati alla condizione dei loro membri (organizzazioni dei giovani, associazioni di famiglie, ecc.); le comunità religiose.

Il fatto che fra le Istituzioni comunitarie proprio il CES abbia dedicato attenzione alla società civile organizzata non è ovviamente un caso, così come non è casuale il fatto che la sua definizione sia particolarmente ampia, e vi rientrino sostanzialmente tutte le strutture in cui si articolano le moderne società europee, con la sola eccezione di quelle legate a funzioni di natura politica (governo, pubblica amministrazione e partiti).

La storia del Comitato è infatti caratterizzata dalla perenne ricerca di uno spazio d’azione definito e chiaramente separato da quello delle altre istituzioni, a favore delle quali il ruolo consultivo del CES ha subito una costante erosione fin dai suoi primi anni di attività. Innanzitutto, il progressivo aumento dei poteri e dell’importanza politica del Parlamento europeo ha ristretto la sfera di competenza del Comitato alle questioni di carattere puramente tecnico; in secondo luogo, la formalizzazione del Dialogo sociale, avviato a metà degli anni Ottanta, ha sottratto a esso quella che era sempre stata considerata una sua funzione naturale; infine, la nascita del Comitato delle regioni, col Trattato di Maastricht, ha creato un nuovo “concorrente” all’attività consultiva del CES.

Così, a partire dalla fine degli anni Ottanta, il Comitato ha cominciato a guardare con attenzione alle trasformazioni intervenute nelle società europee negli anni precedenti: il miglioramento della condizione femminile, i mutamenti nelle strutture familiari e nei comportamenti religiosi, e più in generale l’erompere di grandi questioni slegate dalle tematiche tradizionali del mondo del lavoro hanno favorito un forte aumento dell’attività associativa. Queste nuove forme di organizzazione sono rapidamente divenute elementi costitutivi delle società europee, assumendo progressivamente un ruolo di intermediazione fra le autorità pubbliche e i cittadini, amplificando la voce di questi ultimi e ponendosi quindi come componenti essenziali delle moderne democrazie. L’assenza di adeguati canali di rappresentanza di tali organizzazioni su scala comunitaria offriva al Comitato economico e sociale l’opportunità di ridefinire la sua identità, dando anche un contributo alla soluzione del cosiddetto “Deficit democratico”.

Al di là di alcune prese di posizione ufficiali, adottate fin dai primi anni Novanta, la principale manifestazione concreta del nuovo orientamento fu la prima Convenzione (v. anche Convenzioni) della società civile organizzata a livello europeo, tenuta a Bruxelles nell’ottobre 1999 su iniziativa dello stesso CES. Nel discorso di apertura la presidente Beatrice Rangoni Machiavelli individuò il Comitato come l’istituzione più adeguata a esprimere le esigenze della SCO, della quale avrebbe dovuto quindi assumere il ruolo di rappresentante ufficiale nel Processo decisionale comunitario.

Tale visione trovò soddisfazione solo parziale nel Trattato di Nizza che, se per la prima volta introduceva nel sistema dei Trattati il concetto di SCO e individuava il CES come suo organo di riferimento naturale, si soffermava però sulle sue «componenti a carattere economico e sociale», mantenendo così un’attenzione privilegiata per le forze sociali di tipo “tradizionale” (cfr. l’articolo 257 del Trattato sulla Comunità europea, come modificato dal Trattato di Nizza).

Uno spostamento più marcato nella direzione auspicata dal CES sembra invece presente nel Trattato sulla Costituzione europea, che sottolinea l’importanza di un dialogo delle istituzioni europee con la società civile (articolo I-47), e soprattutto specifica come i membri del Comitato debbano essere rappresentativi non più soltanto delle associazioni del mondo produttivo, ma anche dei «settori socioeconomico, civico, professionale e culturale», prevedendo inoltre riesami periodici della sua composizione al fine di adeguarla costantemente «all’evoluzione economica, sociale e demografica nell’Unione» (articolo I-32).

Lorenzo Mechi (2007)




Söderman, Jacob

S. (Helsinki 1938), uomo politico finlandese che ha ricoperto la carica di Mediatore europeo dal 1995 al 2003, ha studiato giurisprudenza all’Università di Helsinki laureandosi nel 1962. Dopo il tirocinio forense continuò i suoi studi in giurisprudenza, conseguendo il dottorato nel 1967. In questo periodo S. insegnò diritto sociale all’Istituto svedese di attività sociali e di amministrazione locale. Dopo la specializzazione divenne direttore dell’Associazione delle municipalità di lingua svedese in Finlandia, incarico che conservò fino al 1971. Nello stesso anno, dopo aver rivestito per un breve periodo la carica di ministro della Giustizia, diresse il servizio di sicurezza del lavoro al ministero degli Affari sociali e della Sanità. Nel 1972 fu eletto deputato, posizione che detenne fino al 1982, e in questo periodo fu membro della Commissione costituzionale e della Commissione per gli affari esteri. Fu presidente di diverse commissioni, tra cui le tre commissioni governative sull’ambiente di lavoro (1971-1974) e la commissione parlamentare per i problemi di polizia (1984-86). Dal 1982 al 1989, fu governatore della provincia di Uusimaa, una regione della Finlandia meridionale che comprende anche le città di Helsinki, Vantaa ed Espoo. Nel 1989 fu nominato Ombudsman parlamentare in Finlandia e primo Mediatore europeo. Il 27 ottobre 1999 venne riconfermato con uno stretto margine per un secondo mandato di 5 anni, ottenendo 269 su 525 voti validi. Nell’aprile 2003, all’età di 65 anni, decise di ritirarsi. Il Parlamento europeo ha eletto come suo successore Nikiforos Diamandouros. Durante il mandato di S., il numero di denunce ha registrato un significativo aumento, passando da circa 800 dei primi anni a poco meno di 2500 nel 2003.

La figura del Mediatore europeo (ME) è stata istituita dal Trattato di Maastricht nel 1992. Secondo l’art. 195 del Trattato CEE, il compito del ME è quello di svolgere indagini a seguito di denunce di casi di cattiva amministrazione da parte delle istituzioni e degli organi dell’Unione europea, a eccezione della Corte di giustizia delle Comunità europee (v. Corte di giustizia dell’Unione europea) e del Tribunale di primo grado nell’esercizio della loro funzione giurisdizionale. Il ME può esercitare le sue funzioni in diversi modi, oltre a rispondere alle lettere di denuncia con indagini di propria iniziativa, anche informando il Parlamento europeo e pubblicando una relazione annuale. Nel suo operato come Mediatore europeo, si riflette la precedente esperienza di S. come Ombudsman della Finlandia, soprattutto nella elaborazione del concetto di cattiva amministrazione. Nel suo ruolo di Mediatore europeo, S. si è concentrato sulla individuazione dei casi specifici di cattiva amministrazione e sulla promozione della buona amministrazione e dell’apertura delle Istituzioni comunitarie. La forma che egli ha dato alla nuova carica di ME è stata fondamentale per l’integrazione europea (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

La prima sfida con cui S. dovette confrontarsi quando assunse la carica fu quella di concordare il significato del concetto di cattiva amministrazione, assente nei Trattati e nello statuto del ME, ma di fondamentale importanza per l’attività del ME. S. elaborò una definizione a partire dalla sua prima relazione annuale per il 1995, affermando che si è in presenza di un caso di cattiva amministrazione quando un’istituzione o un organo comunitario non opera conformemente ai Trattati e agli atti comunitari vincolanti in materia (v. anche Diritto comunitario), o se non osserva le norme e i principi giuridici stabiliti dalla Corte di giustizia. A questa prima dichiarazione seguì una fase di consultazione con il Parlamento europeo e con tutti gli Ombudsman nazionali. La proposta successiva fu presentata nella relazione annuale per il 1997, in cui il concetto di cattiva amministrazione era definito nel seguente modo: «Si è in presenza di cattiva amministrazione quando un organismo pubblico non opera conformemente a una norma o a un principio per esso vincolante». Tale definizione piuttosto ampia, che comprende il principio dello Stato di diritto e il rispetto dei Diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, fu successivamente accolta in una Risoluzione del Parlamento europeo.

Al fine di promuovere una buona prassi amministrativa, S. decise di redigere un codice di buona condotta amministrativa, riprendendo la proposta del parlamentare europeo Roy Perry. Dopo aver sollevato la questione in diverse occasioni, avviò un’indagine di propria iniziativa circa l’esistenza e l’accessibilità al pubblico di un codice di buona condotta amministrativa per i funzionari delle istituzioni e degli organi comunitari nelle loro relazioni con il pubblico. Quando la discussione subì una battuta d’arresto, l’ufficio del ME redasse un codice modello di buona condotta amministrativa, che fu raccomandato a tutte le istituzioni e gli organi comunitari nel 1999 e, leggermente emendato, venne infine approvato dal Parlamento europeo il 6 settembre 2001. Tale codice funge da guida per la condotta amministrativa, ma è altresì una guida all’interpretazione del diritto alla buona amministrazione come stabilito nell’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Un altro successo di S. è stata la promozione della trasparenza nelle istituzioni europee. A suo avviso il concetto di trasparenza deve riguardare tre aspetti: in primo luogo, i processi decisionali (v. Processo decisionale) devono essere comprensibili e aperti a tutti; in secondo luogo, le decisioni devono essere giustificate e in ultimo i cittadini devono avere accesso alle informazioni. Per facilitare tale accesso S. adottò diverse misure: all’inizio del giugno 1996 svolse un’indagine di propria iniziativa per verificare se le istituzioni e gli organi oltre al Consiglio dei ministri e alla Commissione europea avessero stabilito un regolamento disponibile al pubblico sull’accesso ai documenti, a cui seguì una relazione speciale al Parlamento europeo. Nell’ambito delle pressioni esercitate dal ME per ottenere un più ampio accesso, il momento più significativo fu un dibattito pubblico con Romano Prodi, ex Presidente della Commissione europea, il quale culminò in uno scambio di articoli sul “Wall Street Journal Europe”. Nel maggio 2001, il Parlamento europeo e il Consiglio adottarono un regolamento sull’accesso ai documenti. L’accesso ai documenti rimane tuttora una delle aree di interesse più importanti del ME, e il regolamento adottato ha contribuito a migliorare la posizione dei cittadini verso le istituzioni europee e può quindi ritenersi un importante traguardo del primo ME.

Sin dall’inizio del suo incarico, S. fu dell’avviso che la violazione dei diritti fondamentali da parte delle istituzioni raffigurasse casi di cattiva amministrazione e pertanto fosse parte delle sue competenze. Egli inviò al Parlamento europeo una relazione speciale sull’indiretta discriminazione contro le donne nel distaccamento dei funzionari nazionali. In risposta, la Commissione abolì la norma in questione. Il Mediatore si occupò inoltre di una denuncia di discriminazione razziale nelle assunzioni presso le istituzioni e gli organi dell’Unione europea. In risposta, la Commissione si impegnò a incoraggiare candidature da parte di membri di minoranze etniche e a elaborare un piano d’azione per le pari opportunità. Soprattutto nei casi di cattiva amministrazione o discriminazione, l’ex ME ha contribuito ad aumentare il livello di protezione dei diritti fondamentali nell’Unione europea.

S. ha svolto anche un ruolo attivo nella prima Convenzione europea, alla quale ha partecipato come osservatore. Nei dibattiti riguardanti il contenuto della Carta dei diritti fondamentali, egli ha sostenuto in particolare il diritto alla buona amministrazione che è stato finalmente riconosciuto nella Carta. Nel suo ruolo di ME, S. riteneva che la solenne proclamazione a Nizza della suddetta Carta da parte dei presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione impegnasse tutte e tre le istituzioni a rispettare i diritti in essa contenuti e che la mancata osservanza avrebbe causato cattiva amministrazione. Nel 2001 S. svolse tre indagini di propria iniziativa circa l’applicazione di alcuni diritti della Carta a livello di Unione, come ad esempio la libertà di parola dei funzionari, le quali portarono la Commissione a modificare il proprio Statuto del personale.

Anche nella seconda Convenzione, quella sul futuro dell’Europa, S. presenziò come osservatore, apportando diversi contributi relativamente alla protezione dei diritti fondamentali, alla procedura di ricorso davanti alla Corte europea di giustizia, al diritto amministrativo europeo e alla rete di Ombudsman e organi che gestiscono le petizioni all’interno degli Stati membri. S. sostenne fermamente che la Carta dei diritti fondamentali avrebbe dovuto essere giuridicamente vincolante nell’ambito d’applicazione del diritto europeo e che la Costituzione proposta avrebbe dovuto comprendere ulteriori mezzi di ricorso in caso di violazioni dei diritti umani (v. anche Costituzione europea).

S. ha ricevuto diverse decorazioni e onorificenze, tra cui la Gran Croce dell’ordine del Leone di Finlandia (1995), il Premio Alexis de Tocqueville dell’Istituto europeo di amministrazione pubblica (2001) e il titolo di Cavaliere dell’Ordine nazionale della Legione d’onore della Repubblica francese (2002). Ha inoltre ricevuto lauree honoris causa da due delle tre Università di giurisprudenza della Finlandia, ossia dall’Università di Turku e dall’Università della Lapponia. Ritiratosi dalla carica di ME, è diventato presidente del Council for mass media in Finlandia. All’inizio del 2007 ha concorso nuovamente per un seggio al Parlamento finlandese, dove si è insediato nell’estate 2007 quando Tuula Haatainen ha lasciato dal Parlamento.

Tobias Brautigam (2009)




Solana Madariaga, Francisco Javier

Uomo politico e accademico spagnolo, S. (Madrid 1942), nipote di Salvador de Madariaga, figlio di un cattedratico di chimica, fratello minore di Luis (deputato socialista in varie legislature e figura di spicco della grande imprenditoria spagnola), si laureò in Fisica all’Università Complutense di Madrid nel 1965. Assistente alla cattedra di Salvador Velayos, borsista del Consejo superior de investigaciones científicas (CSIS) tra il 1964 e il 1966, borsista Fulbright in alcuni atenei statunitensi (1966-1968), ricercatore presso il Dipartimento di Fisica dell’Università della Virginia (1968-1971), S. divenne professore aggregato nel Dipartimento di Fisica dell’Università autonoma di Madrid nel 1971 e cattedratico di Fisica dello stato solido alla Complutense nel 1975. È autore di oltre trenta pubblicazioni in materia. Entrò in politica nel 1964, nelle file delle Juventudes socialistas. Si iscrisse alla Federación de trabajadores de la enseñanza – Union general de trabajadores de España (UGT) e alla Agrupación socialista di Madrid, nella quale ricoprì la carica di segretario per le relazioni politiche (1971). Rappresentò il Partido socialista obrero español (PSOE) nella Coordinación democrática di Madrid e fu membro dal 1974 al 1976 del Comitato provinciale del partito nella capitale. Dopo il Congresso di Suresnes, tenuto in Francia nell’ottobre 1974, che portò Felipe Màrquez González alla segreteria del partito, S. contribuì a introdurlo nei circoli politici ed economici di Madrid, creando una durevole relazione di fiducia reciproca, che gli valse l’assegnazione di una serie di incarichi prestigiosi: membro del Comitato esecutivo federale del PSOE a partire dal 1976, segretario della Commissione per i rapporti con la stampa (1976-1979), segretario federale nel settore Estudios y Programas (1979-1981), segretario esecutivo (1981-1984) e di nuovo membro del Comitato esecutivo dal marzo 1994. Deputato del PSOE per Madrid nelle legislature costituenti (1977-1979), S. rimase senza interruzioni in Parlamento durante le prime quattro legislature (1979-1993) e nella quinta (1993-96) fino al 1995.

Ministro della Cultura e, dal luglio 1985, anche portavoce del primo governo presieduto da González (1982-1986), ancora ministro della Cultura e portavoce dal 1986 al 1988, quindi successore di José María Maravall Herrero al ministero dell’Istruzione e della scienza (1988-1989) nel secondo gabinetto González (1986-1989), di nuovo ministro dell’Istruzione e della Scienza, fino al giugno 1992, quindi ministro degli Esteri, in sostituzione di Francisco Fernández Ordóñez (che aveva ricoperto la carica dal luglio 1985), nel terzo governo González (1989-1993), S. restò agli Esteri, nell’ultimo gabinetto González (1993-1996), fino al dicembre 1995, quando assunse la carica di segretario generale dell’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico (North Atlantic treaty organization, NATO), che conservò fino all’ottobre 1999. Il 18 di quel mese, in anticipo rispetto alla scadenza del mandato, divenne segretario generale del Consiglio dei ministri dell’Unione europea e Alto rappresentante dell’Unione per la Politica estera e di sicurezza comune (PESC), nonché, dal 25 novembre, segretario generale del Consiglio dell’Unione dell’Europa occidentale (UEO), a seguito della decisione assunta dieci giorni prima a Bruxelles, nel corso del primo incontro congiunto dei ministri degli Esteri e della Difesa. Le cariche gli furono rinnovate per un secondo mandato quinquennale nel luglio 2004, quando S. divenne anche capo dell’Agenzia europea per la difesa. Nella stessa riunione del Consiglio europeo, tenuta il 29 giugno, si stabilì che l’eventuale entrata in vigore della Costituzione europea conducesse alla sua nomina come ministro degli Esteri dell’Unione. Presidente della Fondazione europea “Madariaga”, nel maggio 2007 è stato insignito del premio internazionale “Carlo Magno” ad Aquisgrana.

Tra gli altri obiettivi conseguiti come ministro della Cultura, S. si adoperò per la privatizzazione delle aziende editoriali di Stato, contribuì alla stesura della legge sul patrimonio storico e sulla proprietà intellettuale e della legge sulle emittenze televisive private, trasformò in istituzioni autonome le Direzioni generali di Cinema, Musica e Teatro, concesse l’autonomia anche al Museo del Prado e strutturò le direzioni generali delle Belle arti e dei Libri e biblioteche. Come ministro dell’Educazione e scienza, riuscì ad attenuare alcune tensioni nelle relazioni con gli studenti e contribuì ad articolare la legge generale per la riforma del sistema educativo e la legge per la riforma del sistema educativo non universitario.

Alla guida degli Esteri, cui approdò proprio nell’anno delle Olimpiadi di Barcellona e dell’Esposizione universale di Siviglia, alla fine di un quinquennio di notevoli successi ottenuti dalla diplomazia di Madrid, S. continuò a sviluppare con efficacia la normalizzazione delle relazioni tra la democrazia spagnola e la comunità internazionale, perseguendo gli obiettivi tradizionali legati all’interesse nazionale del paese e, nel contempo, perseverando nelle linee dettate dall’integrazione con i partner europei (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della), prima e dopo l’approvazione parlamentare del Trattato di Maastricht, nell’ottobre 1992 (con 314 voti a favore, 3 contrari e 8 astensioni), sebbene l’opposizione conservatrice e di sinistra tendesse a osteggiare per ragioni interne, negli anni dell’ultimo gabinetto González, la continuità dell’impegno assunto dai governi socialisti in quel settore. I contenuti del Trattato, in linea generale favorevoli agli obiettivi spagnoli, costituivano infatti anche una forte sfida per il paese, soprattutto nella prospettiva dell’Unione economica e monetaria. Il governo seppe comunque negoziare adeguate contropartite allo sforzo richiesto, S. riuscì a conservare l’influenza di voto della Spagna durante i difficili negoziati sfociati nel Compromesso di Ioanina del 1994 e il paese divenne il principale beneficiario del Fondo di coesione, che contribuì a mantenerne la crescita economica nella fascia alta della media europea, nonostante il ciclo di crisi che si aprì proprio nel 1992 e provocò quattro svalutazioni della peseta (l’ultima delle quali, pari al 7%, fu annunciata dal governo nel marzo 1995). La presenza e l’iniziativa spagnola, sotto la guida di S., si segnalarono anche nei processi continentali di elaborazione della Nuova agenda transatlantica, di riforma del Trattato istitutivo dell’Unione, di creazione della moneta comune, di Allargamento ai paesi dell’Est e di attenzione ai paesi del Mediterraneo. Sul piano dei rapporti bilaterali con i partner comunitari, tra gli altri risultati conseguiti, S. riuscì a sbloccare nel 1993 i negoziati per Gibilterra con il Regno Unito, interrotti due anni prima, e a raggiungere un accordo con il ministro degli Esteri Douglas Hurd, nell’incontro tenuto a Londra nel dicembre 1994, per l’avvio di un meccanismo di consultazione e cooperazione.

Nei confronti dei paesi del Maghreb, S. proseguì l’operato del suo predecessore, Fernández Ordóñez, per rafforzare i rapporti con il Marocco, nonostante il perdurare di alcune divergenze bilaterali (tra le altre, la questione del Sahara occidentale, la pesca e gli statuti di autonomia di Ceuta e Melilla), nelle linee del trattato di buon vicinato, amicizia e cooperazione firmato nel gennaio 1991, approfittando anche delle eccellenti relazioni tra re Juan Carlos e Hassan II. S. continuò a sostenere l’Unione del mondo arabo come strumento di stabilizzazione regionale e intensificò le pressioni sugli Stati membri dell’Unione europea per dar seguito e sostanza alla politica di attenzione verso il Mediterraneo, formalizzata nel 1991, con l’organizzazione della conferenza di Barcellona nel novembre 1995, proprio nel semestre di presidenza spagnola dell’Unione (v. Presidenza dell’Unione europea). Il Partenariato euromediterraneo, nonostante le ovvie difficoltà legate sia al conflitto arabo-israeliano sia alle caratteristiche istituzionali di molti regimi al potere sulla riva meridionale del Mediterraneo, avrebbe poi proseguito il suo cammino negli anni, puntando alla stabilità e prosperità economica degli Stati coinvolti, al rafforzamento della democrazia e alla garanzia del rispetto dei Diritti dell’uomo.

S. si impegnò con particolare attenzione anche per il consolidamento della Comunità iberoamericana delle nazioni, nella scia del Vertice dei capi di Stato e di governo organizzato per celebrare il quinto centenario del viaggio di Cristoforo Colombo. La riunione tenuta l’anno precedente a Guadalajara, in Messico, aveva inaugurato un foro multilaterale di periodicità annuale come spazio di dialogo politico istituzionalizzato tra i paesi iberici e latinoamericani intenzionati a confermare una comune identità intercontinentale. L’azione di S. puntò dunque ad articolare e rafforzare quella linea di politica estera che, sostenuta dalla creazione, nel 1985, della Segreteria di Stato per la Cooperación internacional y iberoamérica e, nel 1988, dell’Agencia española de cooperación internacional, aveva costituito per la Spagna un tentativo ben riuscito di rovesciare l’immagine e il ruolo di riferimento per le dittature di destra che il franchismo si era attribuito oltre Atlantico, trasformandone la tradizionale retorica iberoamericana in una concreta diplomazia di cooperazione al rafforzamento politico ed economico, ben riflessa nel 1991 dall’ingresso del paese nel Comitato per l’aiuto allo sviluppo dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) (v. anche Organizzazione europea per la cooperazione economica). Anche sotto la gestione di S., come negli anni precedenti, il governo di Madrid appoggiò i processi di democratizzazione e di ritorno alla garanzia e difesa dei diritti umani in atto in vari paesi latinoamericani, continuando a porsi come esempio prestigioso di transizione dalla dittatura a un nuovo regime istituzionale, apprezzato dalla comunità internazionale. Nell’America centrale, dove le buone relazioni mantenute con Cuba non riuscirono peraltro a ottenere aperture democratiche di rilievo, anche per le nuove difficoltà incontrate dal regime castrista dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la politica estera spagnola continuò a segnalarsi per la collaborazione con i progetti dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) e per la partecipazione alle operazioni di mantenimento della pace, di disarmo e di verifica degli accordi raggiunti in vari paesi dopo lunghi anni di guerra civile.

Nei quattro anni trascorsi alla testa della NATO, a partire dal 5 dicembre 1995 – quando i sedici ministri degli Esteri, dopo le dimissioni in ottobre di Willy Claes, lo chiamarono alla carica di segretario generale, il nono dalla fondazione, bruciate le candidature dell’olandese Franciscus Marie (Ruud) Lubbers (sostenuto dalla Gran Bretagna, dalla Francia e dalla Germania, ma avversato dagli Stati Uniti) e del danese Uffe Ellemann-Jensen (appoggiato da Washington ma respinto da Parigi) – S. guidò e coordinò le iniziative degli Stati membri attraverso una serie di prove e trasformazioni radicali. L’organizzazione, che nei quattro anni trascorsi dallo scioglimento dell’Unione Sovietica aveva dovuto reinventare e adeguare il proprio ruolo alle fondamentali trasformazioni subite dal sistema internazionale alla fine della Guerra fredda, aveva allora appena avviato lo schieramento delle proprie truppe per i compiti di peacekeeping previsti dagli accordi firmati a Dayton, a conclusione della guerra nella Bosnia-Erzegovina. Si stava sperimentando il secondo anno del programma “Partnership for peace” per le relazioni con la Federazione russa e si discuteva del possibile allargamento della NATO verso Est, osteggiato da Mosca. Quattro anni più tardi, nell’ottobre 1999, al momento del passaggio delle consegne al successore britannico di S., George Robertson, l’organizzazione si era ormai aperta ai paesi dell’Europa orientale, aveva confermato con successo la partnership con la Federazione russa, stava elaborando un progetto per la creazione di una identità europea per la difesa compatibile con le esigenze delle relazioni strategiche con gli Stati Uniti ed era intervenuta militarmente nella crisi del Kosovo.

Il fatto che S., nel 1982, si fosse pronunciato a sfavore dell’Adesione della Spagna alla NATO e della permanenza delle basi statunitensi nel paese, criticando tanto il ruolo dell’organizzazione quanto certi atteggiamenti allora assunti dal presidente Ronald Reagan nei confronti della minaccia sovietica, non mancò di destare iniziali manifestazioni di opposizione, nel 1995, da parte di alcuni senatori repubblicani, che criticarono la scelta finale compiuta dall’amministrazione guidata da Bill Clinton a favore di S. come segretario generale della NATO. Tali espressioni negative, comunque, terminarono al momento della sua assunzione formale della carica, il 19 dicembre, e, nel corso del biennio successivo, S. riuscì a guadagnarsi la piena fiducia degli Stati membri, tanto nordamericani quanto europei, soprattutto grazie all’efficacia delle sue iniziative diplomatiche nel coordinare l’allargamento verso Est dell’organizzazione, fino alla tappa decisiva segnata dal vertice di Madrid nel luglio 1997, con i difficili negoziati tra la NATO e la Russia, sfociati il 27 maggio nel Founding act per le relazioni reciproche, la cooperazione e la sicurezza, nel quale Mosca rinunciò a opporsi all’espansione atlantica nell’Europa centro orientale. Firmato a Parigi da Boris Eltsin e dai sedici capi di governo alleati, l’Atto istituì un foro permanente di dialogo tra gli ex nemici della guerra fredda in tema di peacekeeping, gestione delle crisi, prevenzione e risoluzione dei conflitti, tramite la creazione di un Consiglio presieduto su base congiunta dal segretario generale, da un rappresentante a rotazione di uno Stato membro della NATO e da un rappresentante russo. Nel corso delle trattative, che durarono sei mesi e culminarono nell’incontro a Mosca del 14 maggio tra S. e il ministro degli Esteri russo, Evgenij Primakov, particolare rilevanza assunse la mediazione di S. fra le esigenze esposte dalla diplomazia russa e quelle convogliate per conto degli Stati Uniti da Strobe Talbott, allora vicesegretario di Stato.

Quanto ai rapporti interni all’alleanza, S. espose al senatore repubblicano William Roth e a Robert Hunter, ambasciatore degli Stati Uniti presso la NATO, lo scetticismo e i timori di molti alleati europei riguardo alle possibili ripercussioni dell’allargamento a Est sulle relazioni con Mosca, e consigliò che una pubblica espressione da parte americana a favore dell’operazione venisse preceduta da una serie di consultazioni tra il segretario generale e i singoli ambasciatori degli Stati membri. La diplomazia del “confessionale”, dispiegata da S. in vista del Vertice di Madrid, mise in evidenza divergenze anche in merito ai possibili nuovi partner orientali da ammettere nella prima ondata: se la Polonia, la Repubblica Ceca e l’Ungheria erano accettabili per tutti, mancava infatti l’accordo sulle repubbliche baltiche, sulla Romania e sulla Slovenia. A S. fu dunque affidato il compito di formulare nel modo più adeguato la bozza del comunicato finale, estendendo l’invito formale ai primi tre paesi e segnalando in modo specifico gli altri cinque come forti candidati a una futura adesione. Il documento venne poi approvato da tutti gli alleati, confermando la sua abilità e la sua funzione chiave nel comporre i punti di vista degli Stati membri attorno a un nucleo negoziale accettabile da parte di una larga maggioranza, fino a ottenere soluzioni soddisfacenti per consenso. A prescindere dal Founding act, Primakov protestò, dichiarando che la Russia continuava a ritenere l’espansione atlantica a Est come l’errore più grave compiuto in Europa dalla fine della Seconda guerra mondiale. Il 9 luglio, tuttavia, la NATO concluse anche un patto di sicurezza con l’Ucraina, che le assicurava il diritto di chiedere consultazioni con l’Alleanza se si fosse sentita esposta a minacce.

Forte della fiducia guadagnata nel primo biennio in carica e della sua riconosciuta capacità di resistere a routine di lavoro defatiganti senza alterare la gradualità dello stile negoziale e lo “smalto” dell’iniziativa politico-diplomatica, S. assunse una leadership ancor più marcata quando, a partire dal marzo 1998, la NATO dovette fronteggiare la crisi del Kosovo. I dati disponibili inducono a ritenere – nell’attesa, beninteso, di future interpretazioni fondate su una documentazione più ampia e specifica – che S. seppe gestire quella crisi e l’operazione “Allied Force”, dispiegata nel 1999 dall’organizzazione per risolverla, in modo tale da promuovere l’unità transatlantica in condizioni di particolare difficoltà e da catalizzare al momento più opportuno il consenso di tutti gli Stati membri rispetto alla necessità di avversare ed eliminare la minaccia rappresentata dalla Iugoslavia di Slobodan Milošević per la stabilità dei Balcani. Sebbene la tendenza a ritagliarsi una funzione di guida più accentuata si fosse in parte già manifestata con i suoi predecessori più vicini nel tempo, Manfred Wörner e Willy Claes, l’azione diplomatica dispiegata da S. nel secondo biennio del mandato diede dunque risalto ancor maggiore a tale trasformazione, accentuando l’importanza operativa del Segretario generale nel coordinare e influenzare l’iniziativa dell’alleanza alla fine del XX secolo: in un momento che coincise in modo simbolico con il cinquantennio dalla fondazione e che, senza dubbio, segnò una svolta per la ridefinizione dei compiti assegnati alla NATO e del suo possibile contributo all’equilibrio internazionale, anche nei termini molto delicati del rapporto tra tutela dei diritti umani e rispetto della sovranità nazionale da parte delle organizzazioni internazionali.

Durante la crisi del Kosovo, contribuirono al successo dell’azione di S. in seno al Consiglio nordatlantico vari altri fattori. Tra questi, la fitta rete di amicizie e contatti con l’élite decisionale europea in materia di politica estera costruita negli anni di governo, l’appoggio costante garantito alle sue iniziative dall’amministrazione Clinton e la disponibilità a un intervento militare espressa con determinazione dal segretario di Stato Madeleine Albright e dal segretario alla Difesa William Cohen (in netto contrasto con le indecisioni che avevano caratterizzato l’atteggiamento statunitense tra il 1993 e il 1995, nel caso della crisi bosniaca). Un ruolo importante ebbe anche la maturazione graduale negli Stati membri di un clima generale sia di disapprovazione e impazienza rispetto alle politiche brutali perseguite ai danni degli albanesi del Kosovo dal governo di Milošević, già complice delle atrocità perpetrate dai serbo-bosniaci in Croazia e in Bosnia Erzegovina, sia di sfiducia rispetto alle scarse capacità di peacekeeping dimostrate dall’ONU nei Balcani nella prima metà degli anni Novanta. La riluttanza del Consiglio di sicurezza ad approvare l’uso della forza contro la Iugoslavia nell’estate del 1998, dovuta in particolare all’opposizione russa e cinese, spostò il baricentro diplomatico a Bruxelles e aprì ampi spazi di manovra a S. Sino all’approvazione della risoluzione 1199 che, il 23 settembre, su iniziativa soprattutto dei governi statunitense e britannico, espresse una forte condanna delle azioni militari serbe e chiese la cessazione delle violenze, ma non autorizzò l’uso della forza per neutralizzarle, rinviando a un secondo momento l’esame di eventuali misure volte a mantenere o ripristinare la stabilità regionale, S. si mosse infatti con cautela e, senza criticare in pubblico l’operato e le decisioni degli Stati membri della NATO, cercò di modificarne e influenzarne l’atteggiamento mediante incontri privati con i rispettivi rappresentanti presso l’organizzazione. Da quel momento in poi, invece, chiarite le profonde divergenze in seno all’ONU, usò una tattica molto più scoperta e aggressiva per ottenere che la decisione multilaterale di impedire ulteriori atrocità nel Kosovo partisse direttamente da Bruxelles, utilizzando a fondo la disponibilità di Washington e di Londra a muoversi in tale direzione, nella scia della precedente decisione, approvata dalla NATO già in giugno, di effettuare missioni di sorvolo dei confini serbi per indurre il governo di Belgrado a modificare il suo atteggiamento nel Kosovo. Non mancavano, nell’alleanza, forti perplessità rispetto all’uso della forza in mancanza di un’esplicita autorizzazione da parte dell’ONU: soprattutto il Belgio, la Germania, la Grecia, l’Italia, la Spagna e, in minor misura, la Francia manifestarono preoccupazioni che S. riuscì, tuttavia, a contenere negli argini di un dibattito costruttivo nel Consiglio nordatlantico, organizzando una fitta trama di consultazioni all’interno e all’esterno dell’alleanza, senza trascurare i contatti con il Segretario generale dell’ONU, Kofi Annan, fino a ottenere a metà ottobre il consenso generale su un activation order che, constatata l’esistenza di «sufficiente base legale» per la pianificazione militare da parte della NATO (una formulazione ambigua, che lasciava ai singoli governi un buon margine di elasticità per presentare la decisione in patria), autorizzava il segretario generale ad avviare una serie graduale di attacchi aerei, qualora la situazione in Kosovo non trovasse soluzione per via diplomatica.

Nei mesi successivi, S. mantenne un saldo controllo delle decisioni, in stretta collaborazione con il comandante supremo dell’Alleanza in Europa, il generale Wesley K. Clark. Questi, che condivideva la sua propensione a bloccare la minaccia iugoslava, venne poi criticato insieme a lui sia per aver sottovalutato la determinazione del governo di Belgrado nella crisi kosovara sia, di conseguenza, per aver convogliato con scarsa efficacia a Milošević la minaccia di una reazione atlantica, ritenendo a torto di poterlo poi piegare con un minimo ricorso alla forza militare. Alla vigilia dei colloqui di Rambouillet tra i rappresentanti delle parti kosovara e iugoslava, il 30 gennaio 1999, S. ottenne che il Consiglio nordatlantico gli confermasse il potere discrezionale sul lancio eventuale degli attacchi aerei, in contrasto con le formulazioni più restrittive, rispetto alla funzione del segretario generale, usate in circostanze analoghe cinque anni prima. Avviate poi le operazioni militari il 24 marzo, quando si trattò di passare, al nono giorno di guerra, alla terza – e decisiva – fase degli attacchi (contro obiettivi dislocati a Belgrado e dintorni, con un margine di rischio più forte quanto a uccisione di civili), fondamentale fu il ruolo di S. nell’interpretare il consenso del Consiglio, tacito più che esplicito, per comunicare l’ordine formale a Clark. In maggio, ricorrendo a una procedura che ampliava il suo spazio di manovra e, nel contempo, contribuiva ad agevolare l’azione dei governi degli Stati membri più interessati, per ragioni di consenso interno, e ad accentuare la sua figura come ultimo anello del processo decisionale, S. annunciò l’invio addizionale di 20.000 soldati nel teatro operativo, definendo aperta anche la possibilità di un loro intervento nel conflitto, e menzionò il fatto che questa sua dichiarazione si sarebbe ritenuta approvata in modo automatico da parte del Consiglio a meno che uno Stato membro esplicitasse il proprio dissenso formale entro un tempo stabilito. Importante a tal proposito, sebbene le decisioni finali sui bombardamenti fossero nelle mani delle potenze alleate, in primis degli Stati Uniti (le cui forze aeree e navali, nei 78 giorni del conflitto, lanciarono o sganciarono oltre l’80% del munizionamento utilizzato), fu anche la funzione mediatrice di S. sia nel contenere, durante la crisi, la propensione di Clark a premere per il ricorso a truppe terrestri – una decisione che avrebbe messo a dura prova la coesione dell’alleanza – sia nel porre il veto, sempre per sensibilità diplomatica agli equilibri atlantici, all’attacco ad alcuni obiettivi proposti dal Comandante supremo. La collaborazione tra i due fu dunque eccellente, prospettando una sorta di relazione tra eguali, ben diversa da quella spesso vissuta in precedenza dall’organizzazione.

Le capacità dimostrate alla guida del Consiglio nordatlantico posero in naturale evidenza la candidatura di S. per un nuovo incarico internazionale di prestigio, al cuore del dialogo tra Europa e Stati Uniti, subito dopo la guerra. Designato dal Consiglio europeo di Colonia del 3-4 giugno come segretario generale del Consiglio dell’Unione europea e Alto rappresentante dell’Unione per la Politica estera e di sicurezza comune (PESC), dall’ottobre 1999 S. ha coperto per primo quella carica (associata alle funzioni di Segretario generale del Consiglio della UEO e, nel secondo mandato, di capo dell’Agenzia europea per la difesa) con generosità e dinamismo, nonostante l’inadeguatezza dei poteri formali e delle risorse materiali a fronte degli obiettivi ambiziosi assegnati, svolgendo le mansioni previste dal trattato di Amsterdam (che istituì la carica nel 1997, nel tentativo di animare la PESC, visti gli scarsi risultati raggiunti a partire dal 1993, dopo l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht) e via via aprendo la strada, o reagendo in modo appropriato, alle progressive formulazioni della Politica europea di sicurezza e difesa (PESD), già abbozzate a Colonia, precisate dal Consiglio europeo di Helsinki in dicembre, da quello di Santa Maria di Feira del giugno 2000 e dalla Conferenza di impegno delle capacità, tenuta dai ministri della Difesa a Bruxelles in novembre, e infine inquadrate in modo formale dal Trattato di Nizza nel febbraio 2001. Alla ricerca di una soluzione di compromesso tra le esigenze di autonomia manifestate dagli europei, in particolare dalla Francia, e le preoccupazioni statunitensi riguardo alle loro intenzioni, il nuovo documento, entrato in vigore nel febbraio 2003, ribadì sia la funzione fondamentale della NATO per la difesa del continente sia il principio che l’Unione dovesse provvedere a pianificare e controllare le proprie operazioni militari, e definì di conseguenza il quadro istituzionale della PESD in riferimento, tra gli altri organi, al Comitato politico e di sicurezza, formato da un ambasciatore per ogni Stato membro e presieduto dall’Alto rappresentante, al Comitato militare e allo Stato maggiore.

Assunte le nuove funzioni, S. riuscì subito a guadagnarsi la fiducia dei ministri degli Esteri dell’Unione e, avviata un’ottima collaborazione con il Commissario britannico Chris Patten, responsabile per le relazioni esterne, cominciò ad affermare per gradi la propria autorità, confermando doti eccellenti di mediazione nei rapporti, non sempre facili, con la Commissione europea e con il Consiglio. Nei primi diciotto mesi in carica, non mancarono in particolare difficoltà relazionali con la presidenza a rotazione, poco incline a lasciargli adeguato spazio di manovra. Il Consiglio prese poi a incoraggiare sempre più la sua azione nei Balcani, dove S. si adoperò con Patten in un progetto di assistenza politica all’opposizione democratica al regime di Milošević e assunse la leadership nelle crisi macedone e montenegrina. Nell’autunno del 2000, sotto la presidenza francese, su invito diretto del presidente egiziano Hosni Mubarak, fu inviato come unico rappresentante dell’Unione al vertice di Sharm el-Sheikh, destinato nelle intenzioni degli organizzatori a rilanciare il processo di pace nel Medio Oriente. Fu un momento importante di visibilità per la carica e per S., che seppe poi dare continuità negli anni al suo impegno in quello scacchiere, nonostante la tentazione ricorrente della presidenza a rotazione di porsi in primo piano. Il Vertice dei capi di governo dell’Unione tenuto a Stoccolma nel marzo 2001 lo incaricò di stilare una serie di proposte per un intervento costruttivo nella crisi israelo-palestinese. In novembre, due mesi dopo gli attacchi terroristici subiti dagli Stati Uniti l’11 settembre, S. fu invitato da Annan a partecipare con il segretario di Stato americano Colin Powell e con il ministro degli Esteri russo Igor Ivanov al “Quartetto”, una struttura incaricata di manifestare la costante attenzione della comunità internazionale verso le complessità della crisi mediorientale. Collaborando con grande operosità alle iniziative diplomatiche elaborate in quella sede, mentre l’amministrazione statunitense di George W. Bush reagiva con forza e impeto unilaterale agli eventi di settembre, dalla guerra in Afghanistan a quella in Iraq, S. seppe approfittare anche di questa occasione, così come della gestione delle crisi balcaniche, per mantenere una relazione pragmatica di contatto e collaborazione prima con Powell, poi con Condoleezza Rice e, in generale, con i centri elaborativi e decisionali della politica estera statunitense, consapevoli dei limiti istituzionali del suo ruolo ma, nondimeno, attenti alle – o, a seconda dei casi, preoccupati dalle – prospettive aperte dalle sue ambizioni di interpretarlo per rendere più concreta la proiezione politico-diplomatica e militare dell’Unione sul piano internazionale.

Svolgendo un ruolo chiave di mediazione nei rapporti con la NATO, grazie al prestigio acquisito come segretario generale, S. promosse infatti importanti progressi della PESD (dichiarata operativa dal Consiglio europeo di Laeken nel dicembre 2001) nel biennio successivo agli attacchi dell’11 settembre, quando la comunità internazionale fu costretta a uno sforzo di comprensione e definizione delle nuove minacce alla sicurezza globale, alla ricerca di soluzioni adeguate. La tendenza dell’amministrazione Bush a prendere le distanze dalle questioni balcaniche gli consentì di accentuare l’impegno dell’Unione nel mantenimento della pace in quello scacchiere: nel gennaio 2003 fu avviata un’operazione di polizia in Bosnia Erzegovina (Eupm BiH, poi riformulata per il biennio 2006-2007) e in marzo, in applicazione degli accordi relativi alla cessione all’Unione di capacità e strutture della NATO (con l’entrata in vigore del pacchetto di procedure “Berlin plus”, tramite lo scambio di lettere tra S. e il segretario generale della NATO, George Robertson), partì l’operazione militare Concordia nell’ex Repubblica iugoslava di Macedonia. In giugno, grazie all’auspicio della Francia di attribuire una portata multilaterale al proprio intervento d’appoggio alle Nazioni Unite nella protezione delle popolazioni civili nella provincia congolese dell’Ituri, S. poté mettere la PESD alla prova anche nell’operazione militare Artemis, la prima condotta fuori dell’Europa e in modo indipendente dalla NATO, al comando del generale francese Jean-Paul Thonier, sotto la direzione strategica del Comitato politico e di sicurezza.

Dopo la spaccatura tra i governi europei che, tra il gennaio e il marzo 2003, accompagnò la vigilia della guerra in Iraq e manifestò un grave fallimento della PESC, S. fu incaricato di preparare la bozza di una strategia europea in materia di sicurezza. Il rapporto, presentato in giugno sotto il titolo “A secure Europe in a better world” al Consiglio europeo di Salonicco, fu esaminato in alcuni seminari organizzati in autunno e infine adottato, in forma rielaborata, dal Consiglio europeo di Bruxelles il 12 dicembre. Vi si affermava, tra l’altro, la necessità che l’Europa assumesse «la sua parte di responsabilità nella sicurezza globale e nella costruzione di un mondo migliore», al servizio del multilateralismo e delle Nazioni Unite, nella conferma della relazione atlantica: «Agendo insieme, l’Europa e gli Stati Uniti possono costituire una forza formidabile al servizio del bene nel mondo». Poco prima, in novembre, era stata presa la decisione di costituire un’Agenzia europea degli armamenti, sotto l’autorità del Consiglio, aperta alla partecipazione di tutti gli Stati membri. Nel luglio 2004 S. divenne capo dell’Agenzia europea per la difesa, investita di quattro funzioni correlate alla PESD: sviluppo delle capacità di difesa; cooperazione nel settore degli armamenti; base industriale e tecnologica della difesa europea e mercato dei materiali per la difesa; ricerca e tecnologia.

Nell’ottobre 2002, mentre la Convenzione europea lavorava sulla possibilità di affidare all’Alto rappresentante un doppio mandato, incaricandolo anche della responsabilità delle relazioni esterne in seno alla Commissione, S. non aveva nascosto le proprie perplessità. Rivolgendosi il 15 ottobre ai membri del settimo Gruppo di lavoro, impegnato a discutere le questioni relative all’azione esterna dell’Unione sotto la presidenza del belga Jean-Luc Dehaene, affermò che la concentrazione delle responsabilità avrebbe prodotto «più confusione che sinergia», mentre la stretta collaborazione con Patten aveva dimostrato quali ottimi risultati si potessero ottenere con un’azione di partnership. Quando la Costituzione europea, nell’ottobre 2004, delineò gli ampi poteri destinati al ministro degli Affari esteri dell’Unione (in particolare negli artt. I-28, I-40, I-41, III-294 e ss.), S. fu comunque pronto a riconoscere le potenzialità aperte dalla nuova soluzione elaborata dalla Convenzione, anche nel settore della PESD (a opera dell’ottavo gruppo di lavoro, presieduto dal francese Michel Barnier), e collaborò con il presidente della nuova Commissione a venticinque, il portoghese José Manuel Durão Barroso, per stilare un documento congiunto, presentato nel marzo 2005, in merito all’istituzione e organizzazione del Servizio europeo per l’azione esterna, cioè di un potenziale “ministero degli Esteri” europeo.

Nella prima metà del secondo mandato, dal 2004 al 2006, mentre l’approvazione della Costituzione si arenava nell’esito negativo dei referendum francese e olandese, S. ha continuato a interpretare il suo compito istituzionale con le due indispensabili caratteristiche personali che, di conserva con gli adempimenti formali previsti dal processo di formazione e applicazione della PESC e della PESD, potevano contribuire al tentativo di rendere l’Unione un attore internazionale efficace, cioè riconosciuto come serio, affidabile e abbastanza forte da influenzare in modo sensibile la gestione e la risoluzione delle crisi di portata globale. Nell’attuale quadro normativo, occorre a tal fine che l’Alto rappresentante abbia sia il desiderio sia la capacità di animare in modo sostanziale la PESC, mantenendosi a stretto contatto con gli interlocutori fondamentali – a seconda dei casi, quindi, gli esponenti di spicco delle principali organizzazioni internazionali e i rappresentanti di specifici Stati all’interno e all’esterno dell’Unione – e godendo di un relativo margine di autonomia da Bruxelles, salvo render conto ogni mese al Consiglio, per prendere l’iniziativa e perseguire con coerenza uno schema d’azione concordato con gli altri attori chiave.

Attento a cogliere con approccio pragmatico ogni occasione in cui l’Europa e gli Stati Uniti potessero agire di concerto, nel riferimento costante alla cornice multilaterale della NATO e delle Nazioni Unite, S. ha portato la sua capacità negoziale in primo piano in numerose occasioni, quali la collaborazione con il nuovo Coordinatore dell’Unione per le misure antiterrorismo, l’olandese Gijs de Vries, nominato nel marzo 2004; lo sforzo diplomatico compiuto per contribuire a risolvere la crisi ucraina nel novembre-dicembre 2004; nei Balcani, la promozione nel luglio 2004 dell’operazione militare dell’Unione in Bosnia Erzegovina (Eufor-Althea, lanciata in dicembre), le pressioni esercitate sulla Repubblica di Serbia e Montenegro, nel gennaio 2005, per indurla alla cooperazione con il Tribunale penale internazionale per l’ex Iugoslavia, la partecipazione ai negoziati sullo status del Kosovo e, in seguito, la preparazione di un ruolo più forte dell’Unione nella regione (EU planning team in Kosovo); l’impegno speso per la promozione, nel febbraio 2005, della prima missione di polizia organizzata in Africa dall’Unione, nella Repubblica democratica del Congo (Eupol-Kinshasa, proseguita nel 2007 con la missione Eupol Rd Congo), in giugno di una missione di assistenza alle autorità congolesi per la riforma della sicurezza (Eusec Rd Congo) e in luglio di un’azione di sostegno militare e civile dell’Unione nel Darfur sudanese, al fianco dell’Unione africana (EU Supporting Action To Amis II); nell’aprile 2005, i colloqui di Vilnius con il segretario di Stato americano, Condoleezza Rice, volti a sostenere la risoluzione di condanna del governo bielorusso adottata dalla Commissione dell’ONU per i diritti umani e la dichiarazione dei ministri degli Esteri dell’Unione, che aveva posto in rilievo la deriva del Paese verso la dittatura; in dicembre, l’avvio della missione di assistenza dell’Unione al confine tra Moldavia e Ucraina, su richiesta dei due governi (EU border assistance mission to Moldova and Ukraine).

Di particolare rilevanza, soprattutto tra il 2006 e il 2007, va considerata l’attività diplomatica svolta da S. in relazione al programma nucleare dell’Iran, in riferimento coerente alla Strategia contro la proliferazione delle armi di distruzione di massa adottata, come la Strategia europea in materia di sicurezza, dal Consiglio europeo di Bruxelles il 12 dicembre 2003. Dopo la sua visita al paese, nel gennaio 2004, e le missioni a Bruxelles dei ministri degli Esteri Kamal Kharrazi, in maggio, e Manuchehr Motaki, nel febbraio 2006, S. presentò un pacchetto negoziale di incentivi, approvato dai ministri degli Esteri dell’Unione in un incontro tenuto a Bruxelles il 15 maggio, per indurre l’Iran a fermare il suo programma di arricchimento dell’uranio e a utilizzare la tecnologia sofisticata offerta dall’Unione per la produzione di energia, ma il progetto fu subito respinto dal presidente Mahmoud Ahmadinejad. In giugno, S. partecipò a Vienna al vertice dei “P5+1”, cioè dei ministri degli Esteri della Germania e dei cinque Stati membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU, e ne fu incaricato di offrire un nuovo pacchetto negoziale, che presentò a Teheran ad Alì Larijani, segretario del Consiglio supremo nazionale per la sicurezza e capo negoziatore dell’Iran per le questioni nucleari. Dopo che il Consiglio di sicurezza dell’ONU, alla fine di luglio, ebbe approvato la risoluzione 1696, che imponeva all’Iran di fermare tutte le attività di arricchimento dell’uranio, minacciando sanzioni in caso di inadempienza, alcuni progressi vennero compiuti nei colloqui tra Larijani e S. tenuti in settembre a Vienna e a Berlino. Gli sforzi di S. per mantenere aperto il dialogo con Teheran, che ha continuato a ignorare la prima e le successive risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, sono proseguiti negli incontri con Larijani ad Ankara, nell’aprile 2007, a Madrid in maggio e a Lisbona in giugno. Nel frattempo, S. ha stimolato anche l’impegno dell’Unione verso l’Afghanistan, con la preparazione di una missione di polizia triennale (Eupol Afghanistan).

Nel Medio Oriente, S. fu il primo leader internazionale a visitare il neoeletto presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas, nel gennaio 2005. In giugno partecipò alla delegazione dell’Unione in visita in Iraq, per la prima volta dall’inizio della guerra, e stimolò l’avvio nel paese della prima integrated rule of law mission svolta sotto gli auspici della Pesd (Eujust Lex). Quando, in novembre, i ministri degli Esteri dell’Unione decisero di inviare nei Territori palestinesi, dal 1° gennaio 2006, una missione triennale per l’addestramento degli ufficiali di polizia (Eupol Copps) e una di monitoraggio del posto di confine di Rafah (EU border assistance mission at Rafah), S. le definì «la più importante presenza di sicurezza nel Medio Oriente mai intrapresa dall’Unione europea», nell’ambito di un più ampio processo di pacificazione della regione. Durante l’offensiva militare lanciata da Israele in Libano contro le milizie di Hezbollah dal 12 luglio al 14 agosto, S. partecipò alla conferenza internazionale organizzata a Roma il 26 luglio, sostenendo con energia la necessità di richiedere il cessate il fuoco immediato. L’opposizione statunitense permise di formulare solo l’esortazione a raggiungere quell’obiettivo con la massima urgenza e l’appello all’ONU per l’organizzazione di una forza internazionale di sostegno all’esercito libanese. S. dovette poi mediare tra le diverse posizioni degli Stati membri dell’Unione perché i ministri degli Esteri, riuniti in sessione d’emergenza a Bruxelles il 1° agosto, chiedessero la cessazione immediata delle ostilità, seguita da un cessate il fuoco sostenibile: i francesi dichiararono che il testo del comunicato finale era stato annacquato e smussato in tal senso su pressione britannica, tedesca, olandese e polacca. Una nuova sessione straordinaria dei ministri degli Esteri, riuniti a fine mese a Bruxelles, confermò la forte partecipazione italiana e francese allo schieramento di una forza United Nations interim force in Lebanon (UNIFIL) allargata, cui avrebbero contribuito con contingenti di minore entità anche la Spagna, la Polonia, il Belgio e la Finlandia, per un totale di 7000 unità, sotto comando francese e poi italiano. Nel 2007 S. ha continuato a impegnarsi nel processo di pace su scala regionale – ricambiato dagli interlocutori con costanti manifestazioni di interesse, serietà e rispetto – visitando l’Arabia Saudita, il Libano e la Siria in marzo, tornando in maggio a Beirut, in altre capitali mediorientali, in Israele e a Gaza, collaborando con l’ex primo ministro britannico Tony Blair, incaricato dal Quartetto di contribuire alla costruzione delle istituzioni palestinesi e a una soluzione della crisi su base bistatuale, e confermando, in vista di una nuova missione in luglio in Israele e nei Territori, il consenso raggiunto in seno all’Unione, nonostante le perplessità statunitensi, sulla necessità di fornire aiuto economico e umanitario ai palestinesi e di renderne sostenibile uno Stato, passando da una politica di gestione della crisi a una di risoluzione del conflitto regionale.

Coadiuvato dai suoi rappresentanti personali (nel 2007: per la non proliferazione delle armi di distruzione di massa, per i diritti umani, per gli affari parlamentari) e dai rappresentanti speciali dell’Unione per particolari regioni del globo (nel 2007: Afghanistan, Asia centrale, Bosnia Erzegovina, Caucaso meridionale, regione dei Grandi Laghi, ex Repubblica iugoslava di Macedonia, processo di pace nel Medio Oriente, Moldavia, Sudan), negli anni che ha trascorso alla guida della PESC e della PESD S. ha manifestato a più riprese, in una mole notevole di dichiarazioni, rapporti, interviste, articoli e altri contributi editoriali, la convinzione che l’Unione si stia dotando, e debba dotarsi sempre più, di una solida proiezione internazionale, ben sostenuta da adeguati mezzi militari, per contribuire in modo responsabile al funzionamento di un sistema multipolare e alla protezione della sicurezza globale, tramite un approccio flessibile e multilaterale. Nonostante le ovvie difficoltà poste dalla natura di processo negoziale intergovernativo propria della PESC, così come dal meccanismo poco efficiente di rotazione semestrale della presidenza nazionale dell’Unione, che ha ingenerato nei governi degli Stati membri la tentazione di sfruttare il proprio turno, nonostante la sua brevità, per iniziative di politica estera comune a volte effimere e improvvisate, S. ha cercato di dare continuità, coerenza e visibilità a tale politica, mantenendosi entro i limiti del mandato istituzionale e, a tratti, anche forzandone le caratteristiche per conservare la propria libertà di manovra in competizione con gli Stati membri, esercitando così una funzione di leadership e costruzione del consenso europeo a dispetto (in quei casi), più che all’interno, dei meccanismi formali previsti dai trattati e dagli accordi raggiunti.

Persuaso dell’esistenza in Europa di un grado sufficiente di disponibilità alla costruzione di una proiezione esterna dell’Unione, S. – che, nei suoi interventi pubblici, tende a datare al 1999, e dunque alla guerra del Kosovo, l’avvio effettivo di quella proiezione, evitando di commentarne gli sviluppi formali e sostanziali nella seconda metà del Novecento – non ha finora ritenuto opportuno esporre in modo sistematico la sua concezione della politica estera europea e, sulle questioni controverse, ha conservato perlopiù un atteggiamento riservato nei confronti dei mass media e dell’opinione pubblica. Tipica, in tal senso, l’assenza di critiche ai governi degli Stati membri nel corso della spaccatura sulla guerra in Iraq e la capacità pragmatica di approfittarne per elaborare in modo vincente, subito dopo, una strategia europea in materia di sicurezza dalle forti potenzialità. Coltivando con energia instancabile la rete delle relazioni personali e professionali con gli interlocutori che contano, preparando ogni missione diplomatica mediante numerosi contatti anticipati con ciascuno di loro, sfruttando la sua capacità di ascoltare tutte le parti in causa per risolvere i conflitti, avvalendosi della preziosa collaborazione del suo staff e del contributo di analisi, ricerca e dibattito fornito a sostegno della PESC dall’European union Institute for security studies (EUISS), S. ha interpretato il ruolo di Alto rappresentante, così come prima quello di segretario generale della NATO, soprattutto nei termini di una costruzione paziente del consenso tra gli attori rilevanti della politica estera europea, anche in risposta – come ha spesso sottolineato – alla “domanda”, ineludibile ed evidente, espressa dal sistema internazionale. La comunicazione in tema di politica estera che egli ha prodotto negli anni è stata sempre orientata all’azione, cioè alla sua possibilità di realizzazione per via negoziale, sfruttando la pressione che la globalizzazione ha esercitato via via sugli Stati dell’Unione per diminuire la loro resistenza all’integrazione o, quanto meno, a forme di cooperazione più profonde e accentuate. Significativo di questo orientamento pragmatico è il fatto che egli non abbia mai proposto in termini di compromesso o di ricerca del male minore il rapporto tra valori e interessi nella costruzione della proiezione esterna dell’Unione ma, semmai, abbia sottolineato e dimostrato nei fatti, proprio con l’alterna efficacia del suo operato nelle diverse situazioni, come gli ostacoli alla costruzione di una reale influenza dell’Europa sulla politica mondiale si collochino al suo interno, molto più che all’esterno.

In un bilancio sintetico pubblicato nel febbraio 2007 sulla rivista spagnola “Política exterior”, S. ha definito la costruzione europea un’«avventura appassionante», «un progetto ambizioso» che ha creato «uno spazio di pace, stabilità e prosperità in Europa, con la vocazione a proiettare nel mondo i nostri principi, valori e interessi». Il mondo chiede all’Europa «presenza e protagonismo», perché la considera «un attore globale necessario e decisivo per la prevenzione dei conflitti, la gestione delle crisi, il mantenimento della pace, la protezione dei diritti umani, la promozione della democrazia o la ricostruzione dei paesi». La strategia europea in materia di sicurezza approvata nel 2003, secondo S., è nel contempo una dichiarazione di principi e una concreta agenda di lavoro per l’Unione, strutturata per priorità, poiché individua le minacce da fronteggiare (il terrorismo, la proliferazione delle armi di distruzione di massa, i conflitti regionali, il fallimento dello Stato, il crimine organizzato) e indica le risposte adeguate: «L’azione multilaterale volta a rafforzare le istituzioni internazionali, e in particolare le Nazioni Unite, come ambito di un ordine mondiale basato sul rispetto del diritto internazionale, l’azione diplomatica e di aiuto per fronteggiare le cause ultime dei conflitti regionali, l’appoggio al sistema internazionale di non proliferazione e il rafforzamento della capacità istituzionale degli Stati deboli». L’Unione si è dotata di uno specifico schema istituzionale («complesso, forse troppo complesso, ma è un prezzo da pagare») per garantire le diverse tappe del processo decisionale e della sua esecuzione: Alto rappresentante della PESC, Comitato politico e di sicurezza, Comitato militare, Stato maggiore, Comitato incaricato degli aspetti civili della gestione delle crisi (Civcom), Cellula civile-militare e Centro situazioni (Sitcen); ha dispiegato capacità militari e civili: l’obiettivo globale del 2010, i 13 gruppi tattici di combattimento, il meccanismo di sviluppo delle capacità, l’Agenzia europea per la difesa, il piano d’azione per lo sviluppo di capacità civili, l’obiettivo civile del 2008; e soprattutto ha accumulato esperienza operativa nella prevenzione e gestione dei conflitti, con le 14 operazioni dispiegate in tre continenti (nell’intera gamma attuabile dall’Unione: militari in collaborazione con la NATO nell’ambito degli accordi “Berlin plus”, militari autonome, costituite da componenti civili e militari, puramente civili), dove ha «esportato stabilità, gestito crisi, accompagnato processi di pace e collaborato a ricostruire paesi»: il tutto «in poco più di sei anni e con limitate risorse umane e finanziarie».

La corrente crisi costituzionale dell’Europa, ritiene S., impedisce di applicare «le necessarie riforme della PESC e della PESD», ma «i cittadini europei esigono con chiarezza un’Europa che agisca con una sola voce e una strategia risoluta nell’arena internazionale. All’esterno e all’interno delle nostre frontiere si domanda più Europa, non meno. Lungi dal cedere alla tentazione dell’autocompiacimento o dei dubbi paralizzanti, dobbiamo mantenere i nostri obiettivi e aumentare le nostre capacità di azione internazionale. Il tempo non è neutrale». Questa esortazione, animata da un ottimismo monnetiano cui l’articolo fa riferimento esplicito in chiusura («L’integrazione europea, secondo me, è il progetto più ambizioso e razionale che abbia conosciuto il nostro continente […] è sopravvissuto a numerose crisi e sempre ne è uscito rinnovato e rafforzato»), riassume lo spirito che ha animato l’eccezionale impegno di S. e la sua azione brillante, generosa e paziente come leader europeo.

Massimiliano Guderzo (2007)




Solbes Mira, Pedro

S. (Pinoso, Alicante 1942) frequentò la Universidad Complutense di Madrid, dove si laureò in scienze politiche e in legge; inoltre si diplomò in economia europea alla Libre Université di Bruxelles.

Nel 1968 vinse il concorso di funzionario del ministero del Commercio estero e nel 1973 divenne consigliere commerciale della missione diplomatica di Spagna presso le Comunità europee. Questo fu il primo dei numerosi incarichi svolti da S. durante il lungo cammino percorso dalla Spagna per giungere all’integrazione economica e politica in Europa (v. Integrazione, teorie della; Integrazione, metodo della).

La Spagna aveva sollecitato per la prima volta, nel febbraio 1962, l’Adesione alla Comunità economica europea. Sebbene per il regime di Franco fosse molto importante non restare escluso dai progetti di cooperazione economica, l’obiettivo dell’integrazione fu frustrato da ragioni essenzialmente politiche. Il decreto Birkelbach stabiliva che nessuno Stato non democratico avrebbe potuto far parte della Comunità. Quindi il regime franchista negoziò in sostituzione un accordo preferenziale, eminentemente economico, che fu firmato nel 1970.

L’ingresso nella Comunità economica europea (CEE) di Regno Unito, Irlanda e Danimarca nel 1973 rese necessario rinegoziare l’accordo. S. partecipò alle trattative come consigliere commerciale. La firma del nuovo accordo fu incontrò problemi di ogni sorta, tra cui la forte repressione che la Spagna subì negli ultimi anni del regime di Franco e che ebbe la sua massima espressione nella fucilazione di cinque attivisti nel settembre 1975. Questa situazione provocò il ritiro della quasi totalità degli ambasciatori dei paesi europei presenti a Madrid. Era evidente che solo con l’instaurazione di un regime democratico la Spagna avrebbe potuto prendere parte attiva agli affari europei.

Nel giugno 1977 si tennero in Spagna le prime elezioni democratiche, dalle quali uscì vittoriosa la Unión de centro democrático (UCD). Una delle prime decisioni del nuovo governo spagnolo fu la presentazione della domanda di ingresso della Spagna nell’Europa “dei Nove”, tramite il ministro degli Affari esteri Marcelino Oreja. La Grecia aveva presentato domanda nel giugno 1975 e il Portogallo nel marzo 1977. L’importanza dei negoziati richiese un organo indipendente del ministero degli Affari esteri, per cui nel febbraio 1978 fu creato il ministero per le relazioni con la CEE, di cui fu titolare Leopoldo Calvo Sotelo. Nel nuovo ministero S. ebbe l’incarico di consigliere particolare del ministro.

Dopo l’approvazione mediante referendum della Costituzione spagnola, nel dicembre 1978, si tennero le seconde elezioni generali democratiche nel marzo 1979. La vittoria toccò nuovamente all’UCD di Adolfo Suárez. Questi procedette a un rimpasto dei ministeri e S., fra il 1979 e il 1985, ricoprì il ruolo di direttore generale della politica commerciale nel ministero dell’Economia e del commercio, il cui titolare era Jaime García Añoveros.

Dopo la vittoria del Partido socialista obrero español (PSOE) nell’ottobre 1982, S. collaborò con il nuovo governo socialista. Fra il 1982 e il 1985 fu segretario generale tecnico del ministero dell’Economia e delle finanze sotto il ministro Miguel Salvador Boyer.

S. fece anche parte del gruppo di lavoro che negoziò l’adesione della Spagna alle Comunità europee nella sua ultima fase portata a termine dal governo socialista. La situazione dei negoziati tra Spagna e Comunità europea con i precedenti governi spagnoli, appartenenti alla Unión de centro democrático, era positiva, sebbene si procedesse con grande lentezza: secondo i partecipanti ciò era dovuto, in grande misura, alla posizione piuttosto reticente di alcuni paesi nel corso dell’intero negoziato. In ogni caso, fra il 1977 e il 1982 erano stati conclusi sei capitoli del Trattato di adesione (v. anche Trattati). Tuttavia mancavano ancora i più controversi, come quelli riguardanti la pesca, l’agricoltura e l’industria.

Questi importanti progressi nei negoziati fra la Spagna e la Comunità europea ebbero luogo nella fase finale di questo periodo e furono provocati, in larga misura, dal cambiamento sostanziale che rappresentò nelle posizioni europee il tentativo di colpo di Stato in Spagna il 23 febbraio 1981. La maggior parte dei paesi membri acquistò consapevolezza del pericolo latente di un’involuzione in Spagna e decise di contribuire ad agevolare la stabilizzazione della giovane democrazia spagnola accelerando il suo ingresso nella Comunità europea.

Con l’ascesa al potere dei socialisti spagnoli, nell’ottobre del 1982, la situazione migliorò tangibilmente. La Francia, governata anch’essa dai socialisti, rese più flessibili le sue posizioni e portò avanti il negoziato con maggior tolleranza e disponibilità, a parte alcuni alti e bassi causati da questioni sulle quali gli interessi dei due paesi erano apertamente conflittuali, come ad esempio viticoltura e pesca.

Nel 1985 S. ebbe l’incarico di segretario di Stato delle relazioni con la Comunità europea. Questo anno sarebbe stato determinante per l’integrazione spagnola. Il 30 marzo si tenne il Vertice di Bruxelles (v. Vertici) in cui furono definite in modo conclusivo, dal punto di vista sia politico che economico, le condizioni per l’adesione della Spagna alla Comunità. Mancava solo l’accordo tra Spagna e Portogallo per ottenere un regime transitorio speciale e la stesura degli strumenti di adesione, questioni che furono risolte nell’estate dello stesso anno. I due paesi entrarono a far parte dell’Europa dei Dodici dal 1° gennaio 1986.

L’integrazione nella Comunità europea rappresentò un successo politico importante. Ma in un primo momento sul piano economico, sebbene a medio e lungo termine i benefici fossero innegabili, essa provocò scompiglio nell’economia spagnola. Il risvolto più grave di questa situazione fu la crescita della disoccupazione. La politica economica avviata dal governo socialista, che non si differenziava da quella dominante nel resto dei paesi occidentali, portò allo scontro con i sindacati.

Nel 1988 le organizzazioni operaie spagnole più rappresentative, Unión general de trabajadores (UGT) e Comisiones obreras (CCOO), rivendicarono una svolta sociale consistente al fine di incrementare l’occupazione, una migliore distribuzione del reddito e un incremento dei servizi sociali. Il 14 dicembre 1988 si svolse lo sciopero generale più importante organizzato in Spagna durante il nuovo periodo democratico.

L’anno seguente S. fu nominato presidente del Consiglio del Mercato comune durante la prima presidenza spagnola della Comunità europea (v. anche Presidenza dell’Unione europea). Nell’ottobre dello stesso anno il governo socialista decise di indire nuove elezioni generali, dalle quali uscì un’altra volta vittorioso. Sotto la forte pressione sociale il nuovo governo impresse una notevole svolta alla politica economica. Si verificò un importante incremento nella spesa sociale rivolto soprattutto alla sanità, all’istruzione e all’occupazione.

Nel 1991 Felipe Màrquez González mise mano a un rimpasto del suo gabinetto. S. divenne ministro dell’Agricoltura, della pesca e dell’alimentazione, incarico che mantenne fino al 1993. Nello stesso anno fu nominato ministro dell’Economia e delle finanze, ruolo che svolse fino al 1996, quando il Partido popular (PP) vinse le elezioni generali spagnole.

Durante il periodo in cui fu ministro dell’Economia S. cercò di mettere ordine nella malconcia economia spagnola realizzando un programma realistico basato sull’attuazione del programma di convergenza. Il programma dava la priorità a una crescita equilibrata e si poneva come obiettivo fondamentale di realizzare per il 1996 i criteri di Maastricht richiesti per entrare nel novero dei paesi partecipanti alla moneta unica europea. I risultati della sua politica economica produssero rapidamente risultati positivi nel paese, che mantenne un ritmo ininterrotto di crescita fino al 1996. Sebbene la Spagna, a questa data, non avesse ancora ottemperato ai criteri di convergenza, aveva fondate speranze di ritenere che, una volta giunto questo momento, sarebbe stata fra i più importanti paesi europei – e così avvenne.

Nel 1995, durante la presidenza spagnola dell’Unione europea, S. assunse l’incarico di presidente del Consiglio Ecofin. Nel 1996 partecipò alle elezioni generali nelle liste del PSOE e fu eletto deputato. Nello stesso anno fu presidente della Commissione mista del Parlamento spagnolo sull’Unione europea. Nel settembre 1999 fu eletto membro della Commissione europea per gli Affari economici e monetari; da questa posizione difese a oltranza il mantenimento del “deficit zero” nelle economie dei paesi comunitari.

Dopo la vittoria socialista nelle elezioni generali del 2004 José Luis Rodríguez Zapatero, nuovo presidente del governo spagnolo, nominava nuovamente S. ministro dell’Economia e delle finanze e secondo vicepresidente del governo. Nelle sue prime dichiarazioni, dopo aver assunto l’incarico, S. difendeva il Patto di stabilità dell’Unione europea. Stabilità finanziaria che, secondo il nuovo ministro, comportava il raggiungimento dell’equilibrio finanziario lungo il ciclo economico e il cui obiettivo consisteva nell’avvicinare allo zero i deficit strutturali.

Angel Herrerin López (2008)